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Cercando l'«incanto fantastico di colorito»: restauri italiani di monumenti medievali nel XIX secolo  

Eliana Billi
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 26 Ottobre 2014, n. 737
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Quando nella seconda metà dell’Ottocento, sulla scorta di quanto era successo decenni prima in Francia, l’Italia unita decise di restaurare i suoi monumenti medievali, sposò la tendenza allora dominante in Europa del restauro “in stile”. Riportare le architetture dell’Età di mezzo agli assetti delle origini, alle forme e alle cromie con cui erano state concepite fu una sorta di imperativo della conservazione che, forte di una base ideologica che vedeva nei monumenti medievali le nuove glorie nazionali del paese unito, divenne lo strumento principe della restituzione “tangibile” del Medioevo.

L’Italia conosceva poco quel periodo storico nelle sue forme architettoniche e artistiche, ma nell’idea di ritrovarle, di restituirle al paese attraverso i restauri, studiò da vicino molti monumenti fino ad allora ignorati dalle ricerche sul passato.

Fu uno studio complesso ed articolato; se infatti a livello nazionale la rivalutazione culturale e ideologica dell’architettura medievale era la stessa, ciascuna regione andava scegliendo il “suo” Medioevo, quello cioè che nella storia regionale o addirittura locale aveva giocato un ruolo determinante.

Mettendo a confronto aree differenti del paese ci si accorge, infatti, di come la volontà comune di restituire all’Italia un passato glorioso, quello medievale, si sia colorata diversamente in ogni luogo, in relazione a tanti fattori culturali e contingenti. La visione ottocentesca del Medioevo è sfaccettata e il restauro che cerca di ricomporla la sfaccetta anche di più. In questo multiforme Medioevo il colore ha un suo ruolo, diventa sovente strumento della ricostruzione, in virtù del suo riconoscimento come elemento distintivo di quell’epoca.

La storiografia dei restauri ottocenteschi si è soffermata poco su questo tema, trascurando anche di indagare il legame concettuale che esso ebbe con il dibattito sulla policromia del mondo antico, dibattito che caratterizzò l’Europa e l’Italia durante il XIX secolo. La ricerca è in gran parte da sviluppare, ma, analizzando da vicino alcune delle scelte dei restauri di monumenti medievali di allora e le riflessioni dei protagonisti di questi interventi, è possibile rintracciare segnali evidenti di un modo di pensare il colore in relazione all’architettura che spesso nasce da analoghe riflessioni sul mondo antico.

In Italia uno dei luoghi più interessanti per la ricerca sul colore dei monumenti antichi fu la Sicilia. Qui Jakob Ignaz Hittorff, il più importante studioso di policromia antica, compì il suo viaggio studio tra il 1823 e il 1824, venendo in contatto con le numerose testimonianze del mondo antico che questa terra ospitava, ma anche con le tante architetture medievali ancora conservate.

Se infatti a partire dalla metà del Settecento la Sicilia era esclusivamente meta dei viaggi alla ricerca di testimonianze dell’architettura greca qualche tempo dopo, sull’onda degli ideali del Romanticismo, viaggiare per l’isola imponeva un nuovo itinerario alla riscoperta delle vestigia del Medioevo.

