Individuare
una linea di ricerca attraverso la Galleria nazionale d’arte
moderna di Roma, consente di affrontare le nuove problematiche
critiche che nel secondo dopoguerra costituiscono punti di dibattito
accesi attorno all’arte contemporanea, non solo per il territorio
italiano ma anche per quello internazionale.
Palma
Bucarelli è certamente tra i protagonisti più attivi di una
stagione italiana, e romana, fatta di grandi difficoltà politiche e
di pregiudizi nei confronti del contemporaneo, in un Paese che deve
ancora rialzarsi da una dittatura che ha lasciato tracce
compromettenti tra le menti degli intellettuali, un Paese che si
sarebbe consegnato ad un futuro comunque difficile e sempre restio a
legittimare la valenza dell’arte contemporanea.
La
Galleria nazionale d’arte moderna
diviene a partire dalla metà degli anni Quaranta luogo di
sperimentazione artistica, di scambio interculturale, di applicazione
di nuove tecniche museografiche finalizzate a depurare lo spazio
espositivo dai residui di teorie ottocentesche e kantiane di
percezione, per modellarlo sull’esempio di realtà estere più
all’avanguardia. La Galleria diventa con rapidità l’oggettivazione
dei nuovi quesiti critici che vogliono sfondare la concezione
tradizionale dell’arte e che ha abituato da troppo tempo l’opinione
pubblica a non apprezzare la produzione artistica della società
coeva.
Per
acquisire credibilità però e fare in modo che si possano definire
dei confini entro i quali poter valorizzare l’attività degli
artisti italiani in linea con i movimenti d’avanguardia del
Novecento, c’è la necessità primaria per la Galleria e per
Bucarelli (fig. 1) di un appoggio critico. Lionello Venturi
è per lei e per la sua attività un’emblematica ispirazione
intellettuale a questo proposito e permette di comprendere il metodo
attraverso cui si sviluppano i progetti della GNAM, dalla sua
riapertura ufficiale, avvenuta tra il 1944 ed il 1945, in poi.
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Fig. 1 - Palma Bucarelli nel suo studio
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Il
primo incontro tra i due avviene con probabilità tra il 1930 ed il
’31 presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università
“La Sapienza” di Roma, dove la Bucarelli si laurea con Pietro
Toesca, illustre medievista, e Lionello Venturi (fig. 2) segue le
orme di suo padre, Adolfo, del quale avrebbe acquisito la cattedra
dal 1945 al 1955. Quest’ultimo costituisce uno dei primi punti di
contatto nel pensiero dei due: Adolfo Venturi, infatti, in netto
anticipo con i tempi, spinge a sensibilizzare l’opinione degli
intellettuali sulla necessità di creare una storia dell’arte
nazionale scevra da municipalismi e a concepire finalmente il
patrimonio culturale in modo più complesso. Il che significa evitare
di pensare alla storia dell’arte come la sola storia dei capolavori
e dei geni artistici ma come espressione dell’uomo. Questo ha come
conseguenza fondamentale la valutazione di forme artistiche anche
minori, che vengono concepite in nome di uno specifico valore storico
d’appartenenza.
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Fig. 2 - Palma Bucarelli e Lionello venturi durante la conferenza del 1957 Introduzione all'Astrattismo
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L’acutezza
critica di Lionello Venturi risiede principalmente nel fatto di aver
capito l’importanza che la filosofia di Benedetto Croce ricopre
nella cultura del Novecento, a partire dalla pubblicazione
dell’Estetica
come scienza dell’espressione e linguistica generale
nel 1902. Non è di sicuro un caso che la stessa Palma Bucarelli
abbia frequentato il salotto del filosofo quando viene trasferita
alla soprintendenza campana per meno di un anno, nel 1936. Con questo
non si vuol certo asserire che il legame tra Venturi e Bucarelli è
indotto dal Croce ma risulta piuttosto evidente come quella
generazione di critici e storici dell’arte ne sia profondamente
influenzata.
Il
concetto su cui Venturi si concentra per avviare la sua speculazione
attorno alla figura di Croce è quello dell’intuizione,
intesa come mezzo di conoscenza della realtà fenomenica e dell’opera
d’arte, concepita non più in termini strettamente stilistici e
formali, come nel caso del filosofo, ma come attività profondamente
spirituale, ossia guardando all’espressione artistica come la
materializzazione di concetti manifestati attraverso una forma
suggerita dal contesto storico e sociale nel quale, e per il quale,
l’opera è stata prodotta.
Non che Croce non avesse tenuto in considerazione la storia come
mezzo d’analisi di un’opera d’arte ma c’è la necessità in
Venturi di sfruttarla in senso più evoluzionistico ed hegeliano, di
applicarla cioè in maniera precisa e circoscritta all’opera d’arte
come aveva fatto il filosofo e al contempo di porre in relazione
quest’ultima con altri termini spaziali e temporali. Questo
consente di conseguenza al critico di incrociare mondo classico,
Medioevo, Rinascimento ed arte contemporanea, di porli in relazione
quindi e comprenderli in modo nient’affatto isolato ma
compenetrato.
