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L'apprendista stregone: Harry Roseman a Utopia Parkway  

Eleonora Rovida
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 27 Dicembre 2014, n. 746
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Le fonti per conoscere meglio gli artisti possono essere le più disparate, ma la testimonianza diretta di chi ha vissuto con loro assistendoli quotidianamente nella preparazione delle proprie opere è quella più affascinante. Da un lato c'è il punto di vista di qualcuno che ha condiviso il momento della creazione con l'artista stesso, dall'altro una componente personale che ha filtrato quell'elaborazione e ne ha fatto linfa per il proprio lavoro assorbendone in parte l'essenza. É il caso di Harry Roseman 1 , uno degli artisti che ha conosciuto meglio Joseph Cornell essendo stato suo assistente nella dimora di Utopia Parkway tra il 1969 e il 1972: «Of all young friends and helpers, probably none was more devoted than Harry Roseman, a good-natured artist in his twenties who worked as Cornell’s assistant beginning in 1969. He lived in Jamaica, Queens, with his wife Catherine Murphy, a highly esteemed realist painter who was studying at Queen’s College» 2 .

Nell’estate del 1969 si trasferisce dal Massachussetts a New York con la compagna Cathy, la pittrice Catherine Murphy. Mentre si occupa delle pratiche burocratiche per l’iscrizione della moglie al Queens College conosce la preside Helen Schiavo: tra i due si instaura subito un ottimo rapporto. La Schiavo, venuta a sapere che Roseman è alla ricerca di un lavoro, gli parla di Joseph Cornell, uno scultore locale che ha bisogno di un apprendista. Helen Schiavo gli spiega la situazione familiare e personale dell’artista parlandogli della madre e del fratello. Conosce molto bene Cornell perché aveva organizzato una sua mostra al Queens College. Per aiutare Roseman nell’impresa di convincere l’artista, gli svela un segreto: Cornell è sempre indeciso e preso dalle sue scatole. L’unico modo per convincerlo subito è incalzarlo pretendendo una risposta immediata: «This was the key: if I leave and e he says he’s going to let me know, he’s going to have to think about it, I’d probably never hear from him again. So the key was, not to leave without a definitive answer» 3 .

Roseman ha rilasciato un’intervista per la Michigan Quarterly Review 4 curata da Nancy Willard e intitolata The sorcerer’s apprentice: a conversation with Harry Roseman, assistant to Joseph Cornell che mette in luce particolari inediti e conferme di quelle letture critiche fatte sulla straordinaria produzione cornelliana e sulla sua controversa personalità. Le risposte di Roseman sorprendono anche Willard: ad ogni domanda l’apprendista di Cornell risponde con un racconto, un episodio, un flashback trascinando la giornalista nel mondo del sorcerer. L’intervista parte dalle immagini, ovvero da una serie di scatti fotografici realizzati da Roseman negli ultimi due anni di apprendistato. Ogni immagine, corredata dal racconto dell’apprendista, apre le tende sulla verità di Cornell portando la giornalista in una realtà misteriosa: «The photographs and Harry’s account of the relationship that developed between the sorcerer of dreams and his remarkable apprentice lifted the curtain, for me, on a world as mysterious as anything Cornell ever created» 5 .

Il colloquio con Willard nel 1999 è il trait d'union per la mostra degli scatti che compongono Inside a Box: a Photographic portrait of Joseph Cornell 6 : Roseman, infatti, espone questo lavoro alla Davis & Langdale 7 Company. La memoria di Roseman naturalmente arricchisce le prime sensazioni con i ricordi dei tre anni trascorsi con Cornell: «I have a very clear idea about the house. I can probably describe every stick of furniture in it. But my sense of the house is a combination of first impressions and being there over a three-year period» 8 .

La prima impressione che ricorda Roseman della casa è l’oscurità, come se entrando si avesse l’idea di essere in un posto lontano nel tempo: si trova subito davanti ad un accumulo di oggetti immersi nel caos.
Nei primi tempi Roseman si dedica solo al lavoro di Cornell, ma, dopo le prime settimane di prova, comincia a costruire le prime scatole: «So we just started in the studio right away. Sometimes he’d have me building boxes or putting background paper on boxes, and then sometimes he’d just come down the stairs and sit four stairs from the bottom and watch me for awhile. We started new boxes, and there were many boxes around in a different states. Out of the blue he’d turn around and say, ‘Bring that box from the shelf’, which had clearly been sitting there for years. And we’d go into it and then finish it» 9 . Il tempo nella casa è diverso da quello vero: «Time was fluid, very fluid» 10 .