Hittorff fu tra i primi in tal senso a riconoscere alla Sicilia una ricchezza speciale. A suo giudizio in epoca medievale erano sorte in quella terra architetture di grande interesse che avevano una propria identità formale e nelle quali il colore giocava un ruolo importante, proprio come nelle architetture antiche. In particolare egli aveva avuto modo di focalizzare l’attenzione sul duomo di Monreale che lo aveva colpito proprio per il rapporto che in esso si instaurava tra forme architettoniche e decorazione; nell’interno di Saint Vincent de Paul, la chiesa neogreca da lui edificata a Parigi tra il 1830 e il 1844, aveva così fatto realizzare un soffitto ligneo a capriate policromo ad imitazione di quello monrealese, ad attestazione della sua profonda ammirazione per l’edificio siciliano. Il suo interesse per le architetture del Medioevo era strettamente legato ai suoi studi sull’Antichità e il viaggio in Sicilia era stato rivelatore dei rapporti che esistevano tra le due diverse epoche storiche che, come dimostrava la pittura monumentale, avevano in comune proprio la cultura del colore. Nella Préface all’edizione completa (1835) dell’Architecture moderne de la Sicile scriveva a tal proposito:«C’est surtout dans les églises de Messine, de Catane, de Palerme, et particulièrement dans le dôme de Montereale, que l’histoire peut s’enrichir de notions précieuses. La conservation de cette vaste basilique, les riches ornemens de ses magnifiques plafonds, les belles et nombreuses mosaïques, vraies plastiques, dont ses murs sont couverts, montreront à l’observateur les traces certaines d’une imitation du type de la peinture monumentale chez les anciens. L’application de cette peinture, employée à l’embellissement des édificies des XI, XII et XIII siècle, offrira une tradition non moins remarquable du système de dècoration suivi par les Grecs dans leurs temples les plus célèbres et leurs monuments les plus importants»1.
Nell’ambito della produzione artistica del Medioevo Hittorff era interessato all’architettura gotica, a quello che definiva il sistema ogivale, dell’arco a sesto acuto, e ad essa aveva dedicato importanti pagine nei suoi scritti. Accanto a lui tanti altri studiosi, tra cui J.B. Seroux d’Agincourt, H.G. Knight, G. Di Marzo e D.A. Lo Faso e Pietrasanta, Duca di Serradifalco, si erano interessati ai monumenti medievali dell’isola sviluppando teorie varie sul rapporto che questi avevano con le architetture del gotico europeo2. Al centro dell’interesse erano stati posti i monumenti normanni, scelti come rappresentativi di un Medioevo ideale3, studiati però fino alla metà del secolo solo attraverso l’indagine sui documenti. Solamente verso gli anni Settanta il processo di conoscenza delle architetture cominciò a legarsi a veri e propri interventi conservativi e Palermo, in quanto sede della corte normanna divenne luogo di indagine e di applicazione preferito.

Protagonisti degli interventi di restauro furono i responsabili degli uffici ministeriali preposti alla tutela e primo tra tutti Giuseppe Patricolo4. Gli interventi che egli condusse sui monumenti palermitani furono spesso al centro di dibattiti che riferiscono non solo delle tendenze del restauro di allora, ma anche di come si interpretassero le architetture del Medioevo e di quale fosse, in quest’ottica, la ricerca di elementi qualificanti e caratterizzanti da riproporre nei restauri di ripristino. La riflessione su che ruolo avesse avuto il colore in origine nelle architetture normanne solo in parte si evince dal dibattito; nell’operato e negli scritti di Patricolo troviamo tuttavia alcuni interessanti spunti sul tema che vale la pena analizzare.

Nel suo primo restauro, quello di Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo, egli si propone da subito come colui che, in seno all’amministrazione dello Stato, restituirà alle architetture medievali, nuove glorie nazionali, l’aspetto ad esse confacente, quello delle origini. Sin dalle prime fasi del lavoro egli pone l’accento sulla necessità di ricercare tutte le tracce dell’assetto originario del monumento e a tal fine rimuove, senza troppi scrupoli, le superfetazioni barocche dell’interno, gli intonaci e i rivestimenti in marmo policromo settecenteschi, riportando a vista le murature5. La definizione cromatica di esse non lo interessa in un primo momento, mentre prioritaria gli sembra la questione del restauro dei mosaici, elemento cromatico qualificante dell’architettura normanna che, in un ottica di ripristino del “primitivo aspetto” assume una valenza fondamentale. Per questa parte del lavoro la Commissione di Antichità e Belle Arti contatta nel 1870 Rosario Riolo, capo mosaicista della Cappella Palatina, a cui viene chiesta una relazione sull’intervento da farsi. Egli compila un importante documento in cui sottolinea la necessità che l’intera chiesa sia rivestita dal colore, sia esso tradotto in mosaico o in marmi colorati6. Suggerisce infatti che le pareti della chiesa siano ornate con grandi lastre di marmo cipollino, dischi di porfido e serpentino intramezzate da «fasce a disegni geometrici con pietre dure e smalti a colori dorati» 7 a creare una decorazione ricca che si affianchi e completi, nella sua vocazione cromatica, quella musiva. Patricolo sosterrà la proposta del Riolo e farà di tutto per avere i fondi necessari, ma non riuscirà nel suo intento e si dovrà accontentare di un triste ripiego. La parete settentrionale verrà rivestita da un fac-simile in stucco della decorazione in marmi e mosaici, un rivestimento costituito da una tela ancorata su telai di legno su cui veniva disteso e poi dipinto lo stucco a finto marmo e finto mosaico (fig. 1). Ripiego però ritenuto accettabile rispetto alla necessità di restituire il colore che le architetture del Medioevo avevano come elemento caratterizzante.

