1. Gli ideali degli antichi intorno a L. G. Bruto e M. G. Bruto.
La vicenda dell'uccisione di Cesare suscitò fin dall'antichità emozioni forti. Noi moderni tutt'oggi restiamo affascinati quando a teatro andiamo a vedere il Giulio Cesare di Shakespeare dove il drammaturgo seppe rappresentare magistralmente le due opposte tensioni che da sempre lacerano l'uomo, gli ideali da una parte e l'amore verso le cose materiali (le ricchezze per es.) dall'altra. Così Bruto davanti al popolo romano pronunciava tutto il suo bel discorso nel quale faceva appello agli ideali o per meglio dire all'ideale romano della libertas da lui salvata, presentandosi come il salvatore della res publica, mentre Antonio, da buon oratore assolutamente consapevole di come persuadere il popolo, improntò il suo discorso sui beni materiali, rivelando che Cesare, per testamento, aveva lasciato ad ogni cittadino romano una parte delle sue ricchezze. Nella massa ovviamente il desiderio di ricchezza vinse sugli ideali.
Noi potremmo pensare che si tratti di una geniale invenzione del drammaturgo inglese, ma non è così; Shakespeare si attenne alle traduzioni delle Vite plutarchee di Cesare, Bruto e di Antonio . Questi torbidi avvenimenti della storia romana possiedono una qualità scenica, come la definiva Enrico Montanari , insita nei fatti e che è ben riportata nelle fonti antiche (Plutarco, Svetonio, Appiano, Cassio Dione). In un certo senso sia Cesare sia Bruto recitarono dei ruoli che non si scelsero loro, ma che ereditarono dalle loro famiglie, poiché così funzionava la società romana. Cesare apparteneva alla gens Iulia che rivendicava una discendenza divina da Venere, ma egli discendeva anche dalla gens Marcia che come capostipite poteva annoverare ben due re (Numa Pompilio e Anco Marcio) e quindi poteva vantare una discendenza sia divina sia regale. Se a Roma ci poteva essere un personaggio che si pensasse potesse aspirare al regno (l'Adfectatio regni era il crimine più grave nella Roma repubblicana) per i contemporanei quello doveva essere Cesare in virtù della sua discendenza. Al contrario colui dal quale ci si aspettava la salvaguardia delle libertà repubblicane, per i romani era proprio Marco Giunio Bruto e nessun altro, in quanto discendente di Lucio Giunio Bruto che aveva cacciato Tarquinio il Superbo e fondato la Repubblica . I romani stessi si aspettavano che il discendente di colui che aveva scacciato il tiranno e istaurato la libertas, dovesse emularne le gesta e scacciare il nuovo tiranno e questo in virtù della loro usanza di conservare le imagines maiorum negli atria delle loro dimore e di far soffermare i giovani membri di quella famiglia davanti ad esse, in modo che essi potessero riflettere e apprendere le virtutes dei loro antenati . Lo ius imaginum era riservato in origine solo ai patrizi, successivamente venne esteso a tutti coloro che avevano ricoperto magistrature curuli . Possedere imagines maiorum era dunque un simbolo di nobilitas . Ci si aspettava quindi che i discendenti di una gens emulassero le gesta dei loro avi ed in caso li superassero in virtù. Questo è fin tanto vero che sappiamo che quando in un primo momento Bruto non dimostrò grande opposizione a Cesare, i senatori erano a tal punto delusi dal suo comportamento da lasciar sulla sua sedia senatoria biglietti con scritte del tipo volesse il cielo che tu fossi ancora vivo (chiaramente alludendo a Lucio Giunio Bruto fondatore della repubblica) oppure tu non sei un vero Bruto . Anche Cicerone nell'opera dedicata all'amico si augurava che egli si dimostrasse all'altezza del suo antenato (Brutus 331, dove auspicava che egli potesse rinnovare e accrescere la gloriosa memoria di due grandi famiglie) . In poche parole i romani si aspettavano che il discendente di L. G. Bruto dovesse comportarsi come lui. Bisogna ricordarsi che a Roma, sul Campidoglio, c'era un celebre gruppo bronzeo con i re di Roma (da cui era escluso Tarquinio il Superbo a causa della sua superbia , sostituito dalla statua di Tito Tazio) e con Brutus con la spada sguainata databile fra la fine del IV e l'inizio del III secolo a. C.. Il significato di questo gruppo, per i romani, era che mai più a Roma sarebbe potuto tornare un tiranno (un nuovo Tarquinio il Superbo) poiché c'era L. Giunio Bruto con la spada sguainata che sorvegliava affinché ciò non accadesse. Egli era non solo l'emblema della res pubblica, ma anche e soprattutto della libertas repubblicana. Era stato l'atto di Cesare di affiancare una propria statua a questa di Bruto (a significare che la serie dei re non era stata chiusa per sempre dal primo console, ma solo temporaneamente interrotta) a convincere più di ogni altra cosa M. G. Bruto a partecipare alla congiura e, prima dell'assassinio di Cesare, i congiurati rievocarono proprio la figura di Bruto maggiore e rinnovarono i giuramenti del popolo contro i re .
