«Questo
spettacolo ha scelto proprio il dipinto di Antonello a causa dello
sguardo che il pittore ha saputo imprimere all’espressione
ineffabile del volto di Gesù. Questo sguardo è in grado di guardare
direttamente negli occhi di ciascuno spettatore. Lo spettatore guarda
lo svolgersi della scena ma è a sua volta continuamente guardato dal
volto. Questa economia dello sguardo obbliga, perché interroga, la
coscienza di ciascuno spettatore come spettatore. Il Figlio
dell’uomo, messo a nudo dagli uomini, mette a nudo noi, ora. Questo
ritratto di Antonello cessa di essere un dipinto. Si fa specchio».
Queste
alcune delle parole con le quali il regista Romeo Castellucci, nato a
Cesena nel 1960 e tra i fondatori di una delle compagnie teatrali più
rinomate in ambito internazionale, la Socìetas Raffaello Santio,
difende, nella lettera aperta inviata ai giornali
a seguito delle polemiche nate in occasione della programmazione al
Teatro Franco Parenti di Milano, lo spettacolo da lui firmato: Sul
concetto di Volto nel figlio di Dio. Lo spettacolo/performance
della durata di circa cinquanta minuti con la regia di Castellucci e
con musiche originali di Scott Gibbons, ha calcato numerosi
palcoscenici internazionali tra cui quelli di Oslo, Londra, Mosca,
Parigi e Roma, costituendo un’occasione preziosa per riportare
all’interno del dibattito contemporaneo la figura del Cristo. La
prima tappa dell’elaborazione artistica ha coinvolto la città di
Essen, all’interno del Theater der Welt 2010, festival tedesco
internazionale che si svolge ogni quattro anni, ha toccato Anversa
per giungere a Roma, all’interno di Romaeuropa Festival 2010, per
poi spiccare il volo in un tour internazionale consistente.
Preliminare è mettere in evidenza la natura composita dell’opera
teatrale di Castellucci in quanto condensa al proprio interno più
discorsi: ermeneutico, cristico, artistico, teatrale e biblico,
difatti, «Questo spettacolo» come afferma lo stesso regista «nasce
come un getto diretto delle e dalle Sacre Scritture. Il libro
dell’Ecclesiaste, la Teodicea del Libro di Giobbe, il salmo 22, il
salmo 23, i Vangeli. Il libro della Tragedia appoggiato su quello
della Bibbia».
Lo
spettacolo è drammaturgicamente povero quanto concettualmente ricco.
È caratterizzato da un piano-sequenza iniziale semplice poiché
descrive unicamente il tentativo di un figlio di pulire il padre
malato di dissenteria: il padre defeca e il figlio lo spoglia e lo
pulisce. L’azione, che si ripete per ben tre volte con una
collocazione scenica che si sposta da destra verso sinistra,
caratterizzata da un crescendo di tensione emotiva inversamente
proporzionale alla durata dell’azione stessa, avviene davanti al
volto del Salvator Mundi di Antonello da Messina (1465/1475) che
costituisce lo sfondo per tutta la durata dello spettacolo. L’opera
teatrale è suddivisibile principalmente in due sequenze unite dal
bacio che il figlio imprime sulle labbra del Cristo: una dedicata al
padre e al figlio, l’altra incentrata completamente sul Volto.
Quest’ultima, a seconda delle possibilità tecniche-logistiche
dello spazio ospitante, è suddivisibile in due momenti: il primo
momento vede l’entrata in scena di un gruppo di bambini che svuota
le proprie cartelle e inizia a lanciare mine-giocattolo contro il
Volto del Salvator mundi; l’altro, una volta che la scena è
rimasta vuota, è caratterizzato dalla trasfigurazione del volto a
causa della colata d’inchiostro che sembra liquefare il dipinto
fino alla comparsa della scritta della qualità di un’incisione:
You are my shephered – salmo 23 – . Per un attimo prima
del buio conclusivo compare un “not”: You are not my shepherd.
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Fig. 1 - Sul concetto di volto nel figlio di Dio
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Da
questi accenni è possibile cogliere la portata culturale dello
spettacolo, messa a fuoco eloquentemente già dal titolo: Sul
concetto di volto nel Figlio di Dio. Lì dove fin da subito
l’accento è posto su “concetto di volto” e su “figlio di
Dio”, espressione che da una parte rivela l’attenzione che
Castellucci pone sul quarto comandamento – “Questo spettacolo
vuole essere una riflessione sulla difficoltà del 4° comandamento
se preso alla lettera. Onora il padre e la madre”
– dall’altra parte “figlio di Dio”, rimandando
all’espressione “figlio dell’Uomo”,
apre un ragionamento complesso che coinvolge il discorso kenotico
e quello sulla crocifissione: Cristo è Dio che si è umiliato, si è
svuotato della propria divinità per assumere su di sé la piena
umanità fino alla morte di croce, morte attraverso cui salva e
redime dal peccato l’intera umanità rivelando il Dio in tutta la
sua gloria e misericordia. Un ragionamento che irrora l’intero
spettacolo sia tematicamente in quanto il discorso kenotico
costituisce l’elemento cardine del susseguirsi di immagini e input
sensazionali dell’opera teatrale, sia strutturalmente in quanto il
teatro di Romeo Castellucci e della Socìetas si fonda su una
decostruzione costruttiva; ossia, ci si trova di fronte un teatro
della decostruzione, del disvelamento della forma-teatro che pone gli
elementi e i segni della messa in scena in un tale conflitto da
privarli della garanzia della rappresentazione. Un teatro che nega se
stesso, passa per l’umiliazione per giungere alla glorificazione:
una decostruzione generatrice di un nuovo senso.
Dunque,
alla luce di tali considerazioni, le accuse di blasfemia,
dissacrazione e cristianofobia, polemiche nate intorno alla messa in
scena dello spettacolo in particolar modo a Parigi – ottobre 2011 –
e Milano – gennaio 2012 –, perdono qualsiasi senso: l’opera di
Castellucci rivela, ad un occhio attento e poco superficiale, una
consistenza culturale notevole in quanto offre la possibilità di
aprire una riflessione di ampio respiro sulla figura di Gesù, sul
rapporto tra fede e cultura e più nello specifico sul volto di
Cristo nel momento topico dell’Ecce Homo. Lo stesso Castellucci
definisce lo spettacolo “cristico”, portatore di Cristo, poiché
ne costituisce il nucleo, “il centro dell’azione e della
concessione”.
L’idea artistica, incentrata sul volto del Cristo, nasce da una
“caduta”, racconta il regista, da un imbattersi casuale nello
sguardo di dolcezza ineffabile del volto del Salvator Mundi
dipinto da Antonello da Messina, sfogliando un libro in una
conversazione con degli amici. Volto che impera la scena ma
soprattutto sguardo che attraversa l’azione scenica per rivolgersi
e guardare ogni spettatore come ad interrogarlo. Tale focus è
avvalorato dall'aver portato sulla scena il dipinto di Antonello da
Messina non intero, ma ritagliandone solo il volto. Difatti il
Salvator Mundi, o Cristo benedicente è un olio su tela
(38,7×29,8 cm), conservato alla National Gallery di Londra,
raffigurante il Cristo a mezzo busto nell'atto della benedizione.
Tale “zoom” rivela l'intenzione di porre l'accento sullo sguardo,
uno sguardo, che si rivela composito e carico di senso. A palesare la
significatività di tale sguardo è anche l'articolazione scenica che
prevede, attraverso il bacio tra il figlio e Gesù, l'incontro tra lo
sguardo del Cristo e di quello, da una parte del protagonista
dell'azione scenica – il figlio –, dall'altra degli spettatori
attraverso l'attore. Viene a crearsi un denso quanto interessante
incrocio: lo sguardo del Cristo che guarda le azioni umane della
scena e allo stesso tempo gli spettatori, i quali a loro volta
guardano sia l’azione scenica che il Cristo. È Cristo stesso, a
propria volta, uno spettatore? È un uomo che guarda altri uomini?
Come sottolineato dalla citazione riportata sopra, “il volto si fa
specchio”, si guarda e allo stesso tempo si è guardati da un
Cristo che appare fin da subito non giudice ma profondamente umano,
assolutamente paolino. Infatti, ritornando all’espressione “Figlio
dell’Uomo” e facendo riferimento all’ “Ecce Homo”
di Pilato alla folla, palese è la natura divinamente umana del
Cristo, lì dove Gesù da una parte è l’uomo in cui l’umanità
ha trovato modello e totale compimento, dall’altra è Dio, essendo
consustanziale al Padre.
Sicché incontrare lo sguardo del Cristo significa incontrare Dio e
l’uomo stesso, per altro immagine e somiglianza di Dio. Ne consegue
che gli spettatori e lo stesso Castellucci di fronte allo sguardo del
Salvator Mundi si trovano ad interrogarsi sulla propria natura umana
divinamente fragile, sul senso profondo dell’essere uomo. Una
natura debole e peritura che Castellucci pone violentemente dinnanzi
agli occhi degli spettatori attraverso la condizione di sofferenza e
debolezza nella quale imperversano sia il padre, malato di
dissenteria e incapace di stare sulle proprie gambe, sia il figlio,
impotente di fronte all’incontinenza del padre verso cui ogni
tentativo appare fallimentare e profondamente sconfortante. La
sofferenza diviene il cordone che unisce l’uomo e il Cristo, il
quale assume su di sé la piena umanità proprio attraverso la morte
di croce, acme della sofferenza.
Merita
una breve considerazione la croce per la sua valenza composita in
quanto è sia il luogo dello svuotamento, del sacrificio eucaristico,
ma anche di profondo amore: Cristo si dona in senso assoluto al
Padre, ubbidendolo fino alla morte in croce, e il Padre attraverso il
Figlio fa dono di sé all’altro da sé, l’uomo, sicché la croce
è luogo dell’amore del figlio verso il Padre e del Padre verso i
figli. D’altro canto, però, la croce è anche il luogo in cui il
Figlio è attraversato dal dubbio, «Dio mio, perché mi hai
abbandonato ?».
Ed è proprio il dubbio, l’esitazione, l’incerto e la messa in
discussione a costituire la vena pulsante dell’intero spettacolo.
Vena che ne attraversa sia la dimensione divina che quella umana.
Ritornando
allo sguardo del Cristo di Antonello da Messina, Castellucci parla di
“sguardo di dolcezza ineffabile”, lì dove indicativo è sia il
termine ineffabile collegato al concetto di immagine che il
termine dolcezza in riferimento a una grazia violenta, che
interroga, che punge, che disarma, pone dei dubbi, sconvolge. Utile è
aprire una parentesi sul concetto di immagine del regista emiliano.
Per Romeo Castellucci l’immagine è qualcosa che, intrinsecamente
connessa alla specie umana, agisce; è da intendersi un’idea,
un’evocazione e pulsazione attraverso cui tutto ciò che sta sulla
scena agisce; si può evocare ma non si può costruire, non è una
cosa; non nasce “ma viene incontro”. Dunque, legata all’idea,
l’immagine la si può “cogliere” ma rimane distante
dall’esperienza e dalla sfera tangibile, “è contornata da un
certo grado di assenza rispetto all’ esperienza”. Di qui prende
consistenza l’uso dell’aggettivo ineffabile dal latino
in-effabilis,
“che non si può dire”, termine che presuppone, dunque,
l’impossibilità di dire, di esprimere, di esplicare.
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Fig. 2 - Sul concetto di volto nel figlio di Dio
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Inoltre,
l’affermazione «sguardo di dolcezza ineffabile», è indicativa
della scelta di Castellucci “caduta” sul Salvator Mundi anziché
sull'Ecce Homo dei dipinti dello stesso Antonello da Messina. In
questa serie di dipinti, databili tra il 1470 e il 1475, il volto è
ritratto in un’espressione di tristezza infinita, rassegnazione e
sofferenza. Portare sulla scena questo volto così connotato avrebbe
forse impedito alla violenza piena di grazia di agire? Avrebbe forse
impedito alla forza della bellezza di suscitare quelle sensazioni che
Castellucci erige a catalizzatori di una sorta di «eucarestia
estetica della sensazione»?
In
tale prospettiva, interessanti sono le parole di Castellucci: «Voglio
incontrare Gesù nella sua lunghissima assenza. Il volto di Gesù non
c’è. Posso guardare i dipinti e le statue. Conosco più di mille
pittori del passato che hanno speso metà del loro tempo a riprodurre
l’ineffabile, quasi invisibile, smorfia di rammarico che affiorava
sulle sue labbra. E ora? Lui ora non c’è».
«Quello
che più di tutto si fa largo, in me, è il volere. È mettere
insieme il volere e il volto di Gesù: io voglio stare di fronte al
volto di Gesù, là dove ciò che più mi stupisce è la prima parte
della frase: io voglio».
Dunque,
volontà di stare di fronte ad un volto che non c’è, un’immagine
ineffabile, un quid che da secoli si è cercato di immortalare
in quadri e statue ma che risulta inafferrabile, irrappresentabile. È
proprio l’assenza, quest’immagine che sfugge allo sguardo degli
spettatori, degli attori e dello stesso Castellucci a essere, nel suo
mistero, provocatrice di sensazioni e ad attivare quella liturgia
teatrale che “coinvolge la vita”. È un’idea, un concetto tanto
più vivo quanto più assente e misteriosamente divino. Ed è questo
il punto di contatto e la profonda sinergia tra l’arte in tutte le
sue forme e sfumature e il mondo del sacro.
Lo
spettacolo, come messo più volte in evidenza, è portatore di un
contenuto tematico complesso in quanto aperto a discorsi che toccano
la sfera biblica, cristica, ermeneutica, teatrale e artistica. In
questa sede interessante è porre l’accento sulla sezione dello
spettacolo dedicata al Volto, in modo da aprire una riflessione
analitica sui contenuti di cui è portatrice e, nello specifico, sui
legami fra la rappresentazione scenica e i concetti di peccato,
redenzione e crocifissione.
Il
lancio di mine giocattolo da parte dei bambini e la colata di
inchiostro rimandano al martirio e calvario di Gesù, all’apice del
compimento del processo kenotico. Martirio che è sì sofferenza ma è
fortemente collegato ai concetti di peccato e redenzione: Cristo,
condannato dalla legge come bestemmiatore, redime l’umanità tutta
dal peccato cui è ferita dalla nascita proprio attraverso la morte
di croce e la redenzione; il Figlio del Padre disattiva le logiche di
peccato e morte interne alla legge stessa, sostituendo l’economia
provvisoria e di peccato di cui sono rivelatori Adamo e Mosè con
un’economia di perdono e redenzione. È lo stesso Paolo a ribadirlo
attraverso l’esortazione alla comunità di Efeso a «spogliarsi del
vecchio uomo con la condotta di prima» per «vestire l’uomo nuovo,
creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera»
ovvero «il Cristo, che viene per ricapitolare tutte le cose».
Un Cristo atteso dall’ umanità intera che come scrive Paolo nell’ottavo capitolo della lettera ai Romani «soffre nelle doglie del
parto»,
affermazione che sottende l’attesa di salvezza e liberazione da un
peccato congenito alla stessa natura umana. «La creazione stessa
attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa stessa è
stata sottomessa alla caducità e nutre la speranza di essere lei
pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella
libertà della gloria».
L’umanità appare ab origine colpita dal peccato e dalla
corruzione, attende nella sofferenza la liberazione, la redenzione ad
opera di Dio. Redenzione che Dio opera attraverso l’incarnazione
nella debolezza e caducità umana, attraverso la passione di Cristo
morto e risorto. Dunque, la vita terrena appare come il luogo della
sofferenza, della passione vissuta dall’uomo nella speranza della
salvezza ad opera della grazia divina.
Ponendo
l’attenzione sulla resa scenica dello spettacolo, tale remissione è
rappresentata, dal mio punto di vista, dal momento in cui il figlio
si avvicina al volto di Cristo e lo bacia sporco, imbrattato dalle
feci del padre, emblema del peccato, dopo aver instancabilmente
tentato di fare pulizia, di ripristinare il bianco
che irrora l’intera ambientazione scenica.
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Fig. 3 - Sul concetto di volto nel figlio di Dio
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Tentativi
che risultano fallimentari. Ed è in questo fallimento,
nell’impotenza di fronte al peccato, che si condensa lo scarto tra
il divino e l’umano. Un’impotenza che porta l’uomo ad
affidarsi completamente a Dio, a riporre unicamente nel Cristo la
speranza della redenzione, della salvezza da un peccato che è parte
integrante della natura umana.
Emblematico è l’inizio, a seguito del bacio, della sezione dello
spettacolo dedicata al Salvator Mundi, che riproduce il
calvario, la passione redentiva del Cristo; attraverso questo
passaggio, suggellato dal bacio, sembra quasi che Castellucci voglia
mettere in evidenza quanto gli sforzi dell’uomo, tesi in un certo
senso ad auto redimersi, siano vani di fronte alla redenzione ad
opera di Dio attraverso la morte e resurrezione di Cristo. Il figlio
attraverso il bacio dichiara la propria impossibilità, il proprio
fallimento e di conseguenza il proprio affidarsi al Figlio amorevole.
Inoltre,
a livello scenico, l’essenza divina e sovraumana sia di Gesù che
della redenzione è rappresentata attraverso la colata “digitale”
di inchiostro che trasfigura il Volto del Salvator Mundi.
L’azione assume una dimensione sovrannaturale e sovraumana proprio
in quanto digitale. «Questo spettacolo mostra, nel suo finale,
dell’inchiostro nero che emana – achiropita,
non per mano d’uomo – dal ritratto del Cristo».
Infatti, poiché l’immagine del Salvator Mundi è una
proiezione digitale, anche la colata con la conseguente
trasfigurazione avviene “non per mano d’uomo” ma quasi ad opera
divina, lì dove, interessante, è il paragone che si istituisce fra
la sfera tecnologica e quella divina. Le due sfere condividono il
mistero dell’intangibile, dell’impalpabilità, dell’impossibilità
di essere esperite dall’uomo. Entrambe sfuggono all’esperienza
concreta e materiale dell’uomo, hanno a che fare con l’assenza.
Inoltre, in riferimento all’uso del termine “achiropita”, è
utile mettere in rilievo come l’immagine del Salvator Mundi
di Antonello da Messina sia tra le più vicine a quelle, appunto,
achiropite, cosicché viene doppiamente sottolineato lo spirito
divino di Gesù e dell’atto redentivo. Infatti il critico d’arte
Alfredo Tradigo scrive:
Possiamo
vedere nel bel volto rinascimentale dipinto da Antonello da Messina
nel 1475 quel prototipo misterioso che è il Volto dell’Uomo della
Sindone: quei ciuffi di capelli richiamano il ricciolo a Y del sangue
sulla fronte dell’uomo della Sindone, immagine che l’Enea, dopo 5
anni di ricerche, ha riconosciuto umanamente impossibile da
riprodurre.
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Fig. 4 - Sul concetto di volto nel figlio di Dio
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Ritornando
all’intera sequenza dello spettacolo su cui si è posto l’accento
in questa sede, ossia quella incentrata sul volto del Salvator
Mundi, è importante portare l’attenzione sui bui che la
caratterizzano. I primi sono delle penombre: dopo il lancio delle
mine-giocattolo, avvalorato anche dall’interruzione del suono, e
durante l’uscita del padre; uscita significativa in quanto il
padre, fino a quel momento incapace di reggersi in piedi, cammina da
solo sulle mine-giocattolo, metafora, in un cero senso delle sue
stesse feci. Che valore ha questa uscita il cui percorso in diagonale
ha una consistenza spazio-temporale significativa? Vorrà forse
aprire uno spiraglio di speranza redentiva? A seguito della sua
uscita, l’intera scena, e in particolare il volto, entra in un
buio, prima di quello conclusivo, totale. Scrive il Vescovo di
Anversa: «Per alcuni tempestosi minuti bombardati da rumori violenti la sala
scompare nel buio. L’immagine del Salvator Mundi è
scomparsa. Per un certo tempo non si vede più nulla. È l’assurdità
e il vuoto del Venerdì Santo. Scomparsi la tempesta e il rumore,
ricompare lentamente l’immagine del Salvator Mundi. Non più
chiara come prima, ma in filigrana, a metà tra il visibile e
l’invisibile. Scomparsi tutti gli altri volti solo uno resta
visibile: quello di Gesù, in filigrana».
Il
buio rimanda alla morte del Cristo, e in un certo qual modo alla
drammatica possibilità dell’assenza del Volto di Dio. Morte e
assenza vinte attraverso la resurrezione che, a livello scenico, è
resa attraverso i lampi di luce che attraversano il Volto durante la
colata trasfigurante “di inchiostro” e che prendono forma nella
luminosa scritta incisa sul volto in filigrana: You are my
shepherd. D’altro canto la resurrezione risiede proprio in
questo volto “in filigrana, tra il visibile e l’invisibile”,
tra l’assenza e la presenza, tra la certezza e l’incertezza, nel
“not”, nella messa in discussione del Volto. Dunque, in tale
prospettiva, Castellucci pone l’accento su una redenzione che si
alimenta attraverso il dubbio cui trova sede la presenza di Gesù,
attraverso un incontro con il Volto che si palesa in un costante
interrogare il Cristo e, quindi, l’uomo.
|
Fig. 5 - Sul concetto di volto nel figlio di Dio
|
Nella
stessa interpretazione laica delle categorie del divino e attraverso
di lui di quelle dell’uomo, essendo Gesù l’uomo che ha assunto
su di sé la piena essenza dell’umanità fragile e peritura,
risiede il Cristo risorto dal momento che si ha a che fare con la
ritrattazione della materia cristica posta sotto una luce diversa,
appunto laica. Si può affermare, quindi, che è nella forza
dell’interpretazione, nella ritrattazione ermeneutica che ha sede
il mistero della redenzione, della morte e resurrezione, della
salvezza dall’abbandono e dall’oblio della morte. È nello
sguardo dell’uomo che interroga sé stesso e prende coscienza della
propria dolente umanità, che continua a vivere il volto di Cristo,
così come è nello sguardo di ogni singolo spettatore che l’atto
teatrale, l’unicum
spettacolare vince la morte e risorge.
Stessa
considerazione riguarda l’opera di Antonello da Messina: è nella
ritrattazione che ne fa Castellucci e, attraverso la sua opera
teatrale, gli spettatori, che il dipinto vince l’oblio e continua a
vivere rinnovato, portatore di un senso sempre nuovo
In
questa chiave trova ragione l’economia di sguardi che caratterizza
l’opera teatrale e viene sottolineata la vena sacra e in un certo
senso “mistico-esoterica” del teatro e della sua azione. “Il
mistero della fine” diviene, così, uno dei principali punti di
contatto tra la materia teatrale e quella cristico-religiosa.
In
conclusione il Volto del Salvator Mundi di Antonello da Messina, o
meglio il suo sguardo costituisce sia per Castellucci che per gli
spettatori, verso i quali il regista nutre una notevole
considerazione, un luogo di composita e profonda riflessione, uno
strumento d’indagine folgorante quanto di prezioso fascino.
NOTE
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Tarigo, Faccia a faccia con il volto di Cristo,
articolo pubblicato il 24 gennaio 2012, sul blog dell’autore.
Disponibile all’indirizzo:
http://www.alfredotradigo.it/articoli12/02-12-1.htm.
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2012
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Hubert
Thierry, Alcuni elementi per una lettura teologica di
“Sul concetto di volto nel figlio di Dio” di Romeo Castellucci
riportata in «Culture teatrali-studi, interventi e scritture
sullo spettacolo».
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