Su questa idea tornerà Patricolo, in un suo scritto sulla chiesa di Santo Spirito a Palermo, del 1882, in cui nell’ambito di un acceso dibattito sulla cronologia della chiesa, lo studioso sosterrà la tesi che l’edificio fosse riferibile ad un unico momento costruttivo, nonostante una palese incoerenza tra le soluzioni architettoniche della parte interna e di quella esterna. Egli argomenterà la sua tesi riflettendo proprio sul rapporto imprescindibile tra colore e forme architettoniche caratteristico dei monumenti medievali. Dirà a proposito di Santo Spirito che «se la grettezza delle forme interne di molto contrasta con la vaghezza della decorazione esterna, ciò non dee recar meraviglia, se per un momento si ammette, come molto probabile, che in seguito tanto le colonne che i pilastri, le arcate e le pareti tutte dovevano essere decorate con pitture a fresco; come, del resto praticavasi nelle chiese continentali, ove più che la pittura a mosaico adoperavasi quella a fresco. Allora si che, aggiunta alla stupenda armonia delle linee la vaghezza dei colori, scomparirebbe senz’altro il tozzo ed il pesante delle colonne e delle arcate della nave, come il gretto dell’insieme»8.

Colore e forma dunque in un insieme armonico che il tempo aveva cancellato e che laddove possibile, bisognava ripristinare. Nel restauro di San Cataldo Patricolo si porrà il problema del colore da dare alle tre cupole della chiesa, a suo avviso in origine rosse. Chiederà per questo l’autorizzazione al Ministero, chiamandolo a «decidere se dette cupole debbano rivestirsi dell’intonaco biancaccio preferito da’ paesisti o da un intonaco rosso dello stesso impasto e dello stesso colore adoperato costantemente dagli antichi»9. La richiesta ufficiale sarà per l’architetto un modo per tutelarsi dalle «recriminazioni degli artisti che nelle cupole di San Giovanni degli Eremiti alla verità storica avrebbero preferito l’effetto pittorico»10.

Il restauro di San Giovanni degli Eremiti, compiuto tra il 1880 e il 1883, era stato al centro di un ricco dibattito e il tema della colorazione delle cupole era stato un punto dolente della discussione. Il rosso proposto aveva suscitato molte critiche da parte di quanti avrebbero preferito invece una colorazione bianca su modello delle cupole delle moschee dei paesi nord africani.

Il colore, soprattutto se riproposto negli esterni, era qualcosa che doveva fare i conti con il gusto comune e la storia dei dibattiti sui restauri “in stile” francesi ci dice molto in tal senso11. Viollet-le-Duc aveva dedicato sul finire degli anni Sessanta un testo alle pitture ripristinate delle cappelle del coro di Notre-Dame di Parigi, nel quale, nelle pagine introduttive aveva lungamente sottolineato la necessità di educare il pubblico al colore, prima di ripristinarlo con i restauri12.

Negli anni in cui Patricolo mette le mani sul Medioevo siciliano, le altre regioni della penisola cercano anch’esse il proprio Medioevo attraverso i restauri. La Toscana è tra le prime, Firenze e Lucca sono luoghi centrali di questa ricerca che si connota per un’indagine a tappeto sui monumenti medievali, i quali vengono analizzati nel dettaglio, scorticati e liberati da superfetazioni.

A Lucca la ricerca del Medioevo attraverso i restauri è legata in gran parte a tre nomi: Michele ed Enrico Ridolfi, padre e figlio, e Giuseppe Pardini.
Il primo, operante già prima dell’unità d’Italia, era stato il restauratore della chiesa di Santa Maria forisportam, dove era intervenuto a partire dal 1834. La rimozione sistematica di tutti gli intonaci alla ricerca delle tracce celate del Medioevo era stata individuata come la via da seguire e la chiesa era stata poi restituita con la muratura in pietra a vista. Come ricorda Alessandro Conti fu questo intervento uno tra i primi esempi europei di nudità nella presentazione degli edifici medievali13. Molti altri ne seguirono e di questo modo di intendere il ripristino dell’originario aspetto dell’architettura medievale troviamo traccia in un documento della Commissione di Incoraggiamento delle Belle Arti, Arti e Manifatture, organo istituito nel 1819 dal Ducato di Lucca14. In una relazione del 29 luglio 1851 relativa al ripristino delle antiche forme della chiesa di San Salvatore da parte dell’architetto Cesare Lazzarini, si legge: «Innanzitutto si dovranno scrostare tutti i muri e le volte, demolire le cornici e cornicione, archi e tutto quanto esiste di incrostato in tutta la chiesa, sia internamente che esternamente; anche i pilastri saranno ben scrostati e scoperto tutto il pietrame, ben puliti e lavati in modo da rimettere la pietra nel suo primo stato [..] resi piani e con piano regolare dallo scalpellino ben martellinati; sulle pareti il nuovo intonaco verrà poi segnato a pietre, con ferro, in modo che si lasci un’incisione fonda almeno la 24esima parte di un’oncia (un solco di circa 2mm) e della medesima larghezza, il tutto colorito a pietrame e precisamente con quelle semplici venature come le presentano le vere pietre a marmo»15.