Il gesto del Giunio Bruto cesaricida era quindi visto come il compimento del suo dovere famigliare in quanto discendente del Giunio Bruto fondatore della Repubblica, cioè quello di difendere la libertas repubblicana ogni qualvolta essa fosse messa in pericolo.
Bisogna però ricordare che la libertas difesa da M. G. Bruto e dal suo partito, era una libertas aristocratica, che sarebbe stata ristretta a e soprattutto esercitata da un'élite .
Se quindi già la figura del Bruto cesaricida poteva essere presa come emblema della libertà repubblicana, ancora di più lo era il suo celebre capostipite, L. Giunio Bruto fondatore della Repubblica.
La vicenda di L. G. Bruto è estremamente interessante.
Cicerone (De divinazione 1, 22, 44-45) descrive un sogno profetico avuto da Tarquinio il Superbo: al re comparve un pastore che conduceva verso di lui un gregge nel quale vi erano due stupendi arieti. Il re decise di immolare il più bello dei due agli dei, l'altro però si avventò contro di lui e lo gettò a terra. Qui a terra vide un prodigio avvenire in cielo . Gli indovini gli spiegarono che l'ariete impetuoso rappresentava qualcuno che il re credeva stolto come una pecora, ma che invece era provvisto di un animo eccezionale ed estremamente saggio, che avrebbe potuto cacciarlo dal regno. Giuno Bruto era parente del re (era il figlio di Tarquinia, sorella del re) e, saputo che il re stava facendo uccidere tutti i maggiorenti della città (Livio Hist. 1, 56, 7-9) , decise di togliere dall'animo dello zio qualsiasi sentimento ostile nei suoi confronti. Per convincerlo che poteva non ucciderlo in quanto non costituiva un problema, si finse volutamente stolto (da frammenti dello storico della metà del II secolo a. C. A. Postumio Albino sappiamo per esempio che per fingere questa sua follia mangiava i semi dei fichi buttando via tutta la polpa o mangiava fichi del tutto acerbi condendoli con il miele per renderli dolci) . Il re e il resto dei cittadini lo credettero folle e così gli diedero il soprannome di Brutus (stolto). Livio così commenta la vicenda:
Sostenendo dunque a bella posta la parte dello stolto, e lasciando se stesso e i suoi averi in preda al re, non rifiutò nemmeno il soprannome di Bruto, affinché, nascosto sotto il velo di tale soprannome, il suo coraggio, quel coraggio che avrebbe dato la libertà al popolo romano, potesse attendere il momento propizio .
Poi lo storico ci narrava del suo viaggio a Delfi e di come abilmente fosse riuscito a farsi credere uno stolto dai compagni, ma di come invece fosse estremamente saggio e abile .
Dove si vede molto bene il ruolo di difensore della Repubblica che i romani attribuivano a L. G. Bruto, è il giuramento da lui pronunciato sul coltello insanguinato di Lucrezia:
- Per questo sangue, purissimo prima del regio oltraggio, io giuro, e chiamo voi a testimoni, o dèi, che da questo istante perseguirò Lucio Tarquinio Superbo, assieme alla sua scellerata consorte e a tutta la sua figliolanza, col ferro, col fuoco, con qualsiasi mezzo io possa, e che non consentirò che essi né alcun altro regni più a Roma..
