Dal
testo all’immagine.
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“Nella
parte mediana di questa spectatissima area, vidi uno eximio fonte
di limpidissime aque,
scaturiente in alto fina alla sublimitate quasi della viridante
clausura per angustissime fistulette, et giù in una larga concha
cadevano, la quale era di finissimo amethysto il cui diametro tre
passi continiva, di crassitudine quadrante verso gli labri in
uncia demigrante, di excellentissima fusura, circuncirca apparendo
di anaglypho dignissimi expressi di monstri aquatuli. Di quanti mai gli
antiquarii inventori in duritudine fingere prestantemente valseno.
Opera daedalea et di admiratione
conspicua. Né tale se iacti Pausania havere statuito il
suo cratere aeneo ad Hippari. La quale habilmente fondata era
sopra uno egregio stylo di diaspro, di varicose mixture, la una
per l’altra venustamente adulterantese, intersecantese il
diaphano calcedonio, di colore di marina aqua turbida, riduto in
nobilissima factura. Excitato di vasi gutturii, uno sopra
all’altro, cum separatione di eximia nodatura. Il quale erecto
stava infixo nel centro di uno plyntho rotondato di verdigiante
Ophites. Il quale rotondo, era levato dal aequato pavimento,
quincuncio cum il circundante Porphyro, che era cum perpolite
undule
curiosamente liniato. Circuncirca al stylo subiecte alla concha
quatro Harpyie d’oro
cum gli unguicosi pedi et rapaci, sopra la planicie del Ophites
posite adstavano. Le quale cum le parte posteriore verso al stylo,
l’una opposita directamente all’altra, et cum suesplicate ale
sotto resistevano al ianthino labro, overo concha, cum virginei
volti. Crinite giù per le spalle dalla cervice deflui gli
capillamenti. Et cum la testa non giungendo sotto la concha. Cum
le caude anguinee inglobantese, et in extremo in antiquaria
frondatura se demigrante. Facevano all’infimo vaso gutturnio del
stylo, non ingrata, ma amicale illaqueatura et coniugio. Intro nel
mediano umbilico del vaso sopra
l’ordine del subiecto stylo, era proportionatamente sublevato
del proprio vaso Amethystio,
uno oblongo calice inverso, tanto più sublato, quanto era
exfossato il vaso, il
suo medio, dagli ambienti labii della concha. Sopra il quale
excitata era una artificiosa Arula, supposita alle tre Gratie
nude. Di finissimo oro, alla proceritate communa, l’una cum
l’altra adhaerentise. Dalle papille delle tate delle quale,
l’aqua surgente stillava subtile, quale virgule apparendo di
cinerato argento terso et strissato. Et quale si extilata si fusse
per il candidissimo pumice di Taracona. Et ciascuna di esse nella
mano dextera teniva una omnifera copia, la quale sopra del suo
capo alquanto excedeva. Et daposcia tutte tre le aperture,
elegantemente convenivano in una rotondatione et hiato parimente
inseme coeunte. Cum fructi et fronde varii pendenti fora degli
oruli, overo labii degli intorquati corni abondantemente referti.
Tra
gli fructi et fogliature alquanto prominevano dispositamente sei
Sipunculi effluendo, dagli quali l’aqua per filatissimo exito
saliva. Daposcia il solertissimo artifice fusore per non impedire
uno cubito cum l’altro, cum signo di pudicitia le statue cum la
leva mano occultavano la parte digna di copertura. Sopra gli labii
dilla hiante concha (dilla quale la circuitione più ambiva uno
pedi del subiacente Ophites) cum il capo levato sopra gli sui pedi
viperei stando, cum decentissimo intercalato assidevano sei
squamei draconculi d’oro praelucenti. Per tale excogitata arte,
che l’aqua dalle mammille manante cadeva directamente nella
vacuata et aperta cranea della testa degli recitati draconculi,
cum le ale dispanse, mordici et similmente cadauno di uno
Sepunculo regeravano, o vero evomevano essa aqua. La quale cadeva
poscia ultra la rotundatione dil Ophites, et tra una rotunditate
porphyrica, le quale erano aequalmente più eminente della
aequatura de l'area, overo subdivale pavimento, quanto sopra è
dicto. Ove interiecto ambiva uno canaliculo tra lo Ophites et essa
porphyrica rotundatione lato in apertione di pede uno et semi, et
duo integri profundato. Il quale Porphyrico, era tripedale nella
plana superficie, cum eximia undiculatione, verso il pavimento.
