«Ho comunicato con gli altri attraverso le mie visioni,
non sono un pazzo isolato,
non sono né pazzo né sano,
né italiano né americano,
né napoletano né romano,
sono sul filo di un rasoio,
sulla linea di confine,
attraverso il confine cento volte al giorno,
avanti e indietro»
- Paolo Bresciani -
Immaginiamo
la fine degli anni ’80, un periodo storico in cui i personal
computer erano ancora arcane macchine delle quali non si sapeva
che uso farne, e supponiamo quindi che alcune figure nel panorama
artistico italiano abbiano avuto coraggiosamente l’ardire di
servirsene, intraprendendo un discorso che di lì ad alcuni anni
sarebbe esploso prepotentemente. Ora, prefiguratoci ciò, sarà
immediato comprendere il ruolo di precursori che quei pochi audaci
uomini hanno intrapreso nel mondo dell’arte. Tra questi vi fu Paolo
Bresciani.
Scomparso
nel 2009 a causa di una malattia, nasce nel ’61 a Napoli da una
famiglia in parte di medici e in parte di artisti; il nonno materno
era il noto fotografo americano Tolker Korling, mentre il nonno
paterno, Antonio Bresciani, era un affermato pittore figurativo della
Napoli del ‘900.
Formatosi
all’Art Institute di Chicago, Paolo Bresciani, tornato in Italia, fa
il suo debutto alla galleria di Lucio Amelio a Napoli. Dopo un
esordio a tela e pennello, affascinato dalle nuove tecnologie, si
sposta verso declinazioni artistiche di altro tipo: comincia infatti
ad utilizzare la computer grafica e in particolare modo il
morphing, un effetto digitale che permette la fusione di più
immagini in una. L’espediente grafico, utilizzato all’epoca solo
dalle grandi industrie cinematografiche e pubblicitarie, diventa un
elemento caratteristico della pratica artistica di Bresciani, il
quale se ne serve per indagare i confini tra le cose all’interno di
un’indagine della realtà che vede come punto di partenza e di fine
la dinamicità, unica categoria con la quale guardare alle cose del
mondo e a noi stessi, e ciò in quanto nulla è fermo, nulla è
stabile, e quello che possiamo fare è solo attraversare, peregrinare
da una realtà in un’altra. Questo è ciò che fa Bresciani tramite
il morphing.
Rispetto a quest’ultimo, l’artista se ne
serve in modo peculiare: in maniera del tutto inusuale
rispetto all’uso dell’effetto digitale, egli blocca il processo
di trasformazione a metà, facendo sì che ne scaturisca un ibrido
che mostri senza preoccupazione le realtà da cui proviene. Così
facendo, quello che nella nostra realtà quotidiana appare
rigidamente dicotomico, apparentemente chiuso in sé stesso,
incomunicabile nella sua essenza con altre realtà, nell’universo
di Bresciani diviene sfumato all’interno di identità confuse,
ibride, metamorfiche, dove una cosa è e non è, vive
le potenzialità dell’essere senza entrare in contraddizione, in
quanto abbandonata la logica aristotelica, si adotta invece la logica
sfumata, procedimento di comprensione del mondo che contempla il
paradosso.
Il
risultato finale di gran parte dei suoi lavori sono per lo più opere
di grandi dimensioni, il cui soggetto è un’immagine ottenuta
digitalmente e poi stampata su differenti tipi di supporto e sulla
quale l’artista il più delle volte vi interviene pittoricamente.
Il rintervento manuale sull’immagine digitale, si configura come
un’ulteriore peculiarità di Bresciani: se l’immagine digitale
riecheggia infatti il termine elettronico, automatico, disumano, dal
canto suo l’intervento a pennello contempla invece una sfera intima
e soggettiva intrisa di personalità, che sembra essere l’assoluto
opposto della precedente suggestione.
Il
soggetto delle sue trasformazioni è per lo più l’artista stesso
che di volta in volta si ibrida con oggetti, animali e personaggi
della fantasia; anche se non meno importanti sono anche le fusioni
tra le cose e tra gli oggetti e gli animali. Bresciani, sorta di
sciamano della contemporaneità, compresa la fragilità insita nel
concetto d’identità, rompe i rigidi confini che essa generalmente
prevede, e con le sue metamorfosi permette di cogliere aspetti e
assonanze tra le cose alle quali non siamo soliti vedere a causa del
nostro sguardo sopito dalla quotidianità.
In
questo universo fatto di ibridi e identità mutanti non può non
venire in mente come suggerisce il critico Raffaele Gavarro, in uno
scritto dedicato all’artista, da un lato la letteratura
fantascientifica e cyberpunk
e dall’altra la ricerca genetica connessa ai trapianti e agli
innesti robotici che sostituiscono organi umani mancanti o
manchevoli.
Del resto, la realtà scientifica è stata per Bresciani un
importante bacino da cui trarre espressioni per un linguaggio che
faccia dell’arte quasi una pratica diagnostica: vi sono opere in
cui l’artista, servendosi anche di radiografie e risonanze
magnetiche, come fosse un medico dell’arte, studia il corpo,
analizzandolo dal suo esterno, la pelle, fino al suo interno. Nella
sua indagine della realtà, la scienza permette a Bresciani di
adottare un metodo con cui sopperire alle poche risposte date
dall’arte alle tante domande che essa per sua natura pone.
Il
suo è stato quindi un linguaggio variegato, che si è servito di
diversi mezzi con esiti assai differenti: dalle prime opere a tela
basate sull’idea del doppio e del positivo - negativo, ai lavori
realizzati per mezzo del morphing; dalle opere create
appositamente per Internet, ai video basati sull’idea di
deformazione dello spazio e alle installazioni formate da
micro-sculture. Un “polimorfismo”, quindi, che implica quella
dinamicità, quel metamorfismo che è alla base di molte sue opere e
che è accompagnato da una volontà di sperimentare tecniche e
linguaggi nuovi che diano vita a immagini disorientanti.
Paolo
Bresciani è stato, dunque, uno dei primi artisti in Italia a
servirsi del computer in tempi in cui esso era ancora un oggetto così
lontano dal divenire strumento di espressione artistica e in
particolare modo, tramite il morphing, ha creato quello che
dalla critica giornalistica dell’epoca è stato definito un nuovo
tipo di genere “Il ritratto Virtuale”.
Se
l’attività di un uomo non può essere riassunta in poche righe,
quello che si può far emergere è un atteggiamento pionieristico e
lungimirante, che ha anticipato nell’arte una realtà transgender
quale quella in cui noi oggi viviamo, tanto nelle identità quanto
nelle tecniche. Se la denominazione è una forma di controllo che
l’uomo ha adottato per interagire nel mondo, allora la perdita di
questo bisogno e l’apertura a realtà indifendibili con certezza,
indica un atteggiamento coraggioso che nell’arte meriterebbe di
essere ricordato.