Le
fonti per conoscere meglio gli artisti possono essere le più
disparate, ma la testimonianza diretta di chi ha vissuto con loro
assistendoli quotidianamente nella preparazione delle proprie opere è
quella più affascinante. Da un lato c'è il punto di vista di
qualcuno che ha condiviso il momento della creazione con l'artista
stesso, dall'altro una componente personale che ha filtrato
quell'elaborazione e ne ha fatto linfa per il proprio lavoro
assorbendone in parte l'essenza. É
il caso di Harry
Roseman ,
uno degli artisti che ha conosciuto meglio Joseph Cornell essendo
stato suo assistente nella dimora di Utopia Parkway tra il 1969 e il
1972: «Of
all young friends and helpers, probably none was more devoted than
Harry Roseman, a good-natured artist in his twenties who worked as
Cornell’s assistant beginning in 1969. He lived in Jamaica, Queens,
with his wife Catherine Murphy, a highly esteemed realist painter who
was studying at Queen’s College»
.
Nell’estate
del 1969 si trasferisce dal Massachussetts a New York con la compagna
Cathy, la pittrice Catherine Murphy. Mentre si occupa delle pratiche
burocratiche per l’iscrizione della moglie al Queens College
conosce la preside Helen Schiavo: tra i due si instaura subito un
ottimo rapporto. La Schiavo, venuta a sapere che Roseman è alla
ricerca di un lavoro, gli parla di Joseph Cornell, uno scultore
locale che ha bisogno di un apprendista. Helen Schiavo gli spiega la
situazione familiare e personale dell’artista parlandogli della
madre e del fratello. Conosce molto bene Cornell perché aveva
organizzato una sua mostra al Queens College. Per aiutare Roseman
nell’impresa di convincere l’artista, gli svela un segreto:
Cornell è sempre indeciso e preso dalle sue scatole. L’unico modo
per convincerlo subito è incalzarlo pretendendo una risposta
immediata: «This
was the key: if I leave and e he says he’s going to let me know,
he’s going to have to think about it, I’d probably never hear
from him again. So the key was, not to leave without a definitive
answer»
.
Roseman
ha rilasciato un’intervista per la Michigan
Quarterly
Review
curata da Nancy Willard
e
intitolata
The sorcerer’s apprentice: a conversation with Harry Roseman,
assistant to Joseph Cornell che
mette in luce particolari inediti e conferme di quelle letture
critiche fatte sulla straordinaria produzione cornelliana e sulla sua
controversa personalità.
Le
risposte di Roseman sorprendono anche Willard: ad ogni domanda
l’apprendista di Cornell risponde con un racconto, un episodio, un
flashback
trascinando la giornalista nel mondo del sorcerer.
L’intervista parte dalle immagini, ovvero da una serie di scatti
fotografici realizzati da Roseman negli ultimi due anni di
apprendistato. Ogni immagine, corredata dal racconto
dell’apprendista, apre le tende sulla verità di Cornell portando
la giornalista in una realtà misteriosa: «The
photographs and Harry’s account of the relationship that developed
between the sorcerer of dreams and his remarkable apprentice lifted
the curtain, for me, on a world as mysterious as anything Cornell
ever created» .
Il
colloquio con Willard nel 1999 è il trait
d'union
per la mostra degli scatti che compongono
Inside a Box: a Photographic portrait of Joseph Cornell :
Roseman,
infatti, espone questo lavoro alla Davis &
Langdale
Company. La memoria di Roseman naturalmente arricchisce le prime
sensazioni con i ricordi dei tre anni trascorsi con Cornell: «I
have a very clear idea about the house. I
can probably describe every stick of furniture in it. But my sense of
the house is a combination of first impressions and being there over
a three-year period» .
La
prima impressione che ricorda Roseman della casa è l’oscurità,
come se entrando si avesse l’idea di essere in un posto lontano nel
tempo: si trova subito davanti ad un accumulo di oggetti immersi nel
caos.