Quello
che manca al pensiero crociano e che ritroviamo in Venturi è cioè
da un parte la presa in considerazione del metodo puro visibilista
di Fiedler, Riegl e soprattutto Wölfflin, tanto criticati dal Croce
perché sostenitori del dominio della conoscenza ottica del reale, da
cui ne deriverebbe l’elaborazione di schemi formali da parte
dell’artista che si rivelano del tutto indipendenti dal mondo
fenomenico, frutto cioè di una elaborazione propriamente
individuale; e dall’altra l’applicazione di questi schemi formali
al concetto storico di gusto, cui Venturi dedica un’importante
pubblicazione intitolata Il
gusto dei primitivi.
Il
gusto è cioè inteso con Venturi come il metodo di espressione
stilistica selezionato coscientemente dall’artista che, seppur
padrone di un atto creativo che appartiene a lui, e a lui soltanto,
risponde imprescindibilmente all’ambito culturale di cui quel
determinato artista fa parte in quel determinato momento e che gli
suggerisce l’adozione di precisi schemi formali. Porre in relazione
l’opera con il gusto, quindi, significa in definita storicizzarla,
farne la testimonianza oltre che dell’autore e della sua volontà
artistica anche di una società, di un tempo, di una civiltà. Ciò
consente a Venturi di compiere quel passo che manca all’Estetica
crociana: il passaggio dalla Kunstgeschichte
alla Kulturgeschichte,
ossia dalla storia dell’arte alla storia della cultura.
Non
stupisce, visti i presupposti, che Lionello Venturi divenga un
pionere del contemporaneo ed appoggi appieno l’attività di Palma
Bucarelli. Esattamente come lei, anche Venturi non dà giuramento al
Fascismo e questo lo costringe a fuggire dall’Italia dal ’31 al
‘44 e a recarsi prima in Francia, dove ha l’occasione di
diventare un fine critico impressionista e poi negli Stati Uniti,
dove viene a contatto con realtà museali di cui fa tesoro e che sono
indispensabili per rendere la Galleria un apparato pulsante d’arte
contemporanea, quando nel ’45 fa ritorno a Roma per rimanere al
fianco di colei che è, in quegli anni, la prima direttrice donna
d’Italia e condurre con Bucarelli la battaglia del contemporaneo.
L’avversione
di Venturi per il figurativo del rappel
a l’ordre,
della pittura storica ed allegorica, considerate pura irrazionalità
perché non coerentemente allineate con lo sviluppo contemporaneo
dell’arte e della sua società, trova negli Stati Uniti un pubblico
pronto ad annuire, a condividere un punto di vista che in
quell’esatto momento sta trovando un supporto artistico di
incredibile risonanza, qual è quello dato dall’Espressionismo
Astratto.
Gli
Stati Uniti hanno già conosciuto in tempi più recenti l’arte
delle avanguardie europee, basti pensare all’Armory
Show
del 1913 e alla memorabile attività di Alfred H. Barr Jr. presso il
Museum of Modern Art di New York.
Ma non si dimentichi che la cultura americana è una cultura
pragmatica, ben poco abituata a trattare con le scottanti idee
europee e volta ad approcciare all’arte in senso fondamentalmente
anti teoretico. Dunque l’impatto con una cultura squisitamente
italiana produce di conseguenza una coscienza critica dell’arte non
ancora presa del tutto in considerazione.
Quello
che l’America ha da apprendere è senza dubbio moltissimo dagli
intellettuali europei rifugiati sul continente ma ciò che ha da
insegnare è altrettanto importante. Il filosofo e pedagogista
statunitense Jhon Dewey, per esempio, le cui teorie interessano in
maniera ravvicinata Venturi, mette in luce in termini più pratici lo
scopo dell’arte e quello che Dewey individua è uno scopo di genere
profondamente sociale ed educativo.
L’opera cioè diventa un mezzo istruttivo attraverso cui lo
spettatore può comprendere in maniera diretta lo sviluppo della sua
società e del suo tempo ed attivare di conseguenza una percezione
che gli ricordi che l’atto creativo dell’artista e la vita
quotidiana coincidono in un tutt’uno. Dewey vuole cioè evitare
quella mitizzazione romantica dell’artista visto come genio
creativo avulso dalla storia e dal tempo, quasi come uno spettatore
esterno al ciclo naturale dell’umanità, e riportarlo ad una
dimensione saldamente terrena quanto vitale e difenderne al contempo
l’immaginazione creativa.
