Il
voluminoso libro sull’anonimo pittore sardo, denominato nel 1907 da
Enrico Brunelli “Maestro di Ozieri”, di Maria Vittoria Spissu, è
frutto delle ricerche della studiosa svolte durante il dottorato presso
l’Università di Bologna sulla figura dell’ancora enigmatico
artista che operò nel nord dell’isola tra gli anni Trenta e gli
anni Cinquanta del XVI secolo.
Il
volume si divide in sei capitoli, a cui si aggiungono due
presentazioni, la prima di Vera Fortunati e la seconda di Caterina
Limentani Virdis, la bibliografia e gli indici dei nomi e dei luoghi.
Nel primo capitolo l’autrice offre un quadro generale del
contesto storico e della geografia culturale, attraverso varie fonti
più o meno note, non strettamente legate al nord dell’isola, ma
piuttosto ampliato all’intera Sardegna, con particolare attenzione
alle vicende politico-economiche che investirono il Regno all’interno
del bacino mediterraneo tra Penisola Italiana e area
catalano-valenzana. Nel secondo capitolo la Spissu analizza la
fortuna critica riguardante la figura del Maestro di Ozieri, partendo
dai primi studi (Brunelli, Voss, ecc.), fino a tempi recenti (2013).
Nel terzo capitolo viene analizzato il rapporto fra la pittura sarda
e le incisioni nordiche e italiane tra XV e XVI secolo. A questo
segue un ampio capitolo nel quale si analizzano i paesaggi dipinti
come sfondo sia nelle opere variamente attribuite al Maestro di
Ozieri, sia della cagliaritana Scuola di Stampace, proponendo per le
prime analogie con opere meridionali, tedesche e fiamminghe,
soprattutto Polidoro, Patinir, van Heemskerk, van Cleve, van Scorel.
Seguono 40 tavole a colori, sia del corpus del Maestro, sia di altre
opere di confronto, da Cranach a Grünewald, fino a van Cleve,
Massys, van Heemskerk, Polidoro, Sabatini e Cardisco. Nel quinto
capitolo, intitolato semplicemente “schede”, si raccolgono le
notizie e si analizzano cinque opere variamente attribuite
all’artista sardo: il Retablo di Nostra Signora di Loreto di
Ozieri, il Retablo di Sant’Elena a Benetutti, il Retablo
di Santa Croce proveniente da Sassari, la Sacra Famiglia
di Ploaghe, la Crocifissione dell’Alte Gemäldegalerie di
Stoccarda e il piccolo Crocifisso della Collezione Sanna, oggi
presso la Pinacoteca Musa di Sassari. Il volume – escludendo gli
apparati bibliografici e gli indici – si conclude con un'analisi
dettagliata attraverso cui si propone un nuovo profilo critico
dell’autore.
L’opera
della Spissu, pur ampia e particolareggiata nelle analisi critiche di
alcuni dettagli delle opere, desta non poche perplessità,
soprattutto in relazione all’approccio critico e metodologico,
posto che la studiosa sconfina verso culture e ambiti tanto
diversificati – da Napoli alle Fiandre, fino alla Germania – che
con la Sardegna dell’epoca avevano certamente contatti, ma che
nelle impostazioni spaziali e nella composizione complessiva delle
opere analizzate non trovano riscontro. Altrettanta perplessità
desta la scelta delle opere analizzate nelle schede, da cui sono
escluse una serie di altre da sempre ascritte al corpus
dell’artista operoso nel nord Sardegna (dal Retablo di Bortigali
a quello di Berchidda, fino a quello minore di Ardara), non
giustificata nemmeno da una revisione del corpus
individuando più mani, posto che la stessa inserisce l’analisi
della Deposizione del Retablo di Santa Croce di Sassari, oggi
presso il Museo Diocesano di Ozieri (pp. 262-274) e del Crocifisso
Sanna della Pinacoteca di Sassari (p. 302), ritenuti dalla stessa
opera di altro artista.
Desta
poi sorpresa l’assenza di fonti fondamentali per la ricostruzione
della storia culturale e politica del nord Sardegna del XVI secolo,
come il IV volume del De
Rebus
Sardois
di Giovanni Francesco Fara o la prefazione del volume di Sambigucci
intitolato In
Hermathenam Bocchiam interpretatio.
