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La xilografia con la fontana de Le Tre Grazie dell'Hypnerotomachia Poliphili Hypnerotomachia Poliphili, scheda della xilografia n. 23

Alessia Dessì
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 22 Marzo 2015, n. 762
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Dal testo all’immagine.


Nella parte mediana di questa spectatissima area, vidi uno eximio fonte di limpidissime aque, scaturiente in alto fina alla sublimitate quasi della viridante clausura per angustissime fistulette, et giù in una larga concha cadevano, la quale era di finissimo amethysto il cui diametro tre passi continiva, di crassitudine quadrante verso gli labri in uncia demigrante, di excellentissima fusura, circuncirca apparendo di anaglypho dignissimi expressi di monstri aquatuli. Di quanti mai gli antiquarii inventori in duritudine fingere prestantemente valseno. Opera daedalea et di admiratione conspicua. Né tale se iacti Pausania havere statuito il suo cratere aeneo ad Hippari. La quale habilmente fondata era sopra uno egregio stylo di diaspro, di varicose mixture, la una per l’altra venustamente adulterantese, intersecantese il diaphano calcedonio, di colore di marina aqua turbida, riduto in nobilissima factura. Excitato di vasi gutturii, uno sopra all’altro, cum separatione di eximia nodatura. Il quale erecto stava infixo nel centro di uno plyntho rotondato di verdigiante Ophites. Il quale rotondo, era levato dal aequato pavimento, quincuncio cum il circundante Porphyro, che era cum perpolite
undule curiosamente liniato. Circuncirca al stylo subiecte alla concha quatro Harpyie d’oro cum gli unguicosi pedi et rapaci, sopra la planicie del Ophites posite adstavano. Le quale cum le parte posteriore verso al stylo, l’una opposita directamente all’altra, et cum suesplicate ale sotto resistevano al ianthino labro, overo concha, cum virginei volti. Crinite giù per le spalle dalla cervice deflui gli capillamenti. Et cum la testa non giungendo sotto la concha. Cum le caude anguinee inglobantese, et in extremo in antiquaria frondatura se demigrante. Facevano all’infimo vaso gutturnio del stylo, non ingrata, ma amicale illaqueatura et coniugio. Intro nel mediano umbilico del vaso sopra l’ordine del subiecto stylo, era proportionatamente sublevato del proprio vaso Amethystio, uno oblongo calice inverso, tanto più sublato, quanto era exfossato il vaso, il suo medio, dagli ambienti labii della concha. Sopra il quale excitata era una artificiosa Arula, supposita alle tre Gratie nude. Di finissimo oro, alla proceritate communa, l’una cum l’altra adhaerentise. Dalle papille delle tate delle quale, l’aqua surgente stillava subtile, quale virgule apparendo di cinerato argento terso et strissato. Et quale si extilata si fusse per il candidissimo pumice di Taracona. Et ciascuna di esse nella mano dextera teniva una omnifera copia, la quale sopra del suo capo alquanto excedeva. Et daposcia tutte tre le aperture, elegantemente convenivano in una rotondatione et hiato parimente inseme coeunte. Cum fructi et fronde varii pendenti fora degli oruli, overo labii degli intorquati corni abondantemente referti.