La
vicinanza di queste teorie con quelle crociane di Venturi, rivela
quanto l’asse portante del dibattito critico sull’arte a partire
dagli anni ’30 del Novecento sia la valutazione storico-sociale
dell’opera d’arte, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti. Non
è un caso che i musei americani incentivino alla collaborazione con
le scuole, con lo scopo di creare un trait
d’union
diretto tra la formazione degli studenti e la comprensione
ravvicinata delle espressioni artistiche, da quelle maggiori a quelle
minori. In questo senso l’America obbliga lo spettatore ad elevarsi
ai nuovi linguaggi dell’arte e a percepirli criticamente,
adoperando una linea di insegnamento diametralmente opposta rispetto
a quella italiana che, facente capo a critici di stampo tradizionale
come Ugo Ojetti,
per esempio, tende invece a mortificare le espressioni artistiche
contemporanee, inneggiando anacronisticamente alle tradizioni
dell’antichità e a formare i suoi giovani con una preparazione
“troppo libresca”
e poco concreta.
Non
si deve dimenticare tuttavia che l’Europa è soggetta a
totalitarismi che non possono lasciare spazio alla libertà creativa
degli individui, benché la situazione italiana sia meno drammatica
in questo senso rispetto a quella tedesca: basti pensare che il
ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai è uno dei primi
a tutelare il contemporaneo. Mussolini infatti, pur intento a
costruire un’arte di regime e ad avere dell’espressione artistica
un’idea eminentemente strumentale, è anche consapevole che la
repressione può accelerare un processo di scollamento politico e
condurre gli artisti ad investire le loro opere di un significato
forzatamente antifascista. Favorisce dunque una via di mediazione tra
un’arte che gli obbedisse ed una che invece non può controllare e
che preferisce ignorare piuttosto che combattere apertamente.
Quando
Venturi fa ritorno a Roma nel ‘45 molte cose sono cambiate e già
molte lotte sono state combattute. Palma Bucarelli è in prima linea
durante il periodo della seconda guerra mondiale in queste lotte e
prima che la Galleria si potesse identificare con la sua persona, ci
sono lavori pesanti da svolgere. Dopo l’esperienza alla Galleria
Borghese, la permanenza napoletana, l’arrivo di Hitler a Roma nel
’38, un anno dopo diventa ispettore presso la Galleria nazionale
d’arte moderna, guidata prima da Roberto Papini, con il quale non
mancano scontri dovuti a due visione opposte dell’arte: Papini
concentrato a conservare una collezione ottocentesca che sottolinea
di fondo un carattere piccolo borghese e provinciale dei suoi
spettatori e della concezione che si ha di guidare un museo, la
Bucarelli concentrata a spingere la Galleria verso un futuro più
vasto e competitivo con realtà museali estere di gran lunga più
avanzate.
Intanto
la guerra è scoppiata e l’Italia si prepara ad un avvenire
disastroso, come tutto il mondo, d’altronde. Nel ’40 la
sostituzione di Papini, allontanatosi da Roma, conduce Bucarelli
verso la direzione della GNAM, che inizia a dirigere a pieno regime
dal ’41. Il ritmo bellico si è fatto via via più incalzante ed i
rischi sono aumentati esponenzialmente per il patrimonio culturale e
per la collezione della Galleria. Palazzo Farnese di Caprarola prima
e Castel Sant’Angelo poi, diventano i rifugi selezionati dalla
soprintendente per mettere al sicuro le opere dai bombardamenti e che
riesce a trasportare non senza esporsi a seri pericoli. Nel giro di
due anni le sale della Galleria vengono completamente svuotate e nel
’42 il furtivo riallestimento di ben cinque sale della stessa sui
recenti acquisti dello Stato, individuano la Bucarelli in tutte le
sue qualità di funzionario e storico dell’arte militante. Afro,
Birolli, De Pisis, Guttuso, Mafai, Mazzacurati, Scialoja, Soldati,
Vedova, diventano scelte estremamente coraggiose per impegnare le
uniche sale fruibili dello spazio museale, scelte che ritagliano
nell’immediato le linee guida che la Galleria avrebbe assunto,
scelte che espongono la direttrice ad accuse violente sin da subito.
Questa riapertura è la dimostrazione più concreta della resistenza
romana ed italiana al regime, la volontà più viva di opporre al
rumore dei cannoni quello della cultura, benché si tratta di una
cultura che deve lottare a lungo per essere legittimata.
Domenica,
10 dicembre 1944:
Palma Bucarelli accoglie le autorità, la Galleria riapre
ufficialmente ed è la prima a farlo nel Paese quando ancora la
guerra non è definitivamente terminata. Gli alleati sono ancora in
casa e c’è la necessità di dimostrare che a Roma ed in Italia
“l’arte non si è fermata con il Caravaggio”.
Esposizione
d’arte contemporanea 1944-45,
questo il titolo della mostra che rilancia la Galleria, risponde
esattamente a questa esigenza: è arrivato il momento di far
conoscere l’arte contemporanea italiana al mondo, benché la
rassegna non sia completa (come potrebbe esserlo d’altronde, la
guerra è appena terminata e i mezzi a disposizione sono scarsi,
soprattutto se si considera il fatto che molte opere italiane sono
rimaste a New York in occasione di una mostra organizzata al MoMA nel
‘39 e lì ancora in congedo a causa della guerra).
