Tutto
intorno a me era impregnato dell’influenza del grande poeta fiorentino,
tanto
che avendolo sempre considerato come un elemento naturale, anche io,
crescendo,
fui inevitabilmente attratto nella sua orbita.
Dante
Gabriele Rossetti
Dante
Gabriele Rossetti nasce a Londra nel 1828 da genitori italiani. Due
anime in un solo corpo: il pittore e il poeta, l’inglese e
l’italiano, l’idealista e il realista, il timido e l’ammaliatore,
in un continuo scambio di ruoli, che lascia quasi disorientati,
lontani dal trovare etichette adeguate ad una personalità così
complessa. Questo fu Rossetti, «un grande italiano tormentato
nell’inferno di Londra», secondo la felice definizione che ne
diede John Ruskin in Praeterita (1907). Un esteta, un
personaggio singolare, che sembra uscito dalle pagine di un romanzo
di Wilde, di Huysmans, o del nostro D’Annunzio, e per cui sembra
calzante il binomio bellezza/bizzarria di praziana memoria. Un mito
quello di Rossetti, forse alimentato dalla scelta di abitare in
quella strana dimora che fu Tudor House, situata nella storica
Cheyne Walk, a Chelsea, dove il comune senso di normalità perde la
sua valenza semantica per lasciare posto al bizzarro e al sinistro:
collezioni di porcellane cinesi, mobili antichi, un piccolo zoo
esotico nel giardino di casa. Un luogo in cui condividere incontri
con gli amici, sedute spiritiche, l’intimità degli affetti, in
quella che rimarrà la principale dimora dell’artista fino alla
morte. Tudor House resterà un simbolo, una strana leggenda
nella Londra del 1860, dove si diffonderà l’immagine sinistra di
Dante Gabriele quale amante di armadilli e salamandre, ovviamente con
tacita approvazione da parte del padrone di casa.
Un
capitolo a sé stante meriterebbe forse la singolare famiglia
Rossetti dotata di una naturale inclinazione alla poesia che i suoi
componenti si trasmisero quasi per via genetica, di generazione in
generazione. Un soggetto ideale per un romanzo naturalista.
Plauto
direbbe nomen est omen, e se è vero che ogni nome contiene un
presagio Dante Gabriele Rossetti non fa eccezione. I due nomi,
infatti, fanno luce sui riferimenti essenziali nella vita e
nell’opera dell’artista: Dante, nome voluto dal padre in omaggio
al grande Fiorentino, e Gabriele, eco paterna che si tradurrà poi
nella scelta di continuare quel culto dantesco respirato in casa
Rossetti. Altisonante il primo, familiare il secondo, l’artista
riflette sul peso che i due nomi avranno nella propria esistenza.
Non
sapevi tu forse quando al fonte
Insieme al tuo il suo nome mi desti,
che anche su tuo figlio Beatrice
avrebbe, come suole, volto il suo sguardo.
Così
scrive in Dantis tenebrae, un sonetto dedicato al padre, esule
abruzzese, sbarcato a Londra nel 1824 e rimastovi stabilmente. Dante,
del resto, è sempre presente nelle letture serali che papà Rossetti
condivide con la famiglia, avvicinando i figli, ancora in tenera età,
allo studio e all’amore per il poeta fiorentino. Tutti i fratelli
Rossetti sembrano avere assimilato bene la lezione, e ciascuno di
loro ha dato il proprio contributo agli studî danteschi: la
primogenita Maria Francesca con A Shadow of Dante, commento dedicato alla Divina Commedia, Dante Gabriel con una delle più belle traduzioni inglesi della Vita
Nuova,
William Michael con la sua traduzione dell’Inferno,
e Christina con delicati versi italiani, nei quali si percepisce la
presenza stilistica dell’Alighieri. L’eredità che papà Rossetti
lascia ai figli non si limita solo all’amore per Dante, va ben oltre. In particolare Dante Gabriele eredita quei
tratti del carattere tipicamente italiani che lo rendono da subito
“diverso” agli occhi dei contemporanei. In
primis
John Ruskin individua nel temperamento passionale di Rossetti una
chiara matrice italiana. «C’è in lui una fortunata, una felice
combinazione dello spirito indagatore proprio degli Inglesi, e della
coscienza immaginativa, dote precipua degli Italiani. Dissi una volta
parlando di lui che era un italiano del Trecento nato in Inghilterra
cinque secoli troppo tardi»,
a dire di Antonio Agresti. E ancora, «sebbene scrivesse in inglese
egli era [...] italiano e quindi degli Italiani aveva tutta la
veemenza del carattere e dell’immaginazione, soltanto qua e là le
sue opere risentivano una educazione britannica»,
secondo Adriano Bianchi.
