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POLIPHILO
QUIVI NARRA, CHE GLI PARVE ANCORA DI DORMIRE, ET ALTRONDE IN SOMNO
RITROVARSE IN UNA CONVALLE, LA QUALE NEL FINE ERA SERATA DE UNA
MIRABILE CLAUSURA CUM UNA PORTENTOSA PYRAMIDE, DE ADMIRATIONE
DIGNA, ET UNO EXCELSO OBELISCO DE SOPRA. LA QUALE CUM DILIGENTIA
ET PIACERE SUBTILMENTE LA CONSIDEROE.
LA
SPAVENTEVOLE SILVA, ET CONSTIpato Nemore evaso, et gli primi altri
lochi per el dolce somno che se havea per le fesse et prosternate
membre diffuso relicti, me ritrovai di novo in uno più
delectabile sito assai più che el praecedente. El quale non era
de monti horridi, et crepidinose rupe intorniato, né falcato di
strumosi iugi. Ma compositamente de grate montagniole di non tropo
altecia. Silvose di giovani Quercioli; di Roburi, Fraxini et
Carpini, et di frondosi Esculi, et Ilice, et di teneri Coryli, et
di Alni, et di Tilie, et di Opio, et de infructuosi
Oleastri,dispositi secondo l’aspecto de gli arboriferi Colli. Et
giù al piano erano grate silvule di altri silvatici arboscelli,
et di floride Geniste, et di multiplice herbe verdissime, quivi
vidi il Cythiso, la Carice, la commune Cerinthe. La muscariata
Panachia el fiorito Ranunculo, et Cervicello, o vero Elaphio, et
la Seratula, et di varie assai nobile, et de molti altri proficui
simplici, et ignote herbe et fiori per gli prati dispensate. Tutta
questa laeta regione de viridura copiosamente adornata se
offeriva. Poscia poco più ultra del mediano suo, io ritrovai uno
sabuleto, o vero glareosa plagia, ma in alcuno loco dispersamente,
cum alcuni cespugli de herbatura. Quivi al gli ochii mei uno
iocundissimo Palmeto se appraesentò, cum le foglie di cultrato
mucrone ad tanta utilitate ad gli Aegyptii, del suo dolcissimo
fructo foecunde et abundante. Tra le quale racemose palme, et
picole alcune, et molte mediocre, et l’altre drite erano et
excelse, electo Signo de victoria per el resistere suo ad
l’urgente pondo. Ancora et in questo loco non trovai incola, né
altro animale alcuno. Ma peregrinando solitario tra le non
densate, ma intervallate palme spectatissime, cogitando delle
Rachelaide, Phaselide, et Libyade, non essere forsa a queste
comparabile. Ecco che uno affamato et carnivoro lupo alla parte
dextra, cum la bucca piena mi apparve. Per l’aspecto del quale,
gli capigli mei immediate se ariciorono, et diciò volendo cridare
non hebbi voce. Il quale desubito fugite. Et io in me allhora
alquanto ritornato, levando gli ochii inverso quella parte, ove
gli nemorosi colli appariano coniugarsi. Io vedo in longo recesso
una incredibile altecia in figura de una torre, overo de altissima
specula, appresso et una grande fabrica ancora imperfectamente
apparendo, pur opera et structura antiquaria. Ove verso questo
aedificamento mirava li gratiosi monticuli della convalle sempre
più levarse. Gli quali cum el praelibato aedificio coniuncti
vedea. El quale era tra uno et l’altro monte conclusura, et
faceva uno valliclusio. La quale cosa de intuito accortamente
existimando dignissima, ad quella sencia indugio el già
solicitato viagio avido ridriciai. Et quanto più che a quella
poscia approximandome andava, tanto più discopriva opera ingente
et magnifica, et di mirarla multiplicantise el disio. Imperoché
non più apparea sublime specula, ma per aventura uno excelso
Obelisco, sopra una vasta congerie di petre fundato. L’altitudine
della quale, incomparabilmente excedeva la summitate degli
collateranei monti, quantunche fusse stato el celebre monte
arbitrava Olympo, Caucaso, et Cylleno. Ad questo deserto loco pure
avidamente venuto, circunfuso de piacere inexcogitato, de mirare
liberamente tanta insolentia di arte aedificatoria, et immensa
structura, et stupenda eminentia me quietamente affermai. Mirando
et considerando tuto el solido et la crassitudine de questa
fragmentata et semiruta structura de candido marmo de Paro.
Coaptati sencia glutino de cemento gli quadrati,et quadranguli, et
aequalmente positi et locati, tanto expoliti, et tanto
exquisitamente rubricati gli sui lymbi, quanto fare unque si
potrebbe. In tanto che tra l’uno et l’altro lymbo, overo tra
le commissure una subtilecia quantunque aculeata, del intromesso
reluctata unquantulo penetrare potuto non harebbe. Quivi dunque
tanta nobile columnatione io trovai de ogni figuratione,
liniamento, et materia, quanta mai alcuno el potesse suspicare,
parte dirupte, parte ad la sua locatione, et parte riservate
illaese, cum gli Epistyli et cum capitelli, eximii de excogitato
et de aspera celatura. Coronice, Zophori, overo Phrygii, Trabi
arcuati. Di statue ingente fracture, truncate molti degli aerati
et exacti membri. Scaphe, et Conche, et vasi, et de petra
Numidica, et de Porphyrite, et de vario marmoro et ornamento.
Grandi lotorii. Aqueducti, et quasi infiniti altri fragmenti, de
scalptura nobili, de cognito quali integri fusseron, totalmente
privi, et quasi redacti al primo rudimento. Alla terra indi et
quindi collapsi et disiecti. Sopra et tra le quale confragose
ruine germinati erano molti silvatici virgulti, et praecipue de
Anagyro non quassabondo, cum le teche fasselacie, et uno et
l’altro Lentisco, et la Ungula ursi et Cynocephalo, et la
Spatula fetida et el ruvido Smylace, et la Centaurea,et molte
altre tra ruinamenti germinabonde. Et ad gli fresi muri molti
Aizoi, et la pendula Cymbalaria, et senticeti de pongiente vepre.
Tra gli quali serpivano alcune lacertace, et ancora sopra gli
arbuscati muri reptavano, spesse fiate in quelli deserti et
silenti lochi nel primo moto ad me, che tutto stava suspeso, non
pocho horrore inducendo. Magni in molte parte frusti de plane
retondatione, et de Ophites et de Porphyrite, et Coralitico
colore, et di assai altri grati coloramenti. Fragmentatione di
vario historiato di panglypho, et hemiglypho, di expedita, et
semiscalptura. Indicando la sua excellentia, che sencia fallire ad
gli tempi nostri, et accusando, che de tale arte egli è sopita la
sua perfectione, dunque approximatome al mediano fronte della
magna et praeclara opera, io vidi uno integro portale miro et
conspicuo, et ad tutto lo aedificio proportionato.