È
davvero questo il primo evento ad ufficializzare la rinascita di una
Roma sfiduciata, di un’Italia assai spesso più intenta a ripiegare
su certezze lasciate in eredità dal passato piuttosto che decisa a
porsi in contatto con il presente.
La
selezione della Bucarelli è certo interessante per
quest’esposizione, sia nelle esclusioni che nelle inclusioni. La
mostra affonda le radici nell’Ottocento, da Boldini, a Mancini, a
Medardo Rosso, per arrivare sino ai più giovani contemporanei come
Carrà, Casorati, Manzù, Martini, Morandi, oltre alle altre
personalità precedentemente citate, nell’intento di riannodare un
legame con l’Impressionismo da un lato e l’Espressionismo in una
declinazione materica dall’altro, a conferma della sua profonda
repulsione (condivisa con Venturi) di tutte le forme surréalisant
dell’arte (De Chirico infatti compare solo sporadicamente). Intento
che punta a disegnare dei confini entro cui sono racchiusi tutti
coloro che hanno adottato il figurativo come un mezzo e non come un
fine dell’opera d’arte, coloro cioè che, pur non smentendo il
soggetto rappresentato, lo hanno sottoposto a ricerche formali
coerenti con i movimenti d’avanguardia e si sono aperti a
sperimentazioni che hanno rigettato il carattere imitativo dell’arte.
Dalle undici sale a disposizione del pubblico è espunta infatti la
Metafisica ma anche il Futurismo, movimenti che hanno una posizione
nient’affatto secondaria nel panorama italiano e soprattutto
internazionale del contemporaneo, oltre che l’Astrattismo. Perché?
Il
perché della Metafisica è stato già svelato: il ritorno all’ordine
è visto da Bucarelli come un’inversione di marcia, come ciò che
in arte non deve esser fatto se non si vuole cadere in una pittura
aneddotica. Ma anche il perché dell’esclusione del Futurismo non è
così difficile da capire se si pensa che il movimento suddetto si
lega prepotentemente all’attivismo fascista e all’intervento
dell’uomo in guerra. Il perché dell’Astrattismo invece è
piuttosto una conseguenza automatica alla volontà di selezionare
delle opere mirate a ricostruire una reputazione italiana ormai
troppo confusa e dar voce ad una moltitudine di espressioni
artistiche che hanno lavorato dietro intenti comuni ma che ancora non
avevano trovato un portavoce in grado di uniformarle. La prima fase
di quella che sarà una lunga linea culturale della Galleria è
infatti incentrata a fare ordine sulla situazione artistica italiana,
partendo da un Ottocento piuttosto “mondano” ed impressionista,
per approdare al riscatto della forma come veicolo narrativo e
diventare elaborazione intellettuale, condotta attraverso la
rivalutazione delle componenti base di un quadro. Dalle inconsistenti
spazialità di De Pisis, alla materia di Marini, dalle “demolizioni”
di Mafai alle incisioni di Morandi, Bucarelli presenta al pubblico un
nuovo spazio museale, artisticamente aggiornato e storicamente
inquadrato.
Palma
Bucarelli si guadagna così a buon merito l’attenzione di Venturi,
il quale si affianca subito alle iniziative della Galleria. Reduce
dal modello americano, infatti, lo spazio museale diventa ben presto
per lui il luogo nel quale concretizzare gli insegnamenti impartiti
in ambito accademico e l’attività didattica della GNAM è il primo
progetto della loro collaborazione che lo dimostra. Per attività
didattica si intende il susseguirsi di alcune mostre che enucleano un
tema centrale, come Pittura
francese d’oggi
del ‘46, ad esempio, che ha lo scopo di assemblare una serie di
opere che a causa della guerra non si ha più avuto la possibilità
di vedere. E visto il fatto che la loro trasportabilità è ancora un
pensiero troppo audace per un’Europa appena uscita dalla guerra, si
punta sulle riproduzioni degli originali e si creano iniziative
collaterali attorno, come conferenze e proiezioni per guidare lo
spettatore e fargli comprendere quale fosse lo sviluppo dell’arte
del suo tempo. La mostra appena citata per esempio crea un excursus
della pittura francese d’avanguardia da Matisse al Surrealismo. A
questo si aggiunge un riassetto delle esposizioni della collezione,
che nel frattempo è stata reinserita nelle sale della Galleria sul
modello americano: distanze specifiche tra un pezzo e l’altro,
collocazione dell’opera all’altezza dello spettatore, colori
tenui delle pareti, targhe e pannelli esplicativi, sale organizzate
per movimenti. Nonostante questo possa sembrare scontato per noi, a
quel tempo non lo è affatto e il lavoro improntato dalla direttrice
con l’ausilio del critico è quanto di più innovativo ci sia sul
territorio nazionale in quel momento.