Per gli antichi Bruto era celebre proprio per la sua saggezza e pazienza, infatti si era finto stolto per convincere lo zio che non costituiva una minaccia per il suo regno, aveva sopportato che tutti lo credessero folle e lo prendessero in giro attribuendogli soprannomi non gentili, sopportò che tutti lo trattassero non bene, attendendo pazientemente il momento propizio per scacciare il tiranno e liberare la città (momento che si presenterà in seguito alla tragica vicenda di Lucrezia) . Sia Giunio Bruto fondatore della Repubblica, sia il suo lontano discendente cesaricida potevano quindi essere visti come emblema della libertà repubblicana, ma tra i due quello che nell'antichità meglio incarnava gli ideali di difesa della libertà repubblicana era sicuramente il fondatore della Repubblica, la cui statua si trovava nel luogo più sacro della città a sottolineare che mai più un tiranno sarebbe potuto tornare a Roma, poiché c'era lui che sorvegliava.
Nel Rinascimento L. Giunio Bruto continuò ad essere visto come il simbolo della libertas repubblicana in base alle notizie fornite dalle fonti antiche (Cicerone, Livio, Plutarco ecc.); esse infatti lo descrivevano come il massimo exemplum di libertas visto che fu colui che cacciò il tiranno, divenendo il primo console e questa era quindi la visione che gli umanisti avevano di lui.
Anche Marco Giunio Bruto era nel Rinascimento considerato un simbolo di libertà repubblicana sempre in base alle fonti antiche, come Plutarco che insisteva sul fatto che egli si presentasse come il campione della libertas repubblicana, adempiendo così ai suoi doveri familiari. In un passo della vita a lui dedicata, Plutarco gli fa pronunciare queste parole:
Preferisco morire, grato al destino perché, dando la mia vita alla patria alle Idi di Marzo, per lei ne ho vissuta un'altra libera e rispettabile.
Di queste ideologie legate alle figure dei due Bruti dovremo tener presente quando tratteremo del Bruto di Michelangelo che si trovava nella biblioteca del cardinale Niccolò Ridolfi, che fu fatto realizzare per celebrare l'uccisione del duca Alessandro de' Medici da parte di Lorenzino de' Medici.
Prima di addentrarci nell'analisi dell'opera, è però opportuno riassumere brevemente la vicenda storica alla quale l'opera è legata.
2. La figura di Bruto nella corte rinascimentale del cardinal Ridolfi.
2.1 Il contesto storico della Firenze repubblicana e ducale.
A Firenze la Signoria dei Medici (quella di Cosimo e di Lorenzo il Magnifico) era una sorta di governo aristocratico dove i Medici governavano come primi inter pares circondati dal sostegno delle altre famiglie nobiliari fiorentine, o per meglio dire, insieme ad alcune di esse, alleandosi ora con le une, ora con le altre . Dopo il sacco di Roma (6 maggio 1527), a Firenze la fazione repubblicana sfruttò l'opportunità della momentanea crisi del papa Clemente VII de' Medici per cacciare i Medici e ripristinare la Repubblica (1527-1529). Nel 1529 il papa si riappacificò con l'imperator (pace di Barcellona), il quale, in cambio di diverse concessioni e dell'incoronazione (avvenuta a Bologna il 24 febbraio 1530), inviò alcune sue truppe a Firenze ponendo così fine alla Repubblica. Durante la Repubblica in realtà la struttura oligarchica era rimasta sostanzialmente intatta, poiché le magistrature più elevate erano ricoperte dai membri delle più nobili famiglie fiorentine. Le cose cambiarono nell'ultimo anno della Repubblica quando i popolani presero il sopravvento, poiché questo comportò la prima vera messa in discussione del sistema aristocratico. Adesso homines novi non provenienti dalle famiglie più nobili iniziarono ad accedere anche alle magistrature più elevate, a partire da Francesco Carducci (uno dei massimi rappresentanti dei popolani) che divenne gonfaloniere . Fu in questa fase che Michelangelo, potendo beneficiare di questo mutamento, divenne magistrato, venendo nominato uno dei Nove della Milizia preposto a difesa della città e, il 4 aprile 1529, Governatore e Procuratore Generale sopra le fortificazioni . Michelangelo non apparteneva alla più alta aristocrazia (i cittadini della maggiore) che in precedenza erano gli unici che potevano accedere al gonfalonierato e alle magistrature superiori in quanto iscritti in una delle sette arti maggiori . Egli apparteneva alla piccola nobiltà (i cittadini della minore) che prima poteva accedere solo alle cariche inferiori e a solo una quarta parte delle magistrature superiori in quanto immatricolati in una delle quattordici arti minori .