La
quale fabrica vidi continua tra uno et l’altro degli monti
delumbati pendicei intersita, che poteva arbitrariamente
coniecturare essere la sua dimensione di passi vinti, et stadii
sei. Lo allamento de’ quali monti aequato era perpendicularmente
dalla cima giù fina all’area. Per la quale cosa io sopra di me
steti cogitabondo, cum quali ferrei instrumenti, et cum quanto
trito di mane di homini, et numerositate, tale et tanto artificio
violentemente conducto cusì fusse sencia fide laborioso, et de
grande contritione de tempo. Quivi dunque cum l’uno et l’altro
monte questa admiranda structura, cum conscia haesione se
coniungeva. Per la quale coniunctione come sopra dicto è la valle
era munita de conclusione, che niuno valeva d’indi uscire, overo
indrieto ritornare, o intrare per questa patula porta. Hora sopra
de questa tanto ingente opera di fabricatura, che de altitudine
aequalmente dalle supreme corone al pedamento et Areobate
coniecturare facilmente se poteva essere uno quinto de stadio, era
fundata una adamantineamente fastigiata et portentosissima
Pyramide, di qué ragionevolmente iudicai, che non sencia
inaestimabile impensa, tempo, et maxima multitudine de mortali, se
havesse unque potuto excogitare et ridriciare tale incredibile
artificio. Onde si io el suo excesso, oltra el credere,
inopinabile cosa meritamente de essa essere el speculare
arbitrava, la quale imperoché mirando non mediocremente la
potentia visiva affatichava, et gli altri spirituali sensi
attenuando, quanto più affare? Per tanto a ciò che in alcuna
parte, quanto ad me se praestarà el capto del mio intellecto, per
questo modo ad hora io brevemente el descrivo. Ciascuna facia
dilla quadratura della meta, sotta all’initio della gradatione
de questa admiranda Pyramide, sopralocata al praefato
aedificamento, in extensione longitudinale, era stadii sei.
Multiplicati per quatro in ambito, la dicta nel pedamento
aequilatero occupava comprehendendo, quatro et vinti stadii. In
altitudine daposcia da qualunque angulo levando le linee, cum
mensura, quanto la ima linea è del plintho, tutte quatro al summo
mediano inseme conveniente concurrendo la figura Pyramydale
perfecta constituivano. Il perpendicolo mediano sopra el centro
degli dyagonii del Plyntho incruciati, delle sei partitione una
meno constava delle ascendente linee.
La
quale immensa et terribile Pyramide cum miranda et exquisita
Symmetria gradatamente Adamantale salendo, continiva dece, et
quatro cento et mille gradi, overo scalini decrustati. Dempti
gradi dece opportuni ad terminare el gracilamento.
Nel
loco di quali era apposito et suffecto uno stupendo Cubo solido et
fermo, et della crassitudine monstruoso, offerentise sencia
credito di subvectura in quella summitate deputato. De quella
medesima petra Paria, che erano le gradatione. El dicto quadrato
fue per basa et substentaculo supposto dell’obelisco, che se hae
da dire. Questo ingentissimo saxo, che tale non fue chermadio
levato da Titide, havea uno prolapso in ambito, de sei parte, due
in descenso, et una nella cacuminata planicie, ristava nel supremo
plano lato per diametro passi quatro. Nella coaequatura del quale,
eminevano quatro pedi de Harpyia de metallo cum gli pilaci et
branchie ungiute fusile,nella maxima petra verso gli anguli, sopra
le linee dyagonie, infixi et fermamente implumbati. De
crassitudine proportionata, et de altecia di dui passi. Le quale
inseme bellissime innodantise, ambiendo ligavano lo infimo Socco
di uno grande Obelisco. Conflati in mirabile folgiature, et
fructi, et fiori di conveniente granditate. Sopra gli quali
premeva lo Obelisco firmissime supraposito. La latitudine del
quale de passi bini, et sette, tanto in altecia, artificiosamente
acuentise, de petra Pyropecila Thebaicha. Nelle facie del quale
erano Hieroglyphi aegyptici egregiamente insculpti, lisso, et
quale speculo illustramente terso.
Nel
supremo fastigio dil quale, summa cum diligentia et arte
sopraposito resideva una stabilita basa di auricalco. Inella quale
ancora era una versatile machina, overo uno petaso, in uno stabile
perone, overo pollo superinfixa. El quale retinia una imagine de
Nympha elegante opera della recitata materia. Da convertire in
stupore chi acuratissimo, et cum obstinato intuito la considerava.
Cum tale et cusì fata proportione, che la se concedeva alla
communa statura nel aire perfectamente giù di vedere et più
oltra la magnitudine di essa statua era mirabile cosa considerare,
cum quanta temeritate, in tanta celsitudine subvecta, immo nel
aire cusì facta opera fusse reportata, cum el vestito volitante,
parte delle polpose sure manifestantise discoperte. Et due alle
aperte al suo interscapilio erano appacte, acto monstrante de
volato. La cui bellissima facia et propitio aspecto verso le ale
converso. Haveva poscia et sopra el comoso fronte le trece libere
volante, et la parte della Calva coppa, overo Cranea nudata et
quasi depilata. Le quale come protense erano verso al volare.
Nella dextera mano ad lo obiecto del suo guardare, de omni bene
stipata teniva una artificiosa copia, alla terra inversa. Et
l’altra mano poscia sopra dil suo nudato pecto stricta et
inserata teniva. Questa statua dunque ad qualunque aura flante,
facile gyravasi.
Cum
tale fremito dil trito dilla vacua machina metallina, che tale
nunquam dal romano aerario se udite. Et ove il figmento posava cum
pedi sopra la subiecta arula fricantise, che cusì facto tinnito
non risonava il Tintinabulo alle magnifiche Therme di Hadriano. Né
quello dille cinque Pyramide sopra il quadrato stante. Il quale
altissimo Obelisco minima fede ancora ad me non si lassa havere,
che un altro conformitate monstrasse, né similitudine. Non già
il Vaticanio. Non il Alexandrino. Non gli Babylonici. Teniva in sé
tanta cumulatione di miraveglia, che io di stupore insensato stava
alla sua consideratione. Et ultra molto più la immensitate
dill’opera, et lo excesso dilla subtigliecia dil opulente et
acutissimo ingiegnio, et dilla magna cura, et exquisita diligentia
dil Architecto. Cum quale temerario dunque invento di arte? Cum
quale virtute et humane forcie, et ordine, et incredibile impensa,
cum coelestae aemulatione tanto nell’aire tale pondo suggesto
riportare? Cum quale Ergate, et cum quale orbiculate Troclee, et
cum quale Capre, o Polispasio, et altre tractorie Machine, et
tramate Armature? Faci silentio quivi omni altra incredibile et
maxima structura.
