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La rappresentazione della committenza nella Vita di Michelagnolo Buonarroti di Ascanio Condivi Simbologie Antiquariali

Giorgio Costa
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 14 Luglio 2015, n. 779
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La Vita di Michelagnolo Buonarroti di Ascanio Condivi si presta a due tipi di fraintendimenti che rischiano di comprometterne la comprensione. Da una parte si rischia di considerarla come una mera fonte michelangiolesca, dall’altra come una finestra di osservazione privilegiata sulla vita privata del grande artista. Entrambe queste letture risultano fuorvianti perché non considerano il meccanismo testuale nella sua autonomia 1 . Molto più proficua risulta invece una lettura che parta dal testo e dal suo funzionamento; particolarmente significative in questo senso risultano le zone liminali, in cui il narratore interviene in maniera maggiormente esplicita a chiarire le proprie posizioni e le “regole del gioco”. Nell’incipit subito si proclama la responsabilità “politica” di Giulio III nella realizzazione della biografia. Nonostante ad una prima analisi la dedica al papa possa facilmente essere interpretata come un atto dovuto ed un omaggio formale, questa forma convenzionale era in realtà funzionale ai fini argomentativi che il narratore perseguiva:

«Le dedico di mano in mano tutte le fatiche che da me nasceranno; e queste specialmente de la Vita di Michelangnolo pensando che Le debban esser grate per esserli grata la vertù e l'eccellenza de l'uomo che Sua Santità medesima mi propose ad imitare» 2 .

Si è introdotti qui ad un motivo di particolare rilevanza all'interno della biografia, ovvero l'ostentazione del profondo legame che univa il papa, l'artista e il narratore. Il papa ha esplicitamente commissionato la stesura del testo a Condivi, dal momento che ha cara e protegge la “vertù” michelangiolesca. Questa parola esprime un concetto fondamentale nella dinamica dei rapporti tra l'artista e il potere, tanto più che ricorrerà ogni volta che nel testo verrà descritto l'operato di un committente. Nell'ottica condiviana la parola “virtù” definisce la disposizione d'animo che consente ad alcuni individui di dedicarsi interamente ed esclusivamente ad un'attività particolare; si tratta della qualità che permette di operare in una certa direzione anche a dispetto di notevoli difficoltà 3 . Non bisogna però sovrapporla o assimilarla alla moderna nozione di talento, il campo semantico in cui è utilizzata da Condivi è infatti sempre sociale e politico e la parola compare sempre quando si descrive la relazione tra l’arte e il potere. Virtuoso non è mai direttamente l’uomo di potere; rispetto alla virtù, il suo ruolo è in primo luogo quello di far sì che essa sia tutelata e coltivata presso di sé, grazie alla sua protezione. Il committente si può legare alla sfera della virtù, ma solo per il tramite dell'artista; è proprio il tipo di rapporto che si crea tra la virtù e il principe che permette o meno la fioritura artistica in uno stato. Si assisterà nel testo ad una vera e propria rassegna del rapporto dei potenti con i virtuosi, ed in base ad esso verranno valutati gli stati e i principi. Già al suo esordio dunque la biografia mostra di voler descrivere il sistema socio politico in cui gli artisti erano inseriti più che occuparsi di “bellezza” o delle opere da un punto di vista estetico.

Giulio III ottempera al suo compito di committente nella maniera più completa, tanto da essere collocato all’inizio del testo come una sorta di esempio e monito per tutti gli altri potenti che compariranno nella biografia. Il rapporto tra Giulio e Michelangelo rappresenta la struttura chiave del sistema artistico, una sorta di pietra di paragone. Solo su una base di questo tipo erano state possibili le grandi creazioni della prima metà del Cinquecento. A partire da questo assunto viene tracciata una vera e propria storia della committenza; in questa rassegna l'operato dei potenti viene passato al vaglio critico, mostrando come essi possano facilitare l'operato artistico o, al contrario, possano causarne l'inaridimento quando pretendono di travalicare i confini del proprio ruolo.

Tuttavia il rapporto tra Giulio e Michelangelo non può dirsi completo senza considerare il ruolo che vi riveste Condivi, ruolo complesso e fondamentale, emblematico dell'evoluzione verso la modernità del rapporto tra arte e potere politico. Figura connettiva tra il committente e l'artista, Condivi non può più essere rappresentato come un erede diretto dei discepoli di bottega della tradizione quattrocentesca fiorentina. Questo fatto riceve conferma dalla stessa parabola della sua carriera al fianco di Michelangelo che mostra un sostanziale esaurimento dell'esperienza pittorica per lasciar spazio all’evoluzione verso il nuovo ruolo, di cui Condivi mostra grande orgoglio 4 . La figura del narratore si inserisce all'interno di un discorso, di cui la biografia rappresenta solo una parte. Da subito infatti egli dichiara di non essere semplicemente un biografo, ma di voler dare vita ad una vera e propria impresa editoriale di sistemazione delle opere del maestro. Grazie all'appoggio di Giulio III verranno raccolte e stampate le opere che testimonieranno la grandezza di Michelangelo; Condivi infatti offre al papa la biografia come una sorta di anticipazione a cui seguiranno altre opere:

«Non si sdegni che io ne l’offerisca queste povere premizie» 5 .

Ciò che farà seguito alla Vita viene esplicitamente menzionato:

«Ci restano maggior cose che da lui si son cavate, le quali si pubblicheranno poi per finezza e per istabilimento de l’arte, e per gloria de la Santità Vostra, che l’arte e l’artefice favorisce» 6 .

Non solo Condivi dichiara di aver accesso a una grande quantità di materiale riguardante il maestro, ma mostra come già lo stesse suddividendo in diversi filoni; i principali sono quello biografico, e quello più legato all’arte:

«Mi truovo dunque aver fatte due conserve de le cose sue: una appartenente a l’arte, l’altra a la vita» 7 .

Il materiale di cui si compone la biografia è dunque strettamente legato e circoscritto al materiale biografico, alle vicende terrene e ai concreti rapporti del maestro con i suoi contemporanei. Non qui dunque ci si deve aspettare l’analisi di teorie estetiche né l’esaustività nella descrizione delle opere, che infatti vengono rimandate altrove:

«Almen di questo spero d’esser lodato, che il meglio ch’io posso ho provisto, con la parte che ora si pubblica a la fama del mio maestro e, con quella che mi resta, a la conservazion di un gran tesoro de l’arte nostra. A benefizio de la quale io la comunicherò poi col mondo più consideratamente che io non ho fatto questa» 8 .

Lo scopo principale della biografia è tutelare la fama del maestro, che era stata compromessa o quantomeno minacciata, e mostrare il meccanismo sociale e politico in cui l’arte di Michelangelo era inserita nonché la parabola dei suoi rapporti con la committenza e con il potere. Non c'è urgenza di parlare direttamente delle opere perché in un certo senso quelle non erano oggetto di discussione, dal momento che a difenderle esisteva il loro status di concreta ed oggettiva esistenza nel mondo. Si coglie invece, percorrendo il testo condiviano, un’ansia di rettificare, di ribadire, di sistematizzare e di bloccare in una versione univoca la vita del maestro. Il carattere di estrema volatilità della materia aneddotica circa la vita di Michelangelo, le voci e le calunnie che circolavano sul suo conto e che rischiavano di condensarsi in un mito deforme e falso, costituiscono uno dei principali fattori che ha portato alla scrittura di questo testo. L’urgenza con cui è composto e tutte le condizioni pragmatiche che hanno portato alla sua realizzazione permettono di comprendere come nell’ambiente intorno a Michelangelo si avvertisse il bisogno di erigere una sorta di barriera discorsiva per arginare calunnie e falsità che insidiavano la reputazione del maestro. In alcuni punti chiave del testo interviene uno dei motivi scatenanti della scrittura di questo, l'”infamia”. Con l'autorità che gli deriva dall'essere testimone diretto, Condivi è nella posizione di poter smentire l'infamia che rischia di infangare la reputazione del maestro. Solo dopo aver liquidato l’urgenza biografica e ristabilito la fama del maestro, egli si sarebbe concentrato sugli aspetti più teorici e avrebbe dato alle stampe un manuale di anatomia, in cui si sarebbe potuta ammirare (e studiare) la conoscenza michelangiolesca in questo campo:

«E perché oggimai è di età grave e matura né pensa di poter in scritto mostrare al mondo questa sua fantasia, egli con grande amore minutissimamente m’ha ogni cosa aperto, il che cominciò a conferire con messer Realdo Colombo (…) il quale per tale effetto gli mandò il corpo morto di un moro giovane (…) sopra il qual corpo Michelagnolo molte cose rare e recondite mi mostrò, forse non mai più intese, le quali io tutte notai, e un giorno spero, coll'aiuto di qualche uomo dotto, dar fuore a comodità e utile di tutti quelli che alla pittura o scoltura voglion dare opera» 9.

La volontà di pubblicare quest’opera è motivata da una parte dalla debolezza dei libri allora esistenti su tale tema (il manuale di Albrecht Dürer 10 ) e dall’altra dalla volontà del maestro di fare scuola anche dopo la sua morte, attraverso la stampa. Quest'opera avrebbe permesso di raggiungere nello spazio e nel tempo tutti gli artisti che per vocazione avrebbero sentito il bisogno dell’insegnamento michelangiolesco.

L’elencazione delle future opere di Condivi prosegue con il proposito di pubblicare il canzoniere di Michelangelo 11 :

«Spero tra poco tempo dar fuore alcuni suoi sonetti e madrigali, quali io con lungo tempo ho raccolti sì da lui sì da altri, e questo per dar saggio al mondo quanto nell'invenzione vaglia e quanti bei concetti naschino da quel divino spirito» 12.

A Condivi dunque è assegnato il compito di affidare alla stampa tutto il materiale michelangiolesco eccedente le sue opere pittoriche e scultoree, in modo che anch'esso potesse assumere un carattere oggettivo e definitivo. La stampa avrebbe dunque permesso di creare un canone ufficiale michelangiolesco basato sulla parola scritta che avrebbe integrato e in un certo senso completato le sue opere figurative. Le opere a stampa dunque ambivano ad assumere uno status in qualche modo analogo a quelle pittoriche e scultoree, legandosi ed intersecandosi ad esse avrebbero inoltre contribuito a creare un contesto molto circostanziato ed estremamente strutturato: un discorso artistico a tutto tondo che con la sua esaustività si poneva l’obiettivo di cristallizzare la figura di Michelangelo all’interno di un insieme di significati il più possibile definiti e non soggetti ad oscillazioni semantiche. La novità consiste nel fatto che per lasciare “ai posteri” un'immagine completa e “vera” dell'artista si ritenga necessario rivolgersi anche alla stampa. Non si considerano più sufficienti le testimonianze plastiche o pittoriche, ma si sente l'esigenza di completarle con chiose, giustificazioni, apologie, rettifiche. Il nuovo medium rappresenta dunque una vera e propria nuova colonna dell'attività michelangiolesca che integra e completa le altre. Tuttavia ancor prima di poter organicamente progettare questo corpus, si perviene alla pubblicazione della biografia, premessa necessaria per fornire la corretta collocazione di Michelangelo inteso come figura operante e attiva nella società dei suoi contemporanei.

La fiducia nella stampa non era tuttavia incondizionata né ingenua, anzi teneva in debita considerazione un aspetto del nuovo medium particolarmente sentito all’epoca; ovvero il fatto che esso potesse prestarsi con estrema facilità alla mistificazione, alla contraffazione e al falso. In questo senso il suggello papale, o in qualche modo l’ostentazione della diretta e inconfutabile discendenza della biografia dal papa o comunque dal suo ambiente, assumeva un’importanza cruciale e strategica. Tuttavia anche all’esterno del contenuto narrativo, nelle vicende editoriali dell’”oggetto” libro si coglie un’analoga ambizione di ufficialità, di ergersi a fonte di primaria importanza e di ineguagliabile autorevolezza. Così il rapporto con il potere diviene ancora più necessario, perché in grado di garantire al testo un carattere di ufficialità e di incontestabilità. A conferma di ciò sta la scelta dello stampatore; Antonio Blado infatti in quegli anni era una sorta di proto-stampatore ufficiale della corte papale, che a lui si affidava per la promulgazione di editti, grida e comunicazioni ufficiali, tanto che già nel 1539 veniva menzionato come Camerae Apostolicae Impressor 13 . Nel 1553 bastava che un testo venisse pubblicato da Blado perché ne risultasse con assoluta evidenza la provenienza papale.

Tornando al testo, il legame esplicito con la corte papale viene ribadito anche dalle vicende tipografiche del libro; la Vita di Michelagnolo infatti uscì il 16 luglio del 1553, ma pochi giorni dopo ne venne stampata un’altra versione, in tutto simile alla precedente se non per l’aggiunta di tre brani 14 particolarmente significativi per comprenderne la dimensione più programmatica. In particolare la seconda di queste tre interpolazioni affronta direttamente il funzionamento profondo del sistema ternario Michelangelo – Condivi – Giulio III. Il passo si inserisce in una zona del testo in cui l'autore sta affrontando esplicitamente il rapporto di Michelangelo con il potere, e viene aggiunto (come coronamento) al termine di un elenco di principi che in vario modo erano entrati in rapporto con l'artista. Vengono citati per primi i pontefici al cui servizio Michelangelo aveva lavorato: “Giulio, Lione, Clemente e Paolo”, si menziona addirittura il sultano turco che avrebbe offerto a Michelangelo una cifra a suo piacimento per portarlo con sé in Turchia 15 , di seguito vengono citati il re di Francia Francesco e la repubblica di Venezia. A questo punto si inserisce Giulio III:

«Prencipe di sommo giudizio e amatore e fautore universalmente di tutte le virtù» 16 .

Torna la parola chiave virtù per designare il legame tra il mecenate e l'artista. Il papa si fa protettore della virtù ed inoltre si afferma che egli è “alla pittura, scoltura e architettura inclinatissimo”. Parole particolarmente significative perché abbracciano l'intera estensione dell’attività artistica michelangiolesca secondo le definizioni a lui contemporanee, nonché ricalcano il modo in cui si autodefiniva Michelangelo stesso. Si raggiunge qui il legame più profondo tra l'artista e il committente; grazie alla sua opera di fautore della virtù, quest'ultimo può assumerne le medesime qualifiche. Il corretto funzionamento del rapporto tra artista e potere, permette ad entrambi di arricchirsi delle prerogative dell'altro, che altrimenti gli resterebbero del tutto precluse. Si veda come in un passo particolarmente significativo si assiste anche al fenomeno analogo e speculare della nobilitazione di Michelangelo attraverso il legame con il papa:

«Spero di far frutti che, se non ora, a qualche tempo meriteranno forse il favore e la grazia di Vostra Santità, e’l nome d’esser servitore e discepolo d’un Michelagnolo Buonarroti, l’uno Principe de la Cristianità, l’altro de l’arte del disegno» 17 .

Enunciando e mostrando una struttura di tal genere dunque non solo si colgono i presupposti della nascita delle grandi opere d'arte, ma si percepisce anche una visione profonda dei rapporti tra arte e politica. Solo attraverso il profondo rispetto dell'arte e dell'artista un potente potrà veramente legarsi a lui e partecipare in qualche modo della bellezza e della fama delle sue opere. Solo cogliendo come l'artista sia anch'esso un principe il potente arriverà alle soglie della creazione artistica ed autenticamente si legherà in un sistema artistico con le opere e con l'artista. Unicamente partendo da questo presupposto le opere di un artista possono compiutamente formare un’unione simbolica con la casata che le commissiona. La presenza poi del committente all’interno delle composizioni pittoriche o il collocamento delle opere presso le residenze o i palazzi del committente saranno quindi il coronamento e una conseguenza di questo legame simbolicamente già compiuto. Le grandi creazioni artistiche nascono da questo rapporto equilibrato e paritario e mai possono essere il frutto di prevaricazioni, né in alcun modo possono nascere al di fuori di questo contesto.

Il passo si conclude con un'immagine che può sembrare cruda, ma che per certe analogie tematiche rimanda all'immaginario michelangiolesco:

«Più volte ha avuto a dire che volentieri, se possibil fusse si leverebbe dei suoi anni e del suo sangue per aggiongerli alla vita di lui, perché il mondo non fusse così presto privo d’un tale uomo. Il che, avendo anch’io avuto accesso a Sua Santità, ho con le mie orecchie dalla sua bocca inteso, e più che, s’a lui sopravvive, come par che ricerchi il natural corso della vita, lo vuol far imbalsamare e averlo appresso di sé, acciò l’ossa siano perpetue come son le opere» 18 .

Prima di tutto vale la pena sottolineare l’ostentazione del proprio ruolo da parte del narratore, ovvero il suo punto di vista interno alla vicenda, di testimone nonché di personaggio partecipante all’azione narrata. Se d’altro canto ci si sofferma sull’immagine descritta si può cogliere come in qualche modo essa sia una sorta di simbolo stesso del processo di rappresentazione biografica. L’imbalsamazione rappresenta il modo più trasparente e meno mediato in assoluto di conservare una persona. La rappresentazione con i suoi artifici si riduce a mero procedimento tecnico di conservazione della forma originale. A questo ambiva l’operazione condiviana, la conservazione fedele della vita del maestro in tutti i suoi aspetti, l’aspetto epistemologico di questa operazione è rappresentato in questa immagine, dove il committente e il sistematore compiono nella maniera più perfetta il loro compito all’interno della triade artistica michelangiolesca. C’era infatti l’esigenza di preservare, accanto alle opere artistiche che sarebbero comunque durate, anche il Michelangelo reale, l’uomo. La creazione del mito michelangiolesco non poteva dirsi infatti completa se non si aveva in qualche modo il controllo anche sulla dimensione anche più concreta della sua vita; da qui l’importanza della collocazione del corpo e della giusta collocazione narrativa del materiale biografico. In questa prospettiva va dunque inquadrato il ruolo di committente di Giulio III; se durante il suo pontificato non vi erano state quelle commissioni che avevano reso celebri i precedenti papi che fecero lavorare il maestro nei vari cicli pittorici, vi sarebbe stato tuttavia con la biografia l’avvio di un altro ciclo, altrettanto importante e meritorio di futura gloria. In un certo senso si potrebbe dire che in quest’ottica a Giulio III è offerto il progetto più ambizioso, ovvero la possibilità di rendere un’opera eterna lo stesso artista, ed in questo senso di legarsi a lui nella maniera più profonda possibile.

Il ricorso all’immagine dell’imbalsamazione può sembrare bizzarro o stravagante ma non era estraneo all’immaginario michelangiolesco, tanto che si trova un’immagine analoga in un contesto significativamente consonante all’interno dell’epistolario dell’artista. In una lettera a Vasari infatti Michelangelo ricorre ad un’immagine simile in risposta al dono da parte dell’aretino di una copia delle Vite.

«Ma io non mi maravigl[i]o, sendo voi risuscitatore d’uomini morti, che allung[h]iate vita a’ vivi, o vero che i mal vivi furiate per infinito tempo alla morte» 19 .

Narrare la vita di un vivo equivale dunque ad imprigionarlo, a legarne l’immagine a una data versione dei fatti. Chi racconta la vita di un personaggio si mette in relazione profonda con esso, tanto da assumere una sorta di potere su di lui, legandolo ad un insieme di atti, di frasi, di gesti che rimangono indelebili. Il medesimo concetto è affrontato, anche se con toni più sfumati, nel sonetto che Michelangelo aveva composto in risposta all’invio da parte di Vasari di una copia delle Vite:

«Se con lo stile o coi colori avete
alla natura pareggiato l’arte,
anzi a quella scemato il pregio in parte.
Che ’l bel di lei più bello a noi rendete,
poi che con dotta man posto vi sete
a più degno lavoro, a vergar carte,
quel che vi manca, a lei di pregio in parte,
nel dar vita ad altrui, tutta togliete»
20 .

Si coglie qui in maniera icastica la percezione del potere della parola scritta, di come in maniera analoga, ma forse per Michelangelo ancora più inquietante, anche la scrittura avesse il potere di far vivere, di creare figure fittizie e fantasmatiche. La dimensione fragile di Michelangelo uomo vivente viene in qualche modo sottratta al suo stesso potere da questo Michelangelo vasariano creato nella biografia che gli si sostituisce. L’ironia su Vasari pittore è evidente nel sonetto michelangiolesco, mentre si coglie l’inquietudine riguardo alla sua efficacia di scrittore; meno evidente ma più profonda è la riflessione estetica sul rapporto tra le arti contenuta in queste affermazioni: come l’arte è deputata all’imitazione della natura, allo stesso modo la scrittura ha addirittura il potere di risuscitare gli uomini, potere che le deriva dal rapporto molto stretto e realistico con le opere e le azioni che gli uomini hanno compiuto nella loro vita. Fuor di metafora è chiara qui l’acuta consapevolezza che Michelangelo ebbe subito della nascente storiografia artistica e in particolare della biografia riguardo alla propria fama e al proprio destino postumo. L’oggettività della storia stava per divenire uno dei punti fermi della modernità e non sarebbe più stata messa in discussione fino al Novecento. Prima che fosse troppo tardi Michelangelo avvertì il bisogno di replicare e intuì che non potevano più essere sufficienti le opere che egli lasciava al mondo ma bisognava ribadire la sua versione dei fatti sulla storia della sua vita 21 .

L’immagine del corpo imbalsamato dell’artista conservato presso il papa (si sarebbe tentati di dire “protetto” dal papa), implica inoltre la questione della collocazione delle spoglie di Michelangelo al momento della sua morte. Perché il mito fosse completo ci doveva essere, oltre alle opere e alla biografia, anche un luogo deputato al culto del grand’uomo. Questo spiega perché mentre il maestro ancora viveva già si faceva a gara per ospitarne il corpo una volta morto. Il desiderio di conservare presso la corte papale il corpo dell’artista viene in qualche modo ribadito e specificato anche in un altro brano condiviano dove viene esplicitata la volontà di Michelangelo di collocare presso il proprio sepolcro la pietà Bandini 22 .

«Fa disegno di donar questa pietà [la pietà Bandini] a qualche chiesa, e a piè dell’altare ove sia posta farsi seppellire» 23.

Niente di tutto quello che Michelangelo sembra desiderare avvenne, tanto che alla sua morte il corpo venne trafugato da emissari di Cosimo I per riportarlo a Firenze, dove già si era messa in moto la macchina dell’Accademia del Disegno per la meticolosa preparazione del funerale, celebrazione già barocca di un mito rinascimentale 24 . Mentre non alla Pietà Bandini toccò di essere il monumento funebre di Michelangelo, ma ad un’opera disegnata da Vasari. La corte di Cosimo non esitò a fondare un mito arbitrario fondato su un legame del tutto ideologico con l’artista tramite la creazione di un legame simbolico tra il corpo di Michelangelo e la Firenze di Cosimo.

Ad ogni modo ciò che conta ribadire ora è l'aggiunta di un passo in cui si manifesta chiaramente la volontà che Michelangelo, anche dopo la morte, fosse a Roma. La biografia condiviana ammonisce a considerare l’attività e le opere michelangiolesche, nonché la sua figura d'artista, esclusivamente nell’orbita della Roma del Cinquecento dove si stava rifabbricando il centro del mondo e l'omphalos della cristianità. Collocare altrove la figura di Michelangelo ne avrebbe alterato il valore e snaturato il significato. Sarebbe stato compiuto un furto, un'appropriazione indebita; ed in un certo senso è contro un'appropriazione indebita che viene composta questa biografia. Tutta la dispositio degli argomenti deve essere analizzata lungo questo asse interpretativo. Il ricollocamento di Michelangelo nella posizione di artista della Roma dei papi, con tutte le implicazioni che questo ruolo comportava. Egli infatti si sentiva chiamato ad una missione spirituale che aveva a che fare con il suo particolare destino di credente. Una missione di salvezza e di arricchimento della chiesa in cui credeva fermamente. Tutte le intrusioni di poteri estranei a questa missione sono viste nella biografia come intrusioni che sviano l'artista dal compimento della sua missione spirituale. La fama dell'artista di cui dichiara di volersi occupare Condivi, può essere salvaguardata per i posteri solo se l'attività del maestro viene ridisposta lungo il retto asse interpretativo. È dunque da un intento militante che scaturisce questo testo perché grava sul capo del maestro la minaccia dell'infamia. Dall’inizio infatti il testo rivela l'urgenza di smentire, di rettificare, di riaggiustare in una differente prospettiva l'esperienza michelangiolesca. Mentre Condivi accumulava materiale per creare la biografia e il libro sull'arte:

È nato accidente che per doppia cagione mi sono sforzato d'accelerare, anzi di precipitar quelle de la vita. Prima perché sono stati alcuni che, scrivendo di questo raro uomo, per non averlo (come credo) così praticato come ho fatto io da un canto n'hanno dette cose che mai non furono, da l'altro lassatene altre molte di quelle che son dignissime di esser notate. Di poi perché alcuni altri, a’ quali ho conferite e fidate queste mie fatiche, se l'hanno per modo appropriate, che come di sue desegnano farsene onore 25 .

Si assiste qui all’entrata in scena di un vero e proprio antagonista che viene nominato esplicitamente solo in pochi passaggi del testo, ma che esercita una grande influenza sulla distribuzione del materiale biografico. Se non si tiene conto di questo “avversario”, di questo “polo negativo”, la biografia risulta inevitabilmente sfuocata. Questa forza ostile a Michelangelo ha causato innanzitutto un'accelerazione nella pubblicazione della biografia. Il passo è particolarmente significativo perché mostra come l’antagonista avesse in qualche modo attaccato tutto il sistema michelangiolesco come lo si è descritto: in primo luogo direttamente il maestro con la menzogna e l’alterazione dei fatti; in secondo luogo Condivi, arrogandosi il ruolo di biografo ufficiale pur non avendo accesso alla fonte diretta e all’intimità con il maestro. In seguito si analizzerà come anche il terzo cardine della struttura, ovvero il committente, venga coinvolto dall’operazione ideologica compiuta ai danni di Michelangelo. Anzi si vedrà come il vero obiettivo della mistificazione è proprio quello di collocare Michelangelo nell’alveo di un committente indegno di lui. Nella chiosa della biografia l’antagonista riaffiora con forza:

«Molte altre cose mi restavano da dire, le quali per la fretta di dar fuore questo ch'è scritto ho lasciate in dietro, intendendo che alcuni altri si volevan far onore delle fatiche mie, ch'io loro nelle mani aveva fidate» 26.

I due passaggi citati sono significativamente simili, e ricorrono ad espressioni su cui è utile soffermarsi, ovvero le azioni di “farsi onore”, e di appropriarsi. Due volte Condivi lamenta il fatto che qualcuno abbia cercato di appropriarsi delle sue fatiche. La fatica di Condivi in questo caso non deve essere tanto vista nel senso del lavoro letterario e nel labor limae per renderli pubblicabili, quanto nella fase precedente del lavoro, ovvero la raccolta del materiale. È questo il vero tesoro e valore che rappresenta la biografia secondo il suo autore, ovvero la sua discendenza diretta dalla fonte. Più volte Condivi vanta questa unicità del suo testo:

«Il signor Iddio, per suo singolar beneficio, mi fece degno non pur del cospetto (nel quale a pena arei sperato di poter venire), ma de l’amore, de la conversazione e de la stretta dimestichezza di Michelagnolo Buonarroti» 27 .

Nella sua pratica diretta e quotidiana con un uomo tanto singolare fa anzi risiedere l’unico valore del suo testo, con un procedimento retorico che non è solo un abbassamento della sua ubris, ma mostra la volontà e l’orgoglio nel ribadire l’unicità della sua posizione di consuetudine e familiarità con un uomo che presso i suoi contemporanei godeva di una fama senza eguali:

«Raccoglitor di queste cose diligente e fidele, affermando d’averle raccolte sinceramente, d’averle cavate con destrezza e con lunga pazienza dal vivo oraculo suo, e, ultimamente, d’averle scontrate e confermate col testimonio de’ scritti e d’uomini degni di fede» 28 .

La diretta discendenza della testimonianza michelangiolesca garantisce autorità e ufficialità al testo. D’altra parte è comune alla radice e alla fonte più autorevole della narrazione della vita di uomini straordinari l’innalzamento della funzione di narratore per garantire autorità al testo. Si pensi ai vangeli dove la diretta discendenza risulta la maggiore garanzia di veridicità del materiale narrato. L'esplicitazione della diretta discendenza dei fatti inseriti nella biografia dalla viva voce del maestro d’altra parte è importante per dimostrare come il “sistema” sistematore della memoria-committente-artista fosse quello autentico in cui Michelangelo accettava di essere inserito. Non siamo di fronte ad un'autobiografia sotto dettatura. Siamo lontanissimi dalla Vita celliniana. Risulta fuorviante qui cercare i barlumi di un Michelangelo “vero” e sincero, che depone la maschera del suo ruolo sociale, per parlare di sé come uomo. Qui ci si trova di fronte ad un libello inserito con precisione nel discorso artistico sociale di quegli anni. Ci si trova davanti a qualcosa di più simile ad una difesa processuale, dove ogni affermazione deve essere intesa come una precisa presa di posizione e rettifica rispetto ad un mito che si andava costituendo in base a precisi orientamenti e prese di posizione. In questo senso la figura del narratore risulta strategicamente necessaria alla logica più profonda del testo. La presenza di un testimone garantisce in qualche modo un doppio legame con il materiale biografico: in primo luogo viene garantito l’accesso alla testimonianza del maestro viva e diretta, che ha un grande valore, ma che inevitabilmente rischia di non essere considerata oggettiva (e che sicuramente sarà partigiana), per questo motivo Condivi dichiara di aver considerato anche materiale documentario, e d'altra parte la sua stessa esistenza di narratore commissionato dal papa distanzia e oggettiva la materia dalla vicenda personale di Michelangelo, rendendola più credibile e affidabile.

Questa costruzione narrativa come si è visto è in relazione con l’antagonista che in qualche modo cercava di attacarla, inserendovisi o sostituendola con un’altra analoga per “farsene onore”; tuttavia chi desiderava rubare la biografia michelangiolesca e il prestigio dell’artista non agiva da solo, ma anche egli era inserito in un sistema politico.

Vi è un passo in cui Condivi chiarisce la natura spesso brutale del rapporto tra il potere e l’artista, e lo fa usando gli stessi concetti applicati all’antagonista: come al biografo rischiava di essere usurpato il ruolo unico da un biografo non autorizzato, così molte città cercavano di legarsi a Michelangelo non avendone diritto. Al termine di una enumeratio in cui i personaggi più influenti del periodo sono stati passati in rassegna con puntiglio, Condivi ribadisce l’unicità del mito vivente Michelangelo, e ne paragona la figura ad Omero e al suo rapporto con le città greche:

«Queste non son cose ordinarie e che ogni dì accaggino, ma nuove e fuor del commune uso, né sogliono avenire se non in virtù singulare e eccellentissima, qual fu quella di Homero, del quale molte città contesero, ognuna di quelle usurpandoselo e facendolo suo» 29.

Si torna al concetto precedentemente citato del destino del corpo di Michelangelo dopo la morte, che qui è implicato chiaramente, e che del resto non doveva sfuggire ai contemporanei e in particolar modo ai fiorentini, che avevano ben presente il destino della tomba di Dante, nonché allo stesso Michelangelo, che più volte nelle sue poesie ha sottolineato il suo destino di esule, paragonandolo a quello di Dante 30 .

In questa descrizione delle operazioni che varie città avevano o stavano compiendo per riuscire a legarsi a Michelangelo i concetti di “usurpazione” e di appropriazione (facendolo suo), sono perfettamente consonanti con il tentativo compiuto da parte dell’antagonista di Condivi che stava cercando di ottenere gloria appropriandosi del ruolo di biografo (far onore). Vi è anzi un nesso di causa-effetto: il biografo si fa strumento dell’azione di uno stato che cerca di legarsi all’artista. Siamo qui alla rappresentazione del committente negativo, l'usurpazione e il farsi onore sono gli strumenti tecnici dell'ideologia. Ci si trova al polo opposto della virtù, di cui non c'è traccia, essendo un concetto estraneo alla sfera semantica e lessicale del potere negativo e brutale.

Non si fatica certo a comprendere come Condivi si riferisca a Vasari quando lamenta i tentativi di furto, meno evidente ma ancor più significativo è cogliere come all’interno della biografia condiviana vi sia la perfetta consapevolezza della contiguità tra l’operazione vasariana e la politica culturale cosimiana. Il tentativo infatti di legare Michelangelo al ducato cosimiano nasceva proprio con la sua prima rappresentazione letteraria, ovvero con le Vite torrentiniane. Lì si assiste al primo passo della creazione di un disegno ideologico in cui surrettiziamente la figura di Michelangelo veniva inserita in un sistema artistico dall’analoga struttura ternaria, dove al vertice si trovava Cosimo. Sulla base di questo sistema si andava sedimentando il materiale che avrebbe contribuito alla creazione del mito di Michelangelo patrocinatore e decano dell'arte della Firenze ducale. Pilastro di questa costruzione discorsiva erano le Vite torrentiniane del 1550 in cui vi è una vera e propria immagine speculare della struttura da cui è scaturito il testo di Condivi. Tanto che è a questo primo modello che si deve necessariamente fare riferimento quando si considera la struttura narrativa profonda della Vita condiviana. La moderna biografia artistica nasce quindi con una precisa matrice rappresentativa che la lega al suo tempo e agli equilibri sociali che reggevano il mondo dell'arte. Anche in Vasari vi sono un discepolo ed erede della maniera del maestro che si fa sistematore del materiale biografico (Vasari) e un committente e protettore dell'artista (Cosimo) 31 .

«Era in quel tempo ogni giorno il Vasari con Michelagnolo; dove una mattina il Papa dispensò per amorevolezza ambidue, che facendo le sette chiese a cavallo, ch’era l’anno santo, ricevessino il perdono a doppio; dove nel farle ebbono fra l’una e l’altra chiesa molti utili e begli ragionamenti dell’arte et industriosi, che’l Vasari ne distese un dialogo, che a migliore occasione si manderà fuore con altre cose attenente all’arte» 32.

Si tratta però di una cornice puramente narrativa che, al di là del retaggio tradizionale ad esempio dell'immagine del giro delle sette chiese, punta a rappresentare, creandolo, un racconto, che poi si porrà alla base del mito michelangiolesco 33 :. Storia e narrazione quindi coesistono e si mettono al servizio del ducato cosimiano. Basta infatti un semplice spoglio dell’epistolario michelangiolesco per rendersi conto di come la corrispondenza con il maestro fosse iniziata solo dopo la pubblicazione delle Vite, mentre all’interno della biografia michelangiolesca si assiste alla creazione narrativa del rapporto tra il discepolo-biografo Vasari e il maestro Michelangelo che non aveva fondamenti 34 .

Si assiste piuttosto dalla pubblicazione delle Vite in poi al tentativo da parte di Vasari di fabbricare ex post quel rapporto esibito nel testo; rapporto di cui il regista occulto non è altri che Cosimo, tanto che quest'ultimo inviò Vasari presso Michelangelo come un vero e proprio diplomatico presso una corte straniera. Il 28 marzo Vasari si recò a Macel de’ Corvi 35 , parte di una missione in cui il cardinale Giovanni, figlio del duca, aveva il compito di occuparsi dei rapporti con il papato, mentre a Vasari spettava un compito ben preciso:

«Io non scriverò li successi delle cose di corte, avegna che questa fatica sarà da chi fa il mestiero» 36.

Egli infatti doveva fare in modo che Michelangelo approvasse e desse consigli per rendere più prestigioso il piano di Palazzo Vecchio:

«Perché scrissi a Quella [Cosimo] quanto mi bisogniava per conto di quelle cose che ò da trattare, per avere il parere di Michelagnolo, arei auto dessiderio che quella mi avessi mandato una letterina di duo parole al Buonarroti, che mi udissi e consigliassi per tutte quelle cose che arò a negoziar seco per conto di V.E.I. Che oltre che so che per l’ordinario lo farà volentieri, molto magiormente lo doverrà fare, pregandola Quella» 37.

Il 29 marzo Michelangelo ricevette la lettera auspicata da Vasari in cui Cosimo lo invitava in maniera larvatamente intimidatoria a prestare a Vasari tutto l’aiuto di cui avesse bisogno:

«Restaci a dirvi che il nostro Giorgio Vasari parlerà con voi d’alcune cose attenenti al nostro servitio. Sentiremo piacere che lo veggiate volentieri, lo consigliate et gli prestiate credenza» 38 .

Nel carteggio tra Michelangelo a Vasari degli anni successivi al 1550 si coglie d’altra parte tutta la diffidenza del vecchio maestro nei confronti dell’intraprendente aretino e si palesa la sua acuta consapevolezza riguardo alle operazioni culturali che si stavano compiendo a Firenze nei confronti della sua figura di artista. Con grande acutezza Michelangelo si mostra conscio di quest'appropriazione e mostra il suo disagio e la sua mal sopportazione nei confronti delle continue profferte interessate e dei continui tentativi di legarlo a sé. Talvolta sembra esprimere in maniera al contempo cruda e velata i sentimenti che destava in lui la situazione ricattatoria e la pressione in cui lo mettevano i tentativi di Cosimo e del suo “agente” Vasari per tentare di appropriarsi della sua figura.

«Messer Giorgio amico caro, io ebbi molto giorni sono una vostra; non risposi subito per non parere mercatante. Ora vi dico che per le molte lode che per la decta mi date, se io ne meritassi sol una mi parrebbe, quand’io mi vi decti in anima e in corpo, avervi dato qualche cosa e aver sodisfacto a qualche minima parte di quello che io vi son debitore; dove io vi riconosco ognora creditore di molto più che io non ò a pagare; e perché son vechio, oramai non spero più in questa, ma nell’altra vita poter parreggiare il conto: però vi prego di patientia» 39.

Si mostra qui chiaramente la stanchezza dell’anziano maestro per i maneggi politico-artistici di Vasari, si coglie la volontà di essere dispensato da meschini calcoli di interesse e da giochi di debiti e crediti. Le continue lusinghe, le offerte di incarichi di prestigio, economiche, in definitiva la pressione che esercitava il “sistema artistico” mediceo sul vecchio artista sono qui sintetizzate e ridotte alla loro essenza da un'immagine fulminea quanto icastica 40 . Ne viene scoperta la natura meramente utilitaristica e “mercantile”: Vasari con le sue lusinghe e i suoi omaggi mette Michelangelo nella condizione di essere in debito. Michelangelo non potendo sdebitarsi dal momento che non vuole tornare in patria viene quindi a trovarsi in difetto. Tutta la lettera di Michelangelo ruota intorno a questo campo semantico, tanto che egli chiarisce subito di non aver risposto in fretta per non parer “mercatante”. Si tenga a mente la sopraccitata equivalenza alla base del rapporto tra Michelangelo e Giulio III, ovvero il loro essere rispettivamente il principe del disegno e il principe della cristianità; qui ci si trova al polo opposto, dove l’arte è fatta oggetto di rapporti mercificati e di puro interesse. Non si deve intendere qui per nobiltà una mera questione di spirito ma neppure esclusivamente di natali. In Michelangelo nobiltà di stirpe e di spirito coincidono in maniera inscindibile. La perfezione del loro legame non è resa possibile unicamente dalla bontà di Giulio III come committente, neppure dal grande talento di Michelangelo o dalla sua eccezionalità di artista; queste sono condizioni sì necessarie ma non sufficienti. Affinché l’unione possa essere completa, e qui si coglie l’irriducibile lontananza dalla sensibilità moderna del pensiero michelangiolesco, ci deve essere la nobiltà di sangue. Questo coacervo di credenze tradizionali e sensibilità già in parte moderna, in virtù del quale le qualità dell’animo hanno un peso centrale ma si verificano solo in presenza di circostanze “oggettive”, come per l’appunto la nobiltà dei natali e la discendenza di sangue, passaggi cruciali del testo condiviano; ad esempio la lunga introduzione in cui viene tratteggiata la diretta discendenza di Michelangelo. Nel sangue dei Buonarroti scorrerebbe addirittura sangue imperiale discendendo essi niente di meno che da Matilde di Canossa. 41 Condivi non lesina spazio a particolari anche minuziosi circa la nobiltà dei Buonarroti, ostentando una precisione che rischia di sfociare nella pedanteria. Ci si sofferma ad esempio sulla spiegazione dello stemma e sui suoi arricchimenti che aumentano il prestigio della casata:

«Ultimamente, andando Papa Lione X a Firenze, oltre a’ molti privilegi che donò a questa casa, aggiunse anco alla lor arme la palla azzurra dell’arme della casa de’Medici, con tre gigli d’oro» 42.

Nell’ottica michelangiolesca dunque la nobiltà di natali era condizione imprescindibile, primaria nel senso che in assenza di essa non vi poteva essere il seme perché la virtù e i rapporti elevati tra arte e potere potessero fiorire. Tanto più che quando Michelangelo si trova a doversi definire, prima di tutto sceglie di mostrarsi come cittadino fiorentino. Cittadino libero e nobile:

«Al prete di’ che non mi scriva più a Michelangelo scultore, perché io non ci sono conosciuto che per Michelangelo Buonarroti, e che se un cittadino fiorentino vuol far dipingere una tavola da altare, che bisogna che e’truovi un dipintore: ché io non fui mai né pittore né scultore, come chi ne fa bottega. Sempre me ne son guardato per l’honore di mie padre e de’ mia frategli, ben io abbi servito tre papi, che è stato forza» 43.

È interessante notare come ritorna qui il campo semantico del commercio come polo negativo e opposto a quello di nobiltà e di liberalità. Addirittura si coglie in questo passaggio come l’attività artistica di Michelangelo si è svolta in condizioni che si potrebbero definire “eccezionali”, ovvero su richiesta dei papi che per autorità politica e soprattutto religiosa non potevano essere rifiutati. Il concetto di bottega e tutto il contesto che implica ritorna all’interno della biografia condiviana come uno dei poli negativi del discorso artistico, da cui nella biografia si sviluppa una sorta di storia artistica, o per lo meno di rassegna negativa, di esempi di artisti che avevano fatto bottega della loro arte e che riducevano la loro arte al guadagno 44 . Questo paradigma prende corpo nella rappresentazione della bottega del Ghirlandaio.

Ciò che occorre notare ora è che nell’epistolario michelangiolesco ogni volta che l’artista si rivolge a Vasari entra in questo campo semantico, i cui tratti fondamentali sono l’interesse, la grettezza e l’assenza di nobiltà nella sua inscindibile duplicità di spirito e di nascita. Del resto la Firenze cosimiana nasceva già con il peccato originale e non emendabile del tralignamento, che da solo impediva a Michelangelo un positivo rapporto con essa. Cosimo infatti discendeva da un ramo cadetto della famiglia che Michelangelo non riconosceva come degno di governare 45 . L’assenza di nobiltà di natali in Cosimo conferiva a lui e alla sua corte un totale ribaltamento valoriale che si esplicava nell’ostentazione di tutte le caratteristiche specularmente negative a quelle che caratterizzano la nobiltà. Laddove vi è magnanimità qui vi è interesse. Laddove vi è liberalità qui vi è calcolo e sfruttamento. Una concezione siffatta giustifica lo slittamento nel campo semantico del commercio, dei debiti e dei crediti, delle lettere che Michelangelo rivolgeva a Vasari, e giustifica altresì le immagini precedentemente citate del furto e dell'appropriazione.

La punizione che viene riservata a Cosimo e alla sua corte nella biografia di Condivi è la più grave si potesse riservarle, ovvero il silenzio. Nel testo si assiste a una vera e propria quanto sistematica e totale cancellazione del ducato di Cosimo. Se si leggesse la storia di quel periodo attraverso la biografia condiviana nulla si verrebbe a sapere di Firenze dopo il 1537; circostanza degna di nota se si pensa che fino a quel momento le vicende della città sono state analizzate seguendo le pieghe delle vicende michelangiolesche sì, ma anche in maniera estremamente puntuale e circostanziata, mostrando tra l'altro una consapevolezza e una perizia notevoli nell'analisi della prima tormentata metà del Cinquecento. Non solo in generale scompare qualsiasi accenno alla città di Firenze, ma in particolare non viene fatto alcun cenno a Cosimo, circostanza ancora più particolare se si pensa che nel testo non vengono lesinate le menzioni dei numerosissimi potenti che a vario titolo ebbero rapporti con l'artista. Se ne sono già citati alcuni, ma il testo è costellato di personaggi influenti che a vario titolo ebbero a che fare con Michelangelo, e non solo personaggi la cui autorità era riconosciuta e accettata, ma anche altri che erano caduti in disgrazia o la cui menzione avrebbe potuto causare problemi all'artista. Spicca su tutti Niccolò Ridolfi, esule repubblicano, acerrimo nemico di Cosimo e da esso probabilmente fatto assassinare nel conclave del 1549-50, quando stava riuscendo nel tentativo di farsi eleggere papa. Da un punto di vista artistico Ridolfi era stato un committente estremamente marginale nella vita artistica michelangiolesca, tanto che il suo nome poteva essergli legato solo per la commissione di un busto di Bruto non finito dall’artista e che poi sarebbe stato allocato a Tiberio Calcagni. La sua menzione non stupirebbe se ci trovassimo di fronte ad un compendio sinottico dell’attività artistica di Michelangelo, ma in un testo come questo che programmaticamente dichiara di non voler esplicitamente occuparsi delle vicende artistiche di Michelangelo, ma di voler in qualche modo tutelarlo da un punto di vista biografico, questa menzione assume un’importanza decisamente diversa 46 . La commissione di questo busto era avvenuta in un contesto estremamente preciso ed inequivocabilmente connotato politicamente, tanto che il soggetto stesso non può che alludere al mito repubblicano del tirannicidio. Il cardinale del resto era stato capofazione degli esuli fiorentini repubblicani a Roma, in particolar modo a seguito dell'uccisione di Filippo Strozzi. La commissione di questo busto a Michelangelo nel 1539 doveva celebrare il gesto di Lorenzino de’Medici che aveva ucciso il tiranno Alessandro e che si sperava potesse sancire la liberazione di Firenze. Così non fu perché ad Alessandro subentrò Cosimo e gli esuli continuarono, con scarsi risultati, le loro macchinazioni, da Roma 47 . Ciò che però conta sottolineare qui non è solo il fatto che Condivi abbia inserito un committente marginale che era per di più un oppositore del duca di Firenze; la circostanza che deve essere sottolineata per comprende a fondo il meccanismo retorico di questo testo è che Niccolò era l’ultimo esponente politicamente attivo e rilevante del ramo principale dei Medici. Era infatti discendente diretto di Lorenzo il Magnifico (suo nonno).

Niccolò Ridolfi è significativamente l'ultimo membro della famiglia medicea ad apparire nella biografia condiviana, quasi a voler sancire come con la sua morte l’intera schiatta si fosse esaurita 48 . E vi è infatti una vera e propria vicenda parallela, una sorta di romanzo storiografico che attraversa tutta la biografia condiviana e che narra la storia dei Medici in un climax discendente. L’esordio è una rappresentazione idilliaca, dove gli elementi biografici del giovane Michelangelo, e la nostalgia della fanciullezza, si fondono al materiale storico e danno vita alla struggente rappresentazione del giardino mediceo di Lorenzo il Magnifico, dove la committenza opera in una sintonia ideale con gli artisti, perché incarna perfettamente gli ideali michelangioleschi 49 . La definizione in cui si condensa la rappresentazione di Lorenzo è infatti significativamente un’immagine paterna, come a sancirne il ruolo di iniziatore, etimologicamente di “genitore” della vicenda artistica michelangiolesca, e per legge di analogia anche di archetipo del “perfetto committente”; egli è

«Padre di tutte le virtù» 50

Questo romanzo di decadenza progressiva, scandito dall’inetto Piero e dal brutale Alessandro, si chiude tuttavia con un ultimo mecenate mediceo pronto ad accogliere e a patrocinare la virtù, anche se già in esilio e già esautorato da qualsiasi potere reale 51 . Niccolò è infatti emblematicamente definito

«Porto di tutti i virtuosi» 52.

L’ultimo disposto ad accogliere gli artisti in seno a quell’ideale artistico-sociale che a Michelangelo era stato così tanto caro. Dopo la sua morte nulla poté più arrestare la barbarie in cui era precipitata la committenza, nulla poté più arrestare la trasformazione del mecenatismo in mero strumento ideologico-mercantile. Ma questa evoluzione negativa è retoricamente e programmticamente, posta sotto la soglia di quello che è considerato “degno di essere notato” nella biografia del principe del disegno.








NOTE

1 Lavori di impostazione “positivista”, che considerano la biografia come un documento michelangiolesco sono la Vita di Michelangelo Buonarroti narrata con l'aiuto di nuovi documenti, Firenze, Tipografia della Gazzetta d'Italia, 1876, Frey Le vite di Michelangelo Buonarroti: con aggiunte e note scritte da Giorgio Vasari e da Ascanio Condivi. Zum Gebrauche bei Vorlesungen herausgegeben von Carl Frey, Berlin, Hertz, 1887, D'Ancona, Michelangelo, La vita raccolta dal suo discepolo Ascanio Condivi; revisione, introduzione e note per cura di Paolo D'Ancona, Milano, L. F. Cogliati, 1928. Un’impostazione più “romanzata” si trova in Papini, (Vita di Michelangiolo nella vita del suo tempo, Milano, Garzanti, 1949) che se da un lato ha il merito di essere divulgativo, dall’altro spesso chiama Condivi a testimone di segreti e di rivelazioni su un presunto “vero, autentico e segreto” Michelangelo. Cfr. anche il lavoro di G. Settimo, Ascanio Condivi biografo di Michelangelo, Ascoli, Cesari, 1975 che tenta di tracciare un ritratto vivido dello scrittore. Lavori che hanno interpretato il testo condiviano in maniera maggiormente soddisfacente sono senza dubbio il saggio introduttivo di Emma Spina Barelli in Ascanio Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti Milano, BUR, 1964, e soprattutto Acanto Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, ed. Giovanni Nencioni, Firenze, SPES, 1998, di cui si seguirà la lezione per i passi citati del testo condiviano e che deve essere qui segnalata anche per dove vanno notati in particolare i saggi di Hirst (per cui cfr. anche Michael Hirst, Tre saggi su Michelangelo, Firenze, Mandragora, 2004). e C. Helam nonché la nota filologica al testo di Giovanni Nencioni; infine cfr anche il recente The life of Michelangelo by Ascanio Condivi, with an introduction by Charles Robertson, London: Athene, 2006.

2 Condivi 1998, cit. p. 3.

3 Emma Spina Barelli definisce efficacemente la vita virtuosa come «determinata da una qualità preminente», Condivi 1964, cit., p. 10, anche se nella sua analisi si sofferma poi a considerare la virtù michelangiolesca come mezzo che permette all'artista di elevarsi in una sorta di dimensione assoluta al di sopra del contesto socio-culturalle in cui si trovava ad operare.

4 La carriera di pittore di Condivi fu abbastanza marginale, si ricordano soprattutto la sua Sacra famiglia che è conservata presso la casa Buonarroti a Firenze e l’Epifania del British Museum di Londra.

5 Condivi 1998, cit., p. 3.

6 Ibidem, p. 3.

7 Ibidem, p. 5.

8 Ibidem, p. 6.

9 Ibidem, p. 57-58.

10 «So ben che, quando legge Alberto Duro, gli par cosa molto debole, vedendo coll'animo suo quanto questo suo concetto fusse per esser più bello e più utile in tal facultà». Ibidem, p. 57.

11 Sull’evoluzione e lo stato di elaborazione del materiale poetico michelangiolesco durante la vita dell’artista, nonché sul progetto di elaborare e di dare alle stampe un vero e proprio canzoniere da parte dell’artista e di figure a lui vicine tra cui Donato Giannotti e Luigi Del Riccio cfr. le preziose indicazioni di Girardi nel suo volume Michelangelo, Rime, a cura di E. N. Girardi, Bari, Laterza, 1960, nonché la recensione allo stesso di Contini (G. Contini, Recensione a Michelangiolo Buonarroti, Rime a cura di Enzo Noè Girardi, «Lingua nostra», XXI, 2, 1960, pp. 68-72). L’idea di una bozza di canzoniere che si era andata via via sviluppando durante la vita di Michelangelo emerge con sempre maggiore chiarezza in studî sia di impostazione stilistica sia filologici. Cfr. L. Baldacci, Lineamenti della poesia di Michelangiolo, in Il petrarchismo italiano nel Cinquecento, Padova, Liviana, 1974, pp. 249-279, R. Fedi, «Il canzoniere» di Michelangelo Buonarroti in La memoria della poesia, Roma, Salerno, 1990, pp. 264-305, Ghizzoni 1991 L. Ghizzoni, Indagine sul «canzoniere» di Michelangelo, «Studi di filologia italiana», XLIX, 1991, pp. 167-187, R. Fedi, «L’immagine vera»: Vittoria Colonna, Michelangelo, e un’idea di canzoniere, «Modern language notes», 107, 1992, pp. 46-73, A. Corsaro, Michelangelo, il comico e la malinconia, «Studi e problemi di critica testuale», XLIX, 1994, pp. 97-119. Per contributi più recenti alla tesi di un canzoniere michelangiolesco pianificato e poi bruscamente interrotto intorno alla fine degli anni Quaranta del Cinquecento cfr. A. Corsaro, Intorno alle Rime di Michelangelo Buonarroti, La silloge del 1546, intervento al convegno Edizione di autografi (Firenze 25-27 novembre 2004), http://www.nuovorinascimento.org e G. Costa, Michelangelo e la stampa: la mancata pubblicazione delle Rime ACME, Vol. LX, fasc. III, pp. 160-193, 2007.

12 Condivi 1998, cit., p. 66.

13 Le Prime edizioni di Blado risalgono al 1516. La sua officina era situata: In Campo Florae in aedibus D. Io. Baptistae de Maximis. Mentre riceveva commissioni irregolari dagli organi della chiesa, doveva la maggior parte dei suoi introiti proprio alla pubblicazione di avvisi a stampa e fogli volanti, oggi divenuti quasi del tutto introvabili. Negli anni successivi prestò i torchi per imprese editoriali eterogenee, legate alle iniziative di cardinali illuminati, quali la pubblicazione dell’editio princeps delle opere di Machiavelli ( I Discorsi di Nicolo Machiauelli cittadino, et segretario fiorentino sopra la prima deca di Tito Liuio nel 1531, le Historie di Nicolo Machiauegli cittadino, et secretario fiorentino nel 1532 e Il Principe di Niccholo Machiauello al magnifico Lorenzo di Piero de Medici. La uita di Castruccio Castracani da Lucca a Zanobi Buondelmonti et a Luigi Alemanni descritta per il medesimo. Il modo che tenne il duca Valentino per ammazar Vitellozo, Oliuerotto da Fermo il s. Paolo et il duca di Grauina Orsini in Senigaglia descritta per il medesimo, 1532). commissionatagli dal cardinal Gaddi, e la Repubblica dei Viniziani di Donato Giannotti, per iniziativa del cardinale Niccolò Ridolfi. Il 1539 è l’anno in cui per la prima volta viene tributato a Blado il titolo di Camerae Apostolicae Impressor. In conseguenza di ciò la chiesa cominciò a garantirgli guadagni costanti in cambio di controllo. Con l’apertura del concilio di Trento la chiesa elaborava le risposte da dare agli avversari che aveva su più fronti; dal punto di vista editoriale stava maturando l’esigenza di creare una vera e propria tipografia alle dipendenze immediate della Santa Sede per diramare le posizioni ufficiali dell’ortodossia e impedire che si levassero voci fuori dal coro. Tuttavia non saranno il Blado né i suoi eredi a completare il passaggio del tipografo a strumento dello stato, stipendiato dallo stato, con l’impegno di rendere conto allo stato di ogni pubblicazione. Questa evoluzione si potrà dire completa solo durante il pontificato di Sisto V con la creazione della Tipografia Pontificia cui fu preposto il Basa, con personale tecnico e scientifico al diretto servizio della Chiesa e sotto la sorveglianza di una congregazione di cardinali nominata con la bolla Immensa aeterni Dei del 22 gennaio 1587.«Ma anche in un altro campo esplicavasi l’operosità del Blado, il quale […] cercava guadagni un poco più sicuri nella stampa di quelle relazioni, o avvisi, o ragguagli, destinati al popolo, e che provenivano in generale da copie manoscritte di alcuni di quegli avvisi che i menanti o gazzettanti i quali cominciavano allora a lavorare a Roma, dirigevano ai potenti e ai loro patroni fuori dello stato[…].Veramente Blado ne ha dei curiosissimi tra siffatti opuscoletti, come i preziosi Carmina opposita Pasquillo del 1525, la Trionfale entrata di Carlo V in la inclita Città di Napoli et di Messina del 1535, i Trionfi fatti in Roma per la festa di Agone del 1539, la Festa di Agone e di Testaccio del 1545 e molte altre descrizioni di giostre, solenni ingressi, cavalcate ecc.» G. Fumagalli, Antonio Blado Tipografo Romano del secolo XVI, Milano, Ulrico Hoepli, 1893, p. 25.

14 I tre brani aggiunti subito dopo la stampa sono stati inseriti sostituendo il foglio L che da duerno è diventato terno.

15 Esistono diverse tracce che mostrano come Michelangelo fosse stato suggestionato dall’idea di andare in Turchia. Ne rimane traccia nel testo condiviano, quando si racconta il difficile rapporto tra l’artista e Giulio II: «Michelagnolo allora, vedendosi condotto a questo, temendo dell’ira del papa, pensò d’andarsene in Levante, massimamente essendo stato dal turco ricercato con grandissime promesse per mezzo di certi frati di San Francesco, per volersene servire in fare un ponte da Costantinopoli a Pera e in altri affari». Condivi 1998, cit., p. 27. In calce ad un sonetto degli stessi anni (1512), in cui l’artista si sfoga contro la corruzione della corte papale, si trova la firma del poeta con aggiunto, forse non senza una certa ironia: «Vostro Miccelagnolo in Turchia». Di seguito si riporta il sonetto: «Qua si fa elmi di calici e spade/ e ‘l sangue di cristo si vende a Giumelle,/ e croce e spine son lance e rotelle, e pur da Cristo pazienza cade./ Ma non c’arrivi più ‘n queste contrade, che ‘n andre’ ‘l sangue suo ‘nsin alle stelle,/ poscia c’a Roma gli vendono la pelle,/ e ècci d’ogni ben chiuso le strade./ S’i’ ma’voglia a perder tesauro,/ per ciò che qua opra da me è partita,/ può quel nel manto che Medusa in Mauro; qual fia di nostro il gran restauro/ s’un altro segno ammorza l’altra vita?». Michelangelo, Rime, Introduzione di Giovanni Testori, Milano, BUR, 1975, p. 10.

16 Condivi 1998, cit. p. 3.

17 Ibidem, p. 3.

18 Ibidem, p. 56.

19 In Michelangelo Buonarroti, Il carteggio di Michelangelo, edizione postuma di Giovanni Poggi, a cura di Paola Barocchi e Renzo Ristori, Firenze, SPES, 1965. IV, pp. 346-7.

20 Michelangelo Buonarroti Rime, Universale Laterza, Bari, 1967 testo critico di E. N. Girardi, num. 277, Aprile-Maggio 1550.

21 Nel corpus poetico michelangiolesco si trova un capitolo in terza rima che costituisce una meditazione estetica estremamente profonda pur nella sua apparente negatività radicale, ma che testimonia l’inquietudine e la sfiducia del vecchio artista sulla possibilità di una lettura positiva delle sue opere figurative. Lasciate a se stesse, in preda ad interpretazioni fuorvianti e capziose, le sue opere morivano, perdevano qualsiasi traccia dello spirito che le aveva create rimando bambocci inanimati, sorte di automi che recitano una parte senza senso. (Che giova voler far tanti bambocci,/ se m’han condotto al fin, come colui/che passò ’l mar e poi affogò ne’mocci? /L’arte pregiata ov’alcun tempo fui /Di tant’opinion, mi rec’a questo, /povero, vecchio e servo in forza altrui, /ch’i son disfatto, s’i non muoio presto. Michelangelo 1967, cit., Num. 267). Seppure allo stato attuale delle ricerche non si sia riusciti a datare con precisione tale componimenti, si concorda qui con Girardi nel collocarlo nella tarda età del poeta. Su questo componimento cfr. A. Corsaro, Michelangelo, il comico e la malinconia, «Studi e problemi di critica testuale», XLIX, 1994, pp. 97-119. La parola scritta, anche nella sua espressione più intima, si fa carico dunque dell’ansia e delle incertezze dell’artista. Ed è a questa paura di possibili fraintendimenti, di interpretazioni malevole che sembra presidere la stesura della biografia.

22 Si è scorto nel Nicodemo presente nel gruppo marmoreo un autoritratto del vecchio artista. Un episodio interessante narra di come nel 1553 Vasari si recasse in visita al vecchio artista che stava lavorando a quest’opera e come Michelangelo per evitare di mostrarla al Vasari scagliasse a terra la lucerna che lo illuminava per lavorare, forse già presago di come il giovane artista cosimiano si apprestasse ad appropriopiarsi dell’eredità artistica michelangiolesca. Michelangelo non terminò mai quest’opera ed anzi come è noto cercò addirittura di distruggerla.

23 Condivi 1998 cit., p. 52.

24 Leonardo Buonarroti in un primo tempo aveva voluto che la sepoltura dello zio venisse realizzata da Daniello da Volterra, ma Vasari lo convinse abilmente ad affidare il progetto agli Accademici: «Lionardo Buonarroti si risolvè che le figure di Mozza siano di V.E.I e gniene fa un presente, acciò Quella si ricordi di Michelagnolo suo zio e di lui, pregandola accettarle per gl’ oblighi che gli à con casa Medici e con V.E.I; et anche spera portarvi da Roma qualcosa […] perché la sepoltura pensa di porvi cose a proposito e che la faccian e’ più eccellenti dea Accademia». Vasari a Cosimo, 18 aprile 1564, in P. Barocchi, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, Milano- Napoli, Ricciardi, 1962, p. 2225.

25 Condivi 1998, cit., p. 5.

26 Ibidem, p. 5.

27 Ibidem, p. 3.

28 Ibidem, p. 6.

29 Condivi 1998, cit. pp. 54-55.

30 Prima di tutto si deve sottolineare la presenza esplicita di Dante nella produzione poetica michelangioleca, dove ancor prima che la comunanza di uomini d’arte viene sottolineato (in chiave politica) il comune destino di esuli. L’influenza di Dante in Michelangelo è complessa e stratificata. In primo luogo è fondamentale l’influsso dantesco nell’immaginario michelangiolesco, ma va colta anche la profonda comunanza umana che Michelangelo sentiva nei confronti di Dante: «Facendo di Dante non già una fonte di idee e di immagini, ma un modello di umana grandezza, uno stimolo a mirare alto nell’esser se stesso». «Nello stimolo a farsi degno di lui, e perciò di un paragone con lui, nell’altezza della mira ideale, nella totale dedizione all’arte, nella magnanimità del costume morale e civile, nella stessa coerenza e fedeltà a se stesso». Enzo Noè Girardi, Michelangiolo e Dante, in «Istruzione Tecnica, Nuova Serie» XII, 1976, pp. 89-102 (93, 102). Nella supplica presentata dai Fiorentini il 20 ottobre 1519 a Papa Leone X, per riavere le spoglie mortali dell’Alighieri Michelangelo si offriva spontaneamente: «Io Michelagnolo scultore il medesimo a vostra santità supplico, offerendomi al divin poeta fare la sepoltura sua condecente, e in loco onorevole in questa cictà». Barocchi 1962, cit., p. 1987).

31 Pare inoltre che Vasari, per la stesura della torrentiniana, non ebbe neppure accesso alla casa fiorentina di Michelangelo, a causa della mancanza di qualsiasi accenno alla Battaglia dei centauri lì conservata (Il giardino di San Marco: maestri e compagni del giovane Michelangelo a cura di Paola Barocchi, Firenze, Silvana Editori, 1992 - catalogo della mostra, Firenze, 30 giugno-19 ottobre 1992 - p. 52).

32 Ibidem, p. 1238.

33 Anche il Valeriano, per fare solo un esempio, introdusse il XXVII libro dei suoi Hieroglyphica, in cui si parla proprio di scultura, durante il giro delle sette chiese a cavallo. Vasari era solito utilizzare questo testo di Valeriano per molte delle soluzioni iconologiche che adottava nei suoi cicli pittorici.

34 D’altra parte non solo con la biografia e con la sistemazione storico-critica vasiariana Michelangelo veniva fatto surrettiziamente confluire nell’ambito artistico cosimiano. La forza e la coerenza ideologica del gruppo di artisti al servizio di Cosimo si mostrò compiutamente anche nella modificazione sul territorio e sul contesto in cui si trovavano le opere michelangiolesche. La risistemazione di piazza della Signoria ad esempio mostra urbanisticamente l’operazione di modifica del senso delle opere. Il David nel nuovo contesto smetteva di significare amore per la libertà, ma veniva inserito nella nuova piazza medicea e ne adottava i sensi che la attraversavano.

35 Vasari si trattenne a Roma fino al 25 aprile di quell’anno e chiese consiglio a Michelangelo riguardo a diverse opere, tra le quali, oltre al ciclo di affreschi di Palazzo Vecchio, il ponte di Santa Trinita dell’Ammannati.

36 Giovanni Gaye, Carteggio inedito d'artisti dei secoli XIV, XV, XVI, Firenze, Molini, 1839-1840, III, p. 31.

37 Vasari a Cosimo, 10 marzo 1560, in Gaye 1839-40 cit., III, p. 26.

38 Da Cosimo a Michelangelo, 29 marzo 1560, ibidem, p. 29.

39 22 agosto 1551, Michelangelo, Carteggio, cit., IV, p. 366 (corsivi miei). L’accenno alla mercatura, al commercio già spiega la sfera in cui è collocato Vasari. Il riferimento a debiti e crediti è identico a quello dello sfogo con Del Riccio, accusato di fare bottega dell’artista. Dietro favori e adulazioni c’è volontà di sfruttamento: «Nel dolce d’una immensa cortesia,/della vita alcuna offesa/ s’asconde e cela spesso, e tanto pesa/ che fa men cara la salute mia» Num. 251.

40 Si vedano altre lettere tramite le quali, fino agli ultimi anni di vita del maestro, Vasari tentò di convincerlo a fare ritorno a Firenze. «Et a me à comandato che io debba scrivere alla Signoria Vostra questo suo animo et la preghi per parte sua a degniarsi di fargli gratia di mandare a dire o a Sua Eccellenzia o a me qual’era l’intenzion sua o di Clemente del titolo dela capella et l’inventione delle figure de’ tabernacoli che aconpagniano il duca Lorenzo et Giuliano, et delle otto statue che vanno sopra».Vasari a Michelangelo, 17 marzo 1563, Michelangelo 1965-1983, Michelangelo 1965, V, p. 301. «Aveva già nel tempo di Paulo III mandato il duca Cosimo il Tribolo a Roma, per vedere se egli avesse potuto persuadere Michelagnolo a ritornare a Fiorenza per dar fine alla sagrestia di San Lorenzo». Vasari 1991, p. 1242.

41 La fonte a cui Michelangelo aveva attinto per giustificare questa genealogia (in realtà del tutto infondata) era una lettera che un discendente dei conti di Canossa gli aveva mandato definendolo «parente». Questa lettera (il conte di Canossa, a Michelangelo, estate 1544) si trova in Aurelio Gotti, Vita di Michelangelo Buonarroti, narrata con l’aiuto di nuovi documenti da Aurelio Gotti, Firenze, Tipografia della Gazzetta d’Italia, 1876, I, p. 39.

42 «[Buonarroto] fa parte dei buonuomini nel 1513 e si trova a far parte dei priori nel novembre-dicembre 1515, allorché Leone X passa per Firenze, onde incontrarsi a Bologna con il re di Francia, Francesco I. È perciò in prima fila nelle trionfali accoglienze che la città decreta allora al pontefice fiorentino [...]. A lui, come agli altri priori, Leone X manifesta la propria benevolenza, conferendogli la dignità di conte palatino ed il privilegio di fregiare lo stemma familiare con la palla con i gigli d’oro dei medici». G. Spini, Michelangelo Politico e altri studi, Milano, Unicopli, 1999, p. 37.

43 A Leonardo 2 maggio 1548, Michelangelo 1965, cit., IV, p. 299.

44 «Fare bottega» nel Cinquecento era una costruzione comune ed è usata in senso dispregiativo; dal dizionario Battaglia: «Bottega: impresa dedita a guadagni poco onesti traffico illecito; cricca di speculatori», e nello specifico l’espressione «fare bottega»: «Trarre guadagno in modo disonesto, trafficare beni che di per sé non sono venali, speculare. Leonardo, 1-332: “E molti fecero bottega con infiniti miraculi finti, ingannando la stolta moltitudine”». Cfr. anche Varchi (Storia Fiorentina, Milano, Società tipografica de’ classici italiani, 1803, vol I, libro I, p. 37): «Ancora chè molti astutamente fingessero di credergli, e ne facessero, come altrove s’è detto, bottega». L’autore si riferisce qui a Savonarola. Si confronti invece la stessa espressione usata da Michelangelo in cui è possibile che si stesse sfogando con il gruppo di suoi amici fiorentini a Roma per il tentativo che stavano compiendo di dare alle stampe il suo canzoniere senza una sua autorizzazione ufficiale (cfr. Costa 2007). Vi sarebbero dunque delle assonanze nella scelta delle immagini e nei campi semantici a cui Michelangelo andava ad attingere in situazioni simili: «se voi fate boctega di me, non la vogliate far fare anche a altri; e se fate di me mille pezzi, io ne farò altrectanta, non di voi, ma delle vostre cose.Michelagniolo Buonarroti, non pictore, né scultore, né architectore, ma quel che voi volete, ma none briaco, come vi dissi in casa». Michelangelo a Del Riccio, febbraio marzo 1546, Michelangelo 1979, p. 232.

45 I genitori di Cosimo erano Giovanni delle Bande Nere e Maria Salviati, Cosimo dunque faceva parte del ramo al cadetto della famiglia Medici che derivava da Lorenzo il Vecchio. Dopo la morte del padre nei combattimenti che avrebbero portato al sacco di Roma nel 1526, visse con la madre in gravi ristrettezze economiche. Durante gli anni del ducato di Alessandro, Cosimo visse nella Villa del Trebbio in Mugello lontano da Firenze. Nel suo ritiro Maria si dedicò personalmente all’educazione di Cosimo, che crebbe appartato rispetto ai membri principali della sua famiglia.

46 Sul ruolo del cardinale Ridolfi nella raccolta del materiale per la biografia cfr. G. Costa, Michelangelo alle corti Niccolò Ridolfi e Cosimo I, Roma, Bulzoni, 2009. Nella biografia infatti Condivi definisce il cardinale: «il mio reverendissimo padrone», Condivi 1998, cit., p. 60. Questa citazione evidenzia un legame forte che Condivi aveva avuto con il defunto cardinale, come è anche testimoniato da uno studio di Milanesi (Gaetano Milanesi, Alcune lettere di Ascanio Condivi e di altri a messer Lorenzo Ridolfi, in «Il Buonarroti», Roma, tipografia delle scienze matematiche e fisiche, serie II, vol III, settembre 1868 - pp. 206-213).

47 In particolare il cardinale Ridolfi sembrò in grado di prendere in mano le sorti dei ribelli fiorentini quando fu sul punto di ascendere al soglio papale nel conclave del 1549-50. Fino al 1550 si era confidato in una sua elezione al soglio pontificio perché il governo di Cosimo cadesse in disgrazia. Tuttavia, proprio al momento in cui sembrava che questo disegno si potesse realizzare, venne avvelenato da un sicario di Cosimo come non mancarono di notare molti osservatori; cfr. le testimonianza raccolte da Bruzzone (L. Bruzzone, I conclavi del XVI secolo, in «La Stampa», 20 febbraio 1900). «La voce et la opinione degli uomini universalmente allora fu et è stata che fosse stato avvelenato dai servitori suoi o altri corrotti; da Don Diego di Mendoza, allora: ambasciatore dell’Imperatore et che il Lottino, che allora era in Conclave come esperto serrvitore del Duca (di Firenze) vi tenessero mano».

48 Niccolò Ridolfi nacque il 16 luglio 1501 da Piero Ridolfi e Contessina de’ Medici, figlia di Lorenzo il magnifico. Nel 1517, a soli 15 anni di età, venne ordinato cardinale. La speranza della sua famiglia era che potesse ascendere fino al soglio pontificio. Roberto Ridolfi, La Biblioteca del Cardinale Ridolfi, in «La Bibliofilia», XXXI, maggio 1929, pp. 171-193 (175).

49 Lorenzo il Magnifico appare come la perfetta incarnazione della nobiltà: egli è un «uomo in tutte le eccellenze singulare». Condivi 1998, cit., p. 11. La rappresentazione del sodalizio ideale e perfetto tra arte e potere viene presentata nella biografia tramite un episodio particolarmente significativo. Il giovanissimo Michelangelo è stato preso con sé dal Magnifico e si esercita nella scultura nel giardino della residenza medicea. Qui si trova ad avere contatti con i grandi personaggi che frequentavano il celebre circolo mediceo, tra i quali Poliziano che gli dava consigli iconografici per le sue prime prove artistiche. All'interno del circolo laurenziano la nobiltà viene interpretata e vissuta al suo grado più alto, di essa partecipano e sono protagonisti gli artisti, come emerge nella descrizione del convito presso Lorenzo: «Fece dare a Michelagnolo una buona camera in casa, dandogli tutte quelle comodità ch’egli desiderava, né altrimenti trattandolo, sì in altro, sì nella sua mensa che da figliuolo, alla quale come d’un tal omo, sedeano ogni giorno personaggi nobilissimi e di grande affare. E essendovi questa usanza, che quei che da principio si trovasser presenti, ciascheduno appreso il Magnifico sicondo il suo grado sedesse, non si movendo di luogo per qualunque di poi sopragiunto fusse, avvenne bene spesso che Michelagnolo sedette sopra i figliuoli di Lorenzo e altre persone pregiate, di che tal casa di continuo fioriva e abondava» Ibidem, p. 12. Questa rappresentazione diventa subito una sorta di polo positivo idealizzato, anche perché collocata nel periodo lontano dell'infanzia dell'artista, a cui verrà rapportata ogni esperienza e rapporto tra il potere e l'artista. Il convito d'altra parte assume i caratteri di una vera e propria iniziazione; grazie alla propria virtù il giovane artista può ascendere i gradini di una società ordinata fino alla massima vicinanza alla fonte del potere: il principe. Questo rapporto nobilitante è il più grande dono che il principe può tributare all'artista. La virtù dell'artista gli permette di essere considerato ala stregua di un nobile, di essere principe tra i principi, un pari grado al tavolo dei potenti. D'altra parte questa cornice risulta appunto un culmine di purezza positivo a cui le varie esperienze di vita dell'artista si sono poi più o meno avvicinate. Ogni volta che vi sarà una caratterizzazione positiva di un committente si entrerà in un campo semantico basato sui concetti di liberalità, di disinteresse e di protezione paterna da parte del potente.

50 Condivi 1998, cit., pag. 12.

51Una tappa particolarmente significativa in questa rappresentazione di decadenza della famiglia De Medici è rappresentata da Piero, il figlio del Magnifico. «Era Pier De Medici insolente e superchievole» , , Condivi 1998, cit., p. 15. Il figlio del Magnifico rappresenta infatti l’emblema, il paradigma del tiranno; non ascolta i consigli delle persone fidate e soprattutto relega l’artista al rango di cortigiano. Questo era precisamente ciò contro cui Michelangelo lottò tutta la vita, l’atteggiamento che non tollerò neppure dai papi. La prima commissione che Piero affidò a Michelangelo fu una statua di neve, un gioco, che sintetizza perfettamente il nuovo corso: il suo mestiere non sarà ritenuto né nobile né alto, ed egli non sarà considerato più di un addetto al divertimento, alla stregua di un danzatore, di un giullare, un cavallerizzo. Piero «Di due uomini della famiglia sua, come di persone rare, vantar si soleva: uno Michelagnolo, l’altro uno staffiere Spagnolo, il quale oltre alla bellezza del corpo, ch’era meravigliosa, era tanto destro e gagliardo e di tanta lena, che, correndo Piero a cavallo a tutta briglia, non lo avanzava di un dito». Ibidem, p. 15. La corte di Lorenzo subisce un ribaltamento parodico, l’immagine del giardino si distorce in quella del circo. Ciò che emerge da questo bozzetto è una corte degenerata, svuotata dei valori di comunità intellettuale, dove ci si dedica ai giochi più vacui e dove le uniche qualità apprezzate sono quelle che destano stupore, le abilità da acrobata; la virtù si confonde con il virtuosismo, ma un virtuosismo fine a sé stesso: la bellezza effimera di una statua di neve. Michelangelo era accostato ad un fantino perché sapeva fare qualcosa d’insolito e per ciò di divertente. Michelangelo assocerà sempre l’immagine di tirannide con un luogo dove gli artisti sono considerati alla stregua di pagliacci, di divertimento per i potenti.

52 Condivi 1998, cit., pag. 57.






Vedi nel BTA: SIMBOLOGIE ANTIQUARIALI








 

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