Tra gli fructi et fogliature alquanto prominevano dispositamente sei Sipunculi effluendo, dagli quali l’aqua per filatissimo exito saliva. Daposcia il solertissimo artifice fusore per non impedire uno cubito cum l’altro, cum signo di pudicitia le statue cum la leva mano occultavano la parte digna di copertura. Sopra gli labii dilla hiante concha (dilla quale la circuitione più ambiva uno pedi del subiacente Ophites) cum il capo levato sopra gli sui pedi viperei stando, cum decentissimo intercalato assidevano sei squamei draconculi d’oro praelucenti. Per tale excogitata arte, che l’aqua dalle mammille manante cadeva directamente nella vacuata et aperta cranea della testa degli recitati draconculi, cum le ale dispanse, mordici et similmente cadauno di uno Sepunculo regeravano, o vero evomevano essa aqua. La quale cadeva poscia ultra la rotundatione dil Ophites, et tra una rotunditate porphyrica, le quale erano aequalmente più eminente della aequatura de l'area, overo subdivale pavimento, quanto sopra è dicto. Ove interiecto ambiva uno canaliculo tra lo Ophites et essa porphyrica rotundatione lato in apertione di pede uno et semi, et duo integri profundato. Il quale Porphyrico, era tripedale nella plana superficie, cum eximia undiculatione, verso il pavimento.
Il residuo degli draconculi per il moderato lacunare della concha serpivano dummentre che tutti convenisseno transformate le sue extreme caude in antiquaria fogliatura, et in uno periocundissimo illigamento cum l’arula, alle tre imagine substituta, overamente suppedio, cum proportionata altecia. Sencia occupatione deforme, del lacunato della pretiosa concha. Diqué per il verdigiante congresso del Naranceo claustro, et per la collustratione della lucida materia, et per le purissime aque rendevasi uno gratissimo coloramento, quale Iris nelle cavate nebule dentro del nobile, superbo, et elegante vaso. Poscia nel pandare corpulento della concha tra l’uno et l’altro draconculo in aequabile spatio, della praestante fusura extavano capi di iubato leone, cum exquisita exactione, vomebondi spargevano per uno vorabile Sipunculo l’aqua stillante dale sei fistulette, nella copia bellissime constitute. La quale aqua cum tanto frenato impulso saliva, che il praecipitio suo cadeva tra gli draconculi ne l'ampia et sonabile concha, cum gratissimo tinnito del apertissimo vaso per l’alto caso delle dicte aque. Di questa dunque rarissima operatura, cum tanto acuto ingegno praecipuamente extructa, quale era esso insolente vaso. Le quatro perfectissime Harpyie, et quale era di eximia dignitate l’arula, che io vidi ove assidevano le tre figure di fulgentissimo oro, et cum quale artificio et politura digesta. Io giamai subcincte et di lucidissimamente explicare non saperei, et meno idoneo il tutto descrivere. Factura non di humano ingegno. Ma licente testificare posso (gli Dii deierando) che nunque al nostro saeculo tale né alquanto aequivalente Toreutica fusse più grata et più spectabile excogitata.