b
Ritorniamo
dunque alla vastissima Pyramide, sotto la quale uno ingente et
solido Plintho, overo latastro, overo quadrato supposito iacea, di
quatordeci passi la sua altitudine, et nella extensione, overo
longitudine stadii sei. Il quale faceva il pedamento del infimo
grado dilla molosa Pyramide. Et questo solertemente arbitrava, che
d’altronde non fusse quivi conducto. Ma dil medesimo monte
exscalpto, da humane fatiche ad quella figura et Schema, et in
tanta mole redacto nel proprio loco. Il residuo degli gradi, di
frusti era compositamente facto. Il quale immenso quadrato cum le
collaterale montagne dil convalle, non se adheriva. Ma intercapedo
et separato era dal uno et l’altro lato dece passi, dalla
dextera parte, al mio andare, del praefato Plintho, nel mediano
del quale temeramente el vipereo capo della spaventevola Medusa,
era perfectamente coelato, in demonstratione furiale vociferante
et ringibondo. Cum gli ochii terrifichi, incavernati sotta gli
suppressi cilii, et cum la fronte rugata, et la bucca hiante
patora. La quale excavata cum uno recto calle cum el summo
involtato fina al centro penetrando, overo fin alla mediana linea
perpendiculare centricale del supremo Catillo della ostentifera
Pyramide, faceva amplissimo ingresso et adito. Alla quale apertura
de bucca, per gli sui involuti capigli se ascendeva, cum
inexcogitabile subtilitate dello intellecto, et arte, et impenso
cogitato dell’artifice expressi. Cum sì facta regula et
riductione, che alla patente bucca gli gradi scansili aptamente
facevano. Et in loco dele trece capreolate cum vivace et ingente
spire mirava stupente gli viperi et intortigliati serpi. Et
d’intorno la monstrifera testa, cum promptissimi vertigini
confusamente invilupantise. Diqué el volto et gli squammei serpi
rixanti, erano sì diffinitamente de lavoratura mentiti, che non
poco horrore et spavento m’incusseron. Negli ochii di quali
commodissimamente inclaustrati furono lucentissimi lapilli, in
tanto che si io certificato non era, marmoro essere la materia,
auso io non sarei stato sì facilmente approximarme. El
sopranarrato calle interscalpto nel fermo saxo, conducea, ove
erano le scale, cum flexuoso meato, nel centro per amfracti coclei
per la quale scandevasi all’altissima cima di essa Pyramide, in
la superficie del quadrato Catillo. Sopra el quale, era fundato lo
eminente Obelisco. Oltra de tutta questa praeclara et stupenda
opera certamente questo excellentissimo iudicai. Che le praefate
coclide, per tutto fusseron chiaramente illuminate. Imperoché lo
ingegnioso et acutissimo architecto alcuni Clepsiphoti meati, cum
grande et exquisitissima investigatione dello intellecto, havea
solertemente facto. Gli quali nell’aspecto del vagare del Sole,
ad tre parte dritamente corrispondevano. All’infima. Media. Et
supera. La infernate per gli
b
II
superiori
illuminarii. La supernate per gli catabassi era lucidata. Cum
alcune reflexione per gli oppositi, sufficientemente
elucificavano. Tanta fue la calculata regula della exquisita
dispositione dell’artificioso mathematico in le tre facie,
Orientale, Meridionale, et Occidentale, che da omni hora del dì,
la sinuosa scala era lucida et chiara. Gli quali spiracoli in
diversi locamenti, della grandissima Pyramide Symmetriatamente
erano diffiniti, et dispersamente distributi. Alla parte della
antedicta apertione de bucca deveni per un’altra solida et
directa scala saliendo, che al pedamento Areo del aedificio, verso
la parte dextera collaterale al monte delumbato era intro excavata
nel proprio saxo, ove era lo intervallo delli dieci passi. Per la
quale certamente più curioso forsa che licito non era, io montai.
Ove essendo pervenuto alla itione per la bucca alla scala, per
innumeri gradi, overo scalini, non sencia grave fatica et
vertigine del capo, sopra tanta inopinabile celsitudine
circungyrando finalmente salito. Gli ochii mei acconciamente al
piano non pativano riguardare. In tanto che omni cosa infera ad me
apparea imperfecta. Et per questo dal medio piano, partirme non
audeva. Et quivi in ambito del circulare et supremo exito, overo
fine della tortuosa scala et apertura, molti stipiti fusatili de
metallo erano in circuito politamente dispositi et infixi, la
interlocatione digli quali da centro ad centro, overo interstipio
dividendo pede uno, de altecia hemipasso. Cincti de sopra cum una
coronetta undulata sopra ambiente della dicta materia fusili, gli
quali circundavano et saepivano el labro della apertura, et hiato
dell’exito superiore della dicta scala, exclusa quella parte,
per la quale se usciva in la superficie, bene diciò arbitrando. A
ciò, che niuno meno cauto, nella apertione del sinuoso speco,
praecipitasse. Conciosia cosa,che la immoderata altecia,
vacillamento inducea. Sotto poscia della prona piana del Obelisco,
una tabella aenea era implumbata resupina, cum antiqua scriptura
de notule nostrate, de Graece et Arabe, per le quale pienamente io
compresi, al summo Sole quello dedicato. Et de tutta la maxima
structura ancora la commensuratione integramente annotato et
descripto. Et el nome dell’architecto sopra lo Obelisco in
graeco annotato.
ΛΙΧΑΣ
Ο ΛΙΒΥΚΟΣ ΛΙΘΟ_ΟΜΟΣ.
ΡΘΟΣΕΝ
ΜΕ.
LICHAS
LIBYCUS ARCHITECTUS
ME
EREXIT.
Ritorniamo
al praesente alla Meta, overo Tessella subiecta alla Pyramide, nel
fronte dilla quale, io mirai una elegante, et magnifica sculptura
di una crudele Gigantomachia, invida solum di vitale aura, de
miranda coelatura excellentemente insculpta. Cum sui movimenti, et
cum tanta promptitudine degli proceri corpi, quanto mai si
potrebbe narrare. Lo imitato aemulo della natura, tanto
propriamente expresso, che gli ochii inseme, cum li pedi
affaticando,violentavano, mo ad una parte, mo ad l’altra
avidamente discorrendo. Niente meno apparia negli vividi Caballi.
Alcuni prosternati, alcuni cespitando corruenti. Molti vulnerati
et percossi, indicavano la gratiosa vita efflare. Et malamente gli
calcei sopra gli caduchi corpi firmantise, furibondi et effreni.
Et gli Giganti proiecte le armature l’uno cum l’altro
strictamente amplexabondi. Tali cum gli pedi retinuti nella
subsolea traportati. Altri sotto gli corpi sui erano
soppressamente calcati. Et chi cum li caballi saucii
praecipitavano. Alcuni ad terra prostrati cum la parma resupini
protegentise pugnavano. Molti cum Parazonii cincti et cum balctei
ensati, et cum spathe antiquarie persice et multiplici instrumenti
de mortale figuramento. La più parte pediti, cum teli et clypei
confusamente pugnanti. Tali loricati, et galeati, cum variati
apici insigniti, et altri nudi cum vivace core insultare
indicando, intenti alla morte. Parte toracati, di varii et
nobilissimi ornamenti militari decorati. Molti cum effigiato
formidabile di exclamare. Alcuni di simulachro obstinato et
furiale. Quanti erano per morire, cum filamento aemulario dilla
natura, lo effecto exprimente, et altri defuncti, cum invise et
multiplice machine bellice et loetale. Manifestavano gli robusti
membri, et gli tuberati musculi, davano ad gli ochii de videre
l’officio degli ossi, et le cavature, ove gli duri nervi
trahevano. El quale conflicto et duello tanto spaventoso et
horribile apparia, che diresti esso cruento et armipotente Marte
ad essere per duello cum Porphyrione et Alcioneo, et la fuga, che
heberon dal rudito asinino videre nella memoria soccorse.
Queste
tutte imagine oltra la naturale proceritate et statura excedevano,
et di cataglypho la scalptura di illustrissimo marmoro
collustrabile et il piano intervacuo di nigerrima petra introducto
a venustate et gratia della albente petra, et a sublevamento dilla
statuaria operatura, perfectamente extavano.
Quivi
dunque erano infiniti proceri corpi, ultimi conati, intenti acti,
habiti toracali, et varia morte, cum ancipite victoria. Heu me gli
spiriti fessi, et lo intellecto per tanta assidua varietate
confuso, et gli sensi disordinati, non aptamente patiscono, non
solum il tutto narrare, ma parte cum integritate di così depolita
lithoglyphia exprimere non valeno.
Et
dove poscia naque tanta iactantia, et tanta ardente libidine di
coacervare coagmentando petre ad tanto congesto, cumulo, et
fastigio. Et cum quale Veha? cum quali Geruli? et Sarraco? cum
quali Rutuli violentato fusse tanta, et tale vastitate di saxi? Et
sopra quale fultura commessi et confederati? Et sopra quale aggere
di cementati rudimenti? Et di tanta immensitate dil altissimo
Obelisco, et dilla immensa Pyramide? Che giamai Dinocrates al
Magno Alexandro più iactabondo non proponi el
b
III
modulo
del suo altissimo concepto del monte Atho. Imperò che questa
amplissima structura sencia fallo excede la insolentia Aegyptica.
Supera gli meravigliosi labyrinthi. Lemno quiesca. Theatri sa
mutiscano, non si aequa el dignificato Mausoleo. Perché questo
certamente non fue inteso da colui, che gli septe miracoli, overo
spectacoli del mondo scripse. Né unque in alcuno saeculo, né
viso, né excogitato tale, silendo etiam el sepulchro mirabile di
Nino.
