bta.it Frontespizio Indice Rapido Cerca nel sito www.bta.it Ufficio Stampa Sali di un livello english
Lo sguardo del Salvator Mundi di Antonello da Messina attraverso gli occhi di Romeo Castellucci. Sul concetto di volto nel figlio di Dio  

Marianna Cifarelli
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 31 Maggio 2015, n. 774
http://www.bta.it/txt/a0/07/bta00774.html
Precedente
Successivo
Tutti
Area Ricerca
«Questo spettacolo ha scelto proprio il dipinto di Antonello a causa dello sguardo che il pittore ha saputo imprimere all’espressione ineffabile del volto di Gesù. Questo sguardo è in grado di guardare direttamente negli occhi di ciascuno spettatore. Lo spettatore guarda lo svolgersi della scena ma è a sua volta continuamente guardato dal volto. Questa economia dello sguardo obbliga, perché interroga, la coscienza di ciascuno spettatore come spettatore. Il Figlio dell’uomo, messo a nudo dagli uomini, mette a nudo noi, ora. Questo ritratto di Antonello cessa di essere un dipinto. Si fa specchio».1


Queste alcune delle parole con le quali il regista Romeo Castellucci, nato a Cesena nel 1960 e tra i fondatori di una delle compagnie teatrali più rinomate in ambito internazionale, la Socìetas Raffaello Santio, difende, nella lettera aperta inviata ai giornali2 a seguito delle polemiche nate in occasione della programmazione al Teatro Franco Parenti di Milano, lo spettacolo da lui firmato: Sul concetto di Volto nel figlio di Dio. Lo spettacolo/performance della durata di circa cinquanta minuti con la regia di Castellucci e con musiche originali di Scott Gibbons, ha calcato numerosi palcoscenici internazionali tra cui quelli di Oslo, Londra, Mosca, Parigi e Roma, costituendo un’occasione preziosa per riportare all’interno del dibattito contemporaneo la figura del Cristo. La prima tappa dell’elaborazione artistica ha coinvolto la città di Essen, all’interno del Theater der Welt 2010, festival tedesco internazionale che si svolge ogni quattro anni, ha toccato Anversa per giungere a Roma, all’interno di Romaeuropa Festival 2010, per poi spiccare il volo in un tour internazionale consistente. Preliminare è mettere in evidenza la natura composita dell’opera teatrale di Castellucci in quanto condensa al proprio interno più discorsi: ermeneutico, cristico, artistico, teatrale e biblico, difatti, «Questo spettacolo» come afferma lo stesso regista «nasce come un getto diretto delle e dalle Sacre Scritture. Il libro dell’Ecclesiaste, la Teodicea del Libro di Giobbe, il salmo 22, il salmo 23, i Vangeli. Il libro della Tragedia appoggiato su quello della Bibbia».

Lo spettacolo è drammaturgicamente povero quanto concettualmente ricco. È caratterizzato da un piano-sequenza iniziale semplice poiché descrive unicamente il tentativo di un figlio di pulire il padre malato di dissenteria: il padre defeca e il figlio lo spoglia e lo pulisce. L’azione, che si ripete per ben tre volte con una collocazione scenica che si sposta da destra verso sinistra, caratterizzata da un crescendo di tensione emotiva inversamente proporzionale alla durata dell’azione stessa, avviene davanti al volto del Salvator Mundi di Antonello da Messina (1465/1475) che costituisce lo sfondo per tutta la durata dello spettacolo. L’opera teatrale è suddivisibile principalmente in due sequenze unite dal bacio che il figlio imprime sulle labbra del Cristo: una dedicata al padre e al figlio, l’altra incentrata completamente sul Volto. Quest’ultima, a seconda delle possibilità tecniche-logistiche dello spazio ospitante, è suddivisibile in due momenti: il primo momento vede l’entrata in scena di un gruppo di bambini che svuota le proprie cartelle e inizia a lanciare mine-giocattolo contro il Volto del Salvator mundi; l’altro, una volta che la scena è rimasta vuota, è caratterizzato dalla trasfigurazione del volto a causa della colata d’inchiostro che sembra liquefare il dipinto fino alla comparsa della scritta della qualità di un’incisione: You are my shephered – salmo 23 – . Per un attimo prima del buio conclusivo compare un “not”: You are not my shepherd.

Fig. 2

Fig. 1 - Sul concetto di volto nel figlio di Dio


Da questi accenni è possibile cogliere la portata culturale dello spettacolo, messa a fuoco eloquentemente già dal titolo: Sul concetto di volto nel Figlio di Dio. Lì dove fin da subito l’accento è posto su “concetto di volto” e su “figlio di Dio”, espressione che da una parte rivela l’attenzione che Castellucci pone sul quarto comandamento – “Questo spettacolo vuole essere una riflessione sulla difficoltà del 4° comandamento se preso alla lettera. Onora il padre e la madre”3 – dall’altra parte “figlio di Dio”, rimandando all’espressione “figlio dell’Uomo4”, apre un ragionamento complesso che coinvolge il discorso kenotico5 e quello sulla crocifissione: Cristo è Dio che si è umiliato, si è svuotato della propria divinità per assumere su di sé la piena umanità fino alla morte di croce, morte attraverso cui salva e redime dal peccato l’intera umanità rivelando il Dio in tutta la sua gloria e misericordia. Un ragionamento che irrora l’intero spettacolo sia tematicamente in quanto il discorso kenotico costituisce l’elemento cardine del susseguirsi di immagini e input sensazionali dell’opera teatrale, sia strutturalmente in quanto il teatro di Romeo Castellucci e della Socìetas si fonda su una decostruzione costruttiva; ossia, ci si trova di fronte un teatro della decostruzione, del disvelamento della forma-teatro che pone gli elementi e i segni della messa in scena in un tale conflitto da privarli della garanzia della rappresentazione. Un teatro che nega se stesso, passa per l’umiliazione per giungere alla glorificazione: una decostruzione generatrice di un nuovo senso.

Dunque, alla luce di tali considerazioni, le accuse di blasfemia, dissacrazione e cristianofobia, polemiche nate intorno alla messa in scena dello spettacolo in particolar modo a Parigi – ottobre 2011 – e Milano – gennaio 2012 –, perdono qualsiasi senso: l’opera di Castellucci rivela, ad un occhio attento e poco superficiale, una consistenza culturale notevole in quanto offre la possibilità di aprire una riflessione di ampio respiro sulla figura di Gesù, sul rapporto tra fede e cultura e più nello specifico sul volto di Cristo nel momento topico dell’Ecce Homo. Lo stesso Castellucci definisce lo spettacolo “cristico”, portatore di Cristo, poiché ne costituisce il nucleo, “il centro dell’azione e della concessione”.6 L’idea artistica, incentrata sul volto del Cristo, nasce da una “caduta”, racconta il regista, da un imbattersi casuale nello sguardo di dolcezza ineffabile del volto del Salvator Mundi dipinto da Antonello da Messina, sfogliando un libro in una conversazione con degli amici. Volto che impera la scena ma soprattutto sguardo che attraversa l’azione scenica per rivolgersi e guardare ogni spettatore come ad interrogarlo. Tale focus è avvalorato dall'aver portato sulla scena il dipinto di Antonello da Messina non intero, ma ritagliandone solo il volto. Difatti il Salvator Mundi, o Cristo benedicente è un olio su tela (38,7×29,8 cm), conservato alla National Gallery di Londra, raffigurante il Cristo a mezzo busto nell'atto della benedizione. Tale “zoom” rivela l'intenzione di porre l'accento sullo sguardo, uno sguardo, che si rivela composito e carico di senso. A palesare la significatività di tale sguardo è anche l'articolazione scenica che prevede, attraverso il bacio tra il figlio e Gesù, l'incontro tra lo sguardo del Cristo e di quello, da una parte del protagonista dell'azione scenica – il figlio –, dall'altra degli spettatori attraverso l'attore. Viene a crearsi un denso quanto interessante incrocio: lo sguardo del Cristo che guarda le azioni umane della scena e allo stesso tempo gli spettatori, i quali a loro volta guardano sia l’azione scenica che il Cristo. È Cristo stesso, a propria volta, uno spettatore? È un uomo che guarda altri uomini? Come sottolineato dalla citazione riportata sopra, “il volto si fa specchio”, si guarda e allo stesso tempo si è guardati da un Cristo che appare fin da subito non giudice ma profondamente umano, assolutamente paolino. Infatti, ritornando all’espressione “Figlio dell’Uomo” e facendo riferimento all’ “Ecce Homo”7 di Pilato alla folla, palese è la natura divinamente umana del Cristo, lì dove Gesù da una parte è l’uomo in cui l’umanità ha trovato modello e totale compimento, dall’altra è Dio, essendo consustanziale al Padre8. Sicché incontrare lo sguardo del Cristo significa incontrare Dio e l’uomo stesso, per altro immagine e somiglianza di Dio. Ne consegue che gli spettatori e lo stesso Castellucci di fronte allo sguardo del Salvator Mundi si trovano ad interrogarsi sulla propria natura umana divinamente fragile, sul senso profondo dell’essere uomo. Una natura debole e peritura che Castellucci pone violentemente dinnanzi agli occhi degli spettatori attraverso la condizione di sofferenza e debolezza nella quale imperversano sia il padre, malato di dissenteria e incapace di stare sulle proprie gambe, sia il figlio, impotente di fronte all’incontinenza del padre verso cui ogni tentativo appare fallimentare e profondamente sconfortante. La sofferenza diviene il cordone che unisce l’uomo e il Cristo, il quale assume su di sé la piena umanità proprio attraverso la morte di croce, acme della sofferenza.

Merita una breve considerazione la croce per la sua valenza composita in quanto è sia il luogo dello svuotamento, del sacrificio eucaristico, ma anche di profondo amore: Cristo si dona in senso assoluto al Padre, ubbidendolo fino alla morte in croce, e il Padre attraverso il Figlio fa dono di sé all’altro da sé, l’uomo, sicché la croce è luogo dell’amore del figlio verso il Padre e del Padre verso i figli. D’altro canto, però, la croce è anche il luogo in cui il Figlio è attraversato dal dubbio, «Dio mio, perché mi hai abbandonato ?»9. Ed è proprio il dubbio, l’esitazione, l’incerto e la messa in discussione a costituire la vena pulsante dell’intero spettacolo. Vena che ne attraversa sia la dimensione divina che quella umana.

Ritornando allo sguardo del Cristo di Antonello da Messina, Castellucci parla di “sguardo di dolcezza ineffabile”, lì dove indicativo è sia il termine ineffabile collegato al concetto di immagine che il termine dolcezza in riferimento a una grazia violenta, che interroga, che punge, che disarma, pone dei dubbi, sconvolge. Utile è aprire una parentesi sul concetto di immagine del regista emiliano. Per Romeo Castellucci l’immagine è qualcosa che, intrinsecamente connessa alla specie umana, agisce; è da intendersi un’idea, un’evocazione e pulsazione attraverso cui tutto ciò che sta sulla scena agisce; si può evocare ma non si può costruire, non è una cosa; non nasce “ma viene incontro”. Dunque, legata all’idea, l’immagine la si può “cogliere” ma rimane distante dall’esperienza e dalla sfera tangibile, “è contornata da un certo grado di assenza rispetto all’ esperienza”. Di qui prende consistenza l’uso dell’aggettivo ineffabile dal latino in-effabilis10, “che non si può dire”, termine che presuppone, dunque, l’impossibilità di dire, di esprimere, di esplicare.

Fig. 2

Fig. 2 - Sul concetto di volto nel figlio di Dio


Inoltre, l’affermazione «sguardo di dolcezza ineffabile», è indicativa della scelta di Castellucci “caduta” sul Salvator Mundi anziché sull'Ecce Homo dei dipinti dello stesso Antonello da Messina. In questa serie di dipinti, databili tra il 1470 e il 1475, il volto è ritratto in un’espressione di tristezza infinita, rassegnazione e sofferenza. Portare sulla scena questo volto così connotato avrebbe forse impedito alla violenza piena di grazia di agire? Avrebbe forse impedito alla forza della bellezza di suscitare quelle sensazioni che Castellucci erige a catalizzatori di una sorta di «eucarestia estetica della sensazione»11?
In tale prospettiva, interessanti sono le parole di Castellucci: «Voglio incontrare Gesù nella sua lunghissima assenza. Il volto di Gesù non c’è. Posso guardare i dipinti e le statue. Conosco più di mille pittori del passato che hanno speso metà del loro tempo a riprodurre l’ineffabile, quasi invisibile, smorfia di rammarico che affiorava sulle sue labbra. E ora? Lui ora non c’è».
«Quello che più di tutto si fa largo, in me, è il volere. È mettere insieme il volere e il volto di Gesù: io voglio stare di fronte al volto di Gesù, là dove ciò che più mi stupisce è la prima parte della frase: io voglio». 12
Dunque, volontà di stare di fronte ad un volto che non c’è, un’immagine ineffabile, un quid che da secoli si è cercato di immortalare in quadri e statue ma che risulta inafferrabile, irrappresentabile. È proprio l’assenza, quest’immagine che sfugge allo sguardo degli spettatori, degli attori e dello stesso Castellucci a essere, nel suo mistero, provocatrice di sensazioni e ad attivare quella liturgia teatrale che “coinvolge la vita”. È un’idea, un concetto tanto più vivo quanto più assente e misteriosamente divino. Ed è questo il punto di contatto e la profonda sinergia tra l’arte in tutte le sue forme e sfumature e il mondo del sacro.
Lo spettacolo, come messo più volte in evidenza, è portatore di un contenuto tematico complesso in quanto aperto a discorsi che toccano la sfera biblica, cristica, ermeneutica, teatrale e artistica. In questa sede interessante è porre l’accento sulla sezione dello spettacolo dedicata al Volto, in modo da aprire una riflessione analitica sui contenuti di cui è portatrice e, nello specifico, sui legami fra la rappresentazione scenica e i concetti di peccato, redenzione e crocifissione.

Il lancio di mine giocattolo da parte dei bambini e la colata di inchiostro rimandano al martirio e calvario di Gesù, all’apice del compimento del processo kenotico. Martirio che è sì sofferenza ma è fortemente collegato ai concetti di peccato e redenzione: Cristo, condannato dalla legge come bestemmiatore, redime l’umanità tutta dal peccato cui è ferita dalla nascita proprio attraverso la morte di croce e la redenzione; il Figlio del Padre disattiva le logiche di peccato e morte interne alla legge stessa, sostituendo l’economia provvisoria e di peccato di cui sono rivelatori Adamo e Mosè con un’economia di perdono e redenzione. È lo stesso Paolo a ribadirlo attraverso l’esortazione alla comunità di Efeso a «spogliarsi del vecchio uomo con la condotta di prima» per «vestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera»13 ovvero «il Cristo, che viene per ricapitolare tutte le cose»14. Un Cristo atteso dall’ umanità intera che come scrive Paolo nell’ottavo capitolo della lettera ai Romani «soffre nelle doglie del parto»15, affermazione che sottende l’attesa di salvezza e liberazione da un peccato congenito alla stessa natura umana. «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa stessa è stata sottomessa alla caducità e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria»16. L’umanità appare ab origine colpita dal peccato e dalla corruzione, attende nella sofferenza la liberazione, la redenzione ad opera di Dio. Redenzione che Dio opera attraverso l’incarnazione nella debolezza e caducità umana, attraverso la passione di Cristo morto e risorto. Dunque, la vita terrena appare come il luogo della sofferenza, della passione vissuta dall’uomo nella speranza della salvezza ad opera della grazia divina.

Ponendo l’attenzione sulla resa scenica dello spettacolo, tale remissione è rappresentata, dal mio punto di vista, dal momento in cui il figlio si avvicina al volto di Cristo e lo bacia sporco, imbrattato dalle feci del padre, emblema del peccato, dopo aver instancabilmente tentato di fare pulizia, di ripristinare il bianco17 che irrora l’intera ambientazione scenica.

Fig. 3

Fig. 3 - Sul concetto di volto nel figlio di Dio


Tentativi che risultano fallimentari. Ed è in questo fallimento18, nell’impotenza di fronte al peccato, che si condensa lo scarto tra il divino e l’umano. Un’impotenza che porta l’uomo ad affidarsi completamente a Dio, a riporre unicamente nel Cristo la speranza della redenzione, della salvezza da un peccato che è parte integrante della natura umana19. Emblematico è l’inizio, a seguito del bacio, della sezione dello spettacolo dedicata al Salvator Mundi, che riproduce il calvario, la passione redentiva del Cristo; attraverso questo passaggio, suggellato dal bacio, sembra quasi che Castellucci voglia mettere in evidenza quanto gli sforzi dell’uomo, tesi in un certo senso ad auto redimersi, siano vani di fronte alla redenzione ad opera di Dio attraverso la morte e resurrezione di Cristo. Il figlio attraverso il bacio dichiara la propria impossibilità, il proprio fallimento e di conseguenza il proprio affidarsi al Figlio amorevole.
Inoltre, a livello scenico, l’essenza divina e sovraumana sia di Gesù che della redenzione è rappresentata attraverso la colata “digitale” di inchiostro che trasfigura il Volto del Salvator Mundi. L’azione assume una dimensione sovrannaturale e sovraumana proprio in quanto digitale. «Questo spettacolo mostra, nel suo finale, dell’inchiostro nero che emana – achiropita20, non per mano d’uomo – dal ritratto del Cristo»21. Infatti, poiché l’immagine del Salvator Mundi è una proiezione digitale, anche la colata con la conseguente trasfigurazione avviene “non per mano d’uomo” ma quasi ad opera divina, lì dove, interessante, è il paragone che si istituisce fra la sfera tecnologica e quella divina. Le due sfere condividono il mistero dell’intangibile, dell’impalpabilità, dell’impossibilità di essere esperite dall’uomo. Entrambe sfuggono all’esperienza concreta e materiale dell’uomo, hanno a che fare con l’assenza. Inoltre, in riferimento all’uso del termine “achiropita”, è utile mettere in rilievo come l’immagine del Salvator Mundi di Antonello da Messina sia tra le più vicine a quelle, appunto, achiropite, cosicché viene doppiamente sottolineato lo spirito divino di Gesù e dell’atto redentivo. Infatti il critico d’arte Alfredo Tradigo scrive:

Possiamo vedere nel bel volto rinascimentale dipinto da Antonello da Messina nel 1475 quel prototipo misterioso che è il Volto dell’Uomo della Sindone: quei ciuffi di capelli richiamano il ricciolo a Y del sangue sulla fronte dell’uomo della Sindone, immagine che l’Enea, dopo 5 anni di ricerche, ha riconosciuto umanamente impossibile da riprodurre.22

Fig. 4

Fig. 4 - Sul concetto di volto nel figlio di Dio


Ritornando all’intera sequenza dello spettacolo su cui si è posto l’accento in questa sede, ossia quella incentrata sul volto del Salvator Mundi, è importante portare l’attenzione sui bui che la caratterizzano. I primi sono delle penombre: dopo il lancio delle mine-giocattolo, avvalorato anche dall’interruzione del suono, e durante l’uscita del padre; uscita significativa in quanto il padre, fino a quel momento incapace di reggersi in piedi, cammina da solo sulle mine-giocattolo, metafora, in un cero senso delle sue stesse feci. Che valore ha questa uscita il cui percorso in diagonale ha una consistenza spazio-temporale significativa? Vorrà forse aprire uno spiraglio di speranza redentiva? A seguito della sua uscita, l’intera scena, e in particolare il volto, entra in un buio, prima di quello conclusivo, totale. Scrive il Vescovo di Anversa:
«Per alcuni tempestosi minuti bombardati da rumori violenti la sala scompare nel buio. L’immagine del Salvator Mundi è scomparsa. Per un certo tempo non si vede più nulla. È l’assurdità e il vuoto del Venerdì Santo. Scomparsi la tempesta e il rumore, ricompare lentamente l’immagine del Salvator Mundi. Non più chiara come prima, ma in filigrana, a metà tra il visibile e l’invisibile. Scomparsi tutti gli altri volti solo uno resta visibile: quello di Gesù, in filigrana».23
Il buio rimanda alla morte del Cristo, e in un certo qual modo alla drammatica possibilità dell’assenza del Volto di Dio. Morte e assenza vinte attraverso la resurrezione che, a livello scenico, è resa attraverso i lampi di luce che attraversano il Volto durante la colata trasfigurante “di inchiostro” e che prendono forma nella luminosa scritta incisa sul volto in filigrana: You are my shepherd. D’altro canto la resurrezione risiede proprio in questo volto “in filigrana, tra il visibile e l’invisibile”, tra l’assenza e la presenza, tra la certezza e l’incertezza, nel “not”, nella messa in discussione del Volto. Dunque, in tale prospettiva, Castellucci pone l’accento su una redenzione che si alimenta attraverso il dubbio cui trova sede la presenza di Gesù, attraverso un incontro con il Volto che si palesa in un costante interrogare il Cristo e, quindi, l’uomo.

Fig. 5

Fig. 5 - Sul concetto di volto nel figlio di Dio


Nella stessa interpretazione laica delle categorie del divino e attraverso di lui di quelle dell’uomo, essendo Gesù l’uomo che ha assunto su di sé la piena essenza dell’umanità fragile e peritura, risiede il Cristo risorto dal momento che si ha a che fare con la ritrattazione della materia cristica posta sotto una luce diversa, appunto laica. Si può affermare, quindi, che è nella forza dell’interpretazione, nella ritrattazione ermeneutica che ha sede il mistero della redenzione, della morte e resurrezione, della salvezza dall’abbandono e dall’oblio della morte. È nello sguardo dell’uomo che interroga sé stesso e prende coscienza della propria dolente umanità, che continua a vivere il volto di Cristo, così come è nello sguardo di ogni singolo spettatore che l’atto teatrale, l’unicum24 spettacolare vince la morte e risorge.

Stessa considerazione riguarda l’opera di Antonello da Messina: è nella ritrattazione che ne fa Castellucci e, attraverso la sua opera teatrale, gli spettatori, che il dipinto vince l’oblio e continua a vivere rinnovato, portatore di un senso sempre nuovo

In questa chiave trova ragione l’economia di sguardi che caratterizza l’opera teatrale e viene sottolineata la vena sacra e in un certo senso “mistico-esoterica” del teatro e della sua azione. “Il mistero della fine” diviene, così, uno dei principali punti di contatto tra la materia teatrale e quella cristico-religiosa.

In conclusione il Volto del Salvator Mundi di Antonello da Messina, o meglio il suo sguardo costituisce sia per Castellucci che per gli spettatori, verso i quali il regista nutre una notevole considerazione, un luogo di composita e profonda riflessione, uno strumento d’indagine folgorante quanto di prezioso fascino.







NOTE


1 Lettera aperta di Romeo Castellucci riportata nell’articolo Romeo Castellucci interviene sullo spettacolo contestato a Milano di Massimo Marino pubblicato il 17 gennaio 2012. Disponibile all’indirizzo: http://boblog.corrieredibologna.corriere.it/2012/01/17/romeo_castellucci_interviene_s/.

2 Ibidem.

3 Lettera aperta di Romeo Castellucci riportata nell’articolo Romeo Castellucci interviene sullo spettacolo contestato a Milano di Massimo Marino pubblicato il 17 gennaio 2012. Disponibile all’indirizzo: http://boblog.corrieredibologna.corriere.it/2012/01/17/romeo_castellucci_interviene_s/.

4 Espressione presente anche nella lettera di Castellucci come si legge nella citazione su riportata.

5 Si rimanda alla nozione kenotica paolina, lì dove il termine, ekenosen, compare nella lettera ai Filippesi 2, 6-9: «egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò sè stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso e facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.»

6 Dichiarazione di Romeo Castellucci all’interno dell’intervista di Mario De Santis per «Soul Food Radio Capital». Disponibile all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=sUMfj61NB60.

7 Giovanni 19, 5.

8 Come definito dal primo concilio ecumenico, il Concilio di Nicea (325 d.C.), e ribadito dal concilio di Costantinopoli (381 d.C.).

9 Marco. 15,34.

10 Dal verbo latino effari che significa “dire chiaramente”.

11 R.Castellucci, Etica ed Estetica. Una lettera di Romeo Castellucci a Frie Leysen in Epopea della Polvere, Milano, Ubulibri, 2001 p. 306.

12 Dichiarazione pubblicata sul sito del teatro Franco Parenti. Disponibile all’indirizzo: http://www.teatrofrancoparenti.it/spettacolo?i=343.

13 Efesini 4, 22-24.

14 Efesini 1,10.

15 Romani 8, 22.

16 Romani 8, 19-22.

17 Palese è il riferimento simbolico del bianco: purezza, candore, innocenza, assenza di peccato.

18 Il fallimento e lo sconforto si evince eloquentemente dalla Figura 3, rappresentante il momento in cui il figlio abbandona il padre sul letto impotente di fronte l’incontinenza del padre.

19 Forte è il richiamo e la ripresa del ragionamento e delle logiche paoline.

20 Dal greco ἀχειροποίητα ("ἀ-" privativo + "χείρ" = mano + "ποιείν" = fare, produrre), significa "non fatto da mano (umana)". Il termine viene utilizzato per indicare quelle immagini sacre alle quali la tradizione attribuisce un'origine miracolosa, e che non sono considerate opera di un artista, ma sarebbero "apparse" da sole per intervento divino. Tra le più famose: la Sindone di Torino, l'immagine della Madonna di Guadalupe, l Mandylion o "immagine di Edessa e il "velo della Veronica", menzionata anche da Dante nella Divina Commedia (Paradiso XXXI, 103-108).

21 Lettera aperta di Romeo Castellucci riportata nell’articolo Romeo Castellucci interviene sullo spettacolo contestato a Milano di Massimo Marino pubblicato il 17 gennaio 2012. Disponibile all’indirizzo: http://boblog.corrieredibologna.corriere.it/2012/01/17/romeo_castellucci_interviene_s/.

22 ALFREDO TARIGO, Faccia a faccia con il volto di Cristo, articolo pubblicato il 24 gennaio 2012 sul blog dell’autore. Disponibile all’indirizzo: http://www.alfredotradigo.it/articoli12/02-12-1.htm.

23 JOHAN BONNY, In quel volto la forza del dubbio, recensione pubblicata il 17 febbraio 2012 su «R.it Bologna». Disponibile all’indirizzo: http://bologna.repubblica.it/cronaca/2012/02/17/news/in_quel_volto_la_forza_del_dubbio_la_recensione_del_vescovo_belga-30044203/.

24 Unicum in quanto ogni spettacolo è replicabile ma non riproducibile. In ogni messa in scena si presenta diverso.







BIBLIOGRAFIA

Bonny, 2012

Johan Bonny, In quel volto la forza del dubbio, recensione pubblicata il 17 febbraio 2012 su «R.it Bologna»

Castellucci, 1992

Claudia e Romeo Castellucci, Il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio. Dal teatro iconoclasta alla super-icona, Ubulibri, Milano, 1992.

Castellucci, Guidi, 2001


Romeo e Claudia Castellucci, Chiara Guidi Epopea della polvere: il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio: Amleto, Masoch, Orestea, Giulio Cesare, Genesi, Milano, Ubilibri, 2001.

C.e.i, 1974

Conferenza episcopale italiana, La Sacra Bibbia, Edizione a cura della Unione Editori e Librai Cattolici Italiani (UELCI), Roma 2004.

Lettieri, 2006

Gaetano Lettieri, Lo Spirito nella lettera. Testo sacro, carisma e demitologizzazione da Paolo ad Agostino, in G. Mura (ed.), Testo sacro e religioni. Ermeneutiche a confronto, Roma 2006.

Lettieri, 2011

Gaetano Lettieri, Bibbia e filosofia: ritrattare il senso, in G.G. Vertova (ed.), Bibbia, cultura, scuola. Alla scoperta di percorsi didattici interdisciplinari, Roma 2011, Carocci, pp. 51-71.

Ponte Di Pino, 2013

Oliviero Ponte Di Pino Romeo Castellucci & Socìetas Raffaello Santio, Milano, Associazione doppio zero, 2013.

Ponte Di Pino, 1999


Oliviero Pinte Di Pino, Il nuovo teatro italiano 1975-1988. La ricerca di gruppi: materiali e documenti, Firenze, La casa Uscher, 1988.

Tarigo, 2012


Alfredo Tarigo, Faccia a faccia con il volto di Cristo, articolo pubblicato il 24 gennaio 2012, sul blog dell’autore. Disponibile all’indirizzo: http://www.alfredotradigo.it/articoli12/02-12-1.htm.

thierry, 2012

Hubert Thierry, Alcuni elementi per una lettura teologica di “Sul concetto di volto nel figlio di Dio” di Romeo Castellucci riportata in «Culture teatrali-studi, interventi e scritture sullo spettacolo».









 

Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

Risali


BTA copyright MECENATI Mail to www@bta.it