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TESTO ORIGINALE
“La
Nympha per altri belli lochi, lo amoroso Poliphilo conduce, ove vide
innumere nymphe solennigiante et cum il triumpho di Vertuno et di
Pomona dintorno una sacra ara alacremente festigianti. Da poscia per
veneron ad uno miraveglioso templo. Il quale ello in parte descrive,
et l'arte aedificatoria. Et come nel dicto templo, per admonito della
antistite, la Nympha cum molta cerimonia la sua faocla extinse,
manifestantise essere la sua Polia a Poliphilo. Et poscia cum la
scrificabonda antistete, nel sancto sacello intrata, dinanti la
divina ara invoco le tre gratie.
Contrastare
gia non valeva io alle caeleste e violente armature, e dicio havendo
la elegantissima Nympha amorosamente adepto, de me misello amante
irrevocabile dominio. Seco piu oltra (imitante io gli moderati
vestigii) abactrice pare allei verso ad uno spazioso littore me
conduceva, il quale era contermine della florigera e collinea
convalle, ove terminavano a questo littore le ornate montagniole, e
vitiferi colli, cum praeclusi aditi, questa aurea patria, piena di
incredibile oblectamento circumclaustrando. Leqnale erano di siluosi
nemori di conspicua densitate, quanto si fusseron stati gli arbusculi
ordinatamente locati amoene, quale il Taxo cyrneo, e lo Arcado, il
pinastro infructuoso e resinaceo, alti Pini, driti Abieti, negligenti
al pandare, e contumacial pondo, Arsibile Picee, il fungoso Larice,
Tede aeree. E gli colli amanti, celebrati e cultivati da festigiante
oreade, quivi ambidui per el virente, e florido plano, septo io
d'amoroso foco, la insigne Nympha ductrice guidando, iva io e lei tra
l'altissimo Cyparisso, tra patenti fagi, tra frugifere e verdole
Quercie, di novelli fructi incupulati ubere, alaltitonante Iove amate
e grate, e duri Roburi cum aspre cortice, e gli pungenti Iuniperi
amanti la aeternitate, e fragili Coryli, e lo astibile fraxino, e lo
baccante Lauro, e umbriferi Esculi, e torosi Carpini, e Tilie,
iniquietati dal fresco fiato dil suave Zephyro spargentise per gli
teneri ramuli, cum benigno impulso.
I quali
tutti arbori non erano de densa fultura, ma cum exigente distantia
dispensati, e tutti debitamente distribuiti al conveniente loco e
aspecto, a gli ochii grandemente delectabili, e vernantemente
fogliosi. Frequentavano quivi le rurigene Nymphe, e le vage Dryade,
cincte di molle e torqueabile fronde l'agile corpuscolo, e sopra gli
ampli fronti le resultante come inseme cum gli cornigeri fauni della
anane canna coronati, e de medulosa ferula, e cum acuto pino
praecincti, cum gli saltanti lascivi, e celeri Satyri, solennigianti
le faunalie ferie, dora venuti de questo amoeno e venerando Temeno,
cum piu tenelle, virente, e novelle fronde, che non EVIRUISSE tale
penso el nempre di Feronia Dea quando gli incole trasferire volevano
per lo incendio il suo simulachro.
Intrassimo
dunque, ove erano commensi spatii quadrati circumsepti delimiti de
strate late recte quadrivie, alte uno passo di Cynacanthe, o vero de
uva senticosa, e di chamaeiuniperi, e densissimamente colligati alli
bella murale di coaequatissimi buxi, includendo le quadrature degli
floribondi e madenti prati. Nell'ordine degli dicti septi mirai
symmetriatamente com piantate le victrice Palme sublime, cum gli
foecundi racemi di pendenti Dactyli fori degli corticii, tali nigri,
alcuni Phoenicei, molti gialli quali nella rosida Aegypto non sa
ritrovarebbeno. Et forsa non e cusi praecipuo agli Scaeniti Arabi
Dabulan, e paraventura tali non produce Hiereconta. Gli quale
extavano alternati cum verdissimi Citri e Narancii, Hippomelides,
pistacii, maligranati, Meli Cotoni, Dendromyrthi, e de Mespili, e
sorbi, e de moltaltri nobili e di foecunditate ornatissimi fruteti
negli campi quali di nuovo veritati.