Con l'abbattimento della Repubblica ad opera delle truppe imperiali, il papa consegnò il potere ad Alessandro de' Medici che governò dal 1530 al 1537, divenendo il primo duca di Firenze (duca a partire dal 1532) e consolidando la propria posizione sposando nel 1536 Margherita d'Austria, figlia di Carlo V. Alessandro all'inizio ricevette l'appoggio dei Grandi (gli aristocratici) contro i popolani, ma ben presto se ne alienò il consenso non appena fu chiaro che egli non voleva ritornare alla precedente situazione della Signoria, ma voleva istaurare un regime più accentrato e da qui le accuse di tiranno . Con la creazione del ducato, infatti, il governo aristocratico veniva meno a vantaggio di un governo di tipo più monarchico e accentrato e questo ovviamente non fece piacere alle famiglie aristocratiche fiorentine che volevano continuare ad essere coinvolte nella gestione del potere. Molti aristocratici che prima l'avevano sostenuto, divennero suoi fieri rivali, come Filippo Strozzi che inizialmente, anche per ragioni di parentado , l'aveva sostenuto e finanziato per poi divenirne un fiero oppositore tanto che, non appena Lorenzino de' Medici gli rivelò di aver assassinato il duca Alessandro, Filippo, per ricompensarlo, fece sposare i suoi due figli maschi con le sorelle di Lorenzino . Oltre a Filippo e Lorenzino, tra i massimi oppositori di Alessandro vi erano i cardinali Salviati, Ridolfi e Gaddi, tutti riuniti intorno al cardinale Ippolito de' Medici , il quale però morì nel 1535 mentre si stava recando dall'imperator per denunciare i crimini del duca Alessandro .
Non avendo più l'appoggio dell'aristocrazia, Alessandro de' Medici si ingraziò il popolo contro la nobiltà fiorentina e questo non fece che inasprire il conflitto a distanza con gli esuli aristocratici fiorentini.
Quando nella notte tra il 5 e il 6 gennaio del 1537 Lorenzino assassinò il duca Alessandro, diversi aristocratici sperarono in un ritorno ad una forma di governo di tipo aristocratico, ma le loro speranze furono vane perché l'ascesa al potere di Cosimo I de' Medici avrebbe posto fine a tale gestione del potere. Con Cosimo, ed in maniera più netta che con Alessandro , non vi sarà più il Signore circondato da alcune delle maggiori famiglie con cui spartiva il potere, ma il duca (e dal 1570 Granduca) che governava da solo e sotto i suoi sudditi .
2.2 Lorenzino de' Medici, il nuovo Bruto.
Alessandro si era fatto come compagno il giovanissimo cugino Lorenzino de' Medici (allora ventenne), il quale aveva ricevuto un'approfondita cultura classicista basata sulla lettura dei testi antichi. Egli non gradiva il potere monarchico esercitato da Alessandro e decise di emulare Marco Giunio Bruto. Come quest'ultimo aveva posto la difesa della libertas repubblicana al di sopra di tutto, perfino dei suoi legami familiari, uccidendo il padre adottivo (Cesare) perché quest'ultimo aveva violato le libertà repubblicane, così egli decise di porre anche lui la difesa di tale libertas al di sopra dei suoi vincoli parentali e di uccidere il nuovo tiranno. Egli si presentò come il nuovo Bruto difensore dei medesimi valori e infatti, subito dopo l'uccisione del cugino Alessandro de' Medici, fece realizzare da Giovanni da Cavino nel 1537 una moneta (Figg. 3-4) che si rifaceva ad un denarius fatto coniare da M. G. Bruto.
