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Celebremente
cum extrema laetitia et maximo solatio dunque terminata questa
iocundissima
festa, tutti se poseno ad sedere. Et quivi factomi levare, et dinanti
la veneranda Sede della sua Diva maiestate feci profunda riverentia,
et decentemente genuflectendome, cusì mi dixe. Poliphile horamai
poni in oblivio gli praeteriti et occorsi casi, et d’indi gli
fastidiosi concepti, et il transacto discrime, imperoché io son
certa, che al praesente pienamente sei restaurato. Dunque volendo tu
nelle amorose fiamme di Polia intrepido prosequire, convenevole cosa
arbitro, che per questa recuperatione vadi ad tre porte, ove habita
l’alta Regina Telosia, nel quale loco sopra di ciascuna di quelle
porte, el suo titulo et indice annotato et inscripto vederai,
accuratamente legilo, ma ad la opportunitate del tuo guberno et
munimine, io ti darò di tante mie facete et herile pedisseque due,
le quale exercite illo tutissimo conducerano, et individue
commiterano, cum laeto animo perciò va et cum foelice successo. Et
incontanente cum regia largitate educto uno annulo aureo
dill’annulare digito, cum una petra Anchite, tolli questo dicendo,
et teco in memoria della mia amicabile munificentia laeto il
portarai. Ad questa exhortatione et pretioso dono, io quasi
Amphasiatico divenuto, non sapea per certo cosa alcuna aequivalente
che dire, né regratiare. Ma ella benignamente avidutase
matronalmente, et cum una genuina praestantia, et cum gravitate
maiestale, ad due praeclare et insigne puelle, se voltoe, al suo
Imperiale throno propinque assistrice, ad una che al dextro lato
sedeva imperitante dixe.
Logistica
sarai tu altra che andarai cum il nostro hospite Poliphilo. Et cum
sancto religioso et venerabile acto, se voltoe poscia ad lato
sinistro dicendo. Thelemia et tu parimente andarai una cum esso, et
ambe due datigli ad intendere et chiara notitia in quale porta el
debi lui ristare.
[…]
Et cusì cum honesti et approbatissimi parlamenti, festivissimamente
ad uno lepidissimo fiume pervenissimo. Sopra le rive del quale, vidi
uno gratioso Plataneto, oltra gli altri verdissimi arbusculi, et
aquatici germini optimamente dispositi, et situati, cum intercalate
lothi. Ove traiectava uno lapideo et superbo ponte di tre archi, cum
gli capiti alle ripe sopra gli firmatissimi subici, cum le pille
dagli dui fronti carinate, ad continere la structura firmissima, et
cum nobilissime sponde. In le quale nel mediano repando del
substituto cuneo del arco, de qui et de lì, perpolitamente, excitata
promineva una porphyritica quadratura fastigiata, continente una
cataglyphia scalptura di hieraglyphi. Nella dextra al nostro
transito, vidi una matrona d’uno serpente instrophiolata, solum cum
una nate sedente, et cum l’altra gamba in acto de levarse, cum la
mano dilla sua sessione, uno paro di ale, et nel altro del levarse
una testudine teniva. Obvio era uno circulo, il centro dil quale dui
spirituli tenendo, cum gli pectioli terga vertendo alla
circunferentia.
Logistica
etiam quivi me dixe. Poliphile, questi hieraglyphi io so che tu non
l’intendi. Ma fano molto al proposito, a cui tende alle tre porte.
Et però in monumento delli transeunti opportunissime sono collocati.
El circulo dice. Medium tenuere beati.
L’altro.
Velocitatem sedendo, tarditatem tempera surgendo. Hora nella mente
tua discussamente rumina.
El
quale ponte poscia era cum moderato prono, dimostrante la solerte
disquisitione, et l’arte et lo ingegno del perspicacissimo artifice
et inventore, collaudava in esso la aeterna soliditate, la quale non
è cognita dagli caecucienti moderni, et pseudoarchitecti, sencia
litteratura, mensura et arte, fucando, et di picture, et di
liniamenti operiendo exta per omni modo il fabricato inconcinno et
difforme. Il quale era tuto di marmoro Hymetio venustissimo.