Ed
è proprio l’italianità il tratto che maggiormente si impone nel
carattere e nell’ispirazione poetica di Rossetti, non solo per quel
sotterraneo filo rosso che collega le sue opere a quelle
dell’Alighieri, ma anche per l’utilizzo di un vocabolario
arcaico, in linea con la ricercatezza formale del poeta fiorentino. I
genitori italiani hanno poi contribuito al resto.
Eppure,
Dante Gabriele non metterà mai piede in terra paterna. Il suo amore
per l’arte e la cultura italiana risente certamente del filtro del
padre, complice anche la sua onnivora sete di conoscenza. Ecco perché
la sua scrittura ha volutamente uno stile retrò, nel tentativo di
far rivivere il fascino primitivo dei poeti medievali e di
quell’Italia che egli non ha mai visto dal vivo. Si spiega così la
predilezione per la forma metrica del sonetto, palese omaggio alla
tradizione poetica italiana. Proprio sulla scia di Dante e Petrarca,
Rossetti compone i numerosi sonetti confluiti all’interno della
raccolta Poems (1887), curata dal fratello William Michael,
che include anche i Sonnets on pictures, scritti per
accompagnare alcuni quadri, suoi e di altri artisti. Dall’Alighieri,
e dai Primitivi italiani, egli eredita la sua adesione ai canoni del
Dolce Stil Novo, e la traspone sia nell’opera pittorica che in
quella lirica. L’artista non ne fa mistero, è profondamente
attratto da questo complesso sistema concettuale. Vorrebbe trovarsi
nella Firenze medievale per riunirsi alla cerchia di Cavalcanti,
Dante, Guinizelli, ed altri amici poeti, che fecero dell’amore la
ragione primaria del loro canto.
Amore e poesia, da condividere con
pochi spiriti privilegiati, i fedeli d’amore. È questo il
proposito che presto matura in Rossetti. Vuole riunire in una
confraternita gli iniziati al culto d’amore e alla poesia,
considerati valori assoluti. Così, fra il 1848 e il 1849, si forma
la Pre-Raphaelites Brotherhoood, animata dalle tesi
rivoluzionarie di Rossetti, John Everett Millais e William Holman
Hunt. A questi si aggiungono William Michael Rossetti, James
Collinson, Frederic George Stephens, Thomas Woolner, per un totale di
sette confratelli, riuniti dall’acronimo PRB. Rossetti e Millais,
allora studenti alla Royal Academy, contestano in particolare
gli aspetti conservatori e la gerarchia tradizionalista presenti nei
dettami accademici. Bersaglio privilegiato è Sir Joshua Reynolds,
primo presidente di quell’Accademia di disegno, dove secondo i
giovani preraffaelliti manca del tutto la possibilità di esprimersi
liberamente. I metodi di apprendimento prevedono ancora il ricopiare
i gessi classici in lapis, solo agli studenti degli ultimi anni è
consentito l’uso del colore. Ecco perché Rossetti trovava
profondamente noiose le lezioni in Accademia, e preferiva trascorrere
il suo tempo in giro per musei, o in compagnia di Holman Hunt, che
sebbene fosse solo un anno più grande di lui, egli considerava un
maestro. La Confraternita in principio è animata da spiriti eversivi
e da interessi che comprendono gli aspetti realistici della natura,
il sentimento religioso, il verosimile storico. Una meteora
esauritasi in tempi brevi, se si pensa che ciascuno degli artisti
coinvolti intraprende presto un percorso autonomo. E mentre Millais,
contro ogni previsione, accetta nel 1853 di diventare socio proprio
di quell’Accademia così aspramente disprezzata, Rossetti si
rifugia nel suo personale universo poetico e trae ispirazione da
Shakespeare, Malory, Keats, e ovviamente dall’Alighieri.