Nei
primi tempi Roseman si dedica solo al lavoro di Cornell,
ma,
dopo
le prime settimane di prova, comincia a costruire le prime scatole:
«So we just started in the studio right away. Sometimes he’d have
me building boxes or putting background paper on boxes, and then
sometimes he’d just come down the stairs and sit four stairs from
the bottom and watch me for awhile. We started new boxes, and there
were many boxes around in a different states. Out of the blue he’d
turn around and say, ‘Bring that box from the shelf’, which had
clearly been sitting there for years. And we’d go into it and then
finish it»
.
Il
tempo nella casa è diverso da quello vero:
«Time was fluid, very fluid»
.
Roseman
ricorda di aver passato molto tempo a mischiare i colori per le
scatole. La tinta dominante naturalmente era il blu: «sometimes
I would mix these aniline dyes for him, especially this very intense
blue that he used a lot. The blue dye came in this fine powder, and
we had to mix it up with alcohol to dilute it. It was so potent and
so thin that my tongue would be blue, and when I blew my nose it
would be blue just from mixing it up, not even putting my face over
it» .
Cornell
era gelosissimo dei suoi oggetti: una volta un assistente aveva rotto
un bicchiere che doveva comporre una scatola e l’artista era andato
su tutte le furie anche solo nel raccontarglielo. Muoversi in
tranquillità dentro la cantina-laboratorio
dell’artista non doveva essere così semplice: dalle immagini e
dalle descrizioni del materiale che si accumulava ovunque non doveva
essere facile spostarsi senza urtare, anche solo per sbaglio, una
delle tante cianfrusaglie. Anche a Roseman è capitato: ha toccato
per caso un contenitore di colore che si è rovesciato rovinosamente
su tre collages.
Dopo diversi tentativi per cercare di rimediare si rassegna e chiama
Cornell per parlargli del piccolo disastro: si sentiva come un
dodicenne che aspetta il rimprovero garantito da un adulto. Cornell,
però, lo sorprende: «He
looks at the collages, and he looks at me, and he looks at the
collages. ‘I like it’, he says. That was so thrilling. I was so
tense»
.
Roseman,
stando sempre a contatto con Cornell, si comportava come lui: erano
due bambini timidi.
La
cucina era il posto dove si ritrovavano insieme: «Sometimes,
just because of logistics, we’d all of a sudden be in the kitchen
together, and it was very clear that he didn’t have anything for me
to do. It would make him edgy, and I knew not to ask him what I
should do because he didn’t like that. So I found that if I got
quieter and quieter and calmer and calmer he’d start to forget I
was there. It was an ability I worked on» .
Era
sicuramente una zona della casa molto cara a Cornell: quando la madre
era ancora in vita, l’artista lavorava proprio in cucina. Alcune
volte l’apprendista trovava dei pezzi di collage
sul tavolo. Roseman la ricorda di un bellissimo blu:
«The kitchen was painted this wonderful blue. He was a young adult
when it got painted. He had to go to the store, and he wanted the
kitchen to be Giotto blue. He told me he was embarrassed to tell this
to the paint store man-he thought it was kind of affected-so he said
to the clerk, ‘My mother told me to ask for Giotto blue’ »
.
L'assistente
ha immortalato più volte Cornell alla finestra :
«It’s
one reason that photographs looking out the kitchen window or near
the kitchen sink are so particular to me, because that was where I
would stand sometimes for hours and literally try to dematerialize
myself. I would make my presence lighter and lighter and lighter» .
Guardare
attraverso il vetro era una specie di meditazione: «It
was a kind of meditation. And a part of what I would do was literally
to make my presence not felt. So it was a combination of my mind
getting lighter and lighter and my mind trying to make my body
lighter. I got very good at it. I should revisit it periodically now
when I get tense because it’s very freein»
.