Quivi
sopra el virore degli florulenti prati, e alle fresche umbre, cum
agregaria moltitudine io vidi grande turma de insueta gente e raro
visa promiscuamente latebondi, vestiti ruralmente de pelle alcuni del
Hinuli de macule candide, gutate e depicte, e altri de Lynci, e de
Pardi, altri de fogliace de bardana, alcuni de Psilopato, e
decolocasia, de Mixe, e del maiore farfugio, e de altre fronde cum
gli varii fiori e fructi instrophiati. Festigianti cum religioso
tripudio plaudendo e iubilando, quale erano le Nymphe Amadryade, e
agli redolenti fiori le Hymenide, rivirente, saliendo iocunde dinanti
e da qualunque lato del floreo Vertunno stricto nella fronte de
purpurante e meline rose, cum el gremio pieno de odoriferi e
spectatissimi fiori, amanti la stagione del lanoso Ariete, sedendo
ovante sopra una veterrima Veha, da quatro cornigeri Fauni tirata,
invinculati de strophie de novelle fronde, cum la sua amata e
bellissima moglie Pomona coronata de fructi cum ornato defluo degli
biondissimi capigli, parea ello sedente, e a gli pedi della quale una
coctilia Clepsydria iaceva, nella mane tenente una stipata copia de
fiori e maturati fructi cum imixta fogliatura. Praecedente la Veha
agli trahenti Fauni propinque due formose Nymphe antisignane, una
cum uno hastile trophaeo gerula, de ligoni bidenti sarculi e
falcionetti, cum una appendente tabella abaca cum tale titulo:
INTEGERRIMAM
CORPOR, VALITUDINEM, ET STABILE ROBUR, CASTASQUE MEMSAR, DELITIAS, ET
BEATAM ANIMI SECURITA TEM CULTORIB.M.OFFERO.
Et
l'altra gestava uno Trophaeo de alcuni germuli e viridanti surculi
connexi e instrumenti rurestri saltando cum antico rito e plauso,
solennemente gyrando e ad una sacra Ara quadrangula circinanti, Nel
medio del comoso e florigero, e de chiarissimi fonti irriguo prato,
religiosamente constituita. La quale cum tuti gli exquisiti
liniamenti de excellentissima factura, era exscalpta egregiamente, in
candido e luculeo marmoro.”
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PARAFRASI
La ninfa
conduce l'innamorato Poliphilo per altri bei luoghi, dove vede
innumerevoli sue compagne celebrare con entusiasmo il trionfo di
Vertumno e Pomona attorno a un sacro altare. Giungono poi in un
meraviglioso tempio di cui Poliphilo descrive l'architettura. Al suo
interno la ninfa, ammonita dalla somma sacerdotessa, spegne
ritualmente la sua fiaccola e si rivela a Poliphilo come la sua
Polia. Entrata poi nel sacro sacello con la sacerdotessa dei
sacrifici, invoca le tre Grazie davanti il divino altare.
Non
avevo più la forza di contrastare le celesti e violente armature,
avendo, l'elegantissima Ninfa amorosamente conseguito un dominio
assoluto su di me, miserabile amante. Quella seduttrice mi conduceva
con sè più avanti verso un luogo spazioso che era contiguo a una
fiorita e collinosa convalle dagli accessi preclusi, dove terminavano
ornate montagnole e colli di vigne che conchiudevano questo luogo
aureo pieno di incredibili piaceri. I rilievi erano coperti di boschi
molto densi nonostante gli arbusti fossero stati disposti
ordinatamente: si potevano vedere il Tasso cirneo e l'Arcado, il
pinastro privo di frutti e resinoso, alti pini, Abeti dritti che non
si piegano e resistenti al peso, Picee da ardere, il Larice fungoso e
Tede aeree. Gli amabili colli, celebrati e coltivati dalle festanti
oreadi (ninfe dei monti) e da qui entrambi (Poliphilo e la Ninfa) ci
incamminammo per la florida pianura - io preso dal fuoco dell'amore
per la Ninfa che mi conduceva con sè. Passammo tra altissimi
cipressi, faggi, Querce verdeggianti e feconde di nuove ghiande amate
e grate all'altisonante Giove, duri Roveri dall'aspra corteccia,
pungenti Ginepri amanti dell'eternità, fragili noccioli, il frassino
da cui si ricavano aste, l'Alloro di Bacco, ombrosi Esculi, forti
Carpini e Tigli mossi dal fresco soffiare del soave Zefiro che con
benevolo impulso spirava fra i teneri ramoscelli. Tutti questi alberi
non creavano un denso bosco ma erano posizionati a una voluta
distanza, tutti debitamente distribuiti nel luogo che gli si
confaceva, dilettavano grandemente la vista. Questo luogo era abitato
dalle Ninfe rurali e dalle Driadi che avevano cinto il loro agile
corpo di fronde morbide e assieme ai cornuti fauni, coronati di canne
vuote e ferula midollosa e cinti di aghi di pino, celebravano le
feste del Fauno con i saltellanti, lascivi e svelti Satiri che erano
venuti fuori da questo luogo ameno dalle fronde più tenere e fresche
che ci siano, penso non ce ne fossero nel bosco della dea Feronia,
quando i suoi abitanti volevano trasferire dopo l'incendio il suo
simulacro.
