Sono
sempre stato molto attratto dalla performance, momento effimero e
irripetibile, a tal punto da intraprendere un percorso di studi
dedicato alle Arti e alle Scienze dello Spettacolo presso
l’Università degli Studi di Roma “Sapienza”. E sono sempre
stato molto attratto anche dall’abito, e in particolare dall’idea
che esso possa dirci molto su chi lo indossa, dall’idea che esso
non sia solo apparenza, ma anche e forse soprattutto essenza,
sostanza, tanto da avvicinarmi al mondo della sartoria civile.
Interessi, quelli per il teatro e per l’abito, che vanno
armoniosamente a collidere in quello per il costume di scena, e che
mi hanno spinto a frequentare il Corso di formazione per sarte/i
dello spettacolo dell’ “Accademia del Teatro alla Scala” di
Milano.
È
soprattutto quest’ultima esperienza che ha sancito l’amore che
provo per l’abito teatrale, permettendomi di vedere, di toccare con
mano tutto il mondo che vi sta dietro, dalla fase di preparazione e
confezione a quella di manutenzione e conservazione. Momento,
quest’ultimo, approfondito durante un periodo di tirocinio
formativo all’interno del Magazzino costumi del Teatro alla Scala,
presso i Laboratori-atelier Ansaldo. Potete immaginare il mio stupore
nel trovarmi di fronte a una quantità tale di armadi, tutti pieni di
costumi per opera e balletto, ideati, creati e poi indossati da
artisti di cui avevo tanto sentito parlare durante i miei studi. Non
vedevo l’ora di aprire quegli armadi per interrogarli uno a uno.
Sì, perché come mi ha insegnato Rita Citterio, Responsabile del
Magazzino, nonché mia tutor durante quest’esperienza, i costumi
conservati negli armadi hanno tanto da dire, basta saperli capire,
parlare la loro stessa lingua. Testimonianza preziosa, quei costumi
erano allora la porta di accesso a un mondo ormai scomparso, al mondo
evanescente della performance, e Rita la persona che mi avrebbe
potuto aiutare ad aprire quella porta …
E il progetto della mia Tesi di Laurea triennale, sviluppato sotto la supervisione della prof. Paola Quarenghi, nasce proprio durante questo periodo trascorso all’interno del Magazzino costumi del Teatro alla Scala di Milano, tra ottobre e novembre dell’anno appena trascorso.
Qui
ho avuto modo di studiare da vicino tutto il patrimonio costumistico
di cui dispone uno dei teatri più famosi al mondo: circa 60.000
costumi, custoditi in 1400 armadi e appartenenti in media a 280
allestimenti, dal 1911 a oggi, che il personale del Magazzino si
occupa ogni giorno di conservare e catalogare.
Ed
è stata proprio Rita Citterio a parlarmi di qualche decina di
costumi da lei rinvenuta per caso, costumi mai catalogati, non
identificati, come non identificata era la messa in scena per cui
erano stati creati.
È
così che è nata l’idea di cercare di raccogliere quante più
informazioni possibili riguardo lo spettacolo per cui questi costumi
erano stati confezionati, di tentare di riscostruire una messa in
scena di cui poco o niente rimaneva, intervistando i costumi, in
particolare attraverso un’operazione di catalogazione, svolta con
l’aiuto di una documentazione che di questi costumi parlava.
Con
tale scritto si è inteso in effetti dimostrare il prezioso
contributo che porterebbe agli studi sulla performance l’analisi
del costume per lo spettacolo, purtroppo ancora eccessivamente
trascurato.
E
nel primo capitolo, abbiamo voluto proprio affermare il valore
comunicativo dell’abbigliamento, come dimostrato da diversi studi
di psicologia della comunicazione (Sisson
e Goffman),
mettendo poi in evidenza la scarsa considerazione di cui gode negli
studi sulla performance il costume di scena, abito appositamente
pensato per la trasmissione di informazioni allo spettatore,
chiedendoci quanto possa essere raccontato da ciò che rimane di uno
spettacolo, ossia da tutti quei materiali che assumono una vita
autonoma dopo la fine di quest’ultimo. E, più precisamente, se il
costume sia in grado di divenire testimonianza efficace di una messa
in scena e, quindi, strumento utile al servizio degli studi sulla
performance.
Prima
di addentrarci nel vivo della ricerca sui costumi sconosciuti, si è
fornito nel secondo capitolo una breve descrizione di quelle che sono
le pratiche conservative di base valide per tutti i tipi di capi
d’abbigliamento, e quindi anche per i costumi di scena, ricordando
quelli che sono i principali fattori che possono danneggiare più o
meno gravemente questo tipo di manufatti (luce, umidità,
temperatura, parassiti e inquinamento atmosferico), per poi dare
alcune informazioni generali circa il sistema di catalogazione
attualmente in vigore per gli abiti antichi e moderni: abbiamo
parlato quindi della scheda VeAC, sistema di catalogazione specifico
per abiti e vestimenti antichi e moderni, recentemente introdotto nel
sistema museale italiano, mettendone però in evidenza
l’inadeguatezza ai fini della nostra analisi e presentando una
scheda creata ex
novo
e poi utilizzata per la catalogazione dei costumi rinvenuti.