Il
legame tra i due scultori, con il passare del tempo, diventa sempre
più forte: Roseman era un “tutto-fare” per Cornell. L’assistente
ricorda come il suo rapporto con l’artista fosse più simile a
quello che c’è tra medico e infermiere. C’era collaborazione, ma
anche fiducia. Prendevano l’autobus insieme per addentrarsi nel
cuore di Manhattan: «And
sometimes I remember we’d walk to the corner to take the bus to
downtown Flushing, for shopping and stuff» .
Cornell
aveva una strano modo di camminare:
«Sometimes we’d been walking slow, and then we’d speed up for no
reason and then slow down and then we’d speed up for no reason and
then slow down and then speed up again. It was like being led by a
dance partner»
.
In fondo il suo rapporto con il tempo è sempre stato ambiguo.
Roseman
faceva molte commissioni personali per l’artista: gli comprava
anche i vestiti. Cornell voleva che i suoi abiti fossero di circa
cinque taglie più grandi: in genere i figli degli emigranti non
avevano la possibilità di cambiare spesso il guardaroba e i genitori
compravano o confezionavano degli indumenti più grandi rispetto alla
misura corretta in modo da poterli utilizzare per più tempo. Questa
è un’abitudine che si adatta ai bambini che crescono, non ad un
uomo della sua età, ma Cornell, in fondo, si era sempre sentito un
bambino. I suoi abiti erano piuttosto monocromatici: vestiva in
grigio. Vedendolo sembrava un’apparizione, dato il pallore del suo
viso: «He
was very pale. Pale,
pale, pale. He was the palest person I’ve ever seen. He was very
gaunt and very white. He had no color at all, and he dressed in grays
and blacks. He felt like someone in a black and white photograph.
Sometimes he’d wear brown sweater. I have some color photographs of
him and some in black and white ones, but the black and white ones
feel more to me the way he felt in life»
.
Gli
scatti, in effetti, mostrano l’artista come se fosse uno spettro:
il bianco e nero uniforma la sua figura esile agli interni oscuri
della casa come se fosse una parte di essa. É
un gioco di ombre: le scatole cornelliane sono dette Shadow
Boxes.
Roseman
non fotografa da subito Utopia Parkway: all’inizio non aveva molta
confidenza con l'artista, ma con il passare del tempo l’assistente
decide di immortalare alcuni oggetti della casa. Era uno scultore, ma
aveva imparato ad usare la macchina fotografica all’età di tredici
anni e questa forma artistica lo accompagnerà per tutta la sua vita.
Cornell,
in un primo momento, non se ne cura: «Cornell
had no interest in posing, but did not object to having Roseman
photograph his house» .
Roseman,
però, decide di mostrargli qualche scatto: «I
started by taking a picture of the yard or the house and at some
point I showed him some pictures that where kind of relevant to him.
And he got used to me having my camera and periodically he would ask
me to take a picture of something»
.
Le
fotografie, per la maggior parte in bianco e nero, non sono mai state
pubblicate eccetto due: «The
photos, most of them black-and-white, have not been published (with
two exceptions) but certainly deserved to be. They offer a portrait
of the artist as seen through the rooms of his house, themselves an
image of his interior life, which their astonishing profusion of
books, files, beloved objects, and his own artwork»
.
Queste
immagini
sono
molto più che semplici ricordi o documenti: sono racconti di
procedimenti cerebrali, fondamenti di una tecnica magica.
Scatti
d’autore
Le
fotografie che compongono Inside
a Box
mostrano come Cornell abbia influenzato il suo giovane assistente. La
cura per il dettaglio e l’attenzione per l’atmosfera che si
respirano a Utopia Parkway sono caratteri salienti degli scatti di
Roseman. L’obiettivo del fotografo coglie particolari indifferenti
a chi non ha vissuto con lo “stregone” e svela un lato magico
dell’artista.
