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Dante Gabriele Rossetti. Un italiano nell’inferno di Londra  

Bibiana Borzì
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 5 Settembre 2015, n. 785
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Area Artisti
Tutto intorno a me era impregnato dell’influenza del grande poeta fiorentino,
tanto che avendolo sempre considerato come un elemento naturale, anche io,
crescendo, fui inevitabilmente attratto nella sua orbita.

Dante Gabriele Rossetti

Dante Gabriele Rossetti nasce a Londra nel 1828 da genitori italiani. Due anime in un solo corpo: il pittore e il poeta, l’inglese e l’italiano, l’idealista e il realista, il timido e l’ammaliatore, in un continuo scambio di ruoli, che lascia quasi disorientati, lontani dal trovare etichette adeguate ad una personalità così complessa. Questo fu Rossetti, «un grande italiano tormentato nell’inferno di Londra», secondo la felice definizione che ne diede John Ruskin in Praeterita (1907). Un esteta, un personaggio singolare, che sembra uscito dalle pagine di un romanzo di Wilde, di Huysmans, o del nostro D’Annunzio, e per cui sembra calzante il binomio bellezza/bizzarria di praziana memoria. Un mito quello di Rossetti, forse alimentato dalla scelta di abitare in quella strana dimora che fu Tudor House, situata nella storica Cheyne Walk, a Chelsea, dove il comune senso di normalità perde la sua valenza semantica per lasciare posto al bizzarro e al sinistro: collezioni di porcellane cinesi, mobili antichi, un piccolo zoo esotico nel giardino di casa. Un luogo in cui condividere incontri con gli amici, sedute spiritiche, l’intimità degli affetti, in quella che rimarrà la principale dimora dell’artista fino alla morte. Tudor House resterà un simbolo, una strana leggenda nella Londra del 1860, dove si diffonderà l’immagine sinistra di Dante Gabriele quale amante di armadilli e salamandre, ovviamente con tacita approvazione da parte del padrone di casa.

Un capitolo a sé stante meriterebbe forse la singolare famiglia Rossetti dotata di una naturale inclinazione alla poesia che i suoi componenti si trasmisero quasi per via genetica, di generazione in generazione. Un soggetto ideale per un romanzo naturalista.

Plauto direbbe nomen est omen, e se è vero che ogni nome contiene un presagio Dante Gabriele Rossetti non fa eccezione. I due nomi, infatti, fanno luce sui riferimenti essenziali nella vita e nell’opera dell’artista: Dante, nome voluto dal padre in omaggio al grande Fiorentino, e Gabriele, eco paterna che si tradurrà poi nella scelta di continuare quel culto dantesco respirato in casa Rossetti. Altisonante il primo, familiare il secondo, l’artista riflette sul peso che i due nomi avranno nella propria esistenza.

Non sapevi tu forse quando al fonte
Insieme al tuo il suo nome mi desti,
che anche su tuo figlio Beatrice
avrebbe, come suole, volto il suo sguardo.
1


Così scrive in Dantis tenebrae, un sonetto dedicato al padre, esule abruzzese, sbarcato a Londra nel 1824 e rimastovi stabilmente. Dante, del resto, è sempre presente nelle letture serali che papà Rossetti condivide con la famiglia, avvicinando i figli, ancora in tenera età, allo studio e all’amore per il poeta fiorentino. Tutti i fratelli Rossetti sembrano avere assimilato bene la lezione, e ciascuno di loro ha dato il proprio contributo agli studî danteschi: la primogenita Maria Francesca con A Shadow of Dante, commento dedicato alla Divina Commedia, Dante Gabriel con una delle più belle traduzioni inglesi della Vita Nuova, William Michael con la sua traduzione dell’Inferno, e Christina con delicati versi italiani, nei quali si percepisce la presenza stilistica dell’Alighieri. L’eredità che papà Rossetti lascia ai figli non si limita solo all’amore per Dante, va ben oltre. In particolare Dante Gabriele eredita quei tratti del carattere tipicamente italiani che lo rendono da subito “diverso” agli occhi dei contemporanei. In primis John Ruskin individua nel temperamento passionale di Rossetti una chiara matrice italiana. «C’è in lui una fortunata, una felice combinazione dello spirito indagatore proprio degli Inglesi, e della coscienza immaginativa, dote precipua degli Italiani. Dissi una volta parlando di lui che era un italiano del Trecento nato in Inghilterra cinque secoli troppo tardi»2, a dire di Antonio Agresti. E ancora, «sebbene scrivesse in inglese egli era [...] italiano e quindi degli Italiani aveva tutta la veemenza del carattere e dell’immaginazione, soltanto qua e là le sue opere risentivano una educazione britannica»3, secondo Adriano Bianchi.
Ed è proprio l’italianità il tratto che maggiormente si impone nel carattere e nell’ispirazione poetica di Rossetti, non solo per quel sotterraneo filo rosso che collega le sue opere a quelle dell’Alighieri, ma anche per l’utilizzo di un vocabolario arcaico, in linea con la ricercatezza formale del poeta fiorentino. I genitori italiani hanno poi contribuito al resto.