La
seconda metà degli anni Quaranta procede così, in una direzione di
riassetto e svecchiamento ideologico del Paese. Lionello Venturi si
impegna dal canto suo a difendere l’arte contemporanea dalla
cattedra e all’interno della GNAM, indicendo conferenze che puntano
a riscoprire le origini del contemporaneo e ad analizzare i
principali movimenti che hanno condotto all’astrazione della forma,
oltre che ad appoggiare acquisti internazionali per completare le
lacune che possiede la permanente.
Il
lavoro di Venturi culmina nel ’48 con un’importante pubblicazione
intitolata Pittura
contemporanea,
nella quale prepara il territorio al lavoro critico ed artistico che
dagli anni Cinquanta sarebbe stato condotto in Galleria da un’altra
prestigiosa collaborazione, quella che vede la Bucarelli affiancata
questa volta a Giulio Carlo Argan (fig. 3), che la accompagnerà
nella difesa dell’Astrattismo prima e dell’Informale poi, lungo
quasi un ventennio di professione. L’intuizione di Venturi è
infatti geniale e di sicuro influenza Argan, suo ex allievo, nonché
compagno di corso all’università di Palma Bucarelli, nelle
poderose riflessioni legate all’architettura.
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Fig. 3 - Palma Bucarelli e Giulio Carlo Argan all'interno della GNAM nei primi anni Sessanta
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Alla
data di pubblicazione del libro di Venturi l’arte ha già compiuto
il suo corso e l’esito del Modernismo prima e del Postmodernismo
dopo, è stato ed è quello dell’astrazione. Venturi vuole quindi
dimostrare che il pregiudizio nei confronti dell’arte
contemporanea, specie pittorica, fa riferimento all’impossibilità
da parte dello spettatore di comprendere che
cosa
si rappresenti e della volontà ostentata di cercare una
corrispondenza con il reale che, laddove viene a mancare, declassa
immediatamente la credibilità dell’opera. Per tale ragione egli fa
dell’architettura il mezzo attraverso cui legittimare l’arte
contemporanea, perché l’architettura è stata da sempre
considerata come arte, nonostante non facesse ricorso a delle forme
mimetiche, perché in fondo era l’espressione della razionalità
dell’uomo e poi perché aveva uno scopo fondamentalmente sociale.
Ma la cosa su cui ancora non si era riflettuto è che, esattamente al
pari della pittura, rifiutava il mimetismo. Non solo: il rifiuto
della rappresentazione del reale non invalidava, dice Venturi,
l’autorialità di un’opera architettonica, perché la carica
formale di ognuna risiedeva nello stile proprio di ogni artista.
Questo
confronto tra pittura ed architettura astutamente enuclea tre punti:
il primo che tutte le arti hanno il diritto di essere considerate
libere in nome dell’espressione dell’artista; il secondo che il
rifiuto del carattere mimetico non può essere l’unico parametro di
valutazione per giudicare un’opera pittorica; il terzo che lo stile
di un’opera d’arte si rende inconfondibile al di là dei mezzi
formali che l’artista seleziona per esprimersi. Questo dibattito
condurrà poi Lionello Venturi a farsi promotore
dell’astratto-concreto italiano e del Gruppo degli Otto
e a considerare l’astrazione tanto concreta e tanto socialmente
utile quanto l’architettura, come si vedrà in seguito.
Gli
anni Cinquanta vedono una svolta nella Galleria, è tempo di
cambiamento radicale e la Bucarelli consegna gli spazi espositivi
nelle mani dell’astrazione, un cambiamento che viene simbolicamente
segnato dalla donazione di Peggy Guggenheim di Watery
Paths,
un’opera di Jackson Pollock alla GNAM. Credere che l’Astrattismo
sia solo un capriccio di artisti che non sanno più trovare una
strada per esprimersi sarebbe un grosso errore di valutazione.
L’astrazione
affonda le radici già dal primo decennio del secolo scorso, trovando
soprattutto in Picasso una spinta propulsiva e guidando le successive
avanguardie verso un’indipendenza sempre più consapevole del segno
pittorico, quando per segno pittorico si intende un’elaborazione
geometrica del quadro. In questo senso il Cubismo analitico porta a
Mondrian e al Neoplasticismo, ossia all’ortogonalità delle linee
intersecanti direttamente sulla superficie della tela in un’assoluta
compressione spaziale, mentre il Cubismo sintetico porta al
Formalismo russo, a Malevič, alla bidimensionalità, al monocromo e
al grado zero dell’opera. Nell’altro senso invece, quello non
geometrico, Kandinsky costituisce il contraltare di Picasso,
arrivando all’astrazione tramite la spiritualità di forme libere,
automatiche. E così via, uno dopo l’altro, i movimenti del primo
cinquantennio del Novecento si mostrano una sfida continua, se pur
interrotta da inversioni e ripensamenti, verso una elementarizzazione
del segno sempre più audace, sempre più provocatoria, volta a
testare il limite minimo verso cui l’arte si possa spingere, sino
all’approdo dell’astrazione in America, che aprirà poi il
capitolo del Postmodernismo.
Sarebbe
un errore anche supporre che le ricerche d’avanguardia siano mero
estetismo, arte per l’arte. Al contrario, un motivo programmatico
comune alle varie correnti è la giustificazione del fatto artistico
come fatto che ha origine nel reale. Come scrive Argan infatti, in un
articolo intitolato L’arte
astratta,
pubblicato nel 1951, “da un punto di vista fenomenologico l’opera
d’arte, che non è più rappresentazione di oggetti, è essa stessa
l’oggetto: se la rappresentazione è sempre catartica, cioè un
atto conclusivo che può continuare a esistere soltanto nella storia,
l’oggetto è qualcosa che nasce o si pone, e dal momento del suo
nascere o porsi comincia ad esistere come realtà”.
L’opera dunque non si occupa più di rappresentare la realtà ma
assurge all’obiettivo di essere
realtà. Questo conduce progressivamente ad una sovrapposizione tra
arte e vita che tende a dissolvere i confini tra le due e a
confonderle in un reciproco scambio.
Le
origini dell’Astrattismo italiano della generazione più giovane
devono essere ricercate nella generale ubriacatura neocubista del
primo dopoguerra ma anche nel contatto con le coeve sperimentazioni
francesi. Il prodotto italiano dell’astrazione è tuttavia qualcosa
di inedito a cui Venturi, Bucarelli ed Argan si interessano fin da
subito. L’astratto-concreto diventa cioè un nuovo modo di
approcciare alla realtà, il giusto compromesso che è enucleato dal
Venturi anche in riferimento all’architettura: quello ovvero di
creare un’arte che fosse astrazione della realtà ma al contempo
concretezza, perché pronta ad esprimere lo spirito dell’autore e
perché, soprattutto, non smentisce la natura come dato
fenomenologico di partenza per l’elaborazione del quadro, un dato
che nonostante sia soggetto ad una progressiva formalizzazione, non
perde completamente la sua riconoscibilità, innescando nell’opera
un’ambivalenza tra forma e contenuto, realtà oggettiva e realtà
soggettiva in continua relazione.
In
questo senso l’astratto-concreto si spinge ben oltre il formalismo
per indagare livelli di percezione se vogliamo più tradizionali,
ponendosi però in netto contrasto con l’idea greenbergiana
dell’arte, tipicamente americana, e tutta concentrata su una
percezione puramente ottica dell’opera, che si presenta essere il
prodotto introspettivo dell’artista. L’affermazione di un
movimento così esclusivamente italiano, lontano dagli esperimenti
coevi dell’arte internazionale, consente al Paese un grosso
rilancio, soprattutto dopo che il Modernismo ha spostato il suo
centro in America, pregiudicando in un certo senso la credibilità di
altre forme d’arte del vecchio continente.
A
questo proposito emblematica è la fondazione nel ‘48 del MAC
(Movimento Astratto Concreto)
che costituisce in questi anni un punto di raccordo per tutte le
città della nazione che hanno visto riattivarsi profondi interessi
per l’Astrattismo. I fondatori del MAC, estremamente diversi gli
uni dagli altri, non a caso condividono profondi interessi per la
cultura del progetto, ossia per l’architettura e per il design.
Questo per far capire come non è per niente casuale che mentre
Venturi rivendica la validità dell’arte contemporanea, ponendola a
confronto con l’architettura, gli artisti sviluppino interessi su
tali propositi, intendendo la pennellata come un’architettura
ideale e facendo dell’astrazione un processo di concretizzazione
del reale e non solo di segno pittorico.
Per
consacrare questo indirizzo la Galleria nazionale d’arte moderna
inaugura nel 1951 Arte
astratta e concreta in Italia,
una mostra che include l’universo dell’Astrattismo italiano,
tutto riunito a Roma. Espongono ben settanta artisti tra cui:
Accardi, Burri, Consagra, Corpora, Dorfles, Mastroianni, Prampolini,
Rotella, Soldati, Turcato, Vedova. La mostra è accompagnata da una
conferenza intitolata Rapporti
tra arti figurative ed architettura,
alla quale partecipa Argan, che sta facendo sue le ricerche iniziate
dal maestro.
Il
catalogo che viene preparato in occasione della mostra somiglia più
ad un manifesto di denuncia della Galleria, che inaugura una stagione
su cui l’Italia si ferma a ragionare per più di un decennio e che
diventa una vera e propria dittatura dell’arte.
Il
punto fondamentale su cui ci si interroga a lungo è infatti proprio
questo: se l’arte occidentale si fonda sulla riconoscibilità del
soggetto, e dunque su un’iconografia dell’opera, e l’Astrattismo
tende da un certo punto in poi a cancellarla, è davvero possibile
per l’arte italiana dar vita ad un movimento che sia al contempo
iconografia e distruzione della forma? È davvero coerente con il
percorso del Novecento un movimento che lavori sulla forma a partire
dalla realtà, mantenendola e smentendola allo stesso tempo? Si,
risponde Argan, perché il fine ultimo dei movimenti concretisti è
quello di manifestare nell’immagine la coscienza dell’artista
immerso nella realtà ed il Gruppo degli Otto lo dimostra appieno,
includendo alcuni degli artisti sopra menzionati. Essi infatti
riescono finalmente a determinare un nuovo modo di espressione
fin’ora creduto impossibile, avvicinando il mondo dell’astrazione
e quello del Realismo in un’unica rappresentazione ed evitando così
che l’Astrattismo si potesse trasformare in un rinnovato
manierismo.
Gli
anni che vanno dal 1953 al 1958 sono i più decisivi per la Galleria
e anche i più complicati. Le opposizioni provengono dagli
intellettuali e dalla politica, soprattutto quella politica di
sinistra che continua a vedere nel Realismo Socialista un modello da
seguire per rafforzare lo scopo “educativo” dell’arte. Non si
dimentichi però che anche gli astrattisti presentati da Bucarelli
sono simpatizzanti quando non dichiaratamente comunisti e combattono
per far capire che l’assenza di un’immagine perfettamente
comprensibile nelle loro opere, non andava a svilire né la loro
convinzione politica, né l’utilità sociale delle stesse; motivo
per il quale Argan rintraccia l’origine dell’astratto-concreto
nel Bauhaus.
Le
mostre organizzate in Galleria sono comunque di enorme prestigio e
rafforzano l’indirizzo esclusivamente astrattista della Bucarelli
senza alcuna esitazione, a partire dalla retrospettiva su Pablo
Picasso (il cui catalogo sarà curato da Venturi) e che per la prima
volta viene riunito in Italia. A questo si aggiunga la collaborazione
con l’Art Club,
l’apertura a nazioni inedite come l’arte israeliana, jugoslava,
ungherese, gli artisti di Lisbona. Sino ad arrivare ad un’altra
gloriosa retrospettiva su Piet Mondrian (fig. 4),
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Fig. 4 - Palma Bucarelli e Alvar Aalto duante l'inaugurazione della mostra di Piet Mondrian nel '56
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tanto risonante
quanto quella di Picasso, soprattutto perché allestita
dall’architetto Carlo Scarpa e ciò non fa che incrementare il
confronto tra pittura ed architettura, (già così presente
nell’opera pittorica del maestro) confronto che in quegli anni è
promosso dalle mostre dedicate all’urbanistica, come quella
svizzera, brasiliana, su Le Corbusier (fig. 5) e che si alternano
alle mostre d’arte astratta. Ciò dimostra come la Bucarelli sia
profondamente influenzata dal dibattito critico che si scatena dalla
fine degli anni Quaranta e prosegue per tutti i Cinquanta e di come
il rapporto tra la soprintendente, Lionello Venturi e Giulio Carlo
Argan sia direttamente consequenziale. Tanto è vero che quest’ultimo
tiene di li a poco una conferenza dal titolo L’architettura
moderna e le arti non figurative,
in cui ribadisce come sociale il fine ultimo della pittura astratta,
alla pari dell’architettura.
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Fig. 5 - Giulio Carlo Argan, Palma Bucarelli e Lionello Venturi durante l'inaugurazione della mostra su le Corbusier nel 1959
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Il
biennio 1957-’58
è quello più scottante. La stagione viene infatti inaugurata da un
ciclo di conferenze intitolato Correnti
d’arte astratta,
propedeutico al susseguirsi di mostre che consentono alla Galleria di
raggiungere il massimo livello qualitativo: dai Capolavori
del Museo Guggenheim di New York
a Jackson
Pollock,
da Kandinskij
ad Hans
Richter,
Roma ospita le più grandi iniziative d’arte contemporanea,
continuando a coadiuvare attorno a sé critiche sfrenate, inchieste
parlamentari e appelli disperati al Ministero della pubblica
istruzione contro la direttrice e i suoi critici. Ma tanto più
cresce il dissenso nei loro confronti, quanto più questi si isolano
all’interno di un dialogo unilateralmente astratto, che appare a
molti come una vera e propria dittatura (primo tra tutti a Renato
Guttuso, che non si è allineato all’Astrattismo); in definitiva: o
si era astrattisti o non si era artisti.
Il
1959 si prepara a lasciare il passo ad un altro decennio complicato
per la Galleria e per il panorama artistico in generale, decennio nel
quale l’eredità di Venturi viene traslata nel suo allievo Argan,
che affianca la Bucarelli in un binomio ormai inseparabile. Già da
diversi anni infatti i movimenti artistici si sono sovrapposti senza
più seguire una linea di intenti comuni, in Europa come in America.
La volontà di riunire le differenti ricerche del dopoguerra, trova
in Francia un critico, Michel Tapié, pronto a teorizzare sotto il
termine di Informale
quella grande quantità di espressioni artistiche nel mondo, legate
alle problematiche filosofiche della fenomenologia, derivanti ovvero
dall’impossibilità di tracciare una linea di demarcazione
specifica tra soggetto ed oggetto. È proprio questo a dar vita ai
mille volti dell’Astrattismo e alle mille scelte individuali degli
artisti: dalla linea, alla materia, dal colore, al gesto, dalla
riabilitazione della figura alla macchia, alle perforazioni della
tela, autori diversi vengono inclusi sotto la definizione di
Informale, che funge da grande ombrello per una serie di espressioni
di fatto non rubricabili e che non hanno nulla di unitario, se non il
rifiuto della forma canonica. Non a caso nella mostra di Tapié del
’52 Signifiants
de l’informel
vengono messi a confronto artisti delle più disparate formazioni e
provenienze come Capogrossi, De Kooning, Dubuffet, Fautrier, Hartung,
Michaux, Pollock, Wols ed altri.
Se
questo da vita in Italia all’Arte nucleare, allo Spazialismo,
all’Ultimo naturalismo, consentendo alla Galleria di Bucarelli di
proseguire in conformità con le scelte precedenti, d’altra parte
tende ad escludere anche ogni forma d’astrazione geometrica,
inaugurando un decennio ancora una volta in linea con gli sviluppi
contemporanei. Se la fine degli anni Quaranta ridisegna le linee
guida dell’arte italiana attraverso le ricerche di un nuovo
figurativismo e gli anni Cinquanta vedono il confronto tra pittura
astratta, architettura e movimenti concretisti, gli anni Sessanta si
concentrano sull’Informale, individuando così tre grandi fasi
evoluti nella linea culturale della GNAM.
Nel
1959 Argan scrive un saggio dal titolo Materia,
tecnica e storia dell’informale,
nel quale individua lo scopo vitale di tutti quegli artisti che si
sono potuti definire informali. Lo scopo non è quello di aprire una
nuova fase creativa del Novecento “ma di mantenersi in bilico su un
limite così estremo da lasciar dubitare che vi sia ancora, al di là,
una possibilità di arte”.
Per
tale ragione Argan definisce questo preciso punto storico come la
“non morte dell’arte”,
perché deriva da una società utopica, fondata sulla super prassi,
sul progresso tecnologico e sull’industria, sempre più bisognosa
di violente scariche emotive a patto che la loro durata fosse
limitata alla fruizione dell’opera, in cui atto creativo
dell’artista ed atto percettivo dello spettatore coincidano in un
tutt’uno e permettano di democratizzare, come teorizzato dal Croce,
l’intuizione artistica. Con questo Argan vuole rimarcare il fine
sociale dell’arte a paragone con l’architettura, quando per
sociale si intende la possibilità dell’arte di dimostrare che la
realtà dell’artista e quella del fruitore è la medesima e
coincidono proprio in virtù del fatto che ogni manifestazione
contemporanea vive in simbiosi con lo spettatore ed è da esso
dipendente. D’altronde non si potrebbe mai immaginare un’opera di
Pollock o una di Mondrian senza la nostra presenza, esattamente come
non lo si potrebbe fare per un edificio di Aalto o di Wright.
La
realtà di cui parla Argan è in fondo quella del capitalismo, dalla
quale l’Informale, come l’individuo, vuole fuggire, tentando di
fissare sulla tela non un risultato specifico, quanto più la
testimonianza di un’esistenza, indipendentemente dal suo modo di
esprimerla. Impedire infatti la replicabilità industriale dell’atto
artistico è la risposta per la ricongiunzione tra lo spirito e la
materia. Fare dell’opera cioè non più un bel quadro ma un
momento,
un momento di transizione progettuale a cui ognuno sia in grado di
togliere o aggiungere qualcosa, a patto che questo qualcosa non
smentisca mai la sincerità della sua natura.
È
forse questo il motivo per cui Bucarelli non acquista opere della Pop
Art americana, forse perché, dietro l’influenza delle parole di
Argan, si vede in essa l’oggettivazione di un progresso tecnologico
in continua avanzata.
Si
conclude così un percorso di ricerca durato più di un ventennio,
con la dimostrazione, sia in campo teorico-critico, sia in campo
museale, che la validità dell’esperienza estetica risiede tutta
nel sociale. Si chiude nel 1961, con la morte di Lionello Venturi,
una parabola iniziata con quel 10 Dicembre 1945, quando la stretta
collaborazione del critico con la Bucarelli consente la riapertura
della Galleria e che culmina con gli anni Sessanta e l’intervento,
a partire da dieci anni prima, di Giulio Carlo Argan, per continuare
sino al 1975, anno di pensionamento della soprintendente.
La
lotta per l’arte contemporanea ha trovato tre valorosi portavoce
per più di vent’anni.
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ARCHIVIO
BIO-ICONOGRAFICO GNAM
UA2,
cartella 51F, Polemiche
GNAM – Polemiche sull’Astrattismo
(’57-’58)
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