In
questo clima di revival
dantesco
si inserisce la contemplazione della donna angelicata,
personificazione dell’anima, metafora di vita nuova, fulcro attorno
a cui ruota lo spirito di fratellanza preraffaellita. L’artista
pensa alla Beatrice di Dante, fragile e disincarnata, metafora di
salvezza ma anche di morte. La sua assenza spingerà il poeta alla
scrittura, sentita come unica fonte di consolazione dal dolore per la
sua perdita. Allo stesso modo, Dante Gabriele, cercherà nell’arte
quella consolazione per la morte di Elizabeth Siddal, sposata nel
1860 e morta prematuramente. Non troverà mai conforto, dilaniato da
un abisso di sensi di colpa. L’incontro con Elizabeth assume le
linee di un romanzo noir,
e raggiunge il suo culmine nel triste finale: ad un sentimento tenero
e passionale si sovrappone presto l’ombra della morte. «Lizzie, il
più noto dei vezzeggiativi dati alla Siddal, non ebbe certo la
fortuna d’incontrare un Dante o un Petrarca; ma l’amore del
Rossetti per lei fu di tale risonanza e, aggiungerò, stranezza, da
meritare un posto notevole nella scala degli amori poetici».
Una storia a tinte fosche, che si conclude con il suicidio di Guggum
- altro affettuoso nomignolo datole dal marito - due anni dopo il
matrimonio, nel 1862. Elizabeth assume una dose eccessiva di laudano.
Attraversa una fase di estremo sconforto, il rapporto col marito
crolla, inevitabile conseguenza di un matrimonio privo di passione.
Il celebre olio di Rossetti Beata
Beatrix
ne è viva testimonianza. Dipinto dopo la morte dell’amata,
riprende i tratti delicati del suo volto e delinea l’immagine di
una fragile e triste creatura romantica: una pietas
sepolcrale, dove Beatrice appare pallida nella penombra, nell’ora
del trapasso, ultimo omaggio a Elizabeth, morta fanciulla come
l’amata dantesca. Dopo la morte di Lizzie, in preda alla
disperazione, Rossetti decide di seppellire con la moglie anche
l’unica copia dei suoi poemi: vuole simbolicamente chiudere l’amore
ed i ricordi in quella tomba. La morte della giovane sposa sarà un
trauma irreparabile nella sua esistenza, il motivo scatenante che di
lì a poco lo condurrà all’alcool e alla droga. Comincia a
soffrire d’insonnia, fa un uso smoderato del cloralio, e spesso in
preda ad allucinazioni le appare Elizabeth. Intanto, nel 1869, dietro
consiglio di alcuni amici, decide di recuperare il manoscritto
sotterrato con la moglie. Qui si apre un altro macabro capitolo che
riguarda la riesumazione del volume, impigliato fra i lunghi capelli
della defunta, che nel frattempo avevano continuato a crescere
invadendo quasi tutto lo spazio della bara. Una storia degna della
penna di un Poe o di un Gautier. Le vicende riguardanti il funereo
ritrovamento del testo alimentarono, forse, il suo successo,
diffondendo l’immagine di una storia d’amore romanticamente
interrotta dal fantasma della morte. Così i Poems,
dedicati principalmente alla povera Elizabeth, tornano alla luce dopo
una lunga e concreta sepoltura. Rossetti li inserisce all’interno
di The
House of Life,
raccolta che già dal titolo si configura come una casa della vita,
piena di ricordi, sentimenti e rimpianti. Ma si tratta di una «casa
frequentata da fantasmi», come osserverà Walter Pater.
L’immagine
stilnovistica della donna, creatura più divina che terrestre, è
vicina, se non a tratti identica, a quell’iconografia femminile che
si delinea negli ultimi anni della produzione pittorica rossettiana.
Nelle liriche medievali, infatti, la donna non viene mai conquistata,
si configura soltanto come ardore e desiderio per un sentimento
inafferrabile. Non è quasi mai descritta nelle sue caratteristiche
corporee ma rimane una creatura astratta, rarefatta, solo un pretesto
letterario per iniziare il canto poetico. Allo stesso modo, la donna
di Rossetti, si presenta come espediente creativo, catalizzatrice di
angosce e paure. La fragilità di Elizabeth, i capelli corvini di
Jane Burden, gli occhi di Fanny Cornforth, sono in realtà immagini
generate dal suo inconscio. Le celebri modelle preraffaellite sono
figure terrene, silenziose madonne, che ispirano l’artista sulla
scia di Dante e degli Stilnovisti. Queste eroine, angeliche e
demoniache al tempo stesso, sono lo specchio dell’animo tormentato
di Rossetti, portano i segni delle sue paure e delle sua angosce. Si
nutrono di un variegato universo poetico che non include solo Dante e
i trecentisti italiani ma spazia fino a Blake e Poe. Ancora
adolescente, nei pomeriggi passati da solo in giro per Londra,
Rossetti scopre, al British Museum, i manoscritti e i disegni di
William Blake. Fatalità vuole che poco dopo gli venga offerto
proprio un manoscritto del poeta, non ci pensa due volte e lo
acquista per mezza sterlina. Thomas Malory alimenta invece il suo
interesse per il ciclo bretone, in particolare nel periodo di
collaborazione con Morris e Burne-Jones. L’amore fra Lancillotto e
Ginevra vissuto all’ombra di Artù diventa presto il tema dominante
per una serie di acquerelli e disegni. Figure sospese in un lontano
passato, sono il riflesso di quel triangolo amoroso che avrà come
protagonisti Rossetti, Jane Burden e suo marito William Morris. E in
The house of life
trova posto il sentimento tormentato per Jane, a cui sono dedicati la
maggior parte dei sonetti. In questa ideale casa dell’anima,
l’amore fisico e l’amore platonico, il presente ed il passato, si
nutrono del ricordo di Lizzie e della passione presente per Jane. I
centouno sonetti (più uno d’introduzione) della raccolta
costituiscono una summa
poetica e spirituale. Rossetti vi ripone tutta l’esperienza di una
vita e la ripercorre con liriche scritte fra il 1847 ed il 1881.