Così come appare inspiegabile l’assenza della bibliografia dei
volumi curati da Gian Mario Contini, Enzo Cadoni e Maria Teresa
Laneri sugli umanisti e la cultura classica nella Sardegna del ‘500,
contenenti importanti trascrizioni e commenti di inventari e spogli
degli umanisti sardi del XVI secolo
e del fondamentale volume di Joaquin Arce intitolato La
Spagna in Sardegna.
Per quanto riguarda la storia dell’arte, infine, risulta
altrettanto inspiegabile la mancata menzione dei saggi fondamentali di
Roberto Longhi sui rapporti artistici tra Germania e Italia o quelli
sull’arte meridionale (Arte
italiana e arte tedesca,
1941; I
fiamminghi e l’Italia,
1952; Una
Crocefissione di Colantonio,
1955; Un
Antonello Giovine,
1961; Una
Madonna di Hugo van der Goes,
1950; ecc.), o di Federico Zeri,
che per quanto datati, forniscono indispensabili letture dei rapporti
reciproci tra sud e nord dell’Europa in campo artistico e
culturale, soprattutto per chi sostiene – come fa l’autrice –
di rintracciare una presunta mano nordica, anche se mai documentata
dalle fonti, attiva nell’isola nel ‘500.
Tale
carenza di fonti, ormai ritenute dagli storici locali quasi
“classici”, compromette non solamente l’analisi stilistica del
corpus,
questione sulla quale torneremo fra breve, quanto piuttosto l’intera
premessa storica che la studiosa doverosamente inserisce quale primo
capitolo del testo, al fine di inquadrare la figura del presunto
anonimo artista. La lettura ne esce quindi alterata in maniera
inaccettabile, laddove – ad esempio – la stessa Spissu confonde
le “volte stellari gotiche con nervature, gemme pendule e peducci
istoriati” della chiesa di S. Giacomo di Cagliari (XIV-XV sec.) con
quelle del porticato del duomo sassarese (p. 25), che sono frutto una
rivisitazione storicistica realizzata tra il 1714 e il 1723 da Giovan
Battista Corbellini per ornare la struttura progettata da Baldassarre
Romero qualche decennio prima
e che certamente non poté vedere il Maestro di Ozieri. Così si va
avanti attribuendo alla Chiesa di San Francesco di Alghero il rango
di cattedrale (p. 26) che non le spetta, Chiesa per la quale sarebbe
stato acquistato un retaule
dal mercante Joan Jofre a Barcellona o si arriva perfino ad asserire
che il Retablo
di San Bernardino,
realizzato da Rafael Tomas e Joan Figuera per la chiesa di S.
Francesco di Stampace a Cagliari (oggi alla Pinacoteca Nazionale),
facesse parte di quei “prodotti trasportati attraverso il medio
cabotaggio da cui deriva la vitalità urbana di Alghero e Cagliari”
(p. 27), mentre è assodato ormai dai tempi dell’Aru
che fu eseguito dai due artisti nella capitale regnicola!
Da
tutto questo deriva che “l’opera del Maestro di Ozieri si avverte
come un corpo estraneo rispetto al contesto culturale locale” e che
“i luoghi remoti in cui il pittore operò e la loro religiosità un
po’ al limite del consono e del normato, si dimostreranno d’altra
parte terreno congeniale per la sua esperienza artistica, che si
configura da subito come un valzer degli addii all’illustre fronda
anticlassica” (p. 31). Deduzioni che la stessa studiosa non avrebbe
mai tratto se solo avesse considerato che i retabli di cui parla (in
particolare quelli di Benetutti e Bortigali), furono per ben tre
volte “visitati” dai vescovi di Alghero e unioni proprio mentre
erano in esecuzione, la prima volta da Durante de Duranti nel 1539,
mentre la seconda e la terza nientemeno che da Pedro Vaguer, nominato
da Miquel Mai “visitador”
del Regno di Sardegna proprio perché era nota la sua aderenza
all’ortodossia cattolico-romana. Così come l’altra opera che la
stessa Spissu assegna al Maestro, cioè la Sacra
Famiglia
di Ploaghe, fu consacrata nel 1553 da Agostino Zunquello nella sua
qualità di vicario dell’arcivescovo Sassari Alepus, decano del
Concilio di Trento. Sembra quindi troppo difficile immaginare un
pittore che “al riparo anche dall’incursione di quel controllo
inquisitoriale”, quindi distante “dal circuito di traffici e
interessi commerciali costieri, come dalle frequentazioni turritane”,
dipingesse le sue opere per le parrocchie dell’interno dell’isola,
“divenendo valido appoggio visivo per una devozione popolare a
tratti paurosamente non normata” (p. 308), dato fra l’altro che
lo stesso Vaguer risiedeva a Sassari accanto ad Alepus,
e che quella era l’unica città di riferimento per le arti e la
cultura del nord Sardegna, tanto che il 30 luglio del 1561 (quindi
nemmeno un decennio dopo la datazione ormai concordemente fissata per
il corpus delle opere del Maestro) vi fu istituito l’Ordine dei
pittori per volontà dei consiglieri Girolamo di Castelvì, Michele
Iunghellu, Andrea Diez, Bernardino de Villa e Gavino Pilu.