Eppure, Dante Gabriele non metterà mai piede in terra paterna. Il suo amore per l’arte e la cultura italiana risente certamente del filtro del padre, complice anche la sua onnivora sete di conoscenza. Ecco perché la sua scrittura ha volutamente uno stile retrò, nel tentativo di far rivivere il fascino primitivo dei poeti medievali e di quell’Italia che egli non ha mai visto dal vivo. Si spiega così la predilezione per la forma metrica del sonetto, palese omaggio alla tradizione poetica italiana. Proprio sulla scia di Dante e Petrarca, Rossetti compone i numerosi sonetti confluiti all’interno della raccolta Poems (1887), curata dal fratello William Michael, che include anche i Sonnets on pictures, scritti per accompagnare alcuni quadri, suoi e di altri artisti. Dall’Alighieri, e dai Primitivi italiani, egli eredita la sua adesione ai canoni del Dolce Stil Novo, e la traspone sia nell’opera pittorica che in quella lirica. L’artista non ne fa mistero, è profondamente attratto da questo complesso sistema concettuale. Vorrebbe trovarsi nella Firenze medievale per riunirsi alla cerchia di Cavalcanti, Dante, Guinizelli, ed altri amici poeti, che fecero dell’amore la ragione primaria del loro canto.
Amore e poesia, da condividere con pochi spiriti privilegiati, i fedeli d’amore. È questo il proposito che presto matura in Rossetti. Vuole riunire in una confraternita gli iniziati al culto d’amore e alla poesia, considerati valori assoluti. Così, fra il 1848 e il 1849, si forma la Pre-Raphaelites Brotherhoood, animata dalle tesi rivoluzionarie di Rossetti, John Everett Millais e William Holman Hunt. A questi si aggiungono William Michael Rossetti, James Collinson, Frederic George Stephens, Thomas Woolner, per un totale di sette confratelli, riuniti dall’acronimo PRB. Rossetti e Millais, allora studenti alla Royal Academy, contestano in particolare gli aspetti conservatori e la gerarchia tradizionalista presenti nei dettami accademici. Bersaglio privilegiato è Sir Joshua Reynolds, primo presidente di quell’Accademia di disegno, dove secondo i giovani preraffaelliti manca del tutto la possibilità di esprimersi liberamente. I metodi di apprendimento prevedono ancora il ricopiare i gessi classici in lapis, solo agli studenti degli ultimi anni è consentito l’uso del colore. Ecco perché Rossetti trovava profondamente noiose le lezioni in Accademia, e preferiva trascorrere il suo tempo in giro per musei, o in compagnia di Holman Hunt, che sebbene fosse solo un anno più grande di lui, egli considerava un maestro. La Confraternita in principio è animata da spiriti eversivi e da interessi che comprendono gli aspetti realistici della natura, il sentimento religioso, il verosimile storico. Una meteora esauritasi in tempi brevi, se si pensa che ciascuno degli artisti coinvolti intraprende presto un percorso autonomo. E mentre Millais, contro ogni previsione, accetta nel 1853 di diventare socio proprio di quell’Accademia così aspramente disprezzata, Rossetti si rifugia nel suo personale universo poetico e trae ispirazione da Shakespeare, Malory, Keats, e ovviamente dall’Alighieri.