Entrammo
dunque dove c'erano simmetrici spazi quadrati suddivisi e delimitati
da ampie strade lastricate che formavano quadrivi guarniti, per
l'altezza di un passo, da fitti Cinacanti, ovvero di uva spina,
ginepri e folti bossi livellati a muricciolo; questi circoscrivevano
le quadrature di prati umidi e pieni di fiori. Nell'ordine di queste
siepi ammirai, piantate simmetricamente, le palme della vittoria con
i fecondi rami dai datteri pendenti, alcuni neri alcuni rossi e molti
gialli che nemmeno in Egitto si troverebbero. Alle palme si
alternavano a verdissimi Cedri e Aranci, Ippomelidi, pistacchi,
melograni, Cotogni, Dendromirti, Nespoli, sorbi e molti altri nobili
alberi carichi di frutti come nei campi dove si rinnova continuamente
la primavera.
Qui, sui
verdi e floridi prati, all'ombra fresca, vidi che si erano radunate
molte strane persone mai viste: felici in quella confusione, vestiti
di pelli alla rustica, alcuni di Cerbiatto a macchie candide come
gocce dipinte, altri di Lince e di Pantera, altri ancora di foglie di
bardana o di Psillio e colocasia, di Mixe e di farfaro grande e di
altre fronde con fiori e frutti diversi.. Con coturni di foglie di
ossalide e incoronati di fiori esultavano con religioso tripudio,
fra applausi e grida di gioia. Si trattava delle Ninfe Amadriadi e
delle Imenidi che, coperte di foglie e fiori odorosi, danzavano
gioconde davanti e ai lati del florido Vertumno, il quale aveva la
fronte cinta di rose purpuree e bianche, il grembo pieno di fiori
profumati amanti della stagione del villoso Ariete (Aprile, la
Primavera). Sedeva trionfante sopra un antichissimo carro, trainato
da quattro Fauni cornuti attaccati con ghirlande di foglie novelle.
Gli stava accanto Pomona, la sua amata e bellissima sposa, incoronata
di frutti, i biondissimi capelli sciolti con grazia: ai suoi piedi
giaceva una Clessidra di terracotta e in mano teneva una cornucopia
di fiori e frutti maturi misti a foglie. A precedere il carro, vicino
ai Fauni che lo trainavano, due belle Ninfe: una portava in cima a
un'asta un trofeo di zappe bidenti, sarchielli e falcetti con appesa
una tavoletta con scritto:
OFFRO AI
MIEI SEGUACI LA PERFETTA SALUTE DEL CORPO, UN ETERNO VIGORE, LE CASTE
DELIZIE DELLA MENSA, LA BEATA QUIETE DELL'ANIMO
L'altra
portava un trofeo di germogli, verdi virgulti intrecciati e strumenti
agricoli. Danzavano entusiaste secondo un antico rito, volteggiavano
solennemente e formando un cerchio intorno a un sacro altare
quadrangolare, elevato al centro di un folto prato fiorito irrigato
da limpidissime fonti. L'ara, egregiamente scolpita in marmo candido
e lucente era squisitamente modanata e di incomparabile fattura.
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La
xilografia numero 66 del Poliphilo illustra le nozze di Vertumno -
dio italico della natura, la cui caratteristica è la metamorfosi - e
Pomona - dea latina dei frutti. La loro storia viene raccontata da
Ovidio nel XIV libro delle Metamorfosi. Properzio invece racconta
la storia di come sia arrivato a Roma il dio Vertumno nel IV libro
delle Elegie.
Pomona
ebbe questo nome perchè nessuna fra le latine Amadriadi fu più
attenta ai frutti degli alberi e coltivò frutteti con più amore di
lei. Il suo compito era proteggere i campi e i rami che
sostenevano pomi maturi. Potava i rami che si espandevano
disordinatamente e inseriva nei tagli di una corteccia un innesto
dando vita a una nuova pianta grazie a una falce a mezzaluna che
portava con sè. Provvedeva ad abbeverare le radici assetate e,
poichè essa temeva la violenza degli uomini dei campi, teneva
lontana, disdegnandola, la presenza maschile. Molti hanno voluto
possederla: i Satiri, i Pan, Sileno e anche Priapo. L’unico che col
suo amore li sconfisse fu Vertumno.