Roseman ricorda di aver passato molto tempo a mischiare i colori per le scatole. La tinta dominante naturalmente era il blu: «sometimes I would mix these aniline dyes for him, especially this very intense blue that he used a lot. The blue dye came in this fine powder, and we had to mix it up with alcohol to dilute it. It was so potent and so thin that my tongue would be blue, and when I blew my nose it would be blue just from mixing it up, not even putting my face over it» 11 .

Cornell era gelosissimo dei suoi oggetti: una volta un assistente aveva rotto un bicchiere che doveva comporre una scatola e l’artista era andato su tutte le furie anche solo nel raccontarglielo. Muoversi in tranquillità dentro la cantina-laboratorio 12 dell’artista non doveva essere così semplice: dalle immagini e dalle descrizioni del materiale che si accumulava ovunque non doveva essere facile spostarsi senza urtare, anche solo per sbaglio, una delle tante cianfrusaglie. Anche a Roseman è capitato: ha toccato per caso un contenitore di colore che si è rovesciato rovinosamente su tre collages. Dopo diversi tentativi per cercare di rimediare si rassegna e chiama Cornell per parlargli del piccolo disastro: si sentiva come un dodicenne che aspetta il rimprovero garantito da un adulto. Cornell, però, lo sorprende: «He looks at the collages, and he looks at me, and he looks at the collages. ‘I like it’, he says. That was so thrilling. I was so tense» 13 . Roseman, stando sempre a contatto con Cornell, si comportava come lui: erano due bambini timidi.

La cucina era il posto dove si ritrovavano insieme: «Sometimes, just because of logistics, we’d all of a sudden be in the kitchen together, and it was very clear that he didn’t have anything for me to do. It would make him edgy, and I knew not to ask him what I should do because he didn’t like that. So I found that if I got quieter and quieter and calmer and calmer he’d start to forget I was there. It was an ability I worked on» 14 .

Era sicuramente una zona della casa molto cara a Cornell: quando la madre era ancora in vita, l’artista lavorava proprio in cucina. Alcune volte l’apprendista trovava dei pezzi di collage sul tavolo. Roseman la ricorda di un bellissimo blu: «The kitchen was painted this wonderful blue. He was a young adult when it got painted. He had to go to the store, and he wanted the kitchen to be Giotto blue. He told me he was embarrassed to tell this to the paint store man-he thought it was kind of affected-so he said to the clerk, ‘My mother told me to ask for Giotto blue’ » 15 .

L'assistente ha immortalato più volte Cornell alla finestra 16 : «It’s one reason that photographs looking out the kitchen window or near the kitchen sink are so particular to me, because that was where I would stand sometimes for hours and literally try to dematerialize myself. I would make my presence lighter and lighter and lighter» 17 . Guardare attraverso il vetro era una specie di meditazione: «It was a kind of meditation. And a part of what I would do was literally to make my presence not felt. So it was a combination of my mind getting lighter and lighter and my mind trying to make my body lighter. I got very good at it. I should revisit it periodically now when I get tense because it’s very freein» 18 .

Il legame tra i due scultori, con il passare del tempo, diventa sempre più forte: Roseman era un “tutto-fare” per Cornell. L’assistente ricorda come il suo rapporto con l’artista fosse più simile a quello che c’è tra medico e infermiere. C’era collaborazione, ma anche fiducia. Prendevano l’autobus insieme per addentrarsi nel cuore di Manhattan: «And sometimes I remember we’d walk to the corner to take the bus to downtown Flushing, for shopping and stuff» 19 . Cornell aveva una strano modo di camminare: «Sometimes we’d been walking slow, and then we’d speed up for no reason and then slow down and then we’d speed up for no reason and then slow down and then speed up again. It was like being led by a dance partner» 20 . In fondo il suo rapporto con il tempo è sempre stato ambiguo.