Membro della Commissione di Incoraggiamento di Belle Arti, Arti e Manifatture fu anche Giuseppe Pardini, il vero protagonista del restauro a Lucca, colui che tra il 1839 e il 1877 eseguì interventi su quasi tutte le chiese medievali della città. Pardini, a differenza di Michele Ridolfi, pensava al Medioevo da ripristinare in modo ben più articolato. In lui si può rintracciare una diversa attenzione al colore, sviluppata in seno ai suoi studi giovanili sui monumenti greci e romani, come testimoniano gli splendidi disegni dei pavimenti policromi di Villa Adriana a Tivoli (fig. 2).

Il gusto per il decorativismo unito a quello per il colore furono alla base di molti dei suoi restauri in stile. Il caso della chiesa di Sant’Agostino, restaurata nel 1839, è indicativo di questo. Gli intonaci dell’interno furono completamente rifatti e sia per le pareti del coro che per quelle della navata, l’architetto previde un rivestimento pittorico neogotico fingente ornati in pietra o in marmo di vari colori. Sulla scorta di quanto restava dell’originario paramento medievale della fronte dell’edificio, il Pardini concepì per le pareti laterali cinque grandi balze costituite ciascuna da quattro filari di conci di marmo bianco, separate da quattro fasce orizzontali di marmo verde, formate da un’unica fila di conci; il tutto coronato da una prima cornice in rilievo ad archetti trilobati a marcare la quota del davanzale delle finestre. Al di sopra nuovamente tre balze in marmo bianco, separate da due fasce verdi e infine un doppio cornicione all’imposta delle mensole delle capriate, costituito da una fascia intagliata a transenne con trilobi16  (fig. 3).

Per la parete di testata della navata, in cui si aprivano le tre arcate delle cappelle e del coro, di nuovo una fitta tessitura sempre a finto rilievo di cornici, specchiature. Il coro prevedeva una complessa orditura parietale di specchiature e pilastrini con lunette ricche di archetti, mentre un raffinato gioco di nervature a ventaglio scompartiva le quattro vele della volta a crociera.

Tale ricco apparato decorativo di matrice tardo gotica17, non piacque a tutti e tra i primi a criticarlo fu Michele Ridolfi che in nome del suo amore per la sobria nudità del materiale lapideo parlò di: «profusione di ornati e vaghezza di colori e d’oro, che è sembrato ai più non convenire alla semplicità e maestà di quell’edifizio. Pareva che se si fosse preso il partito di dipingere lo scialbo a guisa di pietre, divise semplicemente da qualche striscia di marmo di colore più scuro e si fosse fatto a meno di qualsivoglia ornamento, la chiesa avesse avuta una gravità maggiore e la critica non avesse potuto aguzzarvi il suo dente»18. La libertà inventiva di Pardini veniva così condannata per l’eccesso cromatico degli elementi decorativi che toglievano sobrietà e semplicità ad un edificio che, in quanto medievale, doveva essere per Michele Ridolfi, privo di fronzoli cromatici e decorativi. Lo stesso non pensava però il figlio di quest’ultimo, Enrico, operante nella seconda metà del secolo. In un testo del 1882 sulla cattedrale di Lucca19 aveva espresso la sua idea di ripristino, volta a far risorgere gli antichi monumenti del Medioevo nel presente, rivestiti di tutti gli splendori strutturali, ornamentali, materici e cromatici che ne avrebbero contraddistinto la mitica fase delle origini. Ridolfi osservava a tal proposito della cattedrale di San Martino «che le interne pareti delle navi minori si destinassero nella costruzione ad essere dipinte con figure e storie di santi, fino ad una certa altezza, ne è prova il vedere che dalla soglia delle finestre al piano, il muro non solo non ebbe il paramento marmoreo come nella parte superiore, ma sporge di parecchi centimetri, ingrossato a quanto sembra perché meno avesse a sentire l’umidità. Fu d’altronde costante consuetudine de’ tempi cui appartiene la cattedrale, che le mura delle fabbriche sacre fossero, in tutto o in parte, dipinte con devote immagini, con istorie del vecchio e del nuovo Testamento; […] Si può quasi sempre asserire, dove non trovasi paramento marmoreo, che quivi le pareti si destinavano ad essere arricchite di pitture. L’arte di que’ secoli non avrebbe potuto concepire nelle chiese la desolata e povera nudità degli intonachi, che tanto piacque di poi» 20 (fig. 4).