Se
è vero infatti che la scheda VeAC ha permesso all’abito storico di
entrare, finalmente, a far parte del patrimonio artistico e culturale
del nostro Paese e di essere conservato come tale, abbiamo
evidenziato come essa possa però funzionare solo nel caso specifico
di un abito storico, creato tra il XVIII secolo e i giorni nostri,
che verrà inserito nell’archivio ministeriale: catalogare con tale
scheda un costume di scena significherebbe perdere informazioni
importanti, in particolare quelle che lo legano a doppio filo con lo
spettacolo per cui è stato ideato e confezionato.
A
oggi quindi, non esiste ancora una vera e propria scheda per la
catalogazione del costume di scena, né tantomeno ne esiste una per
la catalogazione del costume di scena storico (ossia un costume di
scena che, come nel nostro caso, abbia superato i 50 anni di vita, e
che pertanto non sarà più utilizzato in scena), che sia
riconosciuta dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e
utilizzata dagli enti statali o privati, i quali ricorrono a schede
create appunto ex
novo
per la catalogazione del loro patrimonio.
Nell’attesa
che sia creata un’adeguata scheda di catalogazione del costume di
scena, si è creduto allora fosse necessario ai fini della ricerca
ideare una nostra scheda di catalogazione, un modello descrittivo che
raccogliesse in modo molto semplice e organizzato le informazioni sul
bene preso in esame e che presentiamo nelle pagine seguenti.
Parte
1: informazioni costume
completo (tutto quello
che ne rimane)
TIPO DI
SPETTACOLO
|
Opera/Balletto
|
TITOLO
|
Titolo
dello spettacolo
|
COMPOSITORE
|
Nome e
Cognome del Compositore
|
ANNO/STAGIONE
|
Anno/Stagione
dello Spettacolo
|
REGIA/COREOGRAFIA
|
Nome e
Cognome del Regista/Coreografo
|
COSTUMI
|
Nome e
Cognome del Costumista
|
SCENE
|
Nome e
Cognome dello Scenografo
|
COMPONENTI
A DISPOSIZIONE
|
Numero
delle componenti
|
Foto
costume completo davanti (tutto quello che ne rimane)
|
Foto
costume completo dietro
(se
necessario, ossia se ci sono ragioni per mostrare il retro del
costume o di ciò che ne rimane)
|
Foto
indicazioni di riconoscimento (Etichetta, Timbro, Numero, ecc.)
|
1
Foto Componente
(se le
componenti disponibili sono più di una, si procederà nel
medesimo modo)
|
PERSONAGGIO
|
Nome del
personaggio
|
INTERPRETE
|
Nome e
Cognome dell’interprete
|
ATTO/SCENA
|
Atto/Scena
in cui compare il costume
|
REALIZZAZIONE
|
Nome
della Sartoria che ha confezionato il costume
|
DESCRIZIONE
COSTUME
|
Descrizione
completa del costume o di ciò che ne rimane
|
GENERE
|
Genere
Maschile o Femminile del costume
|
FONTI/DOCUMENTI
DI RIFERIMENTO
|
Qualsiasi
documentazione di riferimento riguardante il costume utile alla
sua identificazione
|
STATO DI
CONSERVAZIONE
|
Ottimo,
Buono, Discreto, Pessimo
|
UBICAZIONE
|
Da
definire
|
NOTE
|
Ulteriori
informazioni utili sul costume
|
Parte 2: ulteriori informazioni
sulle singole
componenti del costume
o altro
1
Foto Componente o Altro
(se le
componenti interessate sono più di una, si procederà nel
medesimo modo)
|
Foto
indicazioni di riconoscimento (Etichetta, Timbro, Numero, ecc.) o
Altro
|
Ulteriori
informazioni utili sul singolo componente del costume o Altro
|
COMPILATORE
|
Nome e
Cognome di chi ha compilato la scheda
|
DATA DELLA
COMPILAZIONE
|
Giorno/Mese/Anno
della compilazione
|
Come
si vede, la scheda progettata risulta divisa in due parti: mentre la
prima raccoglie informazioni riguardo il costume completo di ogni sua
parte, la seconda raccoglie le eventuali ulteriori informazioni circa
le singole componenti del costume e qualsiasi altra informazione
utile. Si è scelto di operare questa divisione nel caso, in realtà
molto più frequente di quanto ci si aspetti, che le informazioni
relative alle singole parti del costume differiscano da quelle
generali del costume completo e fosse necessaria la registrazione di
ulteriori informazioni utili (si pensi per esempio a un costume con
cappello: quest’ultimo presenterà quasi sicuramente un’etichetta
diversa e quindi un differente confezionatore rispetto alle altri
componenti del costume).
La
prima parte della scheda risulta composta di quattro tabelle, due
orizzontali da compilare in forma scritta e due, tra queste
interposte, verticali, da riempire con documenti di tipo fotografico
.