Egli
poteva trasformarsi in mietitore, raccoglitore di frutti, soldato -
se avesse recato con sè una spada - oppure pescatore - se avesse
portato con sè una canna. Un giorno si finse una vecchia ed entrando
nei frutteti ben curati ne ammirò i frutti e iniziò a tessere le
lodi di Pomona - autrice di tanta bellezza – e le diede dei baci
che una vecchietta non avrebbe mai dato. Presso i due si ergeva un
olmo sul quale poggiavano floridi grappoli d’uva. Vertumno-vecchia
allora disse: “se il tronco fosse solitario, senza la vite, non
avrebbe motivo di attirarci a parte le fronde; lo stesso vale per la
vite che se non si poggiasse sull’olmo con fiducia e non fosse a
lui accoppiata crescerebbe distesa al suolo. L’esempio di
quest’albero non ti persuade dato che continui a fuggire da chi
vuole congiungersi a te. Mille sono gli uomini che ti desiderano:
dèi, semidei e tutte le divinità che abitano i Colli Albani. Se
vuoi sposarti bene dammi retta ! Io sono vecchia ma ti amo più di
quanto credi ! Non sposare il primo che passa e sposa Vertumno. Lo
conosco meglio di quanto egli conosce sè stesso e posso assicurarti
che abita questi vasti luoghi e non si brucia d’amore per una donna
appena vista: sarai tu il suo unico desiderio e a te sola consacrerà
i suoi anni. Egli ha dalla natura il dono della bellezza e può
trasformarsi in qualunque cosa, anche se tu gli chiederai
l’impossibile. Inoltre avete passioni in comune: egli riceve i
frutti che tu coltivi e felice con la sua destra porta i tuoi doni;
egli desidera le stesse cose che desideri tu. Abbi quindi pietà per
lui che si strugge e supponi che ciò che egli brama te lo chieda qui
e adesso con la mia bocca. Abbi inoltre timore delle vendette dei
numi: di Venere che odia i cuori insensibili e della dea Nemesi, la
cui ira nulla dimentica.”.
La
vecchia iniziò dunque a raccontare a Pomona la storia di Anassarete
e di Ifi per piegarla e intenerirla. La storia racconta di un ragazzo
innamorato della bellissima Anassarete la quale però non ricambia i
suoi sentimenti e lo spinge al suicidio a causa della sua
freddezza. Il giovane sperava che con quel gesto estremo avrebbe
vinto il carattere gelido della donna, nonostante la morte, ma
Anassarete ancora una volta mostrò un cuore senza amore. Venere punì
la ragazza dal cuore di pietra trasformandola interamente in statua.
Con
questo racconto Pomona avrebbe dovuto cedere e innamorarsi di
Vertumno anche per paura di una vendetta di Venere. Concluso il
racconto, il dio si rese conto di aver parlato invano. Riprese dunque
l'aspetto di giovane e apparve alla dea bello come il sole. Egli si
accinse a farle violenza ma non fu necessario: grazie al suo aspetto
la ninfa cadde ai suoi piedi e si innamorò finalmente di lui.
Nell'opera di
Properzio, Vertumno ci parla in prima persona delle sue origini e del
suo mutare. Egli è “Tosco”, ossia è un dio etrusco, e non è
triste per aver lasciato la sua patria fra le battaglie. Ha una gran
folla di fedeli ma non vuole un tempio d'avorio: gli basta
affacciarsi sul Foro di Roma.
Vertumno
discute le false etimologie del suo nome. La prima è che un tempo il
Tevere aveva un altro corso ma un giorno si ritrasse e per questa
diversione del fiume egli fu detto Vertumno. La seconda etimologia
sarebbe da ricondurre al volgere dell'anno, dopo essere state
raccolte, le primizie vengono offerte a Vertumno, per festeggiare il dio. In suo onore l'uva cambia colore sui grappoli e le
spighe si gonfiano. Suoi attributi sono le ciliegie dolci, le prugne
autunnali e le more che rosseggiano durante l'estate. L'innestatore
scioglie il voto al dio offrendogli una corona di pomi prodotti dal
pero innestato a forza.