Amore sarà il protagonista indiscusso di queste composizioni,
vissuto attraverso l’assenza dell’amata. Beatrice, salita in
cielo, è ancora una volta, come in Beata
Beatrix, riflesso
biografico dell’artista: amore per la perduta Lizzie e per
l’irraggiungibile Jane, velato sempre da macabri presentimenti.
Dalle
affollate composizioni dei primi anni, ricche di elementi simbolici e
cariche di luce e colore, all’eleganza minuziosa del periodo
medievale, fino all’ultima stagione dedicata al ritratto femminile,
sono le donne a dominare
la scena poetica e pittorica dell’arte rossettiana. Queste eroine
nascondono una bellezza inquietante, a tratti repellente, perché
offuscata da una sinistra sensualità, un alone di luce funerea, un
senso di morte che le trasforma in creature angeliche e demoniache,
pure e corrotte.
Chiome
fluenti, bionde, fulve, corvine, colli esili e bianchi, tratti
somatici vagamente androgini, vesti morbide e sinuose, sostituiscono
i rigidi busti e le raccolte pettinature dell’epoca vittoriana.
Sono le amate, le donne dell’artista, che ritornano come fantasmi
in tutte le sue opere, vicine alle evanescenti forme decorative del
Liberty e all’iconografia propria della femme
fatale. I fiori che
incorniciano e accompagnano queste eteree e fascinose figure, la
linea ondulata che sotto forma di fiamma, gioiello, chioma, le
definisce, sono preludio allo stile Art Nouveau, erede della lezione
preraffaellita e rossettiana. Infatti, il prevalere della linea
curva, nell’ultima fase pittorica di Rossetti, da un lato si rifà
ai moduli dell’arte barocca, dall’altro preannuncia aspetti
stilistici tipici della stagione Liberty: l’onda, l’infinito, la
sensualità, la metamorfosi.
Il
fascino delle donne, delle amate rossettiane, profuma sempre di un
acre odore di tomba, di fiori prematuramente recisi e tolti alla
vita, posti in un vaso trasparente per essere contemplati da un
osservatore. Ritorna l’immagine della Beata
Beatrix: sola nell’ora
della fine, con in mano un papavero, il fiore della morte, ma anche
del sogno, dell’oblio. Il papavero, fiore rosso, il cui vivace
colore riporta a scene di passione, e allo stesso tempo di sangue, è
il fiore dal significato ambivalente che racchiude forse l’essenza
della poetica di Rossetti: il perpetuo inseguirsi di eros
e thanatos.
E la morte, fantasma nero più volte evocato e trasposto in liriche,
racconti, pitture, arriverà presto. Negli ultimi anni della sua vita
l’artista concentra la sua attenzione su alcune immagini femminili,
repliche di opere e idee precedenti, frutto di una ispirazione
inaridita dalla sofferenza e dalla malattia. Sempre più solo è
circondato da giovani, che vedono in lui la fiamma, ormai spenta, di
una vita condotta nel nome dell’arte. La sua breve esistenza si
conclude lontana da fasti ed onori nel silenzio della sua dimora, il
giorno di Pasqua del 1882.
Accanto
a lui le sue opere, intrise di sogno e realtà, popolate di fantasmi
e visioni, forse perché, come scrisse Shakespeare in La tempesta
«noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i
sogni, e la nostra breve vita è cinta di sonno». Quale migliore
definizione può racchiudere il segreto dell’esistenza rossettiana?
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