Ma
torniamo, come accennato prima, alla questione del corpus del
Maestro di Ozieri. Si tratta di un problema che la Spissu non
affronta direttamente – come ci si aspetterebbe – quanto
piuttosto attraverso alcuni passaggi contenuti nei capitoli o nelle
schede attraverso cui si asserisce che chi scrive avrebbe “proposto di
identificare il Maestro di Ozieri con Giovanni del Giglio, pittore e
priore della Confraternita di Santa Croce a Sassari” (p. 75), in
quanto autore del retablo di Santa Croce, da cui proviene la
tavola della Deposizione ora ad Ozieri, opera che sarebbe il
“cardine intorno al quale – sempre secondo la Spissu che
interpreta quanto da me pubblicato – far ruotare tutto il corpus
del Maestro di Ozieri” (p. 263), concludendo che “la possibile
attribuzione [della Deposizione] non dovrebbe essere allargata
alle altre opere del corpus, le quali si dimostrano
stilisticamente lontane dal linguaggio della tavola un tempo nella
chiesa di Santa Croce e poi migrata nella collezione Giani, insieme
alla Crocifissione ora a Cannero sul Lago Maggiore” (p. 76).
Precisazioni che sarebbero tornate estremamente utili se fossero
frutto di nuova intuizione che la stessa studiosa avesse approfondito
contraddicendo quanto a me attribuisce. Peccato invece che io non
abbia mai scritto quanto a me attribuisce e che proprio la
pubblicazione da lei citata dica l’esatto contrario.
Occorre
a questo punto che ripercorra sinteticamente quanto da me pubblicato, non
per divagazioni vanagloriose, quanto piuttosto per precisare meglio i
termini della questione. Sulla scorta, infatti, della “scoperta”
della Deposizione,
poi acquisita dal Comune di Ozieri su mia indicazione, notavo come
“nell’ambito del corpus […], occorre individuare alcune
distinzioni tra l’una e l’altra opera, sia per quanto concerne
l’aspetto tecnico, sia per quanto attiene l’espressività e la
qualità intrinseca di ciascuna tavola”.
Notando quindi – ben otto anni prima della Spissu – una serie di
incongruenze all’interno del corpus,
per la prima volta tentavo di distinguere stilisticamente le varie
opere dividendole in tre gruppi principali: il primo che ha come
perno proprio la Deposizione
ozierese in cui è messo in scena “il dramma a cui partecipa pure
la natura retrostante che, in un moto di ribellione ultimo contro
l’essere umano che ha ucciso Dio, minaccia, si scurisce, si lista a
lutto, anche se all’orizzonte tutto sembra aprirsi e l’intensità
del colore sembra suggerire l’alba imminente d’un nuovo giorno o
un tragico incendio che distrugge il passato”.
Questo primo gruppo comprenderebbe anche la Crocifissione
già a Wiesbaden e ora a Stoccarda, l’Incredulità
di San Tommaso,
la Salita
al Calvario
e il Crocifisso
Sanna della Pinacoteca di Sassari, la Crocifissione
del retablo dei Beneficiati di Cagliari, la Sacra
Famiglia
di Ploaghe, la Crocifissione
di Cannero e qualche parte del retablo di Benetutti. Al secondo
gruppo, caratterizzato “dalla forte impronta manierista toscana”,
espressa attraverso l’utilizzo “di tonalità grigio perlacee,
azzurri chiari e verdi intensi, che unitamente a una resa dei volumi
incorporea rende le composizioni evanescenti, quasi eteree”,
apparterrebbe il resto del retablo di Benetutti, quello di Bortigali,
quello
minore di Ardara, quello di Ozieri, il S.
Sebastiano
della Pinacoteca di Sassari e il retablo di Berchidda. Al terzo
gruppo, infine, ascrivevo una serie di altre opere ritenute di
“bottega” dell’uno o dell’altro artista.