L’avversione del Ridolfi per gli interventi di trasformazione compiuti tra XVI e XVII secolo nelle chiese medievali, si rivela poche righe più avanti quando sostiene che: «Furono gli artisti del Cinque e del Seicento, che smaniosi di gran luce nei templi, perché le pareti la riflettessero, dettero di bianco agli affreschi ond’eran coperte, e il più sovente anche alle membrature di pietre e di marmi; e quando pure non le intonacarono ed imbiancarono fecero loro un’incamiciata di calce d’una sola tinta, che ne nascondesse le commessure e quelle leggere varietà di toni e di colore, che a noi tanto aggradiscono, e che ad essi sembravano di cattivo effetto. Così si ebbero i grandi piloni, le fasce degli archi, i ballatoi, i costoloni delle volte, tutti monoliti e di un’unica tinta più o meno cinerea da cima a fondo, frammezzati da grandi spazi di intonaco bianco; e così la ricca e poetica varietà delle fabbriche medievali si ridusse a un tratto, in lor mano, ad una povertà uggiosamente uniforme»21.

La ricca e poetica varietà delle fabbriche medievali era stata negata dalla storia e i restauri avevano il dovere morale, secondo Ridolfi, di ritrovarla e ripristinarla; il colore doveva essere elemento identitario di questo gusto per la varietà.

Queste le parole del Ridolfi sulla chiesa di santa Croce a Firenze dove egli aveva cercato di approfondire la sua conoscenza dei monumenti medievali in un esercizio mentale, virtuale, di restituzione del perduto «Trattenendoci le tante volte nello stupendo edificio a studiarne ed ammirarne il grande concetto, non potemmo mai a meno di compirlo con la fantasia; e ritornandone al naturale loro aspetto e colore le pietre dai toni caldi, onde qui pure furon costruite o parate le grandi membrature architettoniche, godemmo in visione dell’effetto ricchissimo ed armonioso prodotto dal disposarsi a quelle le care dipinture dei secoli XIV e XV, che scacciando le grandi e gelide masse di bianchi intonachi, interamente le riempivano delle soavi loro armonie di colore, sfumandosi negli azzurri stellati onde vedevano ammantarsi i pennacchi delle cupole e delle volte archiacute; e tutto quell’accordo quieto e insieme ricchissimo di modesti toni, avvivarsi di tratto in tratto gradevolmente da quelli più splendidi delle finestre istoriate! E ne appariva che senza nulla perdere della grandiosa severità dei lineamenti, splendesse l’interno del tempio per tale un incanto fantastico di colorito, da rendere l’immensa mole oltre ogni dire più bella, e meravigliosamente legata alla sua parte esteriore, che pur si volle allegrare con la grata varietà del colore dei marmi, con lo splendore dell’oro e del color de’ musaici»22.

Ridolfi dunque vedeva nell’ “incanto fantastico di colorito” la base dell’armonia tra le forme architettoniche medievali e la loro decorazione. Il colore era parte importante della definizione formale dei monumenti, e Ridolfi questo lo aveva appreso studiando le opere antiche.
Il rapporto tra Antico e Medioevo permea la riflessione ottocentesca sul colore e di questo legame parla con chiarezza un altro testo di area toscana che affronta il tema del “policromismo” dei materiali.