A
l’ultimo discretamente considerava, quale opposita et obstinata
resistentia di fornici sotto mai potesseno sostenire, né
supportare, et quale Hexagone, et tetragone Pile et quale nanitate
di columnamento potria fermamente supposito, tanta gravitudine et
intolerabile ponderatione tolerare? Per la quale discursione
ragionevolmente iudicai, overo che tutto solido et massiccio
ristato del monte fusse subdito, overo l’una compacta congerie
de glutinato cemento et glarea et di rude petratura. Per cusì
facta animadversione io explorai per l’ampia porta. Et vidi che
nel intimo era densa obscuritate et concavitate. La quale porta
inseme cum el mirando, et superbo aedificamento (cose digne di
aeterno monumento) cusì nel sequente como era egregiamente
disposita, sarae alquantulo descripta.
POLIPHILO
POSCIA CHE EGLI HAE NARRATO PARTE DELLA IMMENSA STRUCTURA, ET LA
VASTISSIMA PYRAMIDE, CUM EL MIRANDO OBELISCO NEL SEQUENTE CAPITULO
DESCRIVE MAGNE ET MIRAVEGLIOSE OPERE, ET PRAECIPUAMENTE DE UNO
CABALLO, DE UNO IACENTE COLOSSO, DE UNO ELEPHANTO, MA
PRAECIPUAMENTE DE UNA ELEGANTISSIMA PORTA.
|
QUI
POLIFILO NARRA CHE GLI SEMBRÒ DI DORMIRE NUOVAMENTE E DI TROVARSI
SEMPRE SOGNANDO IN UNA VALLE, CINTA SUL FONDO DA UNA AMMIREVOLE
CHIUSURA FATTA DA UNA PORTENTOSA PIRAMIDE DEGNA D’AMMIRAZIONE E
SORMONTATA DA UN ALTISSIMO OBELISCO. CON PIACERE ED ATTENZIONE IL
TUTTO VIENE COMPIUTAMENTE ESAMINATO.
Sfuggito
all’inquietante selva e alla fitta boscaglia, abbandonati gli
altri luoghi visitati in precedenza, con le membra stanche ed
affaticate per il dolce sonno che vi si era diffuso, mi ritrovai
di nuovo in un luogo ben più gradevole del precedente. Questo non
era né cinto da monti inaccessibili, né attorniato da rupi
scoscese e nemmeno solcato da impervie giogaie. Aveva viceversa
dolci colline di modesta altitudine, coperte da mantelli di
giovani Querce, Roveri, Frassini, Carpini, Ischi frondosi e Lecci,
teneri Noccioli, Ontani, Tigli, Aceri, sterili Oleastri disposti
secondo l’andamento dei lussureggianti colli. E in basso, nella
valle, vi erano gradevoli boschetti di altre essenze selvatiche,
di opime ginestre, di numerose erbe verdissime, tra le quali qui
vidi il Citiso, la Carice, la Cerinta comune, la Panachia
muscaria, il Ranuncolo fiorito, il Cervicello, anche detto Elafio
[affine
all’Angelica, ma privo di profumo],
la Serratula, e ancora altre essenze veramente pregevoli come pure
vidi sempre sparse nei prati altre erbe semplici ed sconosciute.
Questa florida terra abbondantemente coperta di verde si offriva
agli occhi con letizia. Dopo poco, più avanti, m’imbattei una
spiaggia sabbiosa e piena di ghiaia, con radi cespugli erbosi. Qui
mi trovai davanti ad un grazioso palmeto, dal dolcissimo frutto
fecondo ed abbondante e le cui foglie a forma di coltello
acuminato tanto giovano agli Egizi. Le palme, dalle quali pendono
i grappoli di datteri, sono modeste e umili alcune, altre dritte e
svettanti e, poiché resistono persino a grandi carichi, furono
scelte come vessillo di vittoria. Sempre in questo luogo, non
m’imbattei né in abitanti né alcun animale. Tuttavia,
camminando in solitudine tra le palme disposte ad intervalli,
distanziate l’una all’altra, ragionavo di Rachelaide,
Phaselide e Libyade [di
«Archelaide
et Phaselide atque Liviade »
argomenta
Plinio seniore (Nat. Hist., XIII - 44), alludendo al liquore dolce
estratto dalla Palma Archelaide; il riferimento è altresì
presente in Leon Battista Alberti (De Re Aed., II,16),nella
mediazione di Teofrasto (Hist. Plant.,V, 7)],
non essendoci forza comparabile a queste. All’improvviso, da
destra, mi apparve un affamato e carnivoro lupo, con la bocca
piena. Al suo apparire mi si drizzarono i capelli sulla testa e,
malgrado volessi gridare per lo spavento, rimasi muto. La fiera
fuggì immediatamente. Così io, volgendomi laddove i boscosi
colli sembrano unirsi, ritornai pienamente in me. In lontananza
scorgo allora una torre, una torre d’avvistamento di
ragguardevole altezza e di imponente aspetto, presso un grande
edificio che, sebbene non sia ancora completamente visibile,
appare opera e struttura antiquaria. Verso questo edificio si
vedevano innalzarsi sempre di più i graziosi monticelli della
convalle, che apparivano uniti alla pregevole fabbrica da
un’intercapedine, ostruendo il passaggio tra l’uno e l’altro.
Ritenendo intuitivamente ciò assai interessante, lì mi diressi
senza frapporre indugi, avido di sapere. E quanto più mi andavo
approssimando a quella, tanto più la scoprivo opera imponente ed
ammirevole, e nel rimirarla il desiderio si ingigantiva. Poiché
non appariva più un sublime luogo elevato, ma, viceversa, un alto
obelisco collocato sopra un imponente basamento in pietra. La sua
altezza superava senza eguali l’altezza dei monti limitrofi,
anche fossero stati il celebre Olimpo, Caucaso, Cilleno. Giunto in
questo luogo solitario, animato da un piacere impensabile, sostai
tranquillamente ad ammirare con agio tanta audacia costruttiva e
una così ammirevole monumentalità, rimirando e analizzando
l’intera solidità ed imponenza di questo frammentario e diruto
edificio in bianco marmo pario. I blocchi di marmo quadrati e
quadrangolari, sia levigati sia rifinitamente scalettati nei
margini, posti in filari isodomi, sono collocati senza legante di
cemento che meglio non si potrebbe, tant’è che tra i giunti,
ovvero tra le commessure, non potrebbe incunearsi alcunché di
sottile o acuminato. Qui dunque trovai tante pregevoli colonne di
ogni forma, disegno e materiale, che di più non sarebbe stato
auspicabile; in parte erano mutile, in parte collocate nel sito
originario, in parte integre, con gli epistili e i capitelli di
elaborato disegno e raffinata fattura; cornici, rilievi zoofori,
fregi, travi arcuate e statue mutile per gravi fratture, con le
parti tronche. E, ancora, bacini, e conche, e vasi di marmo
numidico [giallo
antico],
di porfirite e di altre varietà di marmi e di forme. E ancora
grandi lavatoii, acquedotti, e altri frammenti, quasi infiniti per
numero, alcuni di nobile fattura, altri dei quali invece non si
può ipotizzare l’originaria forma, ridotti come sono ormai allo
stato di materiale grezzo, ora caduti a terra e dispersi. Numerosi
cespugli selvatici erano germogliati sopra le incolte rovine e tra
queste; e principalmente l’Anagiro, che agita i baccelli a forma
di fagiolo, le due specie di Lentisco, l’Unghia dell’orso
[Allium
ursinum],
il Cinocefalo [erba
simile alla testa canina],
la Spada fetida [Spanila
fetida],
lo scabro Smilace [albero
ghiandifero],
la Centuarea, e molte altre essenze germinate tra le rovine. E tra
le fenditure dei muri attecchiscono molte Aizoaceae,
il rampicante
ciombolino
comune [Cymbalaria
muralis]
roveti di ciliegio selvatico [prunus];
tra questi strisciavano alcuni ramarri e si arrampicavano anche