Giovanni
del Giglio sarebbe stato quindi l’autore del retablo di Santa
Croce di Sassari (da cui proviene la Deposizione di
Ozieri, la Crocifissione di Cannero e forse la Salita al
Calvario della Pinacoteca di Sassari) per il fatto che fu priore
della confraternita dei Disciplinati per oltre dieci anni, oltre a
ricoprire cariche importanti nell’amministrazione cittadina e nella
Curia turritana, che certamente ebbe un ruolo nella commissione del
retablo di Ploaghe, consacrato nel 1553 proprio dal vicario
vescovile. L’altro gruppo di opere lo riconducevo a Pietro Giovanni
Calvano, detto il senese per la sua provenienza dalla città toscana,
e forse figlio di Giacomo Calvano “il padovano”, attivo a Napoli
tra il 1487 e il 1489 presso la Villa della Duchessa, dove realizzò
gli affreschi commissionati dal Duca di Calabria. In tutti i casi,
anche dovendo – come ora credo – individuare perfino un terzo
gruppo di opere che ruoterebbero attorno al piccolo Crocifisso
Sanna, tutti gli artisti della “scuola” operarono a Sassari ed è
là che va ricostruito il loro ambiente di lavoro, a prescindere
dalla provenienza di ciascuno di loro (Giovanni del Giglio, dalle
notizie che abbiamo, si formò a Roma prima del 1512, Calvano a Siena
e forse prima a Napoli, Spert proveniva da Alghero e poi si spostò a
Cagliari verso il 1538, mentre Sanna e Debasteriga erano sassaresi).
Come
si vede, quindi, la distinzione all’interno del corpus era stata
già fatta e ci sarebbe aspettato da uno studio così importante, una
più chiara definizione delle varie personalità, che pure potrebbero
continuare ad essere avvolte dall’anonimato; anche se bisogna
ammettere che ormai i documenti ci parlano chiaramente di un gruppo
di artisti attorno ai quali ricondurre le varie personalità
individuabili nei dipinti superstiti, sempre che questi vengano
analizzati nella loro complessità, anche alla luce delle nuove
analisi effettuate durante i restauri che confermerebbero proprio una
netta diversificazione del corpus.
Tornando
ad analizzare il volume della Spissu, occorre sottolineare, invece,
l’importanza del capitolo sul contributo che ebbero le stampe
nell’arte sarda tra fine Quattrocento e per tutto il Cinquecento.
Anche se argomento più volte trattato dalla storiografia isolana,
alcune notazioni della studiosa paiono comunque interessanti, anche
se non del tutto convincenti. Mi riferisco in particolare ai
riferimenti che lei ritiene utilizzati dal Maestro di Castelsardo che
vanno dal Maestro I.A.M. di Zwolle a Schongauer, fino a Dürer, a
quelli del Maestro di Perfugas che vanno da Cornelis Cort a Battista
Franco, per finire con le varie opere del cosiddetto Maestro di
Ozieri i cui riferimenti spaziano da Marco da Ravenna a Raimondi,
dallo stesso Battista Franco ad Agostino Veneziano, fino a Nicolò
della Casa, Caraglio e l’immancabile Dürer. Se quindi risultano
utili a delineare meglio il quadro delle modalità operative delle
botteghe sarde che si servivano delle incisioni – esattamente come
avveniva nella provincia catalana “per cui si può notare come
l’opzione italianizzante a discapito del codice flamenc,
scatti simultaneamente alla diffusione del rafaelisme
d’estampa
nelle due sponde” (pp. 106-107) – non altrettanto condivisibile
appare l’asserzione secondo cui, per la studiosa, “in Sardegna la
mancanza endemica di raccolte di incisioni e di indizi documentari
[…] circa la circolazione delle stampe, conduce di fronte ad un
vicolo cieco, a meno che non si scelga la via più percorribile, vale
a dire quella dinamica e permeabile dei viaggi di ricognizione e
aggiornamento” (pp. 79-80). In realtà è già da tempo noto che
nell’isola non solo circolassero sporadicamente incisioni, ma che
la loro diffusione era capillare e ben consolidata, tanto che a
partire dagli anni ’60 del Cinquecento è documentata perfino una
produzione locale per la quale abbiamo i nomi di Francesco Pinna,
Geronimo Galletta e Pietro Sias,
mentre per quanto riguarda le “raccolte” va citata quella di
Canyelles, nella quale erano presenti ben undici stampe del Giudizio
Universale di Michelangelo e “svariate altre che raffigurano
argomenti biblici e religiosi, immagini di cesari e dei pontefici,
mentre di altre non viene precisato il soggetto”.