La
prima tabella orizzontale va a raccogliere quelle che sono le
generalità della messa in scena per cui è stato confezionato il
costume che viene catalogato.
Le
successive tabelle verticali raccolgono invece documenti fotografici
riguardanti il costume. In particolare si inseriranno in quella di
destra fotografie del costume completo davanti e dietro, e sotto di
esse la foto di segni di riconoscimento interni al costume, come
etichette, timbri, numeri; in quella di destra invece, dopo aver
specificato il numero delle parti di cui si compone il costume,
saranno inserite le fotografie delle singole componenti del costume.
L’ultima
tabella della prima parte della scheda di catalogazione è dedicata
alla raccolta di generalità riguardanti il costume.
Nella
seconda parte si vanno invece a raccogliere eventuali ulteriori
informazioni di qualsiasi sorta riguardo le singole componenti del
costume o altre indicazioni generali.
Dopo
aver presentato lo strumento con cui si è svolta la catalogazione
dei costumi, abbiamo raccontato nei successivi capitoli come
l’intervista ai costumi di scena si sia effettivamente sviluppata.
Tutto
ha preso avvio controllando le etichette cucite al loro interno, le etichette originali. Diciamo originali perché ogni qual
volta i costumi di uno spettacolo sono riutilizzati per nuove
produzioni teatrali o per successive stagioni della stessa
produzione, viene applicata su di essi una nuova etichetta.
Un’etichetta per ogni stagione teatrale insomma. Nel caso di
etichette successive, queste ultime vengono di solito sovrapposte a
quelle originali, che non vengono quasi mai rimosse, in modo da poter
sempre risalire alla primissima messa in scena, quella per cui quei
costumi sono stati pensati e confezionati.
Le
etichette originali sui costumi trovati da Rita ci hanno dato
importanti informazioni e permesso di procedere nella ricerca:
riportavano infatti il nome della sartoria che li aveva confezionati, un numero, il nome dello spettacolo, quello del personaggio,
il quadro dello spettacolo in cui veniva indossato e, talvolta, anche
il cognome dell’artista, almeno di quelli principali, come i
solisti.
Quelle
rimaste cucite sui costumi e ancora leggibili ci hanno rivelato che erano stati confezionati dalla “Casa d’arte Caramba”
di Milano per il balletto Coppelia.
E in effetti, consultando la cronologia degli spettacoli del Teatro
alla Scala stilata dal Tintori,
una messa in scena del balletto Coppelia
con costumi di Caramba c’è stata, e precisamente durante la
stagione teatrale del 1936/37. Il numero, come suggerito da Rita,
faceva invece riferimento a un elenco, un elenco di costumi posseduti
dalla Scala e presenti nel Magazzino negli anni di quella messa in
scena.
L’elenco
in questione, organizzato per spettacolo, riportava il numero degli
esemplari per ogni costume, il nome del personaggio/i che indossavano
quel costume, il numero di riferimento appunto, una descrizione
dettagliata del costume/i e, infine, ulteriori osservazioni utili
riguardo il costume/i.
Attraverso
le etichette originali cucite al loro interno è
stato quindi possibile risalire alla messa in scena per la quale
erano stati confezionati: si trattava della rappresentazione del
balletto Coppelia,
durante la stagione teatrale del 1936/37, come confermato dalla
cronologia degli spettacoli scaligeri redatta dal Tintori. La
consultazione di quest’ultima, insieme a quella della locandina
dello spettacolo recuperata dall’Archivio del Museo teatrale alla
Scala, ha reso poi possibile ricavare ulteriori informazioni circa la
messa in scena in questione: il balletto seguiva la rappresentazione
dell’opera L’amico
Fritz,
secondo l’abitudine di abbinare a un’opera un balletto; il ruolo
di Swanilda (Coppelia), la protagonista del balletto, era
interpretato da Nives Poli, coreografia e regia erano di Margherita
Wallmann, le scenografie di Roberto Kautsky e dipinte da Nicola
Benois, i costumi infine confezionati dalla Casa d’Arte Caramba, su
bozzetti di Caramba, appunto, per la Ciarda, e Titina Rota per tutti
gli altri.
L’elenco
dei costumi si è invece rivelato utile per quanto riguarda quei
costumi non identificati, ossia privi di etichetta originale.
Consultando infatti le descrizioni riportate sull’elenco,
è stato infatti possibile capire quali tra questi costumi facessero
o meno parte del balletto.
Utili
in tal senso anche i bozzetti originali dei costumi e alcune
cartoline fotografiche d’epoca che ritraevano i protagonisti del
balletto in costume.
Dopo
la fase di catalogazione, svolta con la scheda presentata nelle
pagine precedenti, attraverso cui è stato possibile riconoscere e
analizzare ogni singolo costume rinvenuto, abbiamo potuto procedere
con l’effettivo tentativo di ricostruzione della messa in scena in
questione.
Tale
tentativo si è svolto negli ultimi capitoli dello scritto, a partire
dal confronto tra la versione originale del balletto, quella del 1870
e, appunto, la versione della Wallmann, di cui sono state rinvenute
anche le foto delle scenografie dei tre quadri nel numero di
gennaio-febbraio del 1937 della rivista bimestrale d’arte “Rassegna
dell’Istruzione Artistica” .
Dopo
aver riportato informazioni generali circa la versione ottocentesca e
indicazioni sulle versioni scaligere successive, si sono innanzitutto
messe in evidenza le principali differenze relative alla trama del
balletto (con l’aiuto del libretto di sala originale dello
spettacolo scaligero), allargando poi il discorso alla scansione
delle danze in esso contenute (servendoci di nuovo delle indicazioni
forniteci dal registro dei costumi del magazzino, già impiegato
nella fase di catalogazione).
Per
quanto riguarda la trama delle due versioni, si sono segnalate due
differenze. Se nella versione originale, nel primo atto Swanilda
porge a Frantz una spiga, simbolo di buon auspicio per le nozze, ma
non ne sente il tintinnio, segno d’amore secondo la superstizione,
nella versione della Wallmann Swanilda, per provare l’amore di
Frantz, si pone invece a sfogliare una margherita (come Giselle),
sempre con responso negativo. E ancora: se nell’epilogo della
versione ottocentesca, insieme alle nozze di Swanilda e Frantz, si
festeggia anche la nuova campana del villaggio, con un’ultima,
breve apparizione di Coppelius, nella versione più recente non viene
inaugurata nessuna campana e si festeggiano le nozze di ben cinque
coppie di sposi (non solo quelle di Swnilda e Frantz), e Coppelius
non solo compare, ma fa di più: pentitosi di aver cercato di far
del male a Frantz, offre in dono ai due sposini un suo giocattolo
meccanico.
Il
libretto di sala della versione scaligera ci ha parlato quindi di una
margherita, non di una spiga, e ci anche detto che la vicenda si
conclude con i festeggiamenti per le nozze di cinque coppie di
fidanzati, non con l’inaugurazione di una campana. Si tratta di
constatazioni che ci hanno portato a ipotizzare soluzioni circa la
struttura del balletto del 1937. Osservando la scansione delle danze
originaria, abbiamo infatti supposto che lo spettacolo della Wallmann
non comprendesse la Ballata della spiga al primo quadro, né
tantomeno la Marcia della campana a conclusione del secondo. In linea
con le versioni più recenti e rinnovate del balletto degli anni ’60
e ’70 alla Scala (Danilova e Martinez), che tagliano o
sostituiscono le scene pantomimiche del primo atto, anche quella del
1937 omette, o meglio, sostituisce la scena della Ballata della
spiga, nel nostro caso con quella della margherita, anticipando
scelte coreografiche di molto successive.
Anche
il registro dei costumi, già rivelatosi molto utile nella
compilazione delle schede di catalogazione, ci ha fornito in questo
senso preziose informazioni. Come già detto, nel registro erano
elencati i costumi che dovevano comparire nello spettacolo scaligero.
Consultandolo
durante la fase di catalogazione, ci siamo infatti resi conto di un
importantissimo aspetto: i costumi erano elencati, e quindi numerati,
in base al rispettivo quadro di appartenenza, tesi confermata dalle
indicazioni riportate sulle etichette originali dei costumi
catalogati. Venivano quindi prima riportati quei costumi che
comparivano nel primo quadro (dal N.1 al N.133: gruppi di costumi
per le danze collettive e costumi di singoli abitanti del villaggio),
poi quelli del secondo quadro (dal N.134 al N.160: costumi per gli
automi del laboratorio di Coppelius), e infine quelli del terzo (dal
N.161 al N.233: costumi per la celebrazione del matrimonio finale).
Si tratta di un aspetto che ci ha consentito di scoprire quali
fossero i personaggi presenti nel balletto del 1937 e la loro
collocazione nei rispettivi quadri all’interno dello spettacolo.
Il
registro dei costumi ci ha poi detto di più, molto di più. La
scansione originale del balletto del 1870 prevede un ultimo atto in
cui la festa della campana si svolge in tutto con sette
divertissements:
il Valzer dello Ore, l’Aurora, la Preghiera, il Lavoro, l’Imeneo
e ancora la Discordia, la Guerra e infine la Pace. Il tutto sfocia in
una Danza di festa, che si conclude, come vuole la tradizione, col
Galop finale. Ma il registro riportava soltanto i 24 costumi per il
Valzer: quelli per le figure allegoriche non comparivano. Si è
pertanto supposto che il terzo quadro del balletto della Wallmann
fosse una versione ridotta del terzo atto originale, ipotesi
confermata dal libretto di sala dello spettacolo, che non ci ha
affatto parlato delle allegorie in questione, ma solo della festa
danzante per il matrimonio dei due giovani. D’altronde, come già
detto, molte delle coreografie successive a quella ottocentesca
optano per l’eliminazione completa del terzo atto: non ci ha
stupito quindi che la Wallmann, scegliendo di scandire il balletto in
tre quadri, come l’originale, abbia però preferito farne una
versione ridimensionata (non va dimenticato che il balletto, come da
consuetudine al tempo, seguiva la rappresentazione di un’opera, in
questo caso specifico L’Amico
Fritz:
la scelta di tagliare il terzo atto e quindi i tempi dello spettacolo
potrebbe quindi essere stata motivata dalla necessità di non
appesantire troppo la visione da parte del pubblico scaligero).
Dopo
aver ricavato informazioni su quella che doveva essere la struttura
della messa in scena, siamo passati a prendere in considerazione
l’aspetto visivo dello spettacolo.
Le
foto che riportiamo nella pagina seguente ci hanno detto circa le
soluzioni scenografiche adottate nel balletto : esse ci hanno
suggerito una possibile influenza subita da parte delle Avanguardie
del Novecento, e in particolare dall’Espressionismo tedesco e dal
Costruttivismo russo.
|
Fig.1 - I
quadro: la piazza del villaggio
|
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Fig.2 - II quadro: il laboratorio del dottor Coppelius
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Fig.3 - III quadro: la piazza davanti alla chiesa del villaggio
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Per
il primo quadro e il terzo, quello che si svolge nelle piazza del
villaggio, la versione della Wallmann pare aver optato per stilemi
espressionistici di matrice germanica, con scene che sembrano quasi
fiabesche, uscite da un libro per bambini.
Le
case del primo quadro, e in particolare quelle sul fondo, come anche
la chiesa del terzo, caratterizzate da un certo verticalismo e da una
pronunciata asimmetria, sembrano rispettare il principio deformante
tipico della scenografia espressionista.
E
d’altronde il soggetto del balletto Coppelia
affonda le sue radici in uno dei più intriganti racconti del
romantico E.T.A. Hoffmann (Der
Sandmann)
assai consono a un certo immaginario dei tempi, giacché
l’espressionismo aveva largamente attinto al gusto romantico per
l’animazione degli oggetti e in genere al dualismo tra la realtà e
la sua copia perfetta, tra il vero e il verosimile, tra il soggetto e
il suo doppio. Ma c’è di più. L’automa o la marionetta, l’uomo
cioè ridotto a macchina, si prestava all’epoca a esercitare un
grande fascino intellettuale, in quanto leggibile in modo
contraddittorio. Se da un lato, infatti, la paura del mondo delle
macchine, avvertito come disumano, freddo e dalle forze ormai
minacciosamente soverchianti quelle dell’individuo, aveva dominato
il primo espressionismo ed era stata poi ripresa e amplificata negli
anni ’20 dal cinema; dall’altro lato, invece, una diversa
temperie artistica, anch’essa assai diffusa nella Germania degli
anni ’20 (si pensi al Bauhaus, ma anche a Hausmann e a Grosz),
guardava positivamente alla macchina e alla marionetta, ispirata dai
manichini di De Chirico e dagli stessi futuristi, unica avanguardia
che idolatrò assai precocemente la macchina.
E
sull’esempio delle costruzioni ritmiche e dinamiche futuriste,
nacquero le applicazioni teatrali del costruttivismo, che ci sono
sembrate invece aver influenzato in qualche modo la scenografia del
secondo quadro di questa versione del balletto: sulla scena del
secondo quadro della Wallmann compaiono pedane e piedistalli pieni di
automi, una modernissima sfera al plasma a toccare quasi il soffitto,
e un pendolo mosso da grandi ingranaggi.
Influenza
che la Wallmann sembrerebbe non negare affatto, anzi:
I
russi avevano invaso anche il mondo del teatro. Grazie alla
conoscenza della loro lingua acquisita durante i corsi di danza,
potei seguire il teatro intensamente espressivo, sebbene
tradizionale, di Stanislavskij. Ma ciò che mi aveva maggiormente
colpito e di cui oggi conservo il ricordo più vivo, era il teatro
radicalmente rivoluzionario di Mejerchol’d, di Vachtangov e di
Tairov, e la compagnia ebraica Habima col Dibbuk di An-Ski.
Oltre ai russi, anche altri registi si allontanarono dal realismo per intraprendere percorsi originali verso la riteatralizzazione della scena. Uno di questi è l’austriaco Max
Reinhardt, col quale la Wallmann collabora direttamente per la
realizzazione di alcune opere al Festival di Salisburgo.
Distaccandosi dalla poetica naturalista, Reinhardt cercò di
riscoprire il versante ludico e gioioso della creazione artistica,
restituendo alla recitazione il senso di finzione. Secondo la sua
idea di teatro, l’attore ha il compito di trasportarci in una sfera
fantastica di illusioni che non fingono di essere realtà, ma che
della realtà rivelano la magica essenza. Sensibile all’immediatezza
comunicativa del circo, come alla spettacolarità fastosa del teatro
barocco, Reinhardt accentuò il lato spettacolare, gioioso e
fantastico del teatro.
I costumi di Coppelia ci sono sembrati suggerire una messa in scena di questo tipo: giocosa, festosa, variopinta, fantasiosa, e allo stesso tempo finta, artificiosa, anti-illusionistica, riteatralizzante. Uno spettacolo
che molto, come confermato dalla stessa Wallmann, molto deve aver
risentito dell’influenza rinnovatrice delle avanguardie dell’inizio
del Novecento.
Avanguardie
che grazie alle suggestioni legate allo sviluppo delle arti visive
propongono una visione innovativa del rapporto fra attore e
personaggio: il corpo in scena diventa innanzitutto un insieme di
volumetria e dinamismo, che si intrecciano e si combinano a formare
il tessuto dello spettacolo. L’espressività si affranca così dal
principio mimetico per divenire valore intrinseco, segno di libertà
assoluta e non più di scelta di un repertorio codificato.
Si
tratta di un percorso analogo a quello compiuto dalla danza moderna
rispetto al balletto accademico. Non a caso, nei primi due decenni
del Novecento assistiamo a fertili contaminazioni fra recitazione,
danza e pantomima.
Pensiamo
ai balletti russi di Diaghilev e a quelli svedesi di de Maré, che
rinnovarono il linguaggio teatrale portando una fantasmagoria di
colori, fantasiose geometrie e ritmi moderni, liberando la scena
dall’aderenza alla realtà e dal principio della vero-somiglianza
per schiudere un mondo fantastico di forme e suoni:
[…]
Non per questo trascuravo la danza. Erano, quelle, le estreme
stagioni della compagnia di Diaghilev, nel cui alveo erano sbocciati
due nuovi astri: il giovane Serge Lifar e il coreografo George
Balanchine. Però il mio entusiasmo fu suscitato soprattutto dai
Balletti Svedesi, creati dal mecenate Rolf de Maré e diretti dal
primo ballerino e coreografo Jean Börlin: presentavano creazioni su
musiche contemporanee, con allestimenti di avanguardia. Vi
affioravano i nomi di Debussy, Leger, Pirandello, Casella, Milhaud,
Honegger, Erik Satie, Picabia, Cocteau, René Clair, Ingelbrecht,
Bonnard, Steinlen, Foujita. Non mi lasciavo sfuggire una sola
rappresentazione. Inconsciamente, subivo un’influenza che mi
avrebbe accompagnata per sempre.
E
crediamo sia i balletti russi che quelli svedesi abbiano
effettivamente influito sulla messa in scena di Coppelia.
A dircelo, per quanto riguarda i balletti di Diaghilev, sono stati
nuovamente i costumi: taglio, colori e decorazioni geometriche ci
hanno parlato di quest’influenza. A dirci invece circa l’influsso
dei balletti svedesi sono state le scenografie di Coppelia,
e in particolare quelle del primo e terzo quadro, di stampo
espressionistico come abbiamo detto. Perché l’arte scenica dei
Ballets Suédois fu spesso fortemente simbolica ed espressionista,
giungendo al culmine in opere come El
Greco,
Maison
de fous
e Skatin
Rink.
“Il
balletto diventa sempre più espressivo”
spiegò in un’intervista Börlin, che con de Maré voleva qualcosa
di più della pura danza e della padronanza tecnica: volevano dare
espressione a un pensiero, a un’idea: cercavano di interpretare la
profondità dell’anima umana, spesso trascurando l’azione
esteriore. Quello che si sforzavano di fare era raccontare storie
attraverso la danza e la mimica, esattamente come fanno gli attori in
teatro con parole e gesti. Tutto doveva trasmettere un senso, ogni
movimento, ogni fraseggio musicale, ogni immagine scenica … tutto
doveva contribuire a creare la stessa espressività del teatro
parlato. Un tipo di ballo come quello di Mary Wigman, considerata
appunto la fondatrice della danza moderna ed espressionistica, di cui
la Wallmann diventa a Dresda una delle principali allieve e cui
probabilmente la danza dei balletti svedesi si ispirava. Non fa
meraviglia che qualche critico rimproverasse ai balletti svedesi che
la danza in sé fosse così poco rappresentata. “Le
loro produzioni sono qualcosa tra il balletto, la pantomima e una
serie di tableaux vivants”,
spiegò uno di loro sulle pagine dello “Spectator” dopo il
debutto della compagnia nel dicembre del 1920 a Londra. A tal
proposito, alcuni lamentavano che troppo spesso i ballerini erano
costretti da camicie di forza di costumi non funzionali alla danza. E
in effetti anche i costumi di Coppelia
non devono sicuramente essere stati pensati per un balletto
tradizionale: il peso importante della maggior di essi li rende senza
dubbio più adatti a un tipo di danza dove prevalgono i valori mimici
rispetto a quelli ritmici, decisamente più appropriati a una
pantomima che non a un balletto tradizionale. Tant’è che la
locandina originale dello spettacolo, come anche la cronologia del
Tintori, definisce lo spettacolo “Azione Coreografica” e non
balletto, come è invece definita invece la maggior parte delle
versioni di Coppelia.
Definizione che crediamo sarebbe stata apprezzata da de Maré, che
affermava: “Se
solo riuscissimo a trovare una parola da sostituire a ‘balletto’
saremmo molto più soddisfatti. La parola ‘balletto’ non è
abbastanza esauriente per il lavoro che stiamo facendo”.
Ne
viene fuori l’immagine di una messa in scena tutto sommato
innovativa, una versione della Coppelia
rinnovata rispetto alla tradizione, in cui agli influssi delle
avanguardie russe di inizio secolo, si intrecciano quelli dell’appena
nata danza moderna dei balletti svedesi e della Wigman. Non va
infatti dimenticato che la Wallmann era stata chiamata a Milano nel
1937, anno della messa in scena di Coppelia,
proprio per portare il balletto verso nuove esperienze coreografiche.
E sono gli anni questi, in cui dalla Mitteleuropa della danza libera ed espressionista giungono alla Scala anche Max Tarpis, e soprattutto Aurel Milloss, anche lui alle prese con lo stesso balletto nel 1946 (chissà che non abbia riutilizzato proprio alcuni costumi della Coppelia della Wallmann).
Versione
rinnovata, ma pensiamo anche tradizionale. Tradizionale come le danze
folcloristiche del primo quadro, con costumi tradizionali appunto.
Tradizionale perché prima della Wigman, la Wallmann riceve
un’educazione alla danza di tipo accademico, da étoiles
del
balletto dei grandi teatri zaristi, come la Nicholaieva e Madame
Eduardova, che eccelleva proprio nelle danze di carattere.
Coppelia
come contaminazione tra danza accademica e danza moderna quindi. Una
contaminazione che la Wallmann conserverà anche nella sua scuola, e
che, come lei stessa racconta, porterà all’allontanamento
artistico con la Wigman:
Preoccupata
di tutelare l’integrità della sua arte, Mary Wigman non poté
accettare a lungo questi ‘compromessi sacrileghi’, anche se,
molto tempo dopo, avrebbe riconosciuto che le mie vedute erano
motivate. Così, sotto il profilo artistico, giungemmo alla
separazione.
E
chi meglio di Caramba e Titina Rota potevano soddisfare l’esigenza
della Wallmann di unire tradizione e innovazione? La regista e
coreografa li sceglie consapevole della loro esperienza. Sceglie
Caramba per i costumi della Ciarda, una danza di carattere, in abiti
tradizionali appunto, come tradizionali sono quelli che disegna e
confeziona per La
Filanda magiara
(stagione scaligera del 1932/33), conservati anche questi negli
armadi del Magazzino dei costumi del Teatro alla Scala.
Coloratissimi, più ricamati che dipinti, ricordano molto quelli per
la Coppelia.
E
sceglie Titina Rota per la sua ventata di novità e leggerezza e per
il suo modo di leggere la tradizione senza dissacrarla. Lei che,
prima della Coppelia,
ha collaborato proprio con Reinhardt, come la Wallmann, nelle sue
memorabili rappresentazioni shakespeariane (Sogno
di una notte di mezza estate
del 1933 e Il
mercante di Venezia
dell’anno successivo).
Pochi
giorni prima della fine del mio periodo di stage nel Magazzino dei
costumi del Teatro alla Scala, ho deciso di recarmi presso la
Biblioteca Comunale di Milano, in cerca di qualche quotidiano
dell’epoca, con la speranza di trovare articoli di critica teatrale
sulla Coppelia,
che potesse dirmi qualcosa in più riguardo la messa in scena.
Dal
“Corriere dei Teatri” nel “Corriere della Sera” del 15
gennaio 1937, l’edizione del giorno successivo alla prima messa in
scena del balletto, si legge:
[…]
Il non facile assunto di presentare rimodernato ed aggiornato al
pubblico della Scala il ballo Coppelia era, più che d’altri, cura
e fatica della coreografa e regista Margherita Wallmann. La Wallmann,
[…], è in possesso d’un arte e d’un mestiere scaltriti ed atti
a tener buone le due parti in cui si divide, ormai pacificamente, il
pubblico di oggi. Crediamo che nessun altro coreografo simuli con
tanto garbo il dovuto ossequio alla tradizione, e la persuada poi con
maniere come queste a saltar fossi.
Basta
pensare alla disinvoltura con cui la Wallmann, nei primi quadri,
quello della piazza del villaggio in Galizia, scioglie una sequenza
di figure e di scene tipicamente ottocentesche, dalla Mazurca alla
Ciarda, in una sorta di inebriata, e labile, anzi sfuggente fantasia,
dove fioriscono, con non infrequenti reminiscenze di Reinhardt,
alcune delle meno viete formule dell’operetta viennese e del
balletto russo. Non negheremo, peraltro, che questa tendenza
all’asintassi coreografica generi di tanto in tanto almeno un
divertito sospetto di confusione: e che tale sospetto prenda un po’
corpo quando, in pieno terzo ed ultimo quadro - non rappresentato
mai, crediamo, in Italia, e di raro all’estero - la Wallmann
introduce la pur amena macchina del teatrino degli automi. Ma pare
che un attimo di disorientamento possa far anch’esso giuoco, in
questa coreografia da birichinate commesse in sogno. Poiché il
vecchio ballo francese ha subito, su questo palcoscenico, una
trasformazione quasi radicale: prevalendovi ora i valori mimici ai
valori ritmici propri della danza, di ballo è diventato pantomima:
forse non senza soddisfazione del pubblico, che abbiamo sorpreso a
divertirsi soprattutto dinanzi alle bambole, agli automi, ai ruotismi
e alle magie di orologeria del secondo quadro. […]
Si
tratta di una critica dello spettacolo che sembra confermare quanto
suggerito dai costumi e ipotizzato nello scritto e qui raccontato.
Una critica che ci parla di una messa in scena rimodernata e
aggiornata del balletto, ma allo stesso tempo tradizionale: una messa
in scena influenzata da Reinhardt e dal balletto russo, più
pantomima che ballo vero e proprio.
E
scopriamo anche che il dono che Coppelius offre alla coppia di
sposini nell’ultimo quadro è un teatrino di automi. Una macchina
che allora diventa la rappresentazione simbolica di tutta la messa in
scena. La conferma di quella volontà riteatralizzante suggerita dai
costumi. Perché quel teatrino crediamo sia la metafora
dell’artificio teatrale, il dietro dell’orologio. Come se la Wallmann avesse voluto ricordare allo spettatore di trovarsi a teatro, come se lo avesse voluto svegliare alla fine di un sogno fantastico. E allora quel teatrino
racchiude la morale ultima del balletto: niente è come sembra,
l’apparenza inganna, come Coppelia.
Prima
di iniziare la ricerca sui costumi di Coppelia
ci siamo chiesti quanto potesse dirci quello che rimane di uno
spettacolo e, soprattutto, quanto potesse testimoniare il costume, a
che scopo conservarlo e catalogarlo, e se infine potesse
rappresentare uno strumento utile a servizio degli studi sul teatro.
Siamo convinti che le pagine dello scritto forniscano la risposta a queste domande: i costumi di Coppelia e tutti i documenti a essi relativi ci hanno infatti rivelato molto.
Costumi
dimenticati, destinati a scomparire e trovati per caso, ci hanno
raccontato di una messa in scena di cui praticamente nulla rimane.
Hanno consentito in qualche modo di salvare quella messa in scena.
La
paziente ricerca nel Magazzino costumi del Teatro alla Scala è
avvenuta con la consapevolezza che ogni costume è stato parte di un
tutto: si sono così recuperati preziosi e curiosi documenti, come il
registro dei costumi, il libretto di sala, alcune foto di scena,
figurini, cantanti ripresi in posa, etichette originali dei costumi.
E
siamo partiti proprio leggendo questo piccolo pezzo di stoffa
sbiadito cucito all’interno dei costumi: l’etichetta originale.
Le informazioni scritte su di essa ci hanno parlato di uno spettacolo
vecchio di ottant’anni, del balletto Coppelia
andato in scena nel 1937. Con l’aiuto dei documenti a nostra
disposizione, abbiamo quindi catalogato i costumi, trovandone una
collocazione all’interno della messa in scena. Attraverso un
confronto con la versione originale del balletto, è stato poi
possibile ricavare indicazioni circa la struttura delle danze dello
spettacolo scaligero, di cui si sono descritte anche le scenografie.
Una ricerca che ci ha condotto alla formulazione di un’ipotesi di
ricostruzione della messa in scena del balletto, che ha trovato
infine conferme in un articolo di critica teatrale sullo spettacolo.
Testimonianza
concreta di un momento effimero, sfuggente, irripetibile come quello
della performance teatrale, il costume di scena non vive allora solo
sul palcoscenico, durante quel momento, ma anche dopo, una volta che
tale momento si è esaurito, spento. Porta con sé molte storie, la
primigenia è quella dei personaggi ai quali danno vita sulla scena,
e per i quali sono nati, ma molte altre sono le storie che essi
possono narrare, testimonianza d’arte e di vita. Si pensi alla
storia di chi li ha progettati, disegnati, di chi li ha tagliati,
cuciti, dipinti, decorati, alla storia di chi li ha indossati, di chi
li ha lavati, conservati.
Il
costume che sopravvive allo spettacolo è come un reperto
archeologico: inestimabile fonte di interpretazioni, di informazioni
su un mondo ormai scomparso, che può essere solo immaginato. È la
chiave di un preziosissimo scrigno, la porta di un sogno che al
mattino si è già dimenticato.
E
allora siamo certi che esso rappresenti assolutamente uno
strumento utile agli studi di teatro, che invece continuano a
sottovalutare, ancora troppo inconsapevoli dell’importantissimo
contributo che il costume darebbe alla ricerca sulla performance: un
ricchissimo patrimonio di costumi non aspetta altro di essere
intervistato, di fornire la propria testimonianza, di dire la sua.
Anni
di silenzio e buio, di stanze polverose possono fare dimenticare
splendori inimmaginabili, esempi di grande arte e di piccole
manifestazioni quotidiane, fino a che qualcuno, la maggior parte
delle volte per caso, le “scopre”.
E
allora conservare per salvaguardare, catalogare per studiare e
conservare qualcosa destinato a scomparire col tempo.
Per
non perdere quella chiave, per tener aperta la porta di quel sogno e
non dimenticare.
NOTE
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