Aristide Nardini Despotti Mospignotti, architetto livornese, scrive nel 1873 un volume sul Battistero di Firenze23 (pubblicato nel 1902) nel quale analizza il ruolo del colore nella definizione delle architetture medievali. Nel ricostruire le origini del particolare “policromismo” che caratterizza il battistero fiorentino egli sostiene che l’uso del colore in architettura sia per gli edifici medievali eredità del mondo antico, sebbene con una differenza sostanziale: nel mondo antico il colore degli edifici si configurava come una vera e propria pittura architettonica, vale a dire un rivestimento policromo della materia, mentre nel periodo medievale erano i materiali lapidei stessi ad essere colorati24. Il giudizio estetico dello studioso sul rivestimento a pittura o a intonaco dipinto emerge nelle pagine successive, dove egli giudica negativamente quest’uso, impensabile su superfici marmoree «E siccome la troppa bianchezza del marmo non si può correggere con l’applicazione superficiale del colore, chè sarebbe rozza barbarie, così è necessità che sia mitigata per l’intervento di altri marmi di per sé colorati. Infatti se bene si osserva nel medioevo noi non troviamo esempi di edifici marmorei che siano bianchi del tutto, ed in cui il policromismo non sia in qualche modo intervenuto»25. Al colore egli affida dunque un ruolo centrale nella formulazione architettonica e il suo pensiero in tal senso lo rintracciamo ancora in un suo scritto, del 1867, con il quale entra nel vivo del famoso dibattito sul completamento della facciata di Santa Maria del Fiore a Firenze26. Definendo i colori la «dannazione della facciata del Duomo»27, egli spiega in che termini essi debbano entrare a far parte della definizione formale nel suo complesso. Creare partizioni colorate troppo piccole rischiava, a suo giudizio, di determinare una sorta di squilibrio nella facciata, per cui la struttura architettonica invece di prevalere sulla partizione cromatica, ne veniva sopraffatta.

Per questa ragione egli propose un progetto in cui si applicavano grandi campiture policrome che restituivano al colore il proprio ruolo subalterno: «a mio giudizio - sosteneva il Nardini - i colori, affinché con la forza e la crudezza dei loro toni non alterino l’armonia della composizione e ne squassino l’unità, bisogna che siano ridotti a funzioni subalterne: funzioni di circoscrizione e d’inquadramento; così allora si completano, secondano, e non intricano […] tale effetto si può raggiungere nella facciata adottando larghi partiti; così i colori sono rimessi al loro posto subalterno, e senza nuocere alla composizione la rendono più gaia e più ricca»28.

Quale fosse dunque il ruolo che nel Medioevo il colore aveva avuto nel definire e completare le forme architettoniche fu un argomento di riflessione e i restauri divennero talvolta applicazione concreta di queste idee, trasformando anche in modo rilevante gli assetti decorativi di alcuni monumenti. Chiunque oggi contempli un edificio medievale non può prescindere dal porsi una domanda: “Quanto c’è di veramente “medievale”?”. I restauri di ripristino del XIX secolo hanno per sempre segnato il nostro modo di guardare all’ arte del Medioevo, ponendo su di essa un filtro difficile talvolta da individuare, di cui non sempre si ha consapevolezza. L’indagine sulla storia di quei restauri è utile a ricostruire le componenti di questo filtro e la cultura del colore è una di queste. Cercare di rintracciarla nel pensiero di coloro che operarono e scrissero per la conservazione del patrimonio medievale ci consente di interpretare le scelte operative del restauro, quelle che nella realtà fisica del monumento ne condizionarono l’aspetto.

Il nesso colore-Medioevo è, al di là della verità storica di cui oggi siamo consapevoli, uno dei prodotti della cultura ottocentesca che va indagato per dimostrare come le trasformazioni che i nostri monumenti medievali hanno subito, spesso difficili da leggere sul monumento stesso, spesso di nuovo cancellate dalla storia, possono essere ricostruite con una riflessione accurata su quale cultura le ha prodotte.







NOTE

1 J.I. Hittorff, Architecture moderne de la Sicile ou Recueil des plus beaux monuments religieux et des edifices publics et particuliers les plus remarquables de la Sicile, Paris 1835, p. 2.

2 Per un quadro sintetico sul tema cfr. C. Genovesi, Francesco Valenti - Restauro dei monumenti nella Sicilia del primo Novecento, Napoli 2010, pp. 11-13

3 I. Bruno, Le mythe normand dans l’art figuratif sicilien du XIX e siècle, in Les Normands en Sicile XIe -XXI e siècles. Histoire et légendes, catalogo della mostra (Caen, Musée de Normandie, 24 giugno-15 ottobre 2006), a cura di A. Buttitta e J. Y. Marin, Milano 2006, pp. 71-84.