Roseman
realizza una serie perfetta che ha come oggetto le pere :
sono particolari banali e quotidiani, ma quando si tratta di Cornell
non si può dare niente per scontato. Roseman
racconta: «I
did a whole series of photographs of pears. The pears were really
intriguing. There was a front door and side back door, and a mudroom.
The light in the mudroom was very beautiful. So one day I came in and
there were these pears on the window still»
.
L’occhio
indagatore del fotografo, ormai influenzato dall’amore di Cornell
per gli oggetti, riesce a vedere quei frutti come bellezze perfette
anche se si tratta di oggetti comuni: «And
they were very ordinary, pristine, three perfect pears in a soft
light, and I just took a photo of them. If that had been it, it
wouldn’t have meant very much to me, because it was a pretty
photograph, possibly too pretty»
.
Roseman,
stranamente, confessa di non aver mai parlato all’artista di queste
foto, ma è possibile che si fosse accorto dell’interesse del suo
assistente per questi frutti:
«But over the next weeks these pears-sometimes there was one,
sometimes there were three, they started to shrivel up. It was like
this pear performance. And sometimes they’d be cut in quarters, and
they had nails sticking out of them. He was doing this when I wasn’t
there»
.
Sembrano
quasi crocifisse ,
ma allo stesso tempo sono narrative: è una storia di immagini. Non
si conosce il motivo di questo procedimento, ma è una specie di
rituale inconscio. Queste
immagini ricordano il principio delle nature morte nella pittura
olandese del Seicento, ma lo scatto le rende uniche: la foto non
mostra un accanimento sulla frutta, ma l’incanto di un ritaglio,
seppur strano, di un pezzo di vita. Ogni cosa sembra avere un suo
senso anche se strano.
Cornell
parlava degli oggetti in un modo particolare, li rendeva fantasiosi e
speciali: «For
example, outside in the yard there was a stone squirrel and a ceramic
frog and these plaster rabbits, a big rabbit and baby rabbits. Then
there’s the whole history of his brother Robert’s rabbit
drawings. He told me once that James Thurber came over and really
liked Robert’s drawings. So I started to internalize some of that.
These plaster rabbits, which are just junky plaster rabbits that come
from nursery, were the only plaster rabbits like these in the whole
world. When I photographed these rabbits, I felt like I was
photographing something rather extraordinary. I wonder what happened
to those bunnies. I wonder if anybody saved them»
.
L’attenzione
per le cose si mischia ai ricordi proprio come succede per le
scatole. Anche Roseman, nel suo racconto, sembra soffrire di questa
“patologia” trasmessagli dall’artista: «The
house was so dark inside that it did seem black and white. Here’s
another way of describing it. When I was in junior high school,
sometimes my mother would stay up late and when I’d come home for
lunch, she’d still be sleeping. So when I’d walk in the door with
my key, the house had a kind of sleepy, dark, out-of-time-sequence
feeling»
.
Ogni
volta che l’intervistato guarda le fotografie
per raccontare al giornalista dei particolari di Cornell ripensa
all’atmosfera avvolgente di quella casa: «A
photograph like this is about the light, and it’s about his place,
and it’s about surface, and it’s about a certain time, but for me
it’s mostly about when it felt like to be in that kitchen on a
certain day, and the way time and light are there. When I look at
this photograph it brings back the place but even more, it brings
back the way it felt to be there»
.
La
camera da letto dell’artista
conserva il ricordo della madre: «we
see
the bedroom that for decades belonged to Mrs. Cornell, empty now, but
still unmistakably a woman’s bedroom, with faded floral wallpaper
and treetops visible just outside the window»
.
La
stanza, più che una camera accogliente, sembra la cella di un
monaco: «we
see Cornell’s bedroom-prim, uncluttered, virginal. He slept on a
narrow metal cot that looked as if it belonged in an army hospital;
there was no bedspread, just a white sheet pulled up to the
headboard. Venetian blinds hung on one window, a vinyl shade on the
other» .