Bruto e Cassio, in Tracia, tra il 43-42 a. C. fecero coniare monete per poter pagare il loro esercito che doveva affrontare l'esercito di Ottaviano e Antonio . Tra le monete, Marco Giunio Bruto fece coniare denarii che recavano sul recto il suo ritratto, mentre sul verso fece rappresentare un pileus tra due gladii con sotto la scritta EID.MAR (idi di Marzo). L'immagine sul verso era stata fatta fare da Bruto come emblema della libertas da lui difesa. Infatti il pileus (o pileum) era un simbolo di libertas (tanto che veniva dato agli schiavi quando venivano liberati come segno della libertà acquisita) e il porlo tra due pugnali con sotto la scritta idi di marzo, alludeva in maniera esplicita al fatto che uccidendo Cesare (i pugnali) alle idi di Marzo (la scritta), egli aveva restituito la libertas al popolo romano. Questo è esplicitamente affermato da Cassio Dione:
Bruto
coniò delle monete sulle quali era raffigurato un pileo tra due pugnali, per dichiarare, attraverso le figure e anche la scritta che egli, d'accordo con Cassio, aveva dato la libertà alla patria.
Questi denarii, già famosi nel mondo antico, continuarono ad esserlo anche nel Rinascimento sebbene, in questo periodo, la fama di questi denarii dipendesse soprattutto dalle fonti letterarie, poiché nessuno o quasi nessuno di quelli che li citava li aveva mai visti .
Già Poliziano parla di questa moneta che probabilmente conosceva attraverso il passo di Cassio Dione . Quest'immagine ebbe tanto successo che finì per diventare l'emblema del concetto di libertas e di respublica liberata come avvenne in una delle edizioni postume degli Emblemata di A. Alciati , ma prima ancora quest'immagine, con tale significato, venne presa a modello da Lorenzino de' Medici nel 1537 per celebrare l'uccisione del cugino Alessandro de' Medici (primo duca di Firenze) .
Come per Poliziano, anche qui il modello dovrebbe essere stato il passo di Cassio Dione che poneva tale immagine esplicitamente in relazione con la volontà di Bruto di mostrarsi come il difensore della libertà repubblicana. La moneta di Lorenzino recava sul recto il suo ritratto (con la scritta LAVRENTIVS MEDICES) al posto di quello di M. G. Bruto e sul verso la stessa immagine dell'altra, il pileus libertatis tra due pugnali; la scritta sottostante era diversa poiché questa recitava VIII ID. IAN. (VIII Idus Ianuarias) che sarebbe il 6 gennaio, il giorno in cui Lorenzino assassinò il duca Alessandro. Riusare la stessa immagine della moneta di M. G. Bruto ed indicare il giorno del tirannicidio con la menzione delle idi, rinviando così all'assassinio di Cesare, era un espediente usato da Lorenzino per poter ribadire in maniera ancor più netta l'identificazione di sé come il nuovo Bruto .
Bisogna anche aggiungere che sia Bruto sia Lorenzino affidarono questo messaggio a monete che, a differenza per esempio di una medaglia, circolavano e potevano quindi veicolare il messaggio a un gran numero di persone .
2.3 Il Bruto di Michelangelo.
Gran parte degli esuli fiorentini a Roma, ostili prima ad Alessandro e poi a Cosimo I de' Medici, si presentavano come i difensori della libertas fiorentina ma la libertas da loro difesa era la stessa difesa da M. G. Bruto, cioè una libertas aristocratica. Quello che essi volevano era un ritorno ad un governo aristocratico dove potessero essere veramente in possesso della libertas poiché partecipavano direttamente al governo.
A Roma uno dei più importanti circoli di fuoriusciti fiorentini antimedicei maggiormente fautore di un ritorno alla Repubblica, era quello che si riuniva intorno al cardinale Niccolò Ridolfi e con questo si arriva al busto di M. G. Bruto di Michelangelo (Fig. 1) che fu scolpito proprio per essere posto nella celebre biblioteca del cardinale che era anche il luogo dove si riunivano gli esuli fiorentini legati al Ridolfi .
Il busto di Bruto si conserva a Firenze nel Museo Nazionale del Bargello (inv. Sculture n. 97) e fu scolpito da Michelangelo in collaborazione con il suo allievo Tiberio Calcagni. È un'opera in marmo alta 95 cm, posta su una base di 21cm.