sui muri infestati dalle piante, provocandomi a più riprese, in
quei luoghi solitari e silenzioso, dove tutto era sospeso, non
poco orrore. Ovunque giacevano grandi pezzi circolari di Ofite
[pietra
serpentina verde],
di Porfirite,e di color coralitico [marmo
palombino]e
di altre gradevoli cromie, frammenti variamente istoriati,
rifiniti con panglifi ed emiglifi, raffinatamente decorati o
semilavorati, così mostrando senza tema ai nostri tempi la sua
eccellenza, a conferma che di tanta maestria oggi si è persa la
perfezione. Dunque, nel mentre mi avvicinavo al centro di una così
imponente e ammirevole opera, io scorsi un imponente e mirabile
portale ben conservato e messo in proporzione rispetto all’intero
edificio, che era una costruzione unitaria, posta tra i fianchi
dei monti e si poteva ipotizzare che le sue misure fossero di
venti passi e sei stadii. L’altezza dei monti era ugualmente e
perfettamente perpendicolare per entrambi dalla cima fino al
suolo. Ammirando ciò mi domandai con quali attrezzi in ferro,
con quanto lavoro di manovalanza, con quale numero di operai fosse
stata mai realizzata una così imponente opera ideata con indubbia
forza e quanto tempo avesse richiesto la sua ultimazione. In
questo punto, dunque, tale ammirevole fabbrica si congiungeva
all’uno e all’altro monte con uno studiato accorgimento, che
sembrava chiudere la valle all’orizzonte, al punto che nessuno
avrebbe trovato via d’uscita o sarebbe potuto tornare indietro
o andare avanti attraverso questa porta aperta. Al di sopra di
tale imponente opera architettonica, che per altezza dalla cima, o
sommità, al pavimento si poteva ipotizzare con facilità
misurasse un quinto di stadio, era collocata una grandiosa
Piramide, coronata da un fastigio adamantino; conclusi,
ovviamente, che una tale costruzione così inusitata non potesse
essere stata progettata e realizzata se non grazie ad un’ingente
spesa, nonché al notevole impiego di manodopera. Di conseguenza,
davanti alla sua straordinarietà che superava ogni limite,
ritenevo che la si potesse soltanto ammirare, benché
l’ammirazione avrebbe affaticato la vista e fiaccato gli altri
sensi spirituali. Che altro dire di più ? Benché soltanto in
parte, per quanto potrà comprendere il mio intelletto, così
brevemente ora mi accingo a descriverla. Ciascun lato dello
zoccolo quadrangolare sul quale poggia la scalinata che conduce
all’ammirevole Piramide, posta all’apice di tale costruzione,
misura in lunghezza sei stadii, che moltiplicati per ognuno dei
quattro lati dello zoccolo equilatero ammonta a ventiquattro
stadii. Tirando poi le linee dai quattro angoli in altezza, tanto
quanto ogni angolo dista in lunghezza dall’altro, tutte e
quattro le suddette linee incontrandosi al vertice costituivano
una perfetta figura piramidale. La parte di linea perpendicolare
mediana si sopraelevava dal punto di incontro delle diagonali del
plinto e in essa confluivano le cinque direttrici ascendenti. La
maestosa e imponente Piramide ,pari al diamante, con ammirevole e
raffinata simmetria si ergeva con gradualità, attraverso 1410
gradini, scalini ormai privi di rivestimento. Gli ultimi dieci
gradini si restringevano adattandosi all’assottigliarsi della
struttura. Su questi era poggiato e fissato un meraviglioso Cubo
dello stesso marmo Pario dei gradini, compatto, stabile e
straordinario per mole, il che rendeva inspiegabile come fosse
stato possibile collocarlo a quell’altezza. Io devo ora
descrivere il già citato zoccolo quadrato e la base culla quale
si imposta l’obelisco.
Questo
smisurato blocco, che simile non fu tagliato e asportato da
Diomede figlio di Tideo, presentava in basso una delle sei facce,
due all’esterno e un’altra sul lato sommitale, coprendo la
parte superiore con un diametro di quattro piedi. Agli angoli
della stessa spiccavano quattro zampe di Arpia con le piume e gli
artigli ungulati fusi in metallo, infisse e saldamente piombate
agli estremi del monumentale blocco, sopra il punto di confluenza
delle diagonali; la loro grandezza era proporzionata e misurava in
altezza due passi. Le quattro zampe di Arpia di raffinata fattura
si univano, coronando la parte finale con un monumentale Obelisco.
Fiori e frutta di acconcia grandezza vi erano forgiati con
ammirevole lavorazione; al di sopra insisteva l’Obelisco
saldamente sovrapposto. La sua ampiezza era di due passi e tanto
ragguardevole l’altezza di sette passi; era intagliato con
perizia in Granito rosso di Tebe [pietra
tebaica]
e sulla sua superficie levigata e brillante come uno specchio
assai luminoso erano incisi con maestria Geroglifici egizi.
Sulla
punta dell’Obelisco con grande arte e perizia era stata
collocata una base di oricalco [rame
della montagna, ovvero lega di rame e zinco],
sopra la quale era posto un duttile marchingegno, vale a dire una
cupoletta fissata ad un saldo cavicchio, ovvero bloccata dal
cardine, che sosteneva la statua di una fanciulla, una raffinata
scultura del già citato materiale, tale da suscitare meraviglia
in quanti attentissimi la rimirassero con sguardo insistito,
poiché le proporzioni erano tali che sembrava fosse dell’altezza
di una persona normale, sebbene vista tanto dal basso. E più
della grandezza monumentale della statua era degno di ammirazione
immaginare quanta audacia avesse permesso di trasportare una sì
fatta opera a tale altitudine e di collocarla tanto in cima, con
le vesti mosse dal vento, con parte delle tornite membra scoperte
e con le due ali aperte applicate tra le scapole, in atto di
spiccare il volo. Il bellissimo viso e il florido corpo volgevano
verso le ali. Sopra la fronte chiomata aveva le trecce mosse dal
vento, protese in avanti, mentre una parte della testa era calva,
presentando il cranio nudo e quasi depilato. Nella sua mano destra
recava una ben lavorata cornucopia, volta verso la terra e ricca
di ogni bene, mentre teneva l’altra mano chiusa e serrata sopra
il seno nudo.
Dunque
questa statua si muoveva con agio ad ogni refolo di vento; allora
dallo strofinio dell’aerea macchina in metallo si udiva un
tintinnio che non se ne percepì mai simile nemmeno nell’Erario
romano. E quando la statua si posava con i piedi sopra la
sottostante base sottoposta a frizione, di un simile tintinnio non
risuonava nemmeno il Tintinnabulo delle magnifiche Terme di
Adriano né quello delle cinque Piramidi sopra il quadrato.
Questo altissimo Obelisco a mio giudizio era tale che nessun
altro potesse essergli paragonato, ma, eventualmente, stimato
inferiore; non già il Vaticano, non l’Alessandrino, né gli
Obelischi babilonesi. Suscitava tale e tanta meraviglia, che io la
rimiravo inebetito di stupore ancor di più per la grandezza
dell’opera, per la straordinaria abilità della sontuosa e
raffinatissima invenzione, nonché della notevole accuratezza e
della ricercata diligenza dell’Architetto.