Il
residuo degli draconculi per il moderato lacunare della concha
serpivano dummentre che
tutti convenisseno transformate le sue extreme caude in antiquaria
fogliatura, et in uno periocundissimo illigamento cum l’arula,
alle tre imagine substituta, overamente suppedio, cum
proportionata altecia. Sencia occupatione deforme,
del lacunato della pretiosa concha. Diqué per il verdigiante
congresso del Naranceo
claustro, et per la collustratione della lucida materia, et per le
purissime aque rendevasi uno gratissimo coloramento, quale Iris
nelle cavate nebule dentro del nobile, superbo, et elegante vaso.
Poscia nel pandare corpulento della concha tra l’uno et l’altro
draconculo in aequabile spatio, della praestante fusura extavano
capi di iubato leone, cum exquisita exactione, vomebondi
spargevano per uno vorabile Sipunculo l’aqua stillante dale sei
fistulette, nella copia bellissime constitute. La quale aqua cum
tanto frenato impulso saliva, che il praecipitio suo cadeva tra
gli draconculi ne l'ampia et sonabile concha, cum gratissimo
tinnito del apertissimo vaso per l’alto caso delle dicte aque.
Di questa dunque rarissima operatura, cum tanto acuto ingegno
praecipuamente extructa, quale era esso insolente vaso. Le quatro
perfectissime Harpyie, et quale era di eximia dignitate l’arula,
che io vidi ove assidevano le tre figure di fulgentissimo oro, et
cum quale artificio et politura digesta. Io giamai subcincte et di
lucidissimamente explicare non saperei, et meno idoneo il tutto
descrivere. Factura non di humano ingegno. Ma licente testificare
posso (gli Dii deierando) che nunque al nostro saeculo tale né
alquanto aequivalente Toreutica fusse più grata et più
spectabile excogitata.
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Nella
parte di mezzo di questa zona attraente, vidi una pregiata fonte
di limpidissima acqua, che scaturiva da strette fessure fino quasi
alla sommità (della siepe), e giù cadeva in una larga conca di
pregiata ametista, quadrata, il cui diametro era di tre passi,
mentre lo spessore ai bordi si assottigliava. Era di eccellente
fattura, e sembravano scolpiti in rilievo mostri acquatici, che
mai gli antichi inventori ne pensarono di così spaventosi, degna
di Dedalo e della maggiore ammirazione possibile.
Un’opera
fatta con alto ingegno e di cospicua ammirazione tale a quel
cratere di bronzo che Pausania aveva posto a Ipari.
La
vasca era posa sopra una colonna di diaspro, di diverse misture,
tutte mischiate con grazia fra loro, mischiate al pallido
calcedonio, del colore dell’acqua marina che si ergeva in forma
di due vasi gutturni, uno sopra l’altro, separati da una
splendida giuntura. La colonna si si ergeva al centro di un plinto
rotondo di ofite verde, che era elevato dal pavimento di cinque
pollici, insieme alla vasca in porfido intagliata raffinatamente
come a creare delle onde. Intorno ad essa sottostante la conca,
c’erano quattro arpie d’oro con i piedi unghiuti e rapaci,
collocate sopra il plinto di ofite, con la parte posteriore verso
la colonna, l’una posta direttamente all’altra, mentre con le
ali spiegate reggevano il bacino violetto della conca.