Roseman
realizza anche degli scatti all’esterno della casa: le immagini del
giardino sono meno suggestive rispetto a quelle degli interni, ma
danno un’idea di quella casa così tipicamente olandese.
Nell’immagine
del frontespizio si trova Cornell seduto sotto il cotogno del
giardino:
« we see the quince tree beneath which he loved to sit. We
see a lone chair with no one in it. In one affecting photograph
(frontispiece), Cornell makes an appearance, sitting with his back
toward the viewer, an old man reading a book in a chair that seems
strangely small, more suitable perhaps for a child»
.
Cornell
aveva l’abitudine di riprendere di spalle
le ragazze che filmava di nascosto. La scelta delle inquadrature,
infatti, non è sempre scelta dal fotografo: «The
pictures I usually take are interactive. When
he was posing for me, sometimes it was my idea and sometimes it was
his idea. I was posing for me, sometimes it was my idea and sometimes
it was his idea»
.
Il
titolo della serie fotografica ,
idea dalla compagna di Roseman, nasce proprio dal concetto di questo
scambio di idee: «Actually
Cathy though of the title. The show is about being inside the box,
inside his head, inside my head»
.
Il
rapporto tra i due nel periodo in cui vengono scattate le foto è ben
radicato.
Nonostante
la disponibilità alle pose per l’assistente, l’artista resta
comunque con la testa bassa guardando raramente l’obiettivo :
«He never quite looked at you very often anyway, so in all the
pictures he’s slightly looking down. His eyes were very inset in
his head, and in shadow sometimes. Very rarely did he look at the
camera, which felt like a kind of shyness. Someone did ask me if he
was shy and I couldn’t answer, because ‘shy’ doesn’t seem
like the right word. I’m not sure if ‘shy’ explains it.
Sometimes he became almost unaware that I photographing him in the
middle of photographing him, which was very nice»
.
Una
serie speciale
Le
fotografie scattate da Roseman sono sicuramente documenti importanti
per vedere come fosse realmente Utopia Parkway. Gli scatti, però,
non sono semplici testimonianze visive: è come se Roseman avesse
acquisito la metodologia di Cornell. Anche l’assistente “lavora
con le cose”: le osserva, ne coglie l’invisibile meraviglia nella
loro quotidiana banalità. Queste fotografie sono molto diverse da
tutte quelle che si possono trovare: tanti hanno immortalato Cornell
e Utopia Parkway ,
ma nessuno le ha trattate in questo modo. Quando
Roseman scatta le foto agisce nel quotidiano della sua esperienza:
«One of the differences might be this: taking those pictures was
part of my everyday life at that moment, as well as part of his. It’s
not like I had an appointment with him and had to arrive at his house
at three o’clock and take a series of photos. They were done in the
fabric of going about our business»
.
L’intervista
fatta a Roseman poteva partire solo dalle immagini: la lettura degli
scatti attraverso i ricordi e le sensazioni gli permette di
rivalutare le cose. «It’s
a compression of time for me. This is an old body of work and now
it’s become a new body of work, because I’ve had to revisit it
and reassess the image. There’s the connection between my present
and that part of my life twenty-five years ago, and there’s a
connection with him. He really dates back to the early part of the
century, so I feel like it’s made my arm longer, reaching in and
out of time. You look at people’s biographies, their birth and
dates, and you think about people who were born in the middle of a
century and then died in the middle of the next century, or people
who were born at the end of one century and lived through most of the
next century, or people who were born and lived only twenty years.
You think about that and all the ripples that go flowing back from
that. Something about this projection has woven those ripples
together for me»
.
Passato
e presente si fondono come nelle opere di Cornell:
«Recently I found a letter from him. I was away in Massachusetts,
and he said how he missed my eye and my camera. You remember some
things, you forget some things. It was almost like he’d said it
today»
.
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