Havendo
nui el ponte transacto, ambulavamo sotto per le fresche umbre, di
vario garrito di avicule suavemente celebrate. Ad uno saxoso et
cotico loco, ove gli excelsi et ardui monti se attollevano,
pervenissimo. Et d’indi poscia contiguo ad una abrupta et invia, et
salebrosa montagna, tuta derosa et piena di hernia scabricie. Alta
fino nel aere, appendice fina delumbata, et nuda de omni virentia, et
monti adryi circunquaque. Et quivi erano interscalpte le tre
randuscule porte, rudemente excavate
nel
vivo saxo, opera antiquaria, et oltra il credere veterrima in magna
asperugine di sito. Sopra qualunque delle quale, di charactere
Ionico, Romano, Hebraeo, et Arabo, vidi el titulo che la Diva Regina
Eleuterilyda haveami praedicto et pronosticato, che io ritroverei. La
porta dextra havea sculpta questa parola. THEODOXIA. Sopra della
sinistra questo dicto. COSMODOXIA. Et la tertia havea notato cusì.
EROTOTROPHOS.
Da
poscia che nui quivi applicassimo immediate, le Damigelle comite
incominciorono ad interpretare disertamente, et elucidare gli notandi
tituli, et pulsando alle resonante valve dextere occluse, di metallo,
di verdaceo rubigine infecte, sencia dimorare furon aperte. Et ecco
che ad nui, una donna grandaeva se praesentoe, di aspecto coelibe, la
quale fora di una craticea casuncula cum fumido tecto et parieti
fumigati per la pusilla porta egressa (La quale sopra sé havea
notato PYLURANIA) veniva cum pudico matronato, in solitario loco
collocata la sua aedicula, et in una opaca rupe et cariosa di nudo et
friabile saxo, lacera, squallida, macilenta, povera, cum gli ochii ad
terra defixi, Theude il suo nome. Et seco havea sei contubernale et
individue vernule ministrante,
assai
deiectamente vestite et obese. Delle quale una nominavasi Parthenia.
La seconda Edosia, et una Hypocolinia. La quarta Pinotidia. Et ad
presso egli era Tapinosa, la ultima Ptochina. La quale veneranda
matrona cum il dextro brachio nudo, l’alto Olympo monstrava.
Habitava
all’ingresso di una strata scrupea, di progresso difficile, di
spini et sente impedita. Il loco apparendo scabroso et dispiacevole,
cum il coelo pluvio et turbato, et cum nubila caligine infuscata, et
arctissimo calle.
Diqué
Logistica animadvertendo, che io al primo intuito tale cosa
abhorriva, quasi moesta dixemi. Poliphile, questo calle si non
all’ultimo si cognosce. Et cusì questa veneranda et sancta donna
Thelemia argutula praesto mi dixe. O Poliphile, per te hora non è
l’amore di tale laboriosa foemina. Io ad Thelemia accortamente
anuendo, d’indi fora venissimo. Et rachiusa la porta, pulsarono
alla sinistra Et ecco che ad nui, una donna grandaeva se praesentoe,
di aspecto coelibe, la quale fora di una craticea casuncula cum
fumido tecto et parieti fumigati per la pusilla porta egressa (La
quale sopra sé havea notato PYLURANIA) veniva cum pudico matronato,
in solitario loco collocata la sua aedicula, et in una opaca rupe et
cariosa di nudo et friabile saxo, lacera, squallida, macilenta,
povera, cum gli ochii ad terra defixi, Theude il suo nome. Et seco
havea sei contubernale et individue vernule ministrante, assai
deiectamente vestite et obese. Delle quale una nominavasi Parthenia.
La seconda Edosia, et una Hypocolinia. La quarta Pinotidia. Et ad
presso egli era Tapinosa, la ultima Ptochina. La quale veneranda
matrona cum il dextro brachio nudo, l’alto Olympo monstrava.
Habitava all’ingresso di una strata scrupea, di progresso
difficile, di spini et sente impedita. Il loco apparendo scabroso et
dispiacevole, cum il coelo pluvio et turbato, et cum nubila caligine
infuscata, et arctissimo calle.
Diqué
Logistica animadvertendo, che io al primo intuito tale cosa
abhorriva, quasi moesta dixemi. Poliphile, questo calle si non
all’ultimo si cognosce. Et cusì questa veneranda et sancta donna
Thelemia argutula praesto mi dixe. O Poliphile, per te hora non è
l’amore di tale laboriosa foemina. Io ad Thelemia accortamente
anuendo, d’indi fora venissimo. Et rachiusa la porta, pulsarono
alla sinistra Ecco sencia praestolatione fue patefacta, et
intromessi, se fece ad nui una Matrona chrysaora cum gli ochii atroci
et nell’aspecto prompta, vibrante cum la levata sua spatha in mano
et praelucente. In medio della quale, una corolla d’oro, et uno
ramo di palmula intraversato suspesa pendeva, cum brachii Herculei et
da fatica, cum acto magnanimo, cum il ventre tenue, bucca picola,
humeri robusti, nel volto cum demonstratione di non terrirse di
qualunqua factione ardua et difficile, ma di feroce et giganteo
animo. Et il suo nominativo era Eucleia, et di Sene nobile giovenette
et obsequiose venerabilmente comitata. Il nome della prima
Merimnasia, della secunda, Epitide. Dell’altra, Ergasilea. La
quarta era chiamata, Anectea. Et Statia nominavasi la quinta. La
ultima era vocata Olistea. Il loco et sito mi parea essere molto
laborioso.