In questo clima di revival dantesco si inserisce la contemplazione della donna angelicata, personificazione dell’anima, metafora di vita nuova, fulcro attorno a cui ruota lo spirito di fratellanza preraffaellita. L’artista pensa alla Beatrice di Dante, fragile e disincarnata, metafora di salvezza ma anche di morte. La sua assenza spingerà il poeta alla scrittura, sentita come unica fonte di consolazione dal dolore per la sua perdita. Allo stesso modo, Dante Gabriele, cercherà nell’arte quella consolazione per la morte di Elizabeth Siddal, sposata nel 1860 e morta prematuramente. Non troverà mai conforto, dilaniato da un abisso di sensi di colpa. L’incontro con Elizabeth assume le linee di un romanzo noir, e raggiunge il suo culmine nel triste finale: ad un sentimento tenero e passionale si sovrappone presto l’ombra della morte. «Lizzie, il più noto dei vezzeggiativi dati alla Siddal, non ebbe certo la fortuna d’incontrare un Dante o un Petrarca; ma l’amore del Rossetti per lei fu di tale risonanza e, aggiungerò, stranezza, da meritare un posto notevole nella scala degli amori poetici».4 Una storia a tinte fosche, che si conclude con il suicidio di Guggum - altro affettuoso nomignolo datole dal marito - due anni dopo il matrimonio, nel 1862. Elizabeth assume una dose eccessiva di laudano. Attraversa una fase di estremo sconforto, il rapporto col marito crolla, inevitabile conseguenza di un matrimonio privo di passione. Il celebre olio di Rossetti Beata Beatrix ne è viva testimonianza. Dipinto dopo la morte dell’amata, riprende i tratti delicati del suo volto e delinea l’immagine di una fragile e triste creatura romantica: una pietas sepolcrale, dove Beatrice appare pallida nella penombra, nell’ora del trapasso, ultimo omaggio a Elizabeth, morta fanciulla come l’amata dantesca. Dopo la morte di Lizzie, in preda alla disperazione, Rossetti decide di seppellire con la moglie anche l’unica copia dei suoi poemi: vuole simbolicamente chiudere l’amore ed i ricordi in quella tomba. La morte della giovane sposa sarà un trauma irreparabile nella sua esistenza, il motivo scatenante che di lì a poco lo condurrà all’alcool e alla droga. Comincia a soffrire d’insonnia, fa un uso smoderato del cloralio, e spesso in preda ad allucinazioni le appare Elizabeth. Intanto, nel 1869, dietro consiglio di alcuni amici, decide di recuperare il manoscritto sotterrato con la moglie. Qui si apre un altro macabro capitolo che riguarda la riesumazione del volume, impigliato fra i lunghi capelli della defunta, che nel frattempo avevano continuato a crescere invadendo quasi tutto lo spazio della bara. Una storia degna della penna di un Poe o di un Gautier. Le vicende riguardanti il funereo ritrovamento del testo alimentarono, forse, il suo successo, diffondendo l’immagine di una storia d’amore romanticamente interrotta dal fantasma della morte. Così i Poems, dedicati principalmente alla povera Elizabeth, tornano alla luce dopo una lunga e concreta sepoltura. Rossetti li inserisce all’interno di The House of Life, raccolta che già dal titolo si configura come una casa della vita, piena di ricordi, sentimenti e rimpianti. Ma si tratta di una «casa frequentata da fantasmi», come osserverà Walter Pater.

L’immagine stilnovistica della donna, creatura più divina che terrestre, è vicina, se non a tratti identica, a quell’iconografia femminile che si delinea negli ultimi anni della produzione pittorica rossettiana. Nelle liriche medievali, infatti, la donna non viene mai conquistata, si configura soltanto come ardore e desiderio per un sentimento inafferrabile. Non è quasi mai descritta nelle sue caratteristiche corporee ma rimane una creatura astratta, rarefatta, solo un pretesto letterario per iniziare il canto poetico. Allo stesso modo, la donna di Rossetti, si presenta come espediente creativo, catalizzatrice di angosce e paure. La fragilità di Elizabeth, i capelli corvini di Jane Burden, gli occhi di Fanny Cornforth, sono in realtà immagini generate dal suo inconscio. Le celebri modelle preraffaellite sono figure terrene, silenziose madonne, che ispirano l’artista sulla scia di Dante e degli Stilnovisti. Queste eroine, angeliche e demoniache al tempo stesso, sono lo specchio dell’animo tormentato di Rossetti, portano i segni delle sue paure e delle sua angosce. Si nutrono di un variegato universo poetico che non include solo Dante e i trecentisti italiani ma spazia fino a Blake e Poe. Ancora adolescente, nei pomeriggi passati da solo in giro per Londra, Rossetti scopre, al British Museum, i manoscritti e i disegni di William Blake. Fatalità vuole che poco dopo gli venga offerto proprio un manoscritto del poeta, non ci pensa due volte e lo acquista per mezza sterlina. Thomas Malory alimenta invece il suo interesse per il ciclo bretone, in particolare nel periodo di collaborazione con Morris e Burne-Jones. L’amore fra Lancillotto e Ginevra vissuto all’ombra di Artù diventa presto il tema dominante per una serie di acquerelli e disegni. Figure sospese in un lontano passato, sono il riflesso di quel triangolo amoroso che avrà come protagonisti Rossetti, Jane Burden e suo marito William Morris. E in The house of life trova posto il sentimento tormentato per Jane, a cui sono dedicati la maggior parte dei sonetti. In questa ideale casa dell’anima, l’amore fisico e l’amore platonico, il presente ed il passato, si nutrono del ricordo di Lizzie e della passione presente per Jane. I centouno sonetti (più uno d’introduzione) della raccolta costituiscono una summa poetica e spirituale. Rossetti vi ripone tutta l’esperienza di una vita e la ripercorre con liriche scritte fra il 1847 ed il 1881. Amore sarà il protagonista indiscusso di queste composizioni, vissuto attraverso l’assenza dell’amata. Beatrice, salita in cielo, è ancora una volta, come in Beata Beatrix, riflesso biografico dell’artista: amore per la perduta Lizzie e per l’irraggiungibile Jane, velato sempre da macabri presentimenti.