Avevano
volti virginali, folti capelli fino alle spalle e con la testa non
sfioravano la conca mentre con le code serpentine si avvolgevano
mischiandosi ai fogliami all’antica.
Con
il vaso gutturnio della colonna creavano un insieme non spiacevole
ma amichevole e armonico.
Dentro,
con altezza proporzionata, al centro della conca ametistina si
innalzava un calice oblungo e rovescio vaso che sporgeva per metà
al di sopra del bordo circostante della conca.
Sopra
tale calice c’era un altarino con sopra le tre Grazie nude, di
finissimo oro, di uguale statura e aderenti l’una all’altra:
dai loro capezzoli un filo d’acqua stillava sottile, argentei
fili cinerini, tersi e levigati, come filtrata attraverso la
pomice candidissima di Taracona.
Ognuna
di essa teneva nella mano destra una cornucopia ricolma che
arrivava fino sopra al loro capo: in cima convergevano elegantemente in un’unica bocca rotonda, dai cui orli
traboccavano i più vari frutti e fronde che riempivano le
abbondanti cornucopie. Fra le quali ne spuntavano sei ben disposte
cannule dalle quali sgorgavano acqua fuoriuscente in sottilissimi
zampilli.
L’attentissimo
artista per impedire che i gomiti si toccassero l’uno con
l’altro, aveva fatto in modo che, in segno di pudicizia, le
statue occultassero con la mano sinistra la parte che si deve
coprire.
Sul
bordo della concava vasca, la cui circonferenza superava di un
piede il sottostante plinto di ofite, sedevano con il capo levato
e appoggiati sui piedi viperini, sei squamosi draghetti d’oro
smagliante.
L’artificio
era così ben escogitato che l’acqua versata dalle mammelle
cadeva direttamente nelle cavità delle teste vuote e aperte dei
draghetti, i quali con le ali aperte e digrignanti la riversavano
tutti insieme, cioè la rigettavano per farla ricadere oltre il
rotondo d’ofite, i quali si elevavano entrambi nella stessa
misura sulla superficie dell’area, ovvero del pavimento
scoperto, della misura che sopra si è detta.
Dove
intorno girava un canaletto, ampio un piede e mezzo in larghezza e
profondo esattamente due, posto fra il plinto di ofite e l’anello
di porfirite che aveva un diametro di tre piedi, e poggiava sul
pavimento con una modanatura a onda.
I
posteriori dei draghetti, per la modesta convessità della conca,
confluivano in forma di code serpentinate che alle estremità si
trasformavano in un’antica fogliatura, e in una graziosa
giuntura con il piedistallo sottostante alle tre statue, con
un’altezza proporzionata alla concavità della vasca.
Dunque
la verdeggiante stretta degli alberi di arancio, e il riflesso
della lucida materia e la limpidezza delle purissime acque
creavano come un gradevole arcobaleno fra le nuvole dentro la
nobile, superba ed elegante vasca.
Proprio
dove si incurvava, fra l’uno e l’altro draghetto, si
trovavano, a uguale distanza, delle teste di leone crinito,
eseguite con mirabile fattura, che espellevano dalla bocca l’acqua
stillante dalle sei cannucce disposte nelle bellissime cornucopie.
Tale
acqua, che zampillava moderatamente dai leoni, precipitava sotto
fra i draghetti, nell’ampia vasca che per il cadere dall’alto
dei getti, faceva un graditissimo tintinnio.
Dunque
di questa rarissima opera, costruita con acuto ingegno, con la superba
vasca, con le quattro perfette arpie, il decoro eccelso ove stavano le
tre statue sfolgoranti d’oro io saprei spiegare lucidamente e
brevemente la fattura, sicuramente non di umano ingegno.
Ma
tranquillamente posso testimoniare, lo giuro per gli dei, che
nessuna cosa del nostro secolo fu scolpita con tale dovizia.
