Gli
ultimi vent’anni hanno visto una vasta fioritura di nuove
fondazioni museali. Istituzioni nate per rispondere ai numerosi ed
eclettici bisogni che il pubblico, e quindi la società, aveva
richiesto per avvalorare ulteriormente il patrimonio artistico e
culturale di cui ogni nazione dispone.
Perciò
si è ricorso spesso alla costruzione di nuovi edifici affidandosi ai
progetti di quei grandi artisti che oramai vengono definiti dalla
critica come archistar,
che con mezzi del tutto innovativi si sono ispirati a forme, a
tratti, non convenzionali. Infatti, il pensiero contemporaneo sembra
percepire ed elaborare l’estensione dello spazio e la contrazione
del tempo, esplorando concetti quali interattività, immaterialità
ed evento. Spostando così sempre oltre la soglia del reale il limite
dell’esperienza materiale.
La
sostanza dell’architettura contemporanea emerge anche in
riferimento al rinnovato valore del concetto di durata dell’opera.
La vita di un edificio e dei suoi materiali può essere meglio
precisata, essendo sempre più determinata da una consapevole scelta
progettuale che può anche prevedere processi di sostituzione
parziale e totale.
Si pensi anche al tipo di materiali scelti per alcune opere recenti,
e alla loro mutevolezza, come nel caso della vasta gamma di
opportunità formali e tecnologiche offerte dalle plastiche, dai
pannelli di facciata, dalle membrane e dai cuscini pneumatici.
Elementi
ravvisabili anche nell’organizzazione di un museo, poiché è
necessario avere idee molto chiare sulle ragioni della sua
costruzione, dei compiti a cui deve attendere, come la salvaguardia e
la valorizzazione dei beni culturali, del ruolo singolare che riveste
nella promozione della dignità dell’uomo e del progresso della
società.
Ed
è in questo scenario che è possibile inserire la volontà di dar
corpo a quello che verrà premiato nel 2013 dal Consiglio Europeo,
con l’European
Museum Forum,
con il titolo di Miglior Museo dell’anno : il Riverside
Museum of Transport di Glasgow.
Museo che si pone in
primis
l’obiettivo di comunicare l’apparato meta-storico e sociale,
come corridoio culturale per trasmettere ai posteri i valori
fondamentali insiti nella propria tradizione. Per
questo è importante soffermarsi attraverso un breve excursus
sulla lunga catena di eventi che ha portato alla sua realizzazione,
che è da ricercare più di mezzo secolo fa.
È
il 1962, il cantiere A & Pointhouse di J. Inglis situato alla
confluenza dei fiumi Clyde e Kelvin viene chiuso; dopo quasi 101 anni
di attività che avevano visto il cantiere produrre più di 500 navi,
da piroscafi agli yacht di lusso, navi da pesca e da guerra e che
fino ad allora era stato il pilastro industriale della cittadina
scozzese cessa la sua attività.
Nello
stesso anno anche la North British Locomotive di Springburn, che al
suo apice era stata in grado di costruire un quarto dei motori
ferroviari presenti nel mondo fino a quel momento, frenò
drasticamente il suo lavoro.
L’ossatura
economica, di quella che era stata la seconda città della Gran
Bretagna, si stava erodendo con una velocità allarmante.
Inoltre,
altri due fattori furono scatenanti in quell’anno ad evidenziare la
caduta del fino ad allora colosso industriale scozzese.
La
demolizione delle vecchie “case a ringhiera” in pietra arenaria,
che un tempo avevano caratterizzato la città, per lasciare spazio ai
nuovi edifici. I lavori di riqualificazione e rinnovamento dell’area
(AREA C) del distretto di Hutchesontown
vennero affidati a Basil Spancer, presidente del Royal
Institut of British Architects,
ma nessuno poteva immaginare che si stava progettando quella che
sarebbe divenuta il fulcro della delinquenza e della fatiscenza che
di lì a poco si sarebbe diramata a macchia d’olio nello strato
urbano.
Il
Riverside
Museum,
costruito sul sito una volta occupato dai cantieri di Pointhouse, è
un riflesso della reinvenzione di Glasgow come città pioniera
post-industriale. Infatti si presenta come una struttura fondamentale
per la riqualificazione sociale della città e sta pienamente
rispettando la volontà della Scottish
Exhibition
e Conference
Centre
di rendere il fiume Clyde una parte fondamentale della comunità.
Anche
dal punto di vista architettonico, vi fu per molti anni una sorta di
rifiuto per il lungofiume. I cantieri stessi avevano poco in termini
di costruzioni permanenti: erano per lo più depositi all’aperto,
schermati dal resto della città da possenti mura. Nella
sua nuova incarnazione, il lungofiume di Glasgow è inteso come una
risorsa urbana piuttosto che come un sito di infrastrutture
industriali, anche se la maggior parte è al momento tutt’altro che
curata.
Se
Glasgow fu una delle prime città della Gran Bretagna ad essere
trasformata dalla rivoluzione industriale, è stata anche uno dei
primi centri urbani ad affrontare il “futuro” post-industriale,
tema che portò ad una messa in gioco totale delle istituzioni
scozzesi, ad essa infatti possiamo attribuire la pretesa di aver
inventato quello che prenderà il nome di effetto
Bilbao.
Nel
1983, quasi vent’anni prima della spettacolare costruzione del
Guggenheim
Museum
di Frank Ghery nella cittadina portoghese di Bilbao, Glasgow riuscì
con il solo supporto della critica economia locale a completare la
collezione Burrel,
permettendo così attraverso l’arte un processo di rinascita.
A
questa linea appartiene la scelta della costruzione del Riverside che
è legata ad una volontà di riqualificazione, in quanto una nuova
architettura cambia l’aspetto di una città, riempiendo le lacune
nel suo tessuto urbano e sociale, per dargli nuova vita e per
mantenere dinamica la memoria storica della cittadina nelle sue più
ampie sfaccettature. Il museo, infatti, è stato utilizzato per
raccontare la storia sociale di Glasgow, così come i trionfi delle
sue produzioni, dei suoi ingegneri e dei suoi progettisti.
Glasgow
si presenta da un punto di vista architettonico, come una cittadina
che vanta una prestigiosa e ambiziosa predisposizione all’avanguardia
artistica. Basti ricordare Mackintosh e la sua Scuola
di Glasgow:
una significativa reazione oltremanica all’Art
Nouveau
continentale che influenzò anche il nascente movimento secessionista
austriaco, aprendo, così, il capitolo di uno stile tutto diverso
dalle linee flessuose e curve della variante francese e belga: uno
stile fatto, piuttosto, di forme verticali, leggere e sottili. Superfici
lisce ed interrotte, forme snelle che crescono dritte ed eleganti,
l’opposto del decorativismo e dell’irregolarità, conosciute
nell’esperienza architettonica dell’Europa continentale.
Non
stupisce, quindi, la decisione di affidare al neoproduttivista
Norman Foster la costruzione del Clyde Auditorium, delegando la fase
esecutiva al Foster & Partners,
iniziato nel 1995 per essere inaugurato nel 1997. L’interesse
acquisito ed elaborato negli anni per la sperimentazione verso
costruzioni ingegneristiche sempre più ardite che lo ha reso uno dei
rappresentativi esponenti dell’architettura high
tech,
è ravvisabile anche, in quello che viene rinominato l’Armadillo.
La
costruzione si concentra sugli aspetti tecnologici dei materiali con
la quale il Baronetto
è riuscito a fondere l’esaltazione socio-culturale propria della
cittadina scozzese: la struttura infatti è formata da linee
ricordanti gli scheletri degli scafi prodotti in passato dai cantieri
di Glasgow. Ed
è in questo contesto che nasce la volontà di affidare
all’anglo-irachena Zaha M. Hadid la realizzazione del Riverside
Museum. Fra
le peculiarità che caratterizzano edifici e progetti della Hadid è
prioritario il senso di leggerezza che essi trasmettono: svincolate
dalle leggi gravitazionali, contaminate dalle valenze del
costruttivismo e liberate nell’onirico. Risolte con aspetti
tecnici, tecnologici e strutturali attraverso un uso e un
accostamento di tecniche e materiali innovativi conservandone
l’identità e allo stesso tempo volgendo tutto a fattore
costruttivo di una realtà immaginata e sensibilità inedite.
I
modelli da lei rappresentati sembrano più opere scultoree che non
architettoniche, infatti dal principio l’Hadid confermò la sua
volontà di non essere solamente un “architetto di carta”:
nel momento progettuale, sembra dimenticare i vincoli che la
realizzazione del manufatto architettonico richiede, quasi si mutasse
in pittrice
con la volontà di esaltare al massimo la libertà espressiva degli
spazi che va prefigurando. Infatti i suoi disegni non sono mai
astrazioni ma modi di creare città piene di possibilità e di
edifici in cui l’interno si fonde con l’esterno per creare spazi
fluidi, piuttosto che gabbie o celle precostituite dalla tradizione
museale.
La
Hadid, insieme a Foster, è parte di un cambiamento generazionale che
è stato responsabile della svolta odierna delle costruzioni
contemporanee. Dopo
la ripresa dei concetti del modernismo,
nel 1970, in seguito all’eruzione del postmodernismo alla quale si
affianca dettagli decorativi classici, Zaha Hadid ha dato una svolta
esplosiva all’architettura.
Come
si può notare dal suo primo progetto realizzato, La
stazione dei pompieri
a Weil am Rhein
dove i muri si stratificano, scivolano lungo linee di forza
centrifughe, si dilatano e si interrompono. Interamente realizzato in
cemento armato e privo di ogni accenno di ornamentazione, delinea un
linguaggio asciutto, netto, che esalta maggiormente la manipolazione
spaziale, tesa a creare cavità dinamiche.
Da
allora l’interesse dell’Hadid si è concentrato su forme più
morbide, forse più sensuali. Concependo le sue costruzioni come se
fossero dei paesaggi, e per far ciò si avvale di software
per
esplorare la possibilità di geometrie più complesse.
All’inizio
della sua carriera, prima che l’informatica divenisse universale ed
indispensabile nella progettazione, Zaha immaginava un mondo del
digitale, o quello che ora viene definitivo “parametrico”
delineando ad occhio e con pochi semplici strumenti tratti sempre
meno rettilinei, quelle che vengono definite curve
di bordo.
I
suoi progetti ci sfidano ad intendere lo spazio in modo differente. Usa
tutta una serie di punti di partenza, comprese le relazioni
matematiche e le forze presenti in natura, per innestare le sue
esplorazioni di forma, con la quale intende eliminare la distinzione
tra pareti e pavimento, tra il tetto e la terra, indagando così i
modi con cui animare lo spazio per introdurre l’idea del movimento
e del flusso.
Questo
è esattamente quello che accade nella costruzione del Riverside
Museum. Il
museo dei trasporti viene spesso descritto come un capannone.
Richiama con la sua struttura il profilo del fabbricato industriale
generico, una scatola con un tetto a dente di sega nella quale prende
spazio un'estrusione plastica
in un circuito a forma di Z picchiata . È
una costruzione con tetto svettante che celebra i suoi contenuti, con
uno splendido spirito di sollevamento che tende a smaterializzare i
suoi spazî.
L’edificio
è molto particolare e se pur le sue radici sono un riferimento al
vernacolo industriale la sua manipolazione spaziale è molto più
complessa ed elegante. La sua raffinatezza lineare è molto più
vicina al Sainsbury
Centre
di Norman Foster
piuttosto che a qualsiasi altro museo dei trasporti. Inoltre
il profilo a dente di sega del Riverside è più simile a un
frammento surrealista catturato nell’astrazione del resto della
geometria, come se fosse il ritaglio di un collage.
La
copertura è composta interamente in lamiere zincate splendidamente
realizzate, installate con la minuzia che possiamo ritrovare
nell’haute
couture,
che permette una resa finale nella quale viene bandita ogni
distinzione tra le pareti ed il tetto, realizzata con le stesse
tecniche con la quale viene rivestita l’ala di un aereo.
Nevile
Bordy, graphic
designer
collaboratore dell’Hadid, ha suggerito per realizzare tali forme la
pittura digitale, in modo tale da poter gestire l’impatto con gli
agenti atmosferici. Ciò ha richiesto un apposito team
di costruttori con la capacità di stendere i fogli di zinco che
rivestono l’esterno del museo con accurata attenzione nel
riconoscere la posizione di ogni cucitura.
Tali
cuciture sono tenute in parallelo e si avvolgono formando doppie
curve, su quello che può essere chiamato lo “scafo” del museo,
come se fosse esso stesso una barca, riferimento ai vecchi cantieri
navali siti dove oggi sorge l’edificio. Questo
“cappotto su misura” nasconde pienamente la struttura in acciaio
muscolare interna da cui è sostenuto.
Forse
l’aspetto più coinvolgente in termini di spazio pubblico è il
timpano in vetro che guarda verso il Clyde, riflettendo l’albero
maestro del veliero Gleenvee
Tall Ship
risalente al XIX secolo, ristrutturato per divenire parte integrante
della struttura museale.
Anche
i lati interni delle pareti e del tetto sono altrettanto ben
progettati, enigmatici come l’esterno, ma qui invece dell’utilizzo
dei sobri gunmetal
con
cui è ricoperto l’esterno, la pelle interna è formata da pannelli
di gesso-vetro rinforzato da calce e vernice color pistacchio.
Le
forme schiacciate insieme e la torsione degli interni sono gli
elementi di base della rappresentazione digitale. I Pixel
elettronicamente generati scivolano finemente l’uno nell’altro
senza lasciare la minima increspatura sulla superficie, come magneti
che deviano i flussi degli elettroni. E sicuramente è in questa la
grande capacità progettuale dell’Hadid: un sovrapporsi e
stratificarsi di informazioni, un moltiplicarsi di ordini possibili,
un interagire e ibridarsi di molteplici relatività che grazie alla
preparazione tecnica delle nuove esperienze tecnologiche, riesce
nella fase esecutiva a creare un centro armonico di pareti in grado
di diluire una dimensione nell’altra.
Lo
spazio al livello superiore non è interamente utilizzabile: il suo
punto più alto raggiunge i 10 metri sotto la superficie del tetto
(36,4 metri alla sua massima altezza esterna) che è autoportante
(una struttura di traliccio di profilati in acciaio dal peso di più
di 2.500 tonnellate) e in sezione si notano una serie di crinali e
avvallamenti che variano in altezza e ampiezza da un timpano
all’altro.
Particolare
attenzione richiede l’uso inusuale della vernice pistacchio, colore
suggerito da una cromia lanciata da Prada alla fine del 1990: non è
il tipo di colore che siamo abituati a vedere all’interno di un
museo e forse è stato scelto per evidenziare il fatto che gli
oggetti qui esposti non sono da intendersi come opere d’arte, per
questo anche la volontà di perdere l’utilizzo convenzionale dei
“cubi bianchi” per esporre le opere. La scelta di ciò potrebbe
essere legata al desiderio di ammorbidire la presentazione dei
reperti industriali, inserendoli in un contesto più raffinato.
I
visitatori vengono introdotti all’interno del museo da geometrie
straordinariamente dinamiche che ruotano da sinistra a destra in
un’area espositiva di 11.000 metri quadrati, attraverso ranghi
ammassati di locomotive in acciaio, modellini di navi, moto e tram.
Per un totale complessivo di 3.000 oggetti raccolti in 150
espositori.
Non
esiste un percorso definito attraverso gli oggetti esposti, non vi
sono singole narrazioni che i curatori vogliono comunicare.
Nel
caso delle opere d’arte, ci sono problemi relativi all’utilizzo
della luce e sulle proporzioni da affrontare quando si pianificano
gli interni e le esposizioni. Con il Riverside,
il problema fondamentale era quello di trovare un modo per affrontare
e mettere in mostra così tanti oggetti disparati e per dare un senso
di coerenza alla raccolta, consentendo nel contempo alle singole
opere di spiccare. La semplicità pura e visiva degli interni
permette ciò, anche attraverso le mura che trasmettono un senso di
movimento dinamico, essenza dei trasporti. La grandezza curatoriale
propria del Riverside è insita nella volontà di trovare un mezzo
che permetta la più diretta comunicazione della storia sociale,
culturale ed economica della cittadina attraverso gli oggetti
esposti, un tempo vanto indiscusso della città di Glasgow.
Tale
volontà è espressa nell’utilizzo dei Display
Story,
che sono risultati essere il sistema più valido per ripensare i
metodi di interpretazione e fruizione delle collezioni.
I
display sono basati su due criteri: la rilevanza e i punti di forza
delle raccolte, e l’interesse del pubblico. Ciò ha portato a
pianificarli con le storie che possono raccontare gli oggetti,
piuttosto che basare la linea-guida della fruibilità su ordini
cronologici o tassonomici determinati per definire come un oggetto
sarà visualizzato. Sviluppati secondo il self-contained,
incentrato sul vero significato dell’oggetto e rilevante per il
target
del pubblico del museo.
Ogni
Display
Story
presente all’interno del Riverside è sviluppato per un target
specifico:
le famiglie, i bambini sotto i cinque anni, le scuole, gli
adolescenti e le persone con problemi sensoriali. Ogni
monitor è frutto di una ricerca psicologica e sociale che permette
di trovare il metodo più efficace per fornire il messaggio chiave
godibile per ognuno delle categorie a cui principalmente si rivolge. A
volte i display
riportano informazioni prettamente testuali, mentre altre volte sono
accompagnati da frame
di film, commenti audio e processi interattivi, accesso ad archivi
dati e interviste d’epoca, il tutto per fornire più livelli di
conoscenza. Il
risultato è che circa il 40% delle opere dispongono di
un’interpretazione digitale, definita metodo
main,
per trasmettere il contenuto.
Il
film, il suono e il browser
di
rete sono tra i più grandi dispositivi di comunicazione. Tuttavia
spesso il sistema museale li utilizza con il solo scopo di
trasmettere passivamente informazioni, e nel caso del browser
presentando
archivi dati piuttosto che attingendo al ricco potenziale proprio di
questi mezzi. La volontà del Museo dei Trasporti è quella di affiancare la
tecnologia a tutte le altre forme di interpretazioni possibili, in
grado di comunicare pienamente i contenuti dei singoli oggetti.
C’è
spesso poca attenzione all’approccio interattivo, sulla creazione
di contenuti e sulle emozioni suscitate al visitatore attraverso le
varie tematiche presentate.
Il
concept
testing
sviluppato dal Riverside segue due percorsi:
L’esplorazione
delle metodologie e filosofie di altre discipline per preparare i
contenuti, modificandoli fino a renderli perfetti per la fruizione
del pubblico specifico.
Lavorando
direttamente con i rappresentanti del suo
target
per poterne studiare i vari tipi di reazione all’approccio
didattico.
Tutti
questi studî,
in stretto contatto con il pubblico di riferimento, hanno portato
alla scoperta del Game-Play
come mezzo fondamentale per poterne permettere il massimo godimento
intellettivo e sensoriale.
Il
gioco crea un ambiente competitivo nel quale i partecipanti sono
motivati a capire la storia che viene presentata, e le possibilità
di successo e fallimento insite nell’esperienza e il senso di
realizzazione che ne deriva permettono al fruitore di
impersonificarsi pienamente nelle logiche storiche e dei suoi
protagonisti. Questo
è un campo di particolare interesse nei musei scozzesi dove le
attività del gioco vengono viste come mezzi per creare ambienti per
un più efficace apprendimento. Tali studi pedagogici, sostenuti
dalla Corte di Scozia, avvengono inizialmente coinvolgendo le scuole.
Gli
esperti del Learning
and Teaching Scotland
hanno evidenziato le esperienze e i risultati ottenuti utilizzando
strumenti ludici digitali all’interno dei contesti scolastici. L’apprendimento
così diviene meno formale e offre maggiore possibilità di sviluppo
personale in una struttura inter
pares
che si svincola dai tradizionali ambienti didattici. Ciò ha permesso
di perfezionare l’approccio dei curatori del Riverside
nell’interpretazione basata sui Game-Play all’interno del museo,
arrivando alla conclusione che la chiave per un maggior apprendimento
culturale sia la costruzione empatica che permette comunicazione e
cooperazione tra i bambini, gli insegnanti e l’evento storico.
Tuttavia,
altri test hanno permesso di indagare le reazioni del
pubblico-fruitore rispetto agli atri mezzi di visualizzazione. Questo
può essere dimostrato attraverso le ricerche svolte per le colonne
sonore. I suoni nei musei spesso sono utilizzati come accompagnamento
delle didascalie digitali, voci fuori campo che forniscono
spiegazioni o commenti, o per creare ambienti suggestivi. Il suono,
infatti, può comunicare un più profondo senso della narrazione e
quindi può essere efficace nel fornire chiarimenti e permette al
visitatore di creare un contatto più emotivo con l’opera.
Le
conclusioni del concept
testing
hanno fornito alcune metodologie chiare per sviluppare un miglior
approccio con la struttura sonora: la lunghezza del racconto è
subordinata al contenuto per un tempo massimo di 40 secondi di
coinvolgimento intellettuale dei fruitori rispetto alle note audio o
AV. Per questo sono stati inseriti degli interruttori che permettono
di interrompere la narrazione, osservare gli oggetti e poi tornare ad
ascoltare il racconto da dove era stato sospeso.
Dal
2009 il team del Riverside lavora con gli sviluppatori di software per produrre display sempre più interattivi. E forse non è un caso che il profilo della copertura del Riverside Museum ricordi il tracciato di un elettrocardiogramma, un cuore pulsante,
quasi a voler confortare la città stessa di essere entrata in un
periodo di fiorente rinascita.
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Vedi anche nel BTA: USCITE DI ARCHITETTURA LIQUIDA
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