Roseman faceva molte commissioni personali per l’artista: gli comprava anche i vestiti. Cornell voleva che i suoi abiti fossero di circa cinque taglie più grandi: in genere i figli degli emigranti non avevano la possibilità di cambiare spesso il guardaroba e i genitori compravano o confezionavano degli indumenti più grandi rispetto alla misura corretta in modo da poterli utilizzare per più tempo. Questa è un’abitudine che si adatta ai bambini che crescono, non ad un uomo della sua età, ma Cornell, in fondo, si era sempre sentito un bambino. I suoi abiti erano piuttosto monocromatici: vestiva in grigio. Vedendolo sembrava un’apparizione, dato il pallore del suo viso: «He was very pale. Pale, pale, pale. He was the palest person I’ve ever seen. He was very gaunt and very white. He had no color at all, and he dressed in grays and blacks. He felt like someone in a black and white photograph. Sometimes he’d wear brown sweater. I have some color photographs of him and some in black and white ones, but the black and white ones feel more to me the way he felt in life» 21 . Gli scatti, in effetti, mostrano l’artista come se fosse uno spettro: il bianco e nero uniforma la sua figura esile agli interni oscuri della casa come se fosse una parte di essa. É un gioco di ombre: le scatole cornelliane sono dette Shadow Boxes.

Roseman non fotografa da subito Utopia Parkway: all’inizio non aveva molta confidenza con l'artista, ma con il passare del tempo l’assistente decide di immortalare alcuni oggetti della casa. Era uno scultore, ma aveva imparato ad usare la macchina fotografica all’età di tredici anni e questa forma artistica lo accompagnerà per tutta la sua vita.

Cornell, in un primo momento, non se ne cura: «Cornell had no interest in posing, but did not object to having Roseman photograph his house» 22 . Roseman, però, decide di mostrargli qualche scatto: «I started by taking a picture of the yard or the house and at some point I showed him some pictures that where kind of relevant to him. And he got used to me having my camera and periodically he would ask me to take a picture of something» 23 .

Le fotografie, per la maggior parte in bianco e nero, non sono mai state pubblicate eccetto due: «The photos, most of them black-and-white, have not been published (with two exceptions) but certainly deserved to be. They offer a portrait of the artist as seen through the rooms of his house, themselves an image of his interior life, which their astonishing profusion of books, files, beloved objects, and his own artwork» 24 . Queste immagini sono molto più che semplici ricordi o documenti: sono racconti di procedimenti cerebrali, fondamenti di una tecnica magica.


Scatti d’autore
Le fotografie che compongono Inside a Box mostrano come Cornell abbia influenzato il suo giovane assistente. La cura per il dettaglio e l’attenzione per l’atmosfera che si respirano a Utopia Parkway sono caratteri salienti degli scatti di Roseman. L’obiettivo del fotografo coglie particolari indifferenti a chi non ha vissuto con lo “stregone” e svela un lato magico dell’artista.

Roseman realizza una serie perfetta che ha come oggetto le pere 25 : sono particolari banali e quotidiani, ma quando si tratta di Cornell non si può dare niente per scontato. Roseman racconta: «I did a whole series of photographs of pears. The pears were really intriguing. There was a front door and side back door, and a mudroom. The light in the mudroom was very beautiful. So one day I came in and there were these pears on the window still» 26 . L’occhio indagatore del fotografo, ormai influenzato dall’amore di Cornell per gli oggetti, riesce a vedere quei frutti come bellezze perfette anche se si tratta di oggetti comuni: «And they were very ordinary, pristine, three perfect pears in a soft light, and I just took a photo of them. If that had been it, it wouldn’t have meant very much to me, because it was a pretty photograph, possibly too pretty» 27 .

Roseman, stranamente, confessa di non aver mai parlato all’artista di queste foto, ma è possibile che si fosse accorto dell’interesse del suo assistente per questi frutti:
«But over the next weeks these pears-sometimes there was one, sometimes there were three, they started to shrivel up. It was like this pear performance. And sometimes they’d be cut in quarters, and they had nails sticking out of them. He was doing this when I wasn’t there» 28 . Sembrano quasi crocifisse 29 , ma allo stesso tempo sono narrative: è una storia di immagini. Non si conosce il motivo di questo procedimento, ma è una specie di rituale inconscio. Queste immagini ricordano il principio delle nature morte nella pittura olandese del Seicento, ma lo scatto le rende uniche: la foto non mostra un accanimento sulla frutta, ma l’incanto di un ritaglio, seppur strano, di un pezzo di vita. Ogni cosa sembra avere un suo senso anche se strano.

Cornell parlava degli oggetti in un modo particolare, li rendeva fantasiosi e speciali: «For example, outside in the yard there was a stone squirrel and a ceramic frog and these plaster rabbits, a big rabbit and baby rabbits. Then there’s the whole history of his brother Robert’s rabbit drawings. He told me once that James Thurber came over and really liked Robert’s drawings. So I started to internalize some of that. These plaster rabbits, which are just junky plaster rabbits that come from nursery, were the only plaster rabbits like these in the whole world. When I photographed these rabbits, I felt like I was photographing something rather extraordinary. I wonder what happened to those bunnies. I wonder if anybody saved them» 30 .

L’attenzione per le cose si mischia ai ricordi proprio come succede per le scatole. Anche Roseman, nel suo racconto, sembra soffrire di questa “patologia” trasmessagli dall’artista: «The house was so dark inside that it did seem black and white. Here’s another way of describing it. When I was in junior high school, sometimes my mother would stay up late and when I’d come home for lunch, she’d still be sleeping. So when I’d walk in the door with my key, the house had a kind of sleepy, dark, out-of-time-sequence feeling» 31 .

Ogni volta che l’intervistato guarda le fotografie 32 per raccontare al giornalista dei particolari di Cornell ripensa all’atmosfera avvolgente di quella casa: «A photograph like this is about the light, and it’s about his place, and it’s about surface, and it’s about a certain time, but for me it’s mostly about when it felt like to be in that kitchen on a certain day, and the way time and light are there. When I look at this photograph it brings back the place but even more, it brings back the way it felt to be there» 33 .

La camera da letto dell’artista 34 conserva il ricordo della madre: «we see the bedroom that for decades belonged to Mrs. Cornell, empty now, but still unmistakably a woman’s bedroom, with faded floral wallpaper and treetops visible just outside the window» 35 . La stanza, più che una camera accogliente, sembra la cella di un monaco: «we see Cornell’s bedroom-prim, uncluttered, virginal. He slept on a narrow metal cot that looked as if it belonged in an army hospital; there was no bedspread, just a white sheet pulled up to the headboard. Venetian blinds hung on one window, a vinyl shade on the other» 36 .

Roseman realizza anche degli scatti all’esterno della casa: le immagini del giardino sono meno suggestive rispetto a quelle degli interni, ma danno un’idea di quella casa così tipicamente olandese.
Nell’immagine del frontespizio si trova Cornell seduto sotto il cotogno del giardino: « we see the quince tree beneath which he loved to sit. We see a lone chair with no one in it. In one affecting photograph (frontispiece), Cornell makes an appearance, sitting with his back toward the viewer, an old man reading a book in a chair that seems strangely small, more suitable perhaps for a child» 37 .

Cornell aveva l’abitudine di riprendere di spalle 38 le ragazze che filmava di nascosto. La scelta delle inquadrature, infatti, non è sempre scelta dal fotografo: «The pictures I usually take are interactive. When he was posing for me, sometimes it was my idea and sometimes it was his idea. I was posing for me, sometimes it was my idea and sometimes it was his idea» 39 .

Il titolo della serie fotografica 40 , idea dalla compagna di Roseman, nasce proprio dal concetto di questo scambio di idee: «Actually Cathy though of the title. The show is about being inside the box, inside his head, inside my head» 41 . Il rapporto tra i due nel periodo in cui vengono scattate le foto è ben radicato.
Nonostante la disponibilità alle pose per l’assistente, l’artista resta comunque con la testa bassa guardando raramente l’obiettivo 42 : «He never quite looked at you very often anyway, so in all the pictures he’s slightly looking down. His eyes were very inset in his head, and in shadow sometimes. Very rarely did he look at the camera, which felt like a kind of shyness. Someone did ask me if he was shy and I couldn’t answer, because ‘shy’ doesn’t seem like the right word. I’m not sure if ‘shy’ explains it. Sometimes he became almost unaware that I photographing him in the middle of photographing him, which was very nice» 43 .


Una serie speciale
Le fotografie scattate da Roseman sono sicuramente documenti importanti per vedere come fosse realmente Utopia Parkway. Gli scatti, però, non sono semplici testimonianze visive: è come se Roseman avesse acquisito la metodologia di Cornell. Anche l’assistente “lavora con le cose”: le osserva, ne coglie l’invisibile meraviglia nella loro quotidiana banalità. Queste fotografie sono molto diverse da tutte quelle che si possono trovare: tanti hanno immortalato Cornell e Utopia Parkway 44 , ma nessuno le ha trattate in questo modo. Quando Roseman scatta le foto agisce nel quotidiano della sua esperienza: «One of the differences might be this: taking those pictures was part of my everyday life at that moment, as well as part of his. It’s not like I had an appointment with him and had to arrive at his house at three o’clock and take a series of photos. They were done in the fabric of going about our business» 45 .

L’intervista 46 fatta a Roseman poteva partire solo dalle immagini: la lettura degli scatti attraverso i ricordi e le sensazioni gli permette di rivalutare le cose. «It’s a compression of time for me. This is an old body of work and now it’s become a new body of work, because I’ve had to revisit it and reassess the image. There’s the connection between my present and that part of my life twenty-five years ago, and there’s a connection with him. He really dates back to the early part of the century, so I feel like it’s made my arm longer, reaching in and out of time. You look at people’s biographies, their birth and dates, and you think about people who were born in the middle of a century and then died in the middle of the next century, or people who were born at the end of one century and lived through most of the next century, or people who were born and lived only twenty years. You think about that and all the ripples that go flowing back from that. Something about this projection has woven those ripples together for me» 47 .
Passato e presente si fondono come nelle opere di Cornell: «Recently I found a letter from him. I was away in Massachusetts, and he said how he missed my eye and my camera. You remember some things, you forget some things. It was almost like he’d said it today» 48 .






NOTE

2 D. Solomon, Utopia Parkway : the life and work of Joseph Cornell, Boston 2004, p. 357.

3 N. Willard, The sorcerer’s apprentice: a conversation with Harry Roseman, assistant to Joseph Cornell, “Michigan Quarterly Review”, Volume XXXVIII, Number I, Winter 1999, p. 38.

5 N. Willard, 1999, p. 37.

6 J. Edwars, S. L. Taylor, Opening the box, New York 2003, p. 2.

8 N. Willard, 1999, p. 39.

9 Ibidem.

10 Ibidem.

11 Ivi, p. 41.

12D. Solomon, 2004.

13N. Willard, 1999, p. 41.

14 Ivi, p. 44.

15 Ivi, p. 51-52.

17 N. Willard, 1999, p. 41.

18 Ivi, p. 45.

19 Ivi, p. 43.

20 Ibidem.

21 Ivi, p. 42.

22 D. Solomon, 2004, p. 359

23 N. Willard, 1999, p. 46

24 D. Solomon, 2004, p. 359

26 N. Willard, 1999, p. 46.

27 Ibidem.

28 Ibidem.

29J. Edwars, S. L. Taylor, Opening the box, New York 2003, p. 113

30 N. Willard, 1999, p. 48

31 Ivi, p. 52

32Harry Roseman, In memoriam, Joseph Cornell, http://faculty2.vassar.edu/haroseman/?p=1161

33 N. Willard, 1999, p. 52

34Harry Roseman, Cornell's Bedroom, http://faculty2.vassar.edu/haroseman/?p=1161

35 D. Solomon, 2004, p. 359.

36 Ibidem.

37 Ibidem.

38B. M. Stafford, F. Terpak, Devices of Wonder. From the world in a box to images on a screen, Los Angeles 2001.

39 N. Willard, 1999, p. 54

41 N. Willard, 1999, p.55

42Harry Roseman, Photographies, http://faculty2.vassar.edu/haroseman/?p=1161

43 N. Willard, 1999, p.55

45 N. Willard, 1999, p. 55

47 N. Willard, 1999, p. 56

48 Ibidem






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