Per
questo avidutasi Logistica prompta incomincioe cum Dorio modo, et
tono di cantare tolta la lyra di mano di Thelemia, et sonando
suavemente a dire. O Poliphile non ti rencresca in questo loco
virilmente agonizare. Perché sublata et ammota la fatica, rimane il
bene. Tanto fue vehemente il suo canto, che già consentiva cum
queste adolescentule cohabitare, quantunque lo habituato di fatica
apparisse, subito Thelemia politula et blandivola, et cum dolce
sembiante mi dixe. Cosa ragionevola ad me pare, che ante che quivi
Poliphiletto mio oculissimo te affermi, debbi per omni modo et la
tertia porta videre. Consentiendo io fora et di quest'altra egressi,
et pesulate le aenee valve, Thelemia percosse la tertia et mediana
porta, et rimoto lo obice, senza dilatione fue aperto. Et intromessi
obvia se fece ad nui una insigne Dona, il nome della quale era
Philtronia.
Cum
risguardi petulci et inconstanti, l’aspecto quam iocundissimo suo,
al primo intuito al suo amore me violentoe et traxime. Inquilina di
uno loco voluptuoso, di helvelle virente l’area et di fiori vestita
abundante di solacio et piacevole Ocio, manante cum scatebre di
limpidissimi fonti et rivuli, cum sonora scaturigine discursivi, ad
maxima voluptate irriguo, Campi aprici, et le umbre degli fogliosi
arbori sugelide et fresche.
Seco
similmente et essa havendo sei herile formosissime fanciulle aequaeve
et in guardatura lepidissime, cum praegratissima lauticie et amorosi
ornamenti, falerate, di ambitiosa bellecia decore, delle quale
l’appellatione della prima era Rastonelia, l’altra nominavase
Chortasina, la tertia Idonesa, et la quarta era chiamata Tryphelea.
Et dicta era la quinta Etiania. l’ultima Adia.
Queste
tale et cusì facte praesentie, ad gli intenti ochii mei summamente
grate se praestorono et delectevole. Per questo la sincera Logistica
praestamente cum moeste voce vedentime disponere et già abruptamente
deflexo all’amore di essa in servile modo addicto dixe.
O
Poliphile fucosa et simulata bellecia di costei è mendace, insipida
et insulsa, imperoché si le sue spalle discussamente mirare le
volesti nauseabondo comprenderesti forsa quanta indecentia subiace,
et quanto aspernabile sono, et di fetulento stomachose et
abhominabile, eminente sopra una alta congerie di sorde.
Diciò
che perpete et evanida fuge, et la voluptate passa, et il pudore cum
penitudine, cum isperance vane, cum brevissima alacritate, cum pianti
perpetui, et anxii sospiri la erumnabile vita superstite, rimane. O
di miseria adulterata dolcecia in sé continente tanta amaritudine,
quale il melle in Cholco dalle fronde stillante. O morte deterrima et
soza come induta sei di veneno dolce, cum quanti discrimini et
mortali periculi, et solicitudine da gli caeci amanti, inconsulta et
praecipitamente quaesita. Praesente et dinante ad gli ochii tu li
stai et miselli non te vedeno, o di quanti dolori et amara poena et
cruciamento gerula sei, o pravo impio, et execrabile appetito, o
insania detestabile, o defraudati sensi, per voi cusì lubricamente,
cum il medesimo piacere belluo, et gli miseri mortali ruinano. O
sordido amore. O absordissimo furore. O disordinata et inane
Cupidine, di tanti errori et tormenti ad gli pertacti cori
nidulabonda lacescente. O di multiplice bene malvagio et exitiale
interito. O immane monstro, come agevola et subdola gli ochii degli
infoelici amatori tui, veli et nubili ? O tristi et sciagurati chi se
inviscida cum tanti mali, in tanto
poco, et venefico piacere, et in fincto bene praessati.