Nella parte di mezzo di questa zona attraente, vidi una pregiata fonte di limpidissima acqua, che scaturiva da strette fessure fino quasi alla sommità (della siepe), e giù cadeva in una larga conca di pregiata ametista, quadrata, il cui diametro era di tre passi, mentre lo spessore ai bordi si assottigliava. Era di eccellente fattura, e sembravano scolpiti in rilievo mostri acquatici, che mai gli antichi inventori ne pensarono di così spaventosi, degna di Dedalo e della maggiore ammirazione possibile.
Un’opera fatta con alto ingegno e di cospicua ammirazione tale a quel cratere di bronzo che Pausania aveva posto a Ipari.
La vasca era posa sopra una colonna di diaspro, di diverse misture, tutte mischiate con grazia fra loro, mischiate al pallido calcedonio, del colore dell’acqua marina che si ergeva in forma di due vasi gutturni, uno sopra l’altro, separati da una splendida giuntura. La colonna si si ergeva al centro di un plinto rotondo di ofite verde, che era elevato dal pavimento di cinque pollici, insieme alla vasca in porfido intagliata raffinatamente come a creare delle onde. Intorno ad essa sottostante la conca, c’erano quattro arpie d’oro con i piedi unghiuti e rapaci, collocate sopra il plinto di ofite, con la parte posteriore verso la colonna, l’una posta direttamente all’altra, mentre con le ali spiegate reggevano il bacino violetto della conca.
Avevano volti virginali, folti capelli fino alle spalle e con la testa non sfioravano la conca mentre con le code serpentine si avvolgevano mischiandosi ai fogliami all’antica.
Con il vaso gutturnio della colonna creavano un insieme non spiacevole ma amichevole e armonico.
Dentro, con altezza proporzionata, al centro della conca ametistina si innalzava un calice oblungo e rovescio vaso che sporgeva per metà al di sopra del bordo circostante della conca.
Sopra tale calice c’era un altarino con sopra le tre Grazie nude, di finissimo oro, di uguale statura e aderenti l’una all’altra: dai loro capezzoli un filo d’acqua stillava sottile, argentei fili cinerini, tersi e levigati, come filtrata attraverso la pomice candidissima di Taracona.
Ognuna di essa teneva nella mano destra una cornucopia ricolma che arrivava fino sopra al loro capo: in cima convergevano elegantemente in un’unica bocca rotonda, dai cui orli traboccavano i più vari frutti e fronde che riempivano le abbondanti cornucopie. Fra le quali ne spuntavano sei ben disposte cannule dalle quali sgorgavano acqua fuoriuscente in sottilissimi zampilli.
L’attentissimo artista per impedire che i gomiti si toccassero l’uno con l’altro, aveva fatto in modo che, in segno di pudicizia, le statue occultassero con la mano sinistra la parte che si deve coprire.
Sul bordo della concava vasca, la cui circonferenza superava di un piede il sottostante plinto di ofite, sedevano con il capo levato e appoggiati sui piedi viperini, sei squamosi draghetti d’oro smagliante.
L’artificio era così ben escogitato che l’acqua versata dalle mammelle cadeva direttamente nelle cavità delle teste vuote e aperte dei draghetti, i quali con le ali aperte e digrignanti la riversavano tutti insieme, cioè la rigettavano per farla ricadere oltre il rotondo d’ofite, i quali si elevavano entrambi nella stessa misura sulla superficie dell’area, ovvero del pavimento scoperto, della misura che sopra si è detta.
Dove intorno girava un canaletto, ampio un piede e mezzo in larghezza e profondo esattamente due, posto fra il plinto di ofite e l’anello di porfirite che aveva un diametro di tre piedi, e poggiava sul pavimento con una modanatura a onda.
I posteriori dei draghetti, per la modesta convessità della conca, confluivano in forma di code serpentinate che alle estremità si trasformavano in un’antica fogliatura, e in una graziosa giuntura con il piedistallo sottostante alle tre statue, con un’altezza proporzionata alla concavità della vasca.
Dunque la verdeggiante stretta degli alberi di arancio, e il riflesso della lucida materia e la limpidezza delle purissime acque creavano come un gradevole arcobaleno fra le nuvole dentro la nobile, superba ed elegante vasca.
Proprio dove si incurvava, fra l’uno e l’altro draghetto, si trovavano, a uguale distanza, delle teste di leone crinito, eseguite con mirabile fattura, che espellevano dalla bocca l’acqua stillante dalle sei cannucce disposte nelle bellissime cornucopie.
Tale acqua, che zampillava moderatamente dai leoni, precipitava sotto fra i draghetti, nell’ampia vasca che per il cadere dall’alto dei getti, faceva un graditissimo tintinnio.
Dunque di questa rarissima opera, costruita con acuto ingegno, con la superba vasca, con le quattro perfette arpie, il decoro eccelso ove stavano le tre statue sfolgoranti d’oro io saprei spiegare lucidamente e brevemente la fattura, sicuramente non di umano ingegno.
Ma tranquillamente posso testimoniare, lo giuro per gli dei, che nessuna cosa del nostro secolo fu scolpita con tale dovizia.