Di quest'opera Vasari parla solo nella seconda edizione delle sue Vite, quella del 1568, a proposito della quale afferma:
aveva seco Michelagnolo a questo parlamento Tiberio Calcagni scultore fiorentino, giovane molto volenteroso di imparare l'arte, il quale essendo andato a Roma s'era volto alle cose d'architettura. Amandolo Michelagnolo, gli aveva dato a finire, come s'è detto, la Pietà di marmo ch'e' roppe, et inoltre una testa di Bruto di marmo col petto maggiore assai del naturale, perché la finisse quale era condotta la testa sola con certe minutissime gradine. Questa l'aveva cavata da un ritratto di esso Bruto intagliato in una corgnola antica, che era apresso al signor Giuliano Cesarino, antichissima, che a' preghi di Messer Donato Gianotti suo amicissimo la faceva Michelagnolo per il cardinale Ridolfi, che è cosa rara.
Sebbene Vasari rinunci consapevolmente a rivelarci alcune notizie importanti su quest'opera , ci fornisce però il nome del committente; l'opera fu infatti commissionata a Michelangelo da Donato Giannotti che era un suo stretto amico fin dai tempi della Repubblica fiorentina, nella quale Donato era stato segretario della Cancelleria dei Dieci . Giannotti a sua volta commissionò l'opera per il cardinale Niccolò Ridolfi, di cui egli era il segretario .
Bruto è vestito all'antica con un paludamentum tenuto fermo da una fibula sulla spalla destra. Il volto compie un'energica torsione verso destra conferendo dinamismo alla figura. Egli guarda lontano, verso un punto escluso a noi osservatori e questo conferisce al busto un'espressione assorta, solenne e di potente gravitas . Per questa torsione Michelangelo potrebbe aver tenuto a mente il marmo rappresentante Caracalla che poteva vedere nella collezione Cesi (oggi agli Uffizi, inv. 1914, n. 213) . Come ci informa Vasari, Michelangelo, per scolpire il volto di Bruto, tenne a mente anche un altro modello antico, una corniola con l'effige di Marco Giunio Bruto che apparteneva al signor Giuliano Cesarino . Va ricordato però che a Roma vi erano diverse sculture antiche rappresentanti Bruto che Michelangelo potrebbe aver conosciuto e tenuto presenti. Quando infatti l'Aldrovandi visitò la città di Roma nel 1550 , vide ben dieci ritratti scolpiti di Bruto .
Di questi dieci, tre venivano considerati rappresentanti Lucio Giunio Bruto ed erano, uno in casa di Antonio Paloso presso la Dogana, uno nella collezione di Domenico Capotio (presso piazza Sciarra) e l'ultimo era di proprietà del cardinale Rodolfo Pio da Carpi posto nel suo palazzo in Campo Marzio . Quest'ultimo era il celebre busto bronzeo che il 25/04/1564, pochi giorni prima di morire, il cardinale donò al popolo romano perché sia posta nel palazzo Capitolino e che fortunatamente si conserva ancora oggi nei Musei Capitolini (Palazzo dei Conservatori, inv. Sculture n. 1183. Fig. 2) . Sappiamo che nella casa del cardinale era collocato nella biblioteca,sul cornicione del camino (la testa di Iunio Bruto di Metallo con li occhi smaltati estimata di gran prezzo) .
Altri tre venivano identificati con Marco Giunio Bruto e si trovavano, uno nella villa dei Cesi in Borgo, uno nel palazzo di Luca de' Massimi alla Valle, il terzo apparteneva invece sempre al cardinale Rodolfo Pio da Carpi nel suo palazzo in Campo Marzio, posto sopra la porta dello studio e definito cosa non men bella che rara rispetto a quello di Lucio G. Bruto .
Gli ultimi quattro sono indicati dall'Aldrovandi senza precisare se si trattasse di Lucio o Marco G. Bruto. Di essi, due si trovavano uno accanto all'altro nella casa di Giuliano Cesarini, informazione interessante visto che egli possedeva anche la corniola antica che, stando a Vasari, Michelangelo tenne presente per scolpire il suo Bruto. In questo caso Michelangelo, eventualmente, potrebbe aver tenuto presenti anche questi due busti antichi raffiguranti Bruto. Un altro si trovava in casa di Metello Varro Porcari alla Minerva. L'ultimo apparteneva a Lorenzo Ridolfi e l'Aldovrandi così lo descrive:
Vi è la testa di Bruto bellissima col petto ignudo, ma ha un panno abbottonato su la spalla.