Tutte
queste però sono menzogne nocive, poichè altra è la causa del suo nome:
egli può assumere qualsiasi forma. Indossando una veste di Coo sarà una donna; con una toga un uomo; con una falce in mano e un covone in testa diventerà mietitore. Un tempo egli fu un bravo soldato; si prestò anche a tagliare l'erba. Egli non ama le risse e di vino non eccede mai ma talvolta
s'inghirlanda il capo – tanto da far pensare che il vino gli sia
salito al cervello. Con la testa cinta da una fascia assume le
sembianze di Bacco e quando ha con sè una cetra quelle di Apollo. Se
va a caccia portandosi appresso i panioni (verghe impaniate che
servono a prendere i pettirossi e altri piccoli uccelli) diventerà un uccellatore divino come Fauno. Egi si muta anche in auriga, pescatore, mercante ambulante, pastore o venditore di cesti di rose. Ciò che però gli riesce meglio è scegliere i doni dell'orto: il cocomero,
la zucca e il cavolo sono i suoi attributi. Non sboccia fiore sui
prati che non languisca in ghirlande che gli ornano la fronte.
Vertumno ci svela finalmente il motivo del suo nome: semplicemente perchè egli si trasforma. Il nome deriva però dalla sua lingua madre, l'etrusco.
A Roma questo nome è giunto attraverso il Vico Etrusco. Nei versi finali il dio benedice Roma e capiamo che a parlare è un'iscrizione – è
una statua del dio esposta nella città. Prima delle regolamentazioni dei culti attuate da Numa Pompilio, una sua statua di legno era stata portata dall'Etruria ma, grazie all'artista Mamurio, fu realizzata una statua in più nobile bronzo. Vertumno elogia lo scultore che lo
ha fuso in tante e differenti figure dicendo “nonostante sia una
sola, l'opera riscuote tanti onori”.
Il
Calvesi ci spiega che sono ben cinque i trionfi che introducono a Venere “physizoa”: i primi quattro (di Europa, Leda, Danae
e Semele) celebrano gli altrettanti amori di Giove, mentre il quinto,
(di Vertumno e Pomona) è trattato a parte.
Venere
“physizoa” è dea dell'amore e della terra nonchè immagine della terra stessa. Il trionfo di Vertumno e Pomona è il trionfo dei prodotti della terra. Ciò è confermato da una scritta su un
cartello, issato da una ninfa che promette ai cultori delle due
divinità “salute, forza, caste delizie e beata tranquillità
d'animo”. Nel prato si trova un'ara scolpita con, ai quattro lati,
le figurazioni delle quattro stagioni (Flora, Cerere, Bacco e Giove
Pluvio). Su quest'ara, tra quattro “pali” sorreggenti una
cupola floreale, si erge Priapo per il quale viene immolato un
asinello.
Questi
riti che il Colonna descrive potrebbero ricordare le “Palilia”
che proprio l'accademia di Pomponio Leto riporta in auge:
l'insistenza nel testo della parola “pali” non sarebbe
altro che un'assonanza con le feste delle Palilia. I festeggiamenti
consistevano in riti agresti e nel sacrificio di un cavallo nella
ricorrenza del Natale di Roma, cosa che darebbe maggior significato
al sacrificio dell'asinello legato a Priapo.
Probabilmente esiste un'altra assonanza tra la festa di Pales, dea dei pastori - nominata nell'Arcadia del Sannazaro accanto a Vertumno, Pomona e Priapo – e descritta come circondata di satiri,
ghirlande e ninfe (esattamente come la Pomona dell'Hypnerotomachia). Le dee praticamente si equivalgono: una produce “lieti paschi” e l'altra
“non solo gli alberi, ma tutte le piante e i verdi prati”.
La clessidra che si trova ai piedi di Pomona è probabilmente il simbolo del tempo necessario affinchè i frutti, cui essa provvede, maturino. Le stagioni raffigurate sull'ara sarebbero da collegare al fatto che Vertumno nelle Elegie sia così chiamato per il volgere dell'anno e delle stagioni. Properzio però afferma anche che egli è
simbolo del fiume Tevere: ciò potrebbe rimandare a Roma (celebrata attraverso Pales) e al Lazio (con Venere da cui discese Enea). Le feste delle Palila e la dea Pales, da assimilare a Pomona e alle cerimonie in suo onore, rimanderebbero anche per assonanza a
Palestrina.