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La
descrizione che Polifilo fa della fontana che incontra nel suo
cammino è molto simile alla xilografia che qui si analizza. La più
consistente mancanza deriva dalla monocromia dell’illustrazione che
non può quindi rendere giustizia alla dovizia di materiali di
diversi colori che vengono elencati finemente.
Il
soggetto principale della fontana descritta ed illustrata
nell’Hypnerotomachia Poliphili consiste in un gruppo
scultoreo composto da Tre Grazie che Maurizio Calvesi nel suo
Il sogno di Polifilo Prenestino del 1983 ricollega al
complesso marmoreo con omonimo soggetto che si trova nella Libreria
Piccolomini nel Duomo di Siena.
Storia
del gruppo scultoreo delle Tre Grazie
La
statua, appartenuta fin dalla seconda metà del quindicesimo secolo
alla famiglia Piccolomini, si trova oggi, dopo una serie di dispute
che l’hanno accompagnata nel corso dei secoli, nella sua originaria
collocazione, al centro della Libreria che Francesco Tedeschini
Piccolomini aveva costruito e deciso di dedicare alla memoria delle
gesta di suo zio, Enea Silvio Piccolomini, morto papa Pio II.
Fino
al diciannovesimo secolo si è creduto che la storia dell’antica
statua, probabilmente copia romana di un originale greco, fosse
legata da sempre a quella della famiglia che per ultima l’ha
posseduta.
Il
De Rossi però nel 1886
sposta i riflettori su un disegno di Fra Giocondo degli ultimi
decenni del Quattrocento che ritrae il suddetto gruppo marmoreo con
un epigramma, composto per le Tre Grazie in cui si legge
«Romae in baside
vetustissima sub tribus Nymphis marmoreis alternis branchiis intet se
connexis: sunt nudae charites niveo de marmore at illas / diva
columna suis aedibus intus habet»
(«A Roma su una base
antichissima posta sotto tre Ninfe di marmo reciprocamente
abbracciate; le Grazie nude di un marmo bianco erano dentro la casa
dei Colonna»).
Inoltre
la didascalia riferita all’epigramma aggiunge che le Grazie «erant
olim in domo cardinalis de Columna cum subscriptis
versibus (cioè l’epigramma), nunc vero sunt in domo
R(everendissi)mi Cardinalis Senensis, et non sunt infrascripta
carmina»
(«Erano un tempo in casa
del cardinale Colonna insieme ai sottoscritti versi, mentre ora si
trovano in casa del reverendissimo cardinale di Siena, ma non ci sono
più i relativi versi»).
Questo
stesso epigramma si trova, anche se con alcune varianti, in altre
edizioni della silloge di Fra Giocondo e in due codici del Marcanoca,
risalenti agli anni sessanta del Quattrocento.
Si
evince quindi che quando le Tre Grazie erano esposte nella
proprietà Colonna, erano esibite sopra il piedistallo che riportava
i nomi dei proprietari, cosa che mutò quando il gruppo scultoreo
passò nelle mani dei Piccolomini, prima nel loro palazzo costruito
dove poi sorgerà Sant’Andrea della Valle e poi nel Duomo di Siena.
Il
De Rossi però nel suo studio delle vicende storiche del gruppo
scultoreo è andato oltre: in un codice epigrafico senese di poco
posteriore alla metà del Quindicesimo secolo e comprendente anche
l’epigramma moderno, ha notato che la relativa didascalia
presentava una variante molto significativa; alle parole tribus
Nynphis (“Tre Ninfe”) era legata la frase repertis in
aedibus domini de Colomna («trovate
in casa del signor Colonna»)
.
Questo dato permette con quasi sicura certezza di risalire anche al
luogo di rinvenimento del gruppo scultoreo, quindi sul Quirinale, nel
sito dove poi sorgerà il palazzo della famiglia Colonna.
Il
Marcanova però riferisce la collocazione in casa Colonna solo
relativa alla base e non al gruppo antico .