Questo Bruto è quello scolpito da Michelangelo (e quindi non è antico) che alla morte del cardinale Niccolò Ridolfi (20/01/1550), dovette passare al fratello Lorenzo che condivideva gli ideali repubblicani di Niccolò (a differenza dell'altro loro fratello Luigi che era filomediceo) .
Michelangelo quindi a Roma aveva a disposizione diverse opere antiche che rappresentavano i due Bruti alle quali potersi ispirare nell'ideazione della sua scultura.
Nel Bruto di Michelangelo, al maestro spetta tutto il volto, con i capelli che presentano una capigliatura antica con i piccoli riccioli appena sbozzati, la fibula e le pieghe del paludamentum subito sottostanti la fibula . A Tiberio Calcagni, a cui Michelangelo affidò il completamento dell'opera, appartengono le altre pieghe del mantello eseguite con minore perizia di quelle scolpite dal Buonarroti. Tiberio Calcagni però non finì del tutto la scultura che è di conseguenza rimasta incompiuta; manca per esempio la levigatura finale, soprattutto nel volto .
Una particolarità curiosa è che nella fibula che tiene fermo il paludamentum sulla spalla destra, vi è inciso un piccolo volto posto di profilo. La posa di profilo richiama ovviamente le monete antiche, anche quelle che rappresentavano Bruto che Michelangelo, stando a Vasari, tenne presenti . Il volto del busto di Bruto è idealizzato, ma il volto di profilo sulla fibula presenta una forte connotazione fisiognomica e questo fa ipotizzare che possa trattarsi di un ritratto di un contemporaneo di Michelangelo, cosa di per sé interessante visto che Michelangelo non amava eseguire ritratti . C. de Tolnay, interrogandosi su chi potesse essere colui qui ritratto, ha giustamente sottolineato che la prima ipotesi che viene subito in mente è che possa trattarsi del destinatario finale, Niccolò Ridolfi, ma che questo sia da escludere poiché non mostra nessuna somiglianza con il ritratto superstite del cardinale. Secondo lo studioso, allora, l'ipotesi più probabile è che possa trattarsi di Donato Giannotti, l'amico dello scultore nonché committente diretto dell'opera; purtroppo non abbiamo un ritratto dello scrittore con cui confrontarlo . Se così fosse allora Michelangelo per scolpire il Bruto partì da un ritratto reale, per poi idealizzarlo nell'esecuzione finale .
Giustamente G. Costa sostiene che esista un filo rosso che collega l'assassinio del duca Alessandro ad opera di Lorenzino, la moneta fatta coniare da Lorenzino, l'Apologia dello stesso Lorenzino, i Dialogi di Giannotti e il Bruto di Michelangelo , un filo rosso basato sull'esaltazione della figura di Bruto come colui che legittima i tirannicidi. Infatti tutti questi eventi ed opere sono l'espressione di un medesimo gruppo, quello dei fiorentini sostenitori della Repubblica, che sebbene caratterizzato da diversità di idee al suo interno, era ben compatto nel dare di Bruto una lettura positiva come exemplum virtutis da imitare.
L'opera di Michelangelo era destinata alla biblioteca del cardinale Niccolò Ridolfi a Roma, dove si trovava insieme a busti antichi . La presenza di busti e monete antiche nelle biblioteche di palazzo era una consuetudine tipica nella Roma della seconda metà del 400 e del 500; infatti nelle biblioteche erano collocati libri latini e greci che trattavano dei personaggi dell'antichità rappresentati nei busti e nelle monete antiche. Essi servivano quindi per ridare un volto, per così dire, a quei celebri personaggi di cui si parlava nei libri lì conservati . In questo modo i ritratti sembravano quasi riportare in vita quei celebri uomini del passato e potevano fungere come diretta fonte di sapientia, virtus et nobilitas .