Dalle affollate composizioni dei primi anni, ricche di elementi simbolici e cariche di luce e colore, all’eleganza minuziosa del periodo medievale, fino all’ultima stagione dedicata al ritratto femminile, sono le donne a dominare la scena poetica e pittorica dell’arte rossettiana. Queste eroine nascondono una bellezza inquietante, a tratti repellente, perché offuscata da una sinistra sensualità, un alone di luce funerea, un senso di morte che le trasforma in creature angeliche e demoniache, pure e corrotte.
Chiome fluenti, bionde, fulve, corvine, colli esili e bianchi, tratti somatici vagamente androgini, vesti morbide e sinuose, sostituiscono i rigidi busti e le raccolte pettinature dell’epoca vittoriana. Sono le amate, le donne dell’artista, che ritornano come fantasmi in tutte le sue opere, vicine alle evanescenti forme decorative del Liberty e all’iconografia propria della femme fatale. I fiori che incorniciano e accompagnano queste eteree e fascinose figure, la linea ondulata che sotto forma di fiamma, gioiello, chioma, le definisce, sono preludio allo stile Art Nouveau, erede della lezione preraffaellita e rossettiana. Infatti, il prevalere della linea curva, nell’ultima fase pittorica di Rossetti, da un lato si rifà ai moduli dell’arte barocca, dall’altro preannuncia aspetti stilistici tipici della stagione Liberty: l’onda, l’infinito, la sensualità, la metamorfosi.

Il fascino delle donne, delle amate rossettiane, profuma sempre di un acre odore di tomba, di fiori prematuramente recisi e tolti alla vita, posti in un vaso trasparente per essere contemplati da un osservatore. Ritorna l’immagine della Beata Beatrix: sola nell’ora della fine, con in mano un papavero, il fiore della morte, ma anche del sogno, dell’oblio. Il papavero, fiore rosso, il cui vivace colore riporta a scene di passione, e allo stesso tempo di sangue, è il fiore dal significato ambivalente che racchiude forse l’essenza della poetica di Rossetti: il perpetuo inseguirsi di eros e thanatos. E la morte, fantasma nero più volte evocato e trasposto in liriche, racconti, pitture, arriverà presto. Negli ultimi anni della sua vita l’artista concentra la sua attenzione su alcune immagini femminili, repliche di opere e idee precedenti, frutto di una ispirazione inaridita dalla sofferenza e dalla malattia. Sempre più solo è circondato da giovani, che vedono in lui la fiamma, ormai spenta, di una vita condotta nel nome dell’arte. La sua breve esistenza si conclude lontana da fasti ed onori nel silenzio della sua dimora, il giorno di Pasqua del 1882.
Accanto a lui le sue opere, intrise di sogno e realtà, popolate di fantasmi e visioni, forse perché, come scrisse Shakespeare in La tempesta «noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è cinta di sonno». Quale migliore definizione può racchiudere il segreto dell’esistenza rossettiana?





NOTE

1 Cfr. Maria Teresa Benedetti, Dante Gabriel Rossetti, Milano, 1998, p. 39.

2 Antonio Agresti, I Preraffaellisti: contributo alla storia dell’arte, Torino, 1908, p. 165.

3 Adriano Bianchi, La casa della vita, Bari, 1979, p. 17.

4 Renato Lo Schiavo, La poesia di Dante Gabriele Rossetti, Roma, 1957, p. 16.








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