Per completare il quadro infine non si può non citare il pittore
Michele Raxis, che durante il suo soggiorno cagliaritano col padre
Pietro, di ritorno dall’Andalusia dove si era insediato, si recò a
Roma per acquistare ben 223 “estanpas
de dibuxo y veynte y tres libros dellos destampas y de traça y de
musica”,
materiale, che verso il 1576 portò con sé ad Alcalá la Real in
provincia di Jaén.
Se
dubbi si sono espressi circa la metodologia e talune conclusioni,
altrettanto non convincenti appaiono le forzature delle letture dei
paesaggi dipinti in alcuni sfondi che la studiosa riconduce
unicamente al nord Europa, senza considerare la possibilità di
inquadrare quegli episodi all’interno della circolazione culturale
sud europea – fatta eccezione per Napoli per cui più volte cita la
figura di Polidoro – dalla Penisola Italiana a quella Iberica, dove
certi stilemi erano ormai assorbiti e reinterpretati in chiave ormai
manierista. In tal senso un’analisi che non riporti all’insieme
ma che si sofferma unicamente sul dettaglio, pur suggestiva, rischia
di apparire oltremodo insostenibile, posto che i paesaggi di Patinir,
van Heemskerck, van Cleve, van Scorel o addirittura Massys, nei
retabli sardi appartenenti a quell’eterogeneo corpus, paiono
del tutto mitigati attraverso una interpretazione autonoma che ha le
sue radici nel manierismo meridionale da una parte (Marco Pino,
Criscuolo, Polidoro) e toscano dall’altra (Granacci, Larciani,
Bronzino, Pontormo, Nicolò dell’Abate), senza trascurare in tale
percorso figure importanti, ma periferiche, della Penisola Iberica,
come Luis de Morales, Alejo Fernández, il Maestro del Pulgar, Juan
Ramírez, Francisco Hernández, Pedro e Luís de Machuca, Juan de
Juanes o gli stessi Raxis-Sardo.
Di
Morales basti citare la Preghiera nel deserto del Prado; la
Sacra Famiglia di New York (The Hispanic Society); il trittico
formato da Crocifissione, Compianto e Resurrezione
divisi tra il Prado e il Museo di Salamanca; il dittico della Pietà
e le Stimmate di S. Francesco di Badajoz o il Santo Stefano
di Oviedo (Museo de Bellas Artes de Asturias), dove compare perfino
quell’oculo nel paesaggio roccioso che ritroviamo
nell’Invenzione della Vera Croce di Benetutti e nel San
Sebastiano della Pinacoteca di Sassari – individuato acutamente
dalla Spissu come “prova” della derivazione nordica e del legame
del pittore attivo nell’isola con van Scorel (p. 128) – che
dimostra come l’artefice (o artefici) attivi nel nord della
Sardegna non fossero così alieni o decontestualizzati dalle culture
periferiche dei regni ispanici, come invece vorrebbe dimostrare la
Spissu.
Una
cultura quindi più che diffusa e che trova il suo appoggio nei
rapporti che intratteneva l’isola con la Spagna centro meridionale
– e la migrazione di Pietro Raxis il vecchio verso il 1526 in
Andalusia lo dimostrerebbe
– e con la Penisola italiana, da Genova a Napoli, passando per la
Toscana, e Roma, luoghi – questi ultimi due – da dove provenivano
rispettivamente Pietro Giovanni Calvano e Giovanni del Giglio: i
principali pittori attivi nella città turritana nel secondo quarto
del XVI secolo. In tal senso risulta assai arduo concordare con le
conclusioni della Spissu, che individua l’origine dell’anonimo
Maestro attivo nell’isola (ma poi quale dei tanti?) nel nord
Europa, visto che interpreta la “natura […] come sympathetische
Landschaft,
sintomo di una vicinanza non casuale a Lucas Cranach, nelle Madonne
di un patetismo lirico e incupito, nelle figure dei Giudei ombrose e
corrucciate, nell’incursione quasi irriverente dell’ebreo Giuda:
momenti che rimandano ad un universo culturale pervaso da una
spiccato germanismo
delle forme e della sensibilità” (p. 325).
IL
LIBRO
Il
Maestro di Ozieri. Le inquietudini nordiche di un pittore nella
Sardegna del Cinquecento
di
Maria Vittoria Spissu
Il
Poligrafo, Padova, 2014
403
pagine
€ 30,00
NOTE
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