Anche il Bruto di Michelangelo svolgeva questa funzione. Infatti nonostante fosse un'opera moderna, era in stile classicheggiante e per di più di un autore che era riuscito a far passare per antica una sua scultura a sottolineare la raggiunta parità tra antichi e moderni. Essa quindi poteva stare insieme con gli altri busti antichi e assolvere alla loro stessa funzione. Tuttavia l'azione che la figura di Bruto voleva qui ispirare era il tirannicidio. Infatti la biblioteca del Cardinale Ridolfi non era solo un importantissimo centro di conservazione e promozione della cultura , ma anche il luogo dove si riunivano gli esuli fiorentini antimedicei. Il cardinale Niccolò Ridolfi era un fiero sostenitore delle idee repubblicane e per questo era in stretta sintonia con Giannotti che promuoveva gli stessi ideali . Mentre molti aristocratici fiorentini che erano stati sostenitori di ideali repubblicani contro il duca Alessandro, in seguito all'ascesa di Cosimo I si erano riappacificati con il duca e avevano cambiato partito (è il caso del cardinale Salviati e di Filippo Strozzi), il cardinale Ridolfi invece si mantenne sempre saldo nei suoi ideali repubblicani .
Tenendo a mente questo, per comprendere meglio gli ideali insiti nel Bruto dovremo fare un passo indietro e considerare le figure di Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, soprannominato Lorenzino, e di D. Giannotti.
2.4 L. G. Bruto, M. G. Bruto e il nuovo Bruto toscano, tra Giannotti e Michelangelo.
Come Giannotti, anche Lorenzino vedeva negli antichi non solo degli exempla virtutis da imitare, ma anche dei modelli che potessero giustificare le azioni nel presente. Infatti se si emulava un'azione compiuta da un celebre personaggio del mondo antico, era l'auctoritas del modello antico a legittimare l'azione compiuta nel presente. Ma l'imitatio dei modelli passati era spinta da Lorenzino molto oltre, in una maniera che lasciava un po' perplessi i suoi contemporanei, poiché egli era ossessionato dalla fisiognomica e ricercava continuamente somiglianze fisiche tra le persone del suo tempo e i viri illustres del mondo antico. Un suo contemporaneo, Anton Francesco Doni, affermava:
Lorenzino de' Medici come uedeva un uomo raro, o nella uirtù o nel uitio, andaua esaminando bene la sua phisionomia, se la poteua comparare alle medaglie antiche, e secondo che conosceua la similitudine delle linee, e dei profili, così faceua paragone a costumi, e il più delle uolte trouaua essere quei medesimi effetti nell'uomo moderno, che dell'antico era stato scritto.
Il modello che Lorenzino scelse di emulare fu proprio Marco Giunio Bruto (e anche del suo celebre antenato Lucio Giunio Bruto). Egli aveva trovato analogie fisionomiche tra sé e il cesaricida grazie alle quali lui si reputava essere il nuovo Bruto. La volontà di assimilazione ai due Bruti derivava anche dal fatto che egli si fosse avvicinato alla parte repubblicana e che avesse iniziato a nutrire un forte sentimento di ostilità sempre più crescente verso il nuovo duca Alessandro, che pure l'aveva accolto e protetto. Furono proprio queste associazioni con Marco Giunio Bruto a spingere Lorenzino al tirannicidio , poiché se voleva essere il nuovo Bruto, difensore degli ideali repubblicani, doveva imitare l'azione più importante compiuta da Bruto, il tirannicidio, il quale a sua volta si era rifatto al fondatore della sua gens, Lucio Giunio Bruto, modello comunque tenuto presente anche da Lorenzino. Come l'uccisione di Cesare veniva giustificata da Bruto dall'aver emulato le gesta del suo antenato, così Lorenzino giustificava e soprattutto legittimava la sua azione potendo affermare di aver emulato le gesta di Marco Giunio Bruto; in questo modo egli poteva vantarsi di essere realmente il nuovo Bruto, il Bruto toscano , poiché ne aveva rinnovato le azioni nel presente.
Bisogna dire che, dopo il tirannicidio, tutti i suoi contemporanei lo indicarono come il nuovo Bruto, sia i fautori della repubblica, sia i fautori del duca. Ovviamente la differenza stava nel diverso valore dato alla figura del tirannicida. I primi, in accordo con le antiche fonti filo-repubblicane, vