Ludus e Paidia
Il gioco come chiave di lettura dell’opera di Duchamp. Tra ironica
dissacrazione, metamorfosi e interazione con il pubblico, ho cercato di
analizzare il carattere ludico delle opere della mostra “Duchamp. Re-made in
Italy”, alla GNAM dall’8 ottobre 2013 al 9 febbraio 2014, usufruendo delle
categorie di giochi elaborate dal sociologo Roger Caillois, nel 1958. Già,
prima di lui, Johan Huizinga, storico olandese, in Homo ludens del 1939, aveva affermato che il gioco, inteso come
atto puramente libero e istintuale, fosse precedente alla nascita della cultura
e come quest’ultima si sia manifestata inizialmente in forma ludica.
Il gioco, per Huizinga è un’attività disinteressata, grazie alla quale si
genera un mondo fittizio, non soggetto alle norme della vita ordinaria, ma a
regole proprie che, essendo inconfutabili, se infrante, comportano il crollo
della parentesi ludica. Caillois,
nel suo saggio, amplia le concezioni di Huizinga (che si occupa soprattutto del
gioco soggetto a regole), ed esamina anche le componenti più oscure e ambigue
del gioco, mettendo in evidenza come esso non sia dotato di un carattere
unitario, ma di infiniti aspetti diversi che possono essere ricondotti a
quattro tipologie principali: Agon, Alea, Mimicry e Ilinx,
(competizione, caso, maschera e vertigine). A loro volta, queste categorie, si
inseriscono in due insiemi di carattere opposto: quello della paidia e quello del ludus. Il primo, contiene in sé l’indole fantasiosa, incontrollata,
esuberante del gioco, mentre il secondo, al contrario, ne presenta il carattere disciplinato,
calcolatore, soggetto a regole ben precise e basato sul superamento di ostacoli
e sull’ottenimento di un risultato.
Secondo Caillois, in ogni categoria di gioco è rintracciabile la presenza della
paidia o del ludus.
Partendo dall’agon, categoria che
presuppone una competizione regolata, in cui il giocatore tende a dimostrare le
sue capacità fisiche o mentali, per il raggiungimento di un traguardo, Caillois
evidenzia il suo stretto rapporto con il ludus:
in entrambi, ciò che conta è il superamento di difficoltà e la dimostrazione
della superiorità di un giocatore su un altro. Ciò vale per le gare sportive,
quanto, ad esempio, per una partita a scacchi. Entrambe, infatti, implicano
disciplina e perseveranza.
La categoria dell’alea, comprende
tutti quei giochi soggetti alla sorte, che,
contrariamente all’agon, non
dipendono dalle qualità competitive dei giocatori (che rimangono passivi), ma
dal favore o dallo sfavore del destino. In questo caso, non si premiano il
lavoro e l’allenamento, ma allo stesso tempo, esiste, al contrario di quanto si
possa pensare, una combinazione tra ludus
e alea, poiché, nonostante l’elemento
decisivo della sorte, il giocatore è soggetto a regole ben precise. E, del
resto, non c’è nessun collegamento tra la fantasia e la turbolenza della paidia e la passiva attesa del verdetto
del caso, tipica dell’alea.
Caillois sottolinea che il gioco è spesso caratterizzato dalla creazione di un
mondo fittizio, illusorio (da in-ludere,
entrare in gioco) e quindi presuppone che i partecipanti accettino di entrare
nei panni di un personaggio immaginario, in una realtà inventata. Già Huizinga
aveva scritto che il gioco si svolgeva entro un mondo temporaneo, un «cerchio
magico»
che, dunque, comportava un “travestimento” momentaneo. Caillois ha usato, per
designare questa categoria, il termine mimicry
che in inglese indica la capacità mimetica di alcuni insetti. La mimicry comporta un costante uso della
fantasia, un’invenzione continua. Per tale motivo passa continuamente dalla
modalità di gioco della paidia a
quella del ludus, nel loro eterno
contrasto che oppone «il chiasso a una sinfonia, lo scarabocchio
all’applicazione sapiente delle leggi della prospettiva».
Non troviamo nessuna regola nel travestimento di carnevale e per questo, la
mimicry potrebbe essere ricondotta alla spensieratezza della paidia, ma allo stesso tempo, la
trasformazione e la maschera conducono alla sfera teatrale o ai giochi di
ruolo, ricchi di tecniche, norme e convenzioni che la avvicinano
inevitabilmente al ludus, quale
fondatore di istanze culturali e dunque di civiltà.
L’ultima categoria elaborata da Caillois è quella dell’ilinx, il gioco come ricerca della vertigine, della perdita di
lucidità, nell’abbandonarsi all’ebbrezza. L’autore porta l’esempio di un gioco
haitiano, il maïs d’or, in cui due bambini,
uno di fronte all’altro, tenendosi per mano, iniziano a girare vorticosamente
fino a perdere l’equilibrio. Non a caso, Caillois, per individuare tale
categoria, usa il termine ἷλιγξ –ιγγος
che i greci utilizzavano per indicare il vortice, il gorgo d’acqua. Spesso l’ilinx può avere un contatto con la mimicry, basta pensare all’uso delle
maschere nei riti sacri dei popoli primitivi, nei quali si giungeva ad uno
stato di trance o estasi, visibile capovolgimento della vita quotidiana, in cui
l’officiante si trasforma in Dio o in ogni sorta di spirito importante per la
tribù.
In questo senso, Caillois afferma che l’ilinx
è una categoria strettamente legata alla paidia,
nel suo carattere di pura e spontanea veemenza.
Duchamp attraverso
Caillois.
Nella
prima sala della mostra “Duchamp. Re-made in Italy”, alla GNAM dall’8
ottobre 2013 al 9 febbraio 2014, leggiamo,
su una delle pareti, «il gioco è un’altra espressione mentale, intellettuale
che ha dato qualcosa in più alla mia vita e alla mia personalità». Questa frase dà avvio al percorso espositivo,
quasi a voler invitare lo spettatore a capire come il gioco sia un elemento fondamentale del processo artistico
di Duchamp.
L’oggetto dello studio è stato l’analisi delle opere di Duchamp mediante le
tipologie di gioco sviluppate da Caillois, esposte precedentemente. Un percorso
attraverso il ludus e la paidia che mette in relazione l’arte con
il gioco, nell’intenzione di dimostrare come il camuffamento, la vertigine, il
capovolgimento, il caso e l’enigma siano alla base della creatività dadaista e
come tali elementi siano in grado di coinvolgere lo spettatore.
Dagli scacchi ai giochi
di parole, la forma pura del ludus.
Gli
scacchi, la grande passione di Duchamp. Nella mostra era esposta una piccola
scacchiera portatile e tre incisioni intitolate Studio per giocatori di scacchi, del 1911, ad indicare che Duchamp
praticò questo gioco dall’età giovanile, fino a gareggiare a livello
internazionale. Nel 1924, recita nel film Entr'acte
di René Clair, con sceneggiatura di Picabia: gioca a scacchi con Man Ray su una
terrazza parigina, in una partita dalla durata di 15 secondi. Nello stesso
anno, diventa campione di scacchi dell’Alta Normandia.
Al di là del carattere competitivo, per Duchamp, gli scacchi sono l’esempio
migliore dell’arte come attività mentale. Già partendo da questo presupposto,
notiamo che nel pensiero dell’artista, arte e gioco sono legati da un filo
sottile, quello della libertà della “materia grigia”. La partita a scacchi è un
gioco di pazienza, di concentrazione e allenamento. Inevitabilmente, Caillois
lo inserisce nella categoria dell’agon
e nella modalità del ludus. Non c’è
nulla di aleatorio, non c’è nulla del turbinio e della sregolatezza della paidia. Si tratta di ragionamento e
competizione regolata. Inoltre, per Duchamp, gli scacchi sono un hobby. Caillois lo definisce «una forma
particolare di ludus», un’attività
intrapresa senza un secondo fine, per puro diletto.
Calvesi interpreta il gioco degli scacchi «un impegno puro e gratuito del
pensiero» che può essere ricondotto alla simbologia alchemica, per la presenza
de Re e della Regina (come maschile e femminile, “fisso e volatile”), della
torre (come athanor per la
distillazione della materia) e dei colori bianco e nero della scacchiera (come
equilibrio dei contrari).
Quindi, anche l’alchimia potrebbe essere vista come gioco, prevalentemente
nella sua accezione di ludus puerorum,
una delle fasi finali del processo di trasmutazione della materia, operazione
culminante e difficile che necessita di forze quali la libertà, la fantasia e
la regola, elementi tipici dei giochi infantili. Dunque, alchimia come insieme
di ludus e paidia, regola e disordine.
Caillois
inserisce «i cruciverba, i giochi matematici, gli anagrammi, i versi olorimi, i
vari logogrifi» nella forma di gioco del ludus,
dove, spesso, può anche manifestarsi la presenza dell’agon, della competizione. Di conseguenza, i giochi di parole di
Duchamp che costellano gran parte dei suoi ready-made
possono essere inseriti nella sfera del ludus,
del superamento di difficoltà, anche poste dall’artista stesso, nel
raggiungimento di una soluzione finale, sempre diversa, come avviene nella
partita di scacchi. Si tratta, però, anche di sovvertire le regole tradizionali
del linguaggio, di ricercare altri significati all’interno delle parole, attraverso
“l’umorismo di precisione.”
Duchamp, a proposito dei giochi linguistici
afferma: «Si sa, i giochi di parole sono sempre stati considerati una
bassa forma d’ingegno, ma io li trovo una fonte di stimolo sia per il loro
suono attuale, sia per il significato inatteso legato ai reciproci rapporti tra
disparate parole. Per me questo è un campo infinito di divertimento ed è a
portata di mano. Qualche volta emergono quattro o cinque diversi livelli di
significato».
Dunque, i giochi di parole, come forma di ingegno da una parte, e come
divertimento, diletto, dall’altra. La competizione si può nascondere anche
nella sfida che Duchamp lancia agli spettatori, riguardo la risoluzione degli
enigmi che costellano le sue opere. Basta pensare a L.H.O.O.Q., al Grande Vetro,
a Fountain o agli altri ready-made attraverso cui Duchamp invita
l’osservatore a riflettere sulle connessioni tra linguaggio e oggetto, a
trovare un’interpretazione. Anche qui, l’agire artistico di Duchamp si
inserisce all’interno di un quadro che comprende il ludus, come elemento di fecondità culturale (inteso anche nella sua
accezione di mimicry, in quanto un
termine assume, mediante i giochi di parole, più identità) e la paidia, come puro piacere di giocare.
«Une goutte de hasard», l’alea in
Duchamp.
Nel
gioco duchampiano, non troviamo solamente la dimensione dell’agon, ma anche quella dell’alea. È, infatti, impossibile non
ravvisare la componente aleatoria, anche nel resto della poetica dadaista che,
spesso, assume il caso come elemento princeps del processo compositivo. Farei
riferimento al testo di Pour faire un
poème dadaïste di Tristan Tzara,
dedicato a Duchamp con le parole Une
goutte de hasard (“Una goccia di caso”), in cui l’autore invita a
ritagliare parole di un articolo di giornale, inserirle in un sacchetto,
agitarlo ed infine ad estrarle per disporle nell’ordine in cui sono uscite dal
sacchetto, in modo da formare una poesia. Segue le indicazioni di Lewis Carroll
che consiglia: “Prima scrivi una frase e poi tagliala in piccoli pezzi;
mescolali e riprendili a caso proprio come capitano: l’ordine delle frasi è del
tutto indifferente.”
Molti
ready-made di Duchamp si basano
sull’aleatorietà, a cominciare da 3
Stoppages Étalon: l’artista faceva cadere tre fili, per tre volte, dall’altezza di un
metro, su tele dipinte, dove essi, precipitati in modo casuale, generavano
linee ondulate e diverse che divenivano delle unità di misura totalmente arbitrarie
e fuori dalle comuni leggi della misurazione. A proposito di tale opera Duchamp
scrisse: “Questa esperienza fu realizzata nel 1913 per fissare e conservare
forme ottenute dal caso, dal mio caso […]”.
Alla mostra sono presenti altre opere interessate dal caso, ad esempio Obligations pour la roulette de Monte-Carlo,
un collage, con una foto eseguita da Man Ray di Duchamp (sullo sfondo di una
roulette) con la testa insaponata e i capelli che ricordano le ali di mercurio,
dio del commercio e protettore dei ladri. Il tutto sul fondo verde del tavolo
da gioco, inquadrato da una cornice che riporta un gioco di parole, scritto
senza soluzione di continuità: moustiquesdomestiquesdemistock.
Intorno al 1924-25 Duchamp comincia a giocare alla roulette e per questo ha
bisogno di finanze. Fonda un’associazione e vende obbligazioni del valore di
cinquecento franchi l’una, sistema secondo lui infallibile, ma che in realtà
gli procurerà la vendita di sole due obbligazioni. In questo modo, perciò, il
caso vuole essere quasi messo da parte, come se Duchamp intendesse introdurre
la rigida regola degli scacchi nel gioco della sorte.
In effetti, in quest’opera riaffiora il ludus
nell’accezione di competizione, di raggiungimento di uno scopo ben preciso,
senza aspettare la casualità del destino.
La maschera.
Duchamp
si traveste, cambia nome, diventa donna.
Alla mostra, troviamo un foglio che ci ricorda per tre volte il mutamento
avvenuto: da Marcel diventa Rrose Sélavy e questo pseudonimo richiama, mediante
l’anagramma di Rose, l’Eros. Duchamp si vestì da donna e fu
fotografato da Man Ray nel 1920. Il travestimento rivelava un’allusione
all’androginia, ma anche il bisogno di un continuo cambio d’identità, la costante ricerca di qualcosa “che va al di
là” di quello che vediamo, non solo negli oggetti dei suoi ready-made, ma anche
in se stesso. In un’intervista a Pierre Cabanne, Duchamp,
a proposito della sua metamorfosi, disse: «Volevo cambiare la mia identità e
dapprima ebbi l’idea di prendere un nome ebraico. Io ero cattolico e questo
passaggio di religione significava già un cambiamento. Ma non trovai nessun
nome ebraico che mi piacesse, o che colpisse la mia immaginazione, e improvvisamente
ebbi l’idea: perché non cambiare il mio sesso? Era molto più facile! […].»
Questa ricerca del doppio è costante in tutta la sua opera: utilizza l’identità
femminile anche per la fotografia del profumo Belle Haleine, Eau de
Voilette,
del 1921. Come sottolinea Calvesi, Haleine
significa respiro, alito ed indica la risalita dell’essenza in ambito
alchemico. Ma è anche Hèléne, quindi,
Duchamp, ancora una volta assume un’altra identità, diventa Elena di Troia,
“donna per eccellenza”. E non a caso, l’opera Air de Paris, indicherebbe, per Calvesi, non solo Parigi, ma anche
Paride, eroe effeminato che si accoppia con Elena e ha in sé l’essenza
dell’androginia che alberga nell’alambicco alchemico. L’etichetta del profumo presenta un altro
dettaglio importante: ci sono una “R” e una “S” scritte dorso a dorso, forse a
voler indicare l’altro nome Rrose Sélavy
e che i due pseudonimi si corrispondono nel loro significato di unione dei
contrari e di trasformazione della materia e della personalità.
Nella
sala iniziale della mostra, possiamo
trovare Tonsure, una foto fatta da
Man Ray, nel 1919 che ritrae la testa di Duchamp vista da dietro. I capelli
sono rasati e al centro della nuca è incisa una stella, segno di elezione.
Anche quest’azione potrebbe essere ricondotta alla sfera della mutazione, del
cambiamento, dato che la testa, vista come Vas
hermeticum, rappresenta la trasmutazione spirituale e mentale, tanto più
che Duchamp si camuffa anche attraverso lo pseudonimo di Richard Mutt che, non
a caso, attraverso il suo anagramma bilingue, rivela la frase hic art de muter (“questa [è] arte di
mutare”), secondo l’interpretazione della Humbert.
E in senso più stretto, se guardiamo all’ambito specifico dei rebus, potremmo
dire che questo particolare tipo di gioco è un mascheramento, tramite figure –
insieme a lettere – di una frase. Dunque, la mimicry, intesa come gusto della variazione, del cambiamento
d’identità, della ricerca del doppio, ma anche della trasformazione del
pensiero e del linguaggio è un paradigma nell’arte di Duchamp.
Movimenti
vertiginosi.
Project for the rotary
demisphere,
del 1924 e i Rotoreliefs, del 1935,
esposti alla mostra, riguardano gli studi che Duchamp fece nel campo del
movimento e degli effetti che esso produceva sulla percezione umana. Man Ray, a
proposito degli esperimenti di Duchamp, in particolare, di Lastra rotante di vetro (ottica di precisione), del 1920, scrisse:
«Oltre a dedicarsi tenacemente agli scacchi, in quel periodo era impegnato
nella costruzione di una strana macchina costituita da stretti pannelli di
vetro, su ognuno dei quali aveva tracciato parti di una spirale, montandoli poi
con cuscinetti a sfera su un asse collegato ad un motore. La sua idea era che i
pannelli avrebbero assunto un movimento rotatorio ricostituendo, se visti di
fronte, la spirale completa. Quando il congegno fu pronto, portai la macchina fotografica per immortalare l’esperimento e la
sistemai dove si presumeva stesse o spettatore […]».
La studio di Duchamp, infatti è teso ad osservare gli effetti del movimento
rotatorio nel tempo. Calvesi trova il modello dei dischi rotanti nella Rota
cabalistica, sia per un richiamo alla ciclica salita e precipitazione dei
vapori nell’alambicco, sia per il riferimento alla vita stessa dell’uomo che ha
il movimento circolatorio, «del divenire che torna su se stesso».
Tra l’altro, anche Man Ray, realizza, nel 1946, l’opera La fortune III,
assemblaggio che contiene una “ruota della fortuna” che, nel Medioevo designava
l’alternanza di vizi e virtù e l’imprevedibilità della sorte,
a richiamo dell’alea.
Carla
Subrizi mette in relazione l’ottica di precisione con l’erotismo: «I dischi,
ruotando, provocano un movimento oscillatorio, verso l’alto e verso il basso,
molto simile all’atto sessuale […]».
Quindi, le macchine rotanti di Duchamp producono movimenti vertiginosi e in chi
guarda, un senso di stordimento che potrebbe essere ricondotto alla categoria
dell’ilinx. Secondo Caillois, essa
non è altro che un richiamo alla dimensione onirica, all’allucinazione, alla
perdita di stabilità. Duchamp, con i giochi ottici, da una parte, dà valore al
moto vorticoso, dall’altra pone l’attenzione sul movimento erotico. Entrambi
sono due elementi che richiamano la sfera dell’abbandono dei sensi, del gioco
come manifestazione esuberante e spontanea, come la paidia. La vertigine è provocata anche al
fatto che le parole non sono disposte in modo lineare e dunque, creando una
spirale, spesso formata da frasi non-sense, provoca un capovolgimento, non solo
ottico, ma anche della consueta logica letteraria.
Dall’agon all’ilinx, dunque, la poetica di Duchamp è permeata dal gioco. Esso
permette di concepire l’artista come un giocatore che passa incessantemente dal
ludus alla paidia, dalla regola al caso, dalla finzione alla realtà.
NOTE
BIBLIOGRAFIA:
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Battistini, Astrologia, magia, alchimia,
in “Dizionari dell’Arte”, Milano, Electa, 2004.
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Maurizio
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Maurizio
Calvesi, Un Coup dada. Il caso nell’arte
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di massa, Milano, Feltrinelli, 1978.
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Michèle Humbert, Giochi linguistici e linguaggio in Marcel Duchamp, dalla ruota
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Janis Mink, Marcel Duchamp, Colonia, Taschen, 2004.
Katherine Kuh, The Artist’s Voice: talks
with Seventeen Artists, New York, Harper & Row, 1962.
Man Ray, Autoritratto, Milano, Mazzotta, 1975.
Carla Subrizi, Introduzione a Duchamp,
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J.J. Sweeney, A
conversation with Marcel Duchamp, intervista televisiva, 1946.
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