Queste
et consimigliante parole cum vehementia agitata, et nella fronte cum
insurgente ruge indignabonda Logistica dicendo, proiecta la lyra ad
terra la rumpete, diqué, Thelemia impigra et di tale suasione
inperterita fecemi nuto ridibonda che ad Logistica non attendese. Per
la quale cosa Logistica cognita la mia iniqua proclinatione succensa
de disdegno, voltate le spalle, sospirosa, properamente cursitabonda,
uscite fora.
Et
io restai cum la mia victrice et chara Thelemia, la quale blandiente
hilara mi dixe. Questo è quel loco Poliphile, ove non sarà
dilatione di tempo, che tu trovarai senza fallo la più amata cosa da
te, che è tua, ch’è cosa del mundo, della quale il tuo obstinato
core senza intermissione pensa et opta. Diqué tra me scrupulosamente
discursitando, solamente io trovai, che altro nel mio misello core,
si non la mia Elioida Polia è impresso cogitabile et
desideratissimo. Per queste solatiose et praegratissime et dive
parolette laetificato
presi extremo confortamento.
Avidutasi
dunque Thelemia che ad me tale Matrona cum le sue, et il loco et
conditione era di piacere et contento, et la benignitate sua,
columbinulamente basciantime et strictamente amplexantime, da me
chiedete licentia et cummeato.
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Dunque
con grande letizia e gioia è terminata questa bellissima festa e
tutti si siedono. Quindi mi fece alzare e davanti la sua grande
maestosità, dimostrai profonda reverenza e genuflettendomi mi disse:
«Polifilo,
ormai stai dimenticando le cose passate, i pensieri cattivi e i
rischi fastidiosi, perché sono certa che adesso sei pronto per il
presente. Dunque, volendo proseguire verso l’ardente amore per
Polia, credo ti convenga andare alle tre porte, dove abita la regina
Telosia, nel cui luogo, sopra ognuna delle porte, vedrai un titolo
scritto; leggilo accuratamente, ma all’opportunità, per guida, io
ti darò due delle mie fanciulle, che esperte, ti porteranno nel
luogo senza pericolo, compagne inseparabili. Và quindi con
tranquillità verso un successo sicuro. Con regalità la regina si
tolse dall’anulare un anello con una pietra anancite e disse:
«Porta
con te questo, in ricordo della mia generosità».
A questa esortazione e dopo aver ricevuto il prezioso dono, io non
sapevo cosa dire, né ringraziare. Ma la regina con gentilezza e con
benevolenza, con sovranità si rivolse a due bellissime fanciulle che
assistevano al suo trono. A quella di destra comandò: «Logistica
sarai tu che andrai con il nostro ospite Polifilo. E con un atto
venerabile e religioso, si voltò al lato sinistro dicendo: «Telemia,
anche tu andrai con Polifilo e sia tu che Logistica gli farete capire
in quale porta sarà meglio entrare».
[…]
E così, con queste maestose parole, giungemmo ad un limpidissimo
fiume, sopra le rive del quale, vidi un grazioso bosco di platani,
oltre ad altri verdissimi alberi e piante acquatiche disposte
graziosamente insieme a fiori di loto. Sopra passava un superbo ponte
di marmo a tre archi, le cui estremità finivano su saldi sostegni
alle rive e i pilastri a forma di carena su tutti e due i lati,
sostenevano la struttura. Sulle sue nobili sponde, sopra l’arcata
mediana e in corrispondenza alla chiave di volta, da una parte e
dall’altra, si vedevano due edicole quadrate riccamente decorate,
con geroglifici scolpiti in rilievo. Alla nostra destra era scolpita
una matrona con una corona serpentiforme, seduta su uno sgabello solo
con una natica e con l’altra gamba in atto di alzarsi. Dalla parte
dove era seduta, teneva un paio d’ali con la mano, dall’altra,
dove stava per alzarsi, una tartaruga. Dalla parte opposta, c’era
un tondo, dove erano scolpiti due genietti uno di fronte all’altro,
mentre davano le spalle alla circonferenza. Logistica qui mi disse:
«So
che tu non capisci questi geroglifici, ma capito a proposito di chi
si trova sulla via delle tre porte e per questo sono collocati come
ammonimento per chi passa. Il tondo significa: FELICE CHI HA SEGUITO
LA VIA DI MEZZO, l’altro: SEDENDO MODERA LA VELOCITÀ,
ALZANDOTI LA LENTEZZA. Ora rifletti attentamente».
Il
ponte aveva una leggera pendenza e questo dimostrava la sagace
ricerca, l’arte e l’ingegno dell’intelligentissimo costruttore,
di cui si esaltava la solidità imperitura, del tutto ignota ai
moderni architetti, ciechi, letterati, ignoranti d’arte e misure:
anche quando decorano di pitture e ricoprono di modanature l’edificio
questo resta disamornico e senza grazia. Il nostro ponte invece era
bellissimo e di marmo dell’Imetto. Oltrepassato il ponte, si
camminava sotto le ombre, che risuonavano del più vario e soave
cinguettio degli uccelli. Arrivammo in un luogo arido e sassoso, dove
si vedevano monti altissimi e inaccessibili: accanto, c’era una
montagna a precipizio, impervia e dirupata, corrosa e scabra, con
molti crepacci. Svettava fino in cielo, scoscesa e senza piante sulle
pendici e intorno c’erano montagne brulle: sopra vi erano scolpite
tre porte senza ornamenti, scavate rozzamente nella pietra, opera
antica di un’antichità inimmaginabile in un luogo di asprezza
estrema. Su ognuna, in caratteri greci, latini, ebraici e arabi, vidi
l’iscrizione che la divina regina Eleuterillide mi aveva predetto,
pronosticandomi che l’avrei trovata. La porta a destra aveva
scolpite queste parole: GLORIA DI DIO; su quella di sinistra c’era
questa frase: GLORIA DEL MONDO; e la terza aveva questa frase: MADRE
D’AMORE. Dopo esserci avvicinati, le damigelle che mi
accompagnavano iniziarono subito a interpretare e illustrare con
chiarezza quelle mirabili iscrizioni. Bussammo ai chiusi, risonanti
battenti della porta destra, di un metallo macchiato di ruggine
verde: furono aperti senza paura. Ci si presentò una vecchia,
eremita d’aspetto, che ci venne incontro con pudico e matronale
portamento uscendo dalla porta sulla quale era scritto PORTA DEL
CIELO di una casa di canne, dal tetto e dalle pareti annerite di
fumo. La casetta si trovava in un luogo deserto, sotto una rupe nuda,
di pietra corrosa. La vecchia era squallida, misera, e con gli occhi
fissava a terra: il suo nome era Teude. Con lei stavano sei compagne,
tutte giovani e al suo servizio, vestite poveramente. I loro nomi
erano: Partenia, Edosia, Ipocolinia, Pinotidia, Tapinosa e Ptochina.
La veneranda matrona indicava con il braccio destro verso il cielo.
Abitava all’imbocco di una strada sassosa, difficile da percorrere,
piena di rovi e pruni: il luogo sembrava scabroso e per nulla
piacevole, i cielo faceva cader giù pioggia, un sentiero stretto
nella nebbia fosca. A questo punto Logistica, rendendosi conto che
rifiutavo uno spettacolo del genere, con mestizia mi disse:
«Polifilo,
questo sentiero lo si può conoscere solo alla fine»
e anche Telemia con arguzia mi disse: «O
Polifilo, non è questo il momento di innamorarti di una donna così
triste».
Feci un cenno d’intesa con Telemia, uscimmo fuori dalla porta;
bussarono a quella di sinistra e si aprì subito. Entrammo e ci
vennero incontro una matrona dagli occhi cattivi e dall’aspetto
austero: impugnava e agitava, alzandola in alto una spada dorata,
sulla cui metà pendeva sospesa una corona d’oro attraversata da un
ramo di palma. Con un atteggiamento magnanimo, aveva braccia
possenti, fianchi stretti, bocca piccola, spalle robuste, il volto
mostrava di non temere nessuna impresa ardua e difficile: aveva
l’animo tracotante dei giganti. Il suo nome era Eucleia ed era
accompagnata con venerazione da sei nobili giovani: i loro nomi erano
Merimnasia, Epitide, Ergasilea, Anactea, Stazia e l’ultima Olistea.
Il luogo e la situazione mi sembravano molto impegnativi. Accortasi
di questo, Logistica cominciò a cantare in modo dorio e presa la
lira dalle mani di Telemia, sunando soavemente diceva: «Oh
Polifilo, non ti rincresca combattere virilmente in questo luogo
perché, finita e passata la fatica, rimane il bene».
Il suo canto fu così veemente, che già cominciavo ad unirmi a
queste fanciulle nonostante il loro aspetto sembrasse molto provato.
Allora Telemia, con garbo e aspetto soave disse: «Mi
pare una cosa giusta, Polifiletto mio amatissimo, che prima di
fermarti qui, tu debba vedere anche la terza porta».
Acconsentii e, usciti fuori da questa porta, chiusisi i battenti di
bronzo, Telemia bussò a quella di mezzo, la terza che, rimossa la
spranga, si aprì subito. Entrammo e ci venne incontro una nobile
donna il cui nome era Filtronia: con occhiate lascive e sfuggenti,
l’aspetto di un’estrema avvenenza, mi costrinse ad amarla subito.
Viveva
in un luogo di voluttà, dal sulo verde di erbette e rivestito di
fiori, pieno di fronzoli e di piacevole ozio, dove sgorgavano
limpidissime fonti e ruscelli mormoranti che scorrevano ad irrigare
con delizia campi solatii e alberi frondosi dalle fresche,
refrigeranti ombre. Anche lei aveva con sé sei servitrici, fanciulle
graziose tutte della stessa età, dagli sguardi seducenti, che
sfoggiavano frange e collane dagli ornamenti sontuosi. Si chiamavano
Rastonelia, Cortasina, Idonesa, Trifelea, Etiania e l’ultima Adia.
Tali presenze, vennero sommamente gradite e dilettose ai mie occhi
sgranati. L’onesta Logistica, vedendomi ben disposto e già
irragionevolmente incline ad assoggettarmi alla schiavitù del suo
amore, con meste parole si affrettò a dire: «Oh
Polifilo, la bellezza di costei è falsa e ingannevole, mendace,
insipida e insulsa, perché se tu volessi esaminarla attentamente da
dietro, como renderesti nauseato quanta indecenza si nasconde e
quanto sia ripugnante, stomacosa e abominevole per la puzza che
supera il più alto mucchio di zozzeria. Fra le cose che
incessantemente fuggono e svaniscono, anche voluttà e pudore passano
e resta solo un’esistenza misera, fatta di pene, di speranze vane,
dell’estasi di un attimo, di pianti continui e sospiri affannosi. O
dolcezza affatturata dalle miserie, piena di tanta amarezza quanto il
miele stilante dalle fronde della Colchide ! O sporca morte, la peggiore di tutte, come ti sei rivestita di dolci veleni,
con quali rischi, mortali pericoli e affanni sei sconsideratamente e
precipitosamente cercata dai ciechi amanti ! Tu stai ossessivamente
davanti i loro occhi e i poveretti non ti vedono. O portatrice di
innumerevoli dolori, amare pene e tormenti! O abietto, empio,
esecrabile appetito, detestabile follia, o ingannati sensi, per voi i
miseri mortali rovinano assieme allo stesso ingannevole e bestiale piacere! O sordido amore,
o sordissimo furore, o disordinata e vana passione, che susciti tanti
errori e tormenti annientandoti nei cuori straziati, o malvagio,
esiziale annientamento di ogni bene, o immane mostro, con quale
subdola facilità veli e offuschi gli occhi dei tuoi infelici amanti
! O tristi e sciagurati coloro che si invischiano in sì tanti mali
in una così effimera, venefica voluttà, oppressi da un bene
menzognero !».
Dette queste parole, Logistica, piena di sdegno, con la fronte
corrugata, con tanta passione gettò a terra la lira e la infranse.
Al che Telemia, imperterrita davanti a un tale discorso, ridendo mi
fece prontamente cenno di non dare retta a Logistica, che, accortasi
della mia brutta inclinazione, piena di sdegno, voltate le spalle,
sospirando, uscì fuori correndo precipitosamente. Io rimasi con la
mia cara e vittoriosa Telemia, che, disse felicemente: «Questo
è il luogo Polifilo dove non passerà tempo che tu troverai
senz'altro la cosa da te più amata, che è tua, la sola cosa al
mondo pensata e desiderata senza interruzione dal tuo cuore
ostinato».
A ciò mi misi a rimuginare tra me e me pensando attentamente e
trovai soltanto che nessun altro pensiero e desiderio così forte
era impresso nel mio misero cuore se non quello del mio sole: Polia.
Quelle sue divine parole, piacevoli e graditissime, mi allietarono e
ne trassi estremo conforto. Telemia si accorse che la benevolenza di
quella matrona e delle sue ancelle, come la condizione del luogo, mi
davano gioia e piacere: allora, dopo avermi baciato, tenera come una
colomba mi abbracciò strettamente e, chiesta licenza, si accomiatò.
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