Nei
primi vent'anni del XVI secolo la villa medicea di Poggio a Caiano
subisce importanti interventi decorativi, così come progettò
Lorenzo il Magnifico negli ultimi anni della sua vita. I lavori si
dovettero fermare a causa della morte del Magnifico (avvenuta nel 1492) e nel 1494 dopo l'esilio di Piero de' Medici e della sua famiglia. Tra il 1495 e il 1513 i lavori subirono un arresto dovuto all'instaurarsi
di un governo ostile alla famiglia e al disinteresse per ciò che
Lorenzo promosse e creò.
Nel lato
breve - che guarda verso Firenze - del salone centrale della villa di Poggio a Caiano si trova una lunetta affrescata da Jacopo da Pontormo. Essa gli fu commissionata nel 1521 da Ottaviano de' Medici, cugino di Leone X, il quale lo incaricò di tradurre in un linguaggio più accessibile il programma allegorico stilato dal dotto Paolo Giovio per la famiglia Medici tornata in patria nel 1512 dopo l'esilio. Giovio voleva ribadire la legittimità della restaurazione medicea dopo l'assenza quasi ventennale. Il tema simbolico del rinnovarsi della buona stagione legata alla fioritura e al raccolto dei campi è un concetto allegorico ben descritto dalla lunetta di
Pontormo.
La ciclicità del tempo segna anche il rinnovamento della stirpe Medicea nell'affresco simboleggiato dall'alloro (associato a Lorenzo
il Magnifico) che torna a germogliare sul tronco antico e secco,
custodito dalle divinità protettrici del lavoro nei campi.
L'intitolazione
della lunetta a Vertumno è ribadita da un passo dalle Vite in cui
il Vasari si esprime sull'affresco pontormesco. “[...]Onde avendo a fare un Vertunno con i suoi agricultori fece un villano che siede con un pennato in mano, tanto bello e ben fatto, che è cosa rarissima,
como anco sono certi putti che vi sono, oltre ogni credenza vivi e naturali. Dall'altra banda, facendo Pomona e Diana con altre dee, le avviluppò do panni forse troppo pienamente, nondimeno tutta l'opera
è bella e molto lodata”.
La prima edizione delle Vite è completata nel 1550 ed è l'unica fonte attendibile relativa all'esecuzione della lunetta ,
completata intorno al 1525. É impossibile che Vasari non conoscesse il messaggio cifrato
allusivo contenuto nella scena mitologica affrescata da Pontormo a conclusione del programma iconografico di Giovio. Vasari però si concentra a descrivere più la qualità artistica
dell'esecuzione che il contenuto concettuale.
La composizione della lunetta si articola in una serie di figure arditamente scorciate poggianti su due gradoni - divise in due gruppi dall'apertura luminosa di forma rotonda che determina forzatamente la composizione. Sulla destra Pomona, raffigurata con il falcetto in mano, rappresenta la primavera medicea e introduce lo spettatore
nell'hortus
conclusus. Essa è
seguita da una figura allungata in una posa quanto mai
michelangiolesca: ossia l'Estate. All'altro capo della lunetta si trovano due divinità maschili: il giovane Autunno e il vecchio Vertumno, quest'ultimo accompagnato dal cane.
Dopo i restauri è stata rinvenuta, proprio sotto la figura del vecchio, la scritta “PAN”. Ciò rafforza l'ipotesi di una composizione dal
significato criptico ed esoterico, legata alle infinite metamorfosi della natura e dei suoi cambiamenti. In questa composizione Pan giunge a identificarsi con Vertumno, dio che impersonava i mutamenti delle
stagioni e che con Pomona era da considerarsi protettore dei frutti.
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fig. 2. Pontormo, Vertumno e Pomona, Poggio a CaianoCortesia Wikipedia, public domain image
(http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Pontormo,_Jacopo_-_Vertumnus_and_Pomona_-_1519-21.jpg)
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NOTE
BIBLIOGRAFIA
Ovidio,
Le Metamorfosi, a cura di E. Oddone, Milano 1994
Sesto
Properzio, Elegie, testo latino e traduzione in versi
italiani di G. Lipparini, Bologna 1956
Calvesi
M., Il sogno di Polifilo prenestino, Roma 1980
Medri
L.M., Jacopo Pontormo “Vertumno e Pomona” di Poggio a Caiano,
in Pontormo a Poggio a Caiano, 1995, pp.7-15
Fabbri
M.C., La genesi grafica di “Vertumno e Pomona”, in
Pontormo a Poggio a Caiano,1995, pp. 38-41.
Vedi nel BTA:
LE XILOGRAFIE DELL'HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI
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