Inoltre
la presenza delle Tre Grazie in casa Piccolomini è
testimoniata oltre che dalle fonti epigrafiche anche da un disegno
degli ultimi anni del ‘400 (fig. 1), attribuito ad Antonio
Federighi
dove si legge la seguente didascalia: «queste
femine sono in chasa Cardinale di Siena. Sono fatte dreto ed inanzi.
Chiamasi le tre grazie. IN ROMA antiche».
Anche
il Vasari, parlando degli affreschi del Pinturicchio nella Libreria
Piccolomini, ricorda il gruppo scultoreo: «furono
in que’ tempi le prime anticaglie che fussono tenute in pregio»
.
Le
Tre Grazie e l’Hypnerotomachia Poliphili
Il
valore simbolico che il gruppo marmoreo assume nella sua
rappresentazione xilografica, dove si trasforma in fontana, è quello
che caratterizza un po’ tutto il romanzo, cioè un appassionato
gusto di riscoperta dell’antico che diventa protagonista e
accompagna Polifilo nel suo viaggio.
La
presenza di un modello reale rende plausibile pensare che l’autore
dell’Hypnerotomachia Poliphili si sia ispirato proprio ad
esso nella sua rappresentazione letteraria. Non è un caso infatti
che, come si è visto, il gruppo marmoreo appartenne alla famiglia
Colonna almeno fino agli anni ’80 del Quattrocento.
Nonostante
una buona parte della critica sia ancora decisa a negare ogni qual
forma di evidenza riguardo i costanti richiami ai monumenti
dell’antica romanità nel Polifilo, questa non può che
essere una prova schiacciante che tende ad avvicinare sempre più il
Francesco Colonna autore ricordato dall’acrostico al Francesco
Colonna prenestino che non solo faceva parte della famiglia
posseditrice del reale modello e che quindi poteva avere avuto modo
di vederlo e di trarne spunto, ma che inoltre era anche probabilmente
in contatto con la famiglia Piccolomini.
Inoltre, guardando agli studi precedentemente affrontati da chi scrive, se si ritiene plausibile una conoscenza tra Francesco Colonna signore di Palestrina e il cardinal Marco Barbo, che dal 1478 è vescovo proprio di questa città, e che inoltre era intimo amico proprio del Piccolomini, tanto che quest'ultimo fu suo esecutore testamentale, non si può non ritenere questa un'ulteriore prova della conoscenza fra il Colonna e il Piccolomini.
Si
ricorda in ultimo, che Martino Filetico compose nel 1461 versi latini
per il gruppo marmoreo delle Tre Grazie che a quella data
erano ancora appartenenti a Prospero Colonna; ulteriore prova questa
che il Francesco Colonna autore del Polifilo non può che essere il
signore di Palestrina considerato che proprio Martino Filetico nelle
sue Iocundissime Disputationes fu il primo ad utilizzare il
termine πολυφιλία
NOTE
BIBLIOGRAFIA
CALVESI
1983
Maurizio
Calvesi, Il sogno di Polifilo Prenestino, Roma, Officina,
1983.
COLONNA
2013
Stefano
Colonna, Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche
per lo studio del Rinascimento, Roma, Gangemi, 2013.
DESSÌ
2014
Alessia
Dessì, La committenza Barbo nella Casa dei Cavalieri di Rodi a
Roma, in Arte e committenza a Roma e nel Lazio fra Umanesimo
e Rinascimento maturo, a cura di S. Colonna, Roma, Campisano,
2014, pp. 57-79.
DE
ROSSI 1886
Giovan
Battista De Rossi, Miscellanea di notizie bibliografiche e
critiche per la topografia e la storia dei monumenti di Roma, in
“Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma”,
XIV, pp. 345-356.
LIBRERIA
1998
La
Libreria Piccolomini nel Duomo di Siena, a cura di Salvatore
Settis e Donatella Toracca, Modena, 1998.
Vedi nel BTA:
LE XILOGRAFIE DELL'HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI
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