La descrizione che Polifilo fa della fontana che incontra nel suo cammino è molto simile alla xilografia che qui si analizza. La più consistente mancanza deriva dalla monocromia dell’illustrazione che non può quindi rendere giustizia alla dovizia di materiali di diversi colori che vengono elencati finemente.

Il soggetto principale della fontana descritta ed illustrata nell’Hypnerotomachia Poliphili consiste in un gruppo scultoreo composto da Tre Grazie che Maurizio Calvesi nel suo Il sogno di Polifilo Prenestino del 1983 ricollega al complesso marmoreo con omonimo soggetto che si trova nella Libreria Piccolomini nel Duomo di Siena.



Storia del gruppo scultoreo delle Tre Grazie


La statua, appartenuta fin dalla seconda metà del quindicesimo secolo alla famiglia Piccolomini, si trova oggi, dopo una serie di dispute che l’hanno accompagnata nel corso dei secoli, nella sua originaria collocazione, al centro della Libreria che Francesco Tedeschini Piccolomini aveva costruito e deciso di dedicare alla memoria delle gesta di suo zio, Enea Silvio Piccolomini, morto papa Pio II.

Fino al diciannovesimo secolo si è creduto che la storia dell’antica statua, probabilmente copia romana di un originale greco, fosse legata da sempre a quella della famiglia che per ultima l’ha posseduta.

Il De Rossi però nel 18861 sposta i riflettori su un disegno di Fra Giocondo degli ultimi decenni del Quattrocento che ritrae il suddetto gruppo marmoreo con un epigramma, composto per le Tre Grazie in cui si legge «Romae in baside vetustissima sub tribus Nymphis marmoreis alternis branchiis intet se connexis: sunt nudae charites niveo de marmore at illas / diva columna suis aedibus intus habet» («A Roma su una base antichissima posta sotto tre Ninfe di marmo reciprocamente abbracciate; le Grazie nude di un marmo bianco erano dentro la casa dei Colonna»).

Inoltre la didascalia riferita all’epigramma aggiunge che le Grazie «erant olim in domo cardinalis de Columna cum subscriptis versibus (cioè l’epigramma), nunc vero sunt in domo R(everendissi)mi Cardinalis Senensis, et non sunt infrascripta carmina» («Erano un tempo in casa del cardinale Colonna insieme ai sottoscritti versi, mentre ora si trovano in casa del reverendissimo cardinale di Siena, ma non ci sono più i relativi versi»).

Questo stesso epigramma si trova, anche se con alcune varianti, in altre edizioni della silloge di Fra Giocondo e in due codici del Marcanoca, risalenti agli anni sessanta del Quattrocento. 2

Si evince quindi che quando le Tre Grazie erano esposte nella proprietà Colonna, erano esibite sopra il piedistallo che riportava i nomi dei proprietari, cosa che mutò quando il gruppo scultoreo passò nelle mani dei Piccolomini, prima nel loro palazzo costruito dove poi sorgerà Sant’Andrea della Valle e poi nel Duomo di Siena.

Il De Rossi però nel suo studio delle vicende storiche del gruppo scultoreo è andato oltre: in un codice epigrafico senese di poco posteriore alla metà del Quindicesimo secolo e comprendente anche l’epigramma moderno, ha notato che la relativa didascalia presentava una variante molto significativa; alle parole tribus Nynphis (“Tre Ninfe”) era legata la frase repertis in aedibus domini de Colomna («trovate in casa del signor Colonna») 3. Questo dato permette con quasi sicura certezza di risalire anche al luogo di rinvenimento del gruppo scultoreo, quindi sul Quirinale, nel sito dove poi sorgerà il palazzo della famiglia Colonna.

Il Marcanova però riferisce la collocazione in casa Colonna solo relativa alla base e non al gruppo antico 4
.

Inoltre la presenza delle Tre Grazie in casa Piccolomini è testimoniata oltre che dalle fonti epigrafiche anche da un disegno degli ultimi anni del ‘400 (fig. 1), attribuito ad Antonio Federighi5 dove si legge la seguente didascalia: «queste femine sono in chasa Cardinale di Siena. Sono fatte dreto ed inanzi. Chiamasi le tre grazie. IN ROMA antiche».

Anche il Vasari, parlando degli affreschi del Pinturicchio nella Libreria Piccolomini, ricorda il gruppo scultoreo:
«furono in que’ tempi le prime anticaglie che fussono tenute in pregio» 6.



Le Tre Grazie e l’Hypnerotomachia Poliphili


Il valore simbolico che il gruppo marmoreo assume nella sua rappresentazione xilografica, dove si trasforma in fontana, è quello che caratterizza un po’ tutto il romanzo, cioè un appassionato gusto di riscoperta dell’antico che diventa protagonista e accompagna Polifilo nel suo viaggio.

La presenza di un modello reale rende plausibile pensare che l’autore dell’Hypnerotomachia Poliphili si sia ispirato proprio ad esso nella sua rappresentazione letteraria. Non è un caso infatti che, come si è visto, il gruppo marmoreo appartenne alla famiglia Colonna almeno fino agli anni ’80 del Quattrocento.

Nonostante una buona parte della critica sia ancora decisa a negare ogni qual forma di evidenza riguardo i costanti richiami ai monumenti dell’antica romanità nel Polifilo, questa non può che essere una prova schiacciante che tende ad avvicinare sempre più il Francesco Colonna autore ricordato dall’acrostico al Francesco Colonna prenestino che non solo faceva parte della famiglia posseditrice del reale modello e che quindi poteva avere avuto modo di vederlo e di trarne spunto, ma che inoltre era anche probabilmente in contatto con la famiglia Piccolomini.

Inoltre, guardando agli studi precedentemente affrontati da chi scrive, se si ritiene plausibile una conoscenza tra Francesco Colonna signore di Palestrina e il cardinal Marco Barbo, che dal 1478 è vescovo proprio di questa città, e che inoltre era intimo amico proprio del Piccolomini, tanto che quest'ultimo fu suo esecutore testamentale, non si può non ritenere questa un'ulteriore prova della conoscenza fra il Colonna e il Piccolomini. 7

Si ricorda in ultimo, che Martino Filetico compose nel 1461 versi latini per il gruppo marmoreo delle Tre Grazie che a quella data erano ancora appartenenti a Prospero Colonna; ulteriore prova questa che il Francesco Colonna autore del Polifilo non può che essere il signore di Palestrina considerato che proprio Martino Filetico nelle sue Iocundissime Disputationes fu il primo ad utilizzare il termine πολυφιλία






NOTE

1 G. B. De Rossi, Miscellanea di notizie bibliografiche e critiche per la topografia e la storia dei monumenti di Roma, in “Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma”, XIV, pp. 345-346.

2 Per le altre edizioni delle sillogi di Fra Giocondo e per i due codici di Marcanova vedi: R. Lanciani, Storia degli scavi a Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità I, Roma, 1989 p.127 e M. Cristofani (a cura di), Siena le origini. Testimonianze e miti archeologici, Catalogo della mostra, Siena 1979-1980, Firenze, 1979, pp. 126-127.

3 Ibidem, pp. 346-347.

4 Ibidem.

5 Il disegno, attribuito ad Antonio Federighi, è datato alla metà del XV secolo. E’ conservato a Monaco alla Staatliche Graphische Sammlung.

6 G. Vasari, Le vite (…), 1568, ed. a cura di Giovanni Masselli, Firenze, 1878, p. 408.

7 A. Dessì, La committenza Barbo nella Casa dei Cavalieri di Rodi a Roma, in Arte e committenza a Roma e nel Lazio dall’Umanesimo al Rinascimento Maturo, a cura di Stefano Colonna, Roma, 2014, pp. 57-79.








BIBLIOGRAFIA

CALVESI 1983
Maurizio Calvesi, Il sogno di Polifilo Prenestino, Roma, Officina, 1983.

COLONNA 2013
Stefano Colonna, Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento, Roma, Gangemi, 2013.

DESSÌ 2014
Alessia Dessì, La committenza Barbo nella Casa dei Cavalieri di Rodi a Roma, in Arte e committenza a Roma e nel Lazio fra Umanesimo e Rinascimento maturo, a cura di S. Colonna, Roma, Campisano, 2014, pp. 57-79.


DE ROSSI 1886
Giovan Battista De Rossi, Miscellanea di notizie bibliografiche e critiche per la topografia e la storia dei monumenti di Roma, in “Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma”, XIV, pp. 345-356.

LIBRERIA 1998
La Libreria Piccolomini nel Duomo di Siena, a cura di Salvatore Settis e Donatella Toracca, Modena, 1998.









	
Vedi nel BTA: LE XILOGRAFIE DELL'HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI






Fig. 1
ANTONIO FEDERIGHI (attr.), Le Tre Grazie Piccolomini, seconda metà del XV sec.,
disegno,
Monaco, Staatliche Graphische Sammlung

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