4 G. La Monica, Giuseppe Patricolo restauratore, Palermo 1985 (prima ed. 1976)

5 F. Tomaselli, Il ritorno dei Normanni, Roma 1994, p. 86

6 Ivi, p. 99

7 Ibidem

8 G. Patricolo, La chiesa di Santo Spirito presso Palermo, in Ricordi e Documenti del Vespro siciliano, Palermo 1882, p. 191

9 G. Tomaselli, Il ritorno…cit, p. 119

10 Ibidem

11 Cfr. sul tema E. Billi, I colori del Medioevo nei restauri dell’Ottocento francese, Firenze 2010, pp. 60-81.

12 E. E. Viollet-le-Duc, Chapelles de Notre-dame de Paris. Peintures murales exécutées sur les cartons de E. Viollet-le-Duc architecte relevées par Maurice Ouradou inspecteur des travaux de la cathédrale, Paris 1868, pp.1-2. Cfr. Billi, I colori…cit, pp. 92-94.

13 A. Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, Milano 2002, p. 246

14 Istituita il 31 agosto 1819. Inizialmente si sostituì in tutte le attribuzioni al Comitato di incoraggiamento dell'agricoltura, arti e commercio. Man mano l'attività principale si restrinse alla conservazione dei monumenti e all'incremento delle belle arti (cfr. http://www.san.beniculturali.it/web/san/sogc-scheda-complesso?

codiSanCompl=san.cat.complArch.18734&step=dettaglio&id=18734)

15 Cfr. G. Morolli,(a cura di), Basiliche medievali della città di Lucca. La guida inedita di Enrico Ridolfi (1828-1909), Milano 2002, p. 29.

16 G. Morolli, I classicismi di Giuseppe Pardini architetto in Lucca 1799-1884, Firenze 1990, pp. 113-114.

17 Sarebbe stato ispirato secondo il Morolli dalla coeva Chiesa Anglicana dei Bagni e dai calligrafismi del Tardogotico inglese, con il quale il Pardini sarebbe entrato in contatto durante il suo soggiorno londinese. Cfr. Morolli, I classicismi…cit, p. 114.

18 M. Ridolfi, Scritti d’arte e d’antichità, Firenze 1879, p. 110.

19 E. Ridolfi, L’arte in Lucca studiata nella sua cattedrale (prima ed. 1882), Lucca 1976.

20 Ivi, p. 178.

21 Ivi, p. 179.

22 Ivi, pp. 180-181.

23 A. Nardini Despotti Mospignotti, Il Duomo di San Giovanni, oggi Battistero di Firenze, Firenze 1902.

24 Ivi, pp. 128-132.

25 Ivi, p. 132

26 A. Nardini Despotti Mospignotti, Due disegni per la facciata del Duomo di Firenze, Livorno 1867.

27 Ivi, p. 17.

28 Ivi, pp. 17-18.







BIBLIOGRAFIA

E. Billi, I colori del Medioevo nei restauri dell’Ottocento francese, Firenze, 2010.

A. Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, Milano, 2002.

C. Genovesi, Francesco Valenti, Restauro dei monumenti nella Sicilia del primo Novecento, Napoli, 2010.

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G. La Monica, Giuseppe Patricolo restauratore, Palermo, 1985.

G. Morolli, I classicismi di Giuseppe Pardini architetto in Lucca 1799-1884, Firenze, 1990.

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M. Ridolfi, Scritti d’arte e d’antichità, Firenze, 1879, p. 110.

F. Tomaselli, Il ritorno dei Normanni, Roma, 1994.









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Fig. 1
Palermo, Santa Maria dell'Ammiraglio, Veduta dell'interno in una foto del 1914 circa.
A sx il finto paramento marmoreo creato nel restauro ottocentesco
.


Fig. 2
GIUSEPPE PARDINI, Disegno con prospetto di due pavimenti di Villa Adriana a Tivoli, 1829


Fig. 3
GIUSEPPE PARDINI, Disegno con l'ornamentazione neogotica per le pareti della navata della restaurata Chiesa di Sant'Agostino a Lucca, 1839


Fig. 4
ENRICO RIDOLFI, Studio dell'ornato di una delle volte del transetto della cattedrale di Lucca, 1885






Foto cortesia Eliana Billi



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