Dunque
con quale audace progetto è stata realizzata? Con quale virtù,
con quali forze umane, con quanta inestimabile spesa, con quale
emulazione degli dei è stato portato questo pesante basamento
verso l’alto? Con quali argani, e con quali tondeggianti
carrucole, con quali sostegni, o gru, o altri macchinari da
trazione o rinforzate centine? Rimango in silenzio davanti a tale
inaudita e grandiosa struttura rispetto ad ogni altra.
b
Torniamo
dunque all’imponente Piramide, sotto la quale era un imponente e
stabile Plinto, o sostruzione, o base quadrata, alto quattordici
piedi e largo sei stadii, sul quale insisteva la parte più bassa
della maestosa Piramide; anche di questo subito mi chiesi come
fosse stato condotto lì ed estratto dallo stesso monte, con
laboriosità secondo lo stesso disegno e progetto e nella sua
ingente mole collocato al punto giusto. I rimanenti gradini erano
composti da frammenti. Questo immenso quadrato non si univa alle
montagne vicine, ma dall’uno e dall’altro monte distava dieci passi.
Alla
mia destra, nel mezzo del Plinto, era arditamente nascosto il
capo anguiforme dell’orrorifica Medusa, nell’atto di urlare e
minacciare, con gli occhi spaventosi incavati nelle orbite
sopraccigliari, con la fronte corrugata e la bocca spalancata.
Questa
fungeva da amplissima entrata ed ingresso; di lì partiva un
dritto corridoio, che, inoltrandosi verso l’alto, conduceva al
centro della fabbrica, vale a dire fino all’apice dell’asse
mediano perpendicolare della parte superiore della prodigiosa
Piramide.
Dall’apertura
della bocca, si saliva a mo’ di scala coclide attraverso i suoi
attorcigliati capelli, grazie all’impensabile acutezza, alla
perizia, all’inusitato progetto del suo artefice. Con maestria e
abilità, infatti, dalla bocca spalancata comodamente partivano i
gradini e tra le trecce attorcigliate con movimentati e voluminosi
riccioli osservavo ammirato le vipere e le aggrovigliate serpi che
si avviluppavano tutt’attorno alla mostruosa testa con
straordinari vortici. Dacché il volto e i guizzanti serpenti
squamosi, così abilmente lavorati, mi ingenerarono non poco
orrore e spavento. Nei loro occhi erano state magistralmente
incastonate pietre luminosissime, al punto che se non avessi
saputo che si trattava di marmo, non avrei potuto facilmente osare
alcuna ipotesi.
Il
corridoio scavato nel solido sasso –del quale già si è detto-
conduceva alle scale; da qui, con un flessuoso movimento, si
saliva verso il centro attraverso la scala coclide fino all’apice
della Piramide, alla parte superiore del blocco quadrato sul quale
si impostava l’insigne Obelisco.
Dell’intera
straordinaria e meravigliosa opera, proprio questo Obelisco ebbi a
giudicare eccellentissimo poiché la scala coclide era in tutto
uniformemente illuminata e l’ingegnoso nonché abilissimo
architetto, prontamente, con notevolissima e raffinata invenzione,
aveva progettato delle aperture nascoste dalle quali filtrava la
luce, collocate in relazione ai movimenti solari e corrispondenti
a tre parti, una sita più in basso, una al centro, una in alto.
b
II
Con
un gioco di luci chiastico, dall’apertura inferiore si
illuminava la parte alta, mentre dall’apertura superiore si
rischiarava il basso. Fu a tal punto accorto il calcolo del
virtuoso architetto nel realizzare questa raffinata disposizione
che ad ogni ora del giorno la scala coclide era illuminata e
visibile dai tre lati, tanto ad Oriente che a Meridione e a
Occidente. Queste aperture erano collocate in diversi punti della
monumentale Piramide, simmetricamente disegnate e variamente
poste.
Dal
lato destro rispetto all’adito a forma di bocca spalancata, del
quale già parlai, vicino al fianco del monte che dista dieci
passi, vinto dalla curiosità, sebbene forse non sarebbe stato
lecito, salii alla terrazza dell’edificio attraverso un’altra
solida e diritta scala scavata nella propria pietra. Alla fine
giunsi a tanta inenarrabile altezza non senza ingente fatica e
vertigini, girando tutt’intorno alla scala dagli innumerevoli
gradini, dopo aver oltrepassato la bocca spalancata. La mia vista
non riusciva ad accomodarsi alle nuove misure e ogni cosa in basso
mi sembrava sproporzionata; perciò non osavo riprendere la
salita. Qui, nella piattaforma circolare superiore, dove terminava
la tortuosa scala immettendo all’aperto, numerosi pilastri di
metallo erano fissati e disposti con andamento circolare; lo
spazio dell’intercolumnio, da centro a centro, aveva un’altezza
di mezzo passo. Decorati in alto da una cornice ondulata
metallica, circondavano e recingevano i bordi dell’apertura e lo
spazio dello sbocco superiore della stessa scala, attraverso la
quale acconciatamente si usciva in superficie, evitando in tal
modo che qualche incauto precipitasse al termine della tortuosa
scala, dal momento che la ragguardevole altezza avrebbe potuto
indurre la vertigine. Sotto la base dell’ Obelisco era saldata
sul pavimento una tavola bronzea in scrittura latina, greca e
araba per cui io compresi con chiarezza che l’Obelisco era
dedicato al Sole; inoltre tutta la maestosa struttura e le sue
misure erano integralmente annotate e descritte, così pure il
nome dell’ architetto, inciso sopra l’Obelisco in lettere
greche.
MI
COSTRUI’ LICA LIBICO ARCHITETTO
Torniamo
ora al presente, alla Meta o Tavola sottostante alla Piramide, sul
fronte di facciata della quale ammirai l’elegante e magnifico
rilievo di una crudele Gigantomachia, mancante soltanto di soffio
vitale, ammirevole per essere stata eccellentemente scolpita e
cesellata, con i suoi movimenti e con tanta agilità degli
atletici corpi che non è possibile narrarlo.
Tale
imitazione della natura era così appropriatamente manifesta, come
se i loro occhi si muovessero insieme ai corpi, correndo senza
requie da una parte all’altra, e insieme s’andavano
affaticando e pativano.
Non
da meno erano i vigorosi cavalli. Alcuni erano raffigurati a
terra, altri mentre inciampavano durante la corsa; molti feriti e
battuti, sul punto di esalare l’ultimo prezioso respiro; con
tracotanza i piedi infierivano, furibondi e sfrenati, sugli inermi
corpi atterrati. E ancora i Giganti, gettate le armi, si
avvinghiavano fortemente l’un l’altro; taluni venivano
trasportati negli Inferi a piedi legati, altri erano schiacciati
sotto cataste di corpi, alcuni, prostrati al suolo, combattevano
atterrati, riparandosi con la parma [scudo
piccolo e rotondo];
molti con i cinturoni ai fianchi, con i baltei per i gladii, con
antiche spade persiane e svariate armi per il duello mortale. La
maggior parte combatteva disordinatamente al modo della fanteria,
con giavellotti e clipei [scudi
rotondi della fanteria romana];
taluni si fronteggiavano, indossando le loriche e gli elmi
variamente decorati, ancora altri nudi si gettavano nella mischia
con indicibile coraggio, pronti alla morte. Un gruppo aveva le
corazze insignite di molteplici e valorosissimi distintivi
militari; molti erano mirabilmente effigiati nell’atto di
gridare, alcuni in atteggiamento ostinato e furioso. Con forme
pari alla natura si rappresentava l’agonia di quanti erano in
punto di morte e di quanti erano deceduti a causa delle numerose e
letali macchine belliche dei nemici. Le robuste membra, i muscoli
prominenti si mostravano, offrendo alla vista il nocumento delle
ossa e le cavità dalle quali si estendevano i resistenti tendini.
Questi scontri, questi duelli apparivano a tal punto violenti e
sanguinosi che avresti creduto il cruento e invincibile Marte
stesse combattendo contro Porfirione e Alcioneo, facendo tornare
alla mente quando fuggirono spaventati dal raglio dell’asino.
Nell’intera Gigantomachia ogni immagine superava le naturali
proporzioni; la scultura di luminosissimo e nitido marmo del
rilievo e il piano mediano di pietra nerissima, raffinato e
gradevole contrapposto alla bianca pietra, sul quale insisteva
l’opera statuaria, aggettavano perfettamente.
Qui
dunque c’erano immensi e giganteschi corpi, mentre tentavano gli
ultimi sforzi e movimenti per un’improbabile vittoria, ancora
indossando la corazza o, diversamente, ormai in punto di morte.
Oimè l’animo fiaccato, l’intelletto smarrito a causa di una
così ingente ininterrotta varietà, i sensi sconquassati non
soltanto non sostengono adeguatamente tutta la narrazione, ma
nemmeno sono atti ad esprimere con interezza una parte di tanto
levigato rilievo marmoreo. E da dove scaturì tanta audacia, tanta
insistita determinazione ad accumulare e a congiungere pietre in
tanto ammasso, culmine, fastigio? Con quali mezzi? Con quali
portatori? E carri? E quali Rutuli cavarono tanta vastità di
materiali? E sopra quale terrapieno furono allettati e giunti l’un
l’altro? E sopra quale sostruzione cementizia? E cosa dire della
straordinaria immensità dell’altissimo Obelisco e
dell’imponente Piramide, che nemmeno il più vanesio Dinocrate
mai propose ad Alessandro
b
III
mentre
progettava avendo a modello l’altissimo Monte Athos?
Perciò
questa immensa struttura supera senza dubbio alcuno l’ardita
inventiva egizia, gli straordinari labirinti; tace Lemno, si
ammutoliscono i teatri, si oltrepassa il significato di mausoleo,
perché si certo questa fabbrica non era nota a colui che
descrisse le sette meraviglie del mondo. Né si ritrova qualcosa
di simile in alcun secolo, sguardo, progetto, riducendo al
silenzio anche la mirabile tomba di Nino.
In
ultimo mi domandavo pensosamente quanto contrapposto e gravoso
peso potessero sostenere e sopportare i fornici, quali pilastri
esagoni o tetragoni e quale numero di colonne, saldamente
collocate sullo stilobate, fosse in grado di sorreggere un carico
tanto ingente e pesante. Di conseguenza conclusi ragionevolmente
che al di sotto ci fosse la parte solida e compatta del restante
monte o che fosse stata realizzata una sostruzione coesa di malta
cementizia, ghiaia e scaglie di pietrisco. Spinto da tanta
curiosità, ripresi la mia investigazione attraversando l’ampia
porta, che all’interno era una concavità densa d’ombra.
Questa porta, insieme all’ammirevole superba fabbrica, entrambe
degne di eterna memoria, era mirabilmente costruita nel modo che
compiutamente sarà descritto in seguito.
POLIFILO,
DOPO AVER ILLUSTRATO PARTE DELL’IMMENSA STRUTTURA E L’ALTISSIMA
PIRAMIDE, CON LO STRAORDINARIO OBELISCO, NEL CAPITOLO SEGUENTE
DESCRIVE GRANDI E MERAVIGLIOSE OPERE, PARTICOLARMENTE UN CAVALLO,
UN COLOSSO A TERRA GIACENTE, UN ELEFANTE E SOPRATTUTTO
UN’ELEGANTISSIMA PORTA.
|
Il
labirintico viluppo della narrazione onirica di Polifilo –
Francesco Colonna offre al lettore un ricco e variegato itinerario
fatto di citazioni antiquarie monumentali, di rimandi allegorici
sostanziati sull’antico, valore assoluto e paradigma di perfezione
,come
si evince dalla prefazione: «Lector
si tu desideri intendere brevemente quello che in quest’opera se
contiene, sapi che Poliphilo narra havere in somno visto mirande
cose, la quale opera ello per vocabulo graeco la chiama pugna d’amor
in somno. Ove lui finge havere visto molte cose antiquarie digne di
memoria, et tutto quello lui dice havere visto di puncto in puncto et
per proprii vocabuli ello descrive cum elegante stilo, Pyramide,
Obelisci, Ruine maxime di edificii. »
L’Hypnerotomachia
Poliphili
diventa così anche la redazione di un Itinerario
di viaggio, sia pure un viaggio con riverberi danteschi, benché
nella dimensione del sogno, intesa quale variante, nell’ambito
retorico di tradizione classica, medievale e umanistica,
dell’orazione epidittica, composta secondo i dettami di un genere
celebrativo basato sulla descrizione e, in un momento immediatamente
successivo, sulla riflessione: il tutto connotato da evidenti
finalità didattiche .
In questa declinazione, il sogno si coniuga alla visio,
pervenendo ad una prospettiva escatologica velata da evidenti
riverberi mistici, nella quale la descrizione dei paesaggi e delle
architetture, propedeutica alla meditazione, procede e trae
legittimazione da un pregresso canonico, il Somnium
Scipionis di
Cicerone, fondato sul τόποσ
della geografia. Frammento del VI Libro di De
Republica, il
solenne e arcaizzante trattato politico-filosofico ciceroniano
termina proprio con una visione onirica nella quale appare il mondo
visto dall’alto, secondo modalità che rammentano le vedute a volo
d’uccello della chorographia,
la carta territoriale .
I
luoghi sono presentati da lontano, in un percorso di evocazione
mnemonica a fini meditativi ;
nelle descrizioni, connotate da frequenti εκφράσεισ
sentimenti e pensieri si proiettano così attraverso rimandi precisi
e puntuali a luoghi e paesaggi, componendo delle vere e proprie
mappe mentali, che mettono in risalto determinati elementi
dell’ambiente, soggettivamente percepiti,vale a dire loci
mnemonici
.
La descriptio,
nell’economia narrativa del Polifilo,
non si risolve nel contemplare un luogo naturale, un monumento o
un’opera d’arte come un puro atto visivo, rischiosamente
autoreferenziale, ma intercetta il suo significato più profondo nel
saper trasformare l’immagine sensibile in processo conoscitivo e in
esperienza etica, attingendo a modelli linguistici e retorici che
costituiscono una vera e propria topica,
un repertorio informativo e formativo da trasmettere per educare le
nuove generazioni, fatto precipuamente di prudentia,
scentia, virtus e
mores.
L’occorrenza
di verbi ricadenti nell’area semantica del vedere
e ricordare,
tra loro in costante rapporto chiastico, dichiarano in tutta evidenza
la finalità didattica della visione, funzionale allo strutturarsi di
un saldo orizzonte epistemologico e all’individuazione di modelli
comportamentali. Il contesto monumentale diventa metafora
comunicativa e la sua ricezione risponde alla necessità di farne
veicolo per acquisire una più salda identità personale e collettiva
e le immagini, in ragione della loro carica emotiva, si imprimono
nella mente del lettore, trasmettendo la flagrante presenza di un
mondo antico e del suo sapere, dacché la visione della «structura
antiquaria »
e delle testimonianze antiche, cariche di memorie straordinarie, sono
infatti intese quali veicoli di un sapere ermetico che affonda le sue
radici in un remoto passato .
Le
proposizioni principali sono frequentemente collegate dal
polisindeto; un escamotage
attraverso
il quale le cadenze della narrazione sembrano seguire il ritmo del
viaggio, fatto anche di allontanamenti dalla meta che servono però a
familiarizzare meglio con l’ambiente circostante. Allora spazio
fisico, contesto paesaggistico (rievocato con dovizia enciclopedica
di sapore alessandrino), itinerario architettonico si caricano di
significati diversi, spesso marcatamente simbolici, laddove lo studio
dei monumenti e delle testimonianze della romanità diventano il
tramite di un progressivo riappropriarsi del mondo antico che non è
astratto referente, ma viene intimamente sentito. E’ il caso dello
«iocundissimo
Palmeto »,
con tutti i suoi interrelati
rimandi iconologici,compiutamente indagati da Maurizio Calvesi e, in
tempi più recenti, da Alessia Ferraro .
Polifilo,
dopo aver affrontato varie e drammatiche traversie –
l’attraversamento di un’intricata, labirintica, oscura selva (eco
dantesca a rimarcare le affinità con la Commedia
e pendant
del
groviglio di cunicoli dell’antica Praeneste
sotterranea) ,
l’improvviso ingrossarsi di un torrente che diventa un fiume
impetuoso, in un artificio retorico impregnato di sublime
veterotestamentario ,
come pure l’inutile inseguimento di un dolcissimo ma inquietante
canto, l’apparizione di un famelico lupo, crocevia di riverberi
mitologici e letterari
– giunge in un «delectabile
sito ».
Le osservazioni naturalistiche riportano per essenze
arboree e floreali, nonché per ambito paesaggistico alla Campagna
romana,
al Latium
Vetus
ove le consolari Appia e Prenestina disegnano un ideale triangolo
all’interno del quale la Via Labicana, la Via Casilina e la Via
Tuscolana indicano ulteriori percorsi in un’area dalla morfologia
particolarissima e dall’orografia spiccatamente eterogenea, che,
molto recente sotto il profilo geologico, si traduce in un'ampia
varietà di rocce. Qui, verso l’interno, i Monti Prenestini, di
natura calcarea, e le colline a questi limitrofe, caratterizzate
dalla morfologia terrazzata, cingono uno spazio fertile e
lussureggiante, connotato da un’enciclopedica rassegna di essenze
arboree, quali lecci, platani, querce, noci, pini e cipressi, mentre,
nell’area tuscolana, il Vulcano Laziale, conosciuto anche come
Tuscolano – Artemisio, e i Colli Albani, sempre di origine
vulcanica, guidano lo sguardo verso il mare; nel fondo valle e sui
terrazzamenti le coltivazioni a vite si alternano agli uliveti.
La
prospettiva si dilata verso la linea dell’orizzonte, tra catene
montuose da un lato e il litorale dalla parte opposta, in un rapido
susseguirsi di zone boschive e pianori tufacei, valli e pianure
coltivate, ambienti segnati da ampie varietà litologiche, laghi di
derivazione vulcanica .
In
questa cornice unica, scelta come sede privilegiata di villae
otium,
nella quale armonicamente la storia si intreccia da sempre al
paesaggio, Praeneste
sul Monte Ginestro, legata alla devozione a Fortuna Primigenia,
assieme Tusculum,
luogo ciceroniano per antonomasia, nei pressi di Monte Cavo, e sede
di una delle ville del Retore romano, cornice delle cinque dispute di
filosofia morale discusse nelle Tuscolanae
Disputationes,
domina fisicamente e culturalmente lo spazio che fu dei prisci
Latini,
proprio in ragione del loro passato e della peculiarità ambientale,
derivata in
primis,
come si è già detto, dall’origine vulcanica di un'area
formatasi a ridosso dei rilievi calcarei.
Agli
occhi di Polifilo, in una cornice paesaggistica di evidente
suggestione, si mostra in lontananza una grande fabbrica in marmo
Pario; sul fronte di facciata di questo tempio si apre una porta e
sulla destra si intravvede una scala; si scorgono un colonnato,
frammenti di colonne sulla piazza antistante alla piazza e ad altri
lacerti in marmi vari, considerati con grande attenzione.
Sulla parte intermedia dell’edificio insiste un alto basamento, sul
quale si imposta una monumentale Piramide, che consta di 1410 gradini
ed è ornata da una vivida Gigantomachia; al suo interno la Piramide,
che rimanda ai terrazzamenti e alla cavea del Santuario di Fortuna ,
presenta una scala coclide ,
alla quale si accede attraverso un corridoio preceduto da una porta
in forma di bocca spalancata di Medusa .
Al culmine della piramide troneggia un immenso Obelisco sostenuto da
un plinto in forma di bronzee zampe di arpia; in prossimità del
pyramidion
si erge una macchina aerea che reca l’effigie di Fortuna, conforme
all’iconografia tradizionale.
La pregevole xilografia riproduce con dovizia i particolari della
narrazione, consentendo i confronti incrociati con il Santuario di
Fortuna a Praeneste.
Il
brano è intessuto di osservazioni ricche di rimandi significativi,
tanto per pregnanza simbolica quanto per aderenza al contesto
prenestino. Allorché il tintinnio della macchina aerea di Fortuna è
confrontato al rumore percepibile nell’Erario di Roma, non si può
non ricordare che nel Foro intramuraneo di Praeneste,
laddove si trovavano il monumento a Verrio Flacco, il cosiddetto
Antro delle Sorti e l’Aula absidata, allora pavimentata con il
celeberrimo Mosaico Nilotico, era collocato anche l’Erario
pubblico.
Così come l’Obelisco, pregno di molteplici significati, riconduce
ad un tratto precipuo della cultura dell’antica Praeneste,
nella quale, all’interno del complesso ed interrelato quadro del
sincretismo artistico – religioso, esercita un ruolo portante la
cultura egizia. Di recente nel Museo locale sono stati collocati due
frammenti (uno di cm. 65,5 di altezza per cm. 39,5 di larghezza,
l’altro di cm. 44 per cm. 35, già conservati nei Magazzini del
Museo) dell’Obelisco in granito rosso di Assuan (e di marmo
tebaico
è l’obelisco descritto da Polifilo) rinvenuto nel 1881 durante gli
scavi nell’area del Foro intramuraneo, nei pressi dell’Aula
Absidata. Si tratta di due frammenti che vanno collegati alle altre
quattro parti, tutte contornate da una bordura a doppia linea,
riportate alla luce nel 1791 sempre a Praeneste,
in un luogo però imprecisato, dapprima confluite nella Collezione
Borgia di Velletri, quindi, restaurate e ricomposte unitariamente, al
Museo Archeologico di Napoli, dopo essere state acquistate da
Ferdinando IV per la sezione egizia del Real Museo Borbonico,
inaugurata nel 1821. L’Obelisco è dedicato da un Titus Sextus
Africanus della tribù Vuturia, per la cui identificazione varie sono
le ipotesi: forse un legato di Cesare, un Frater
Arvalis
al tempo di Claudio o, ancora, un console suffeto al tempo di Nerone
o un altro all’epoca di Traiano.
La
presenza egizia assume così un valore emblematico, come si evince
anche nella statua colossale in marmo bigio, il marmo egizio per
eccellenza, e marmo bianco per le parti nude e per il volto, di
Isityche,
Iside–Fortuna, realizzata alla fine del II secolo a. C.
presumibilmente in ambiente rodio, un tempo collocata tra il
cosiddetto Antro delle Sorti e l’Aula Absidata, oggi conservata
nella Sala I del Museo Archeologico Prenestino.
L’Obelisco
del Foro intramuraneo, la statua di Isityche,
segno tangibile dell’identificazione tra Isis
egizia e Fortuna Primigenia che procede già dal II secolo a. C.,
sottolineano il precoce sincretismo che accosta i due mondi
culturali, ai quali rimanda la sostanza stessa del Polifilo, non
certo alieno al sentire della Prisca
Theologia
intrisa di immagini considerate alla stregua di geroglifici, arcana
mysteria,
pregne di sapienza antica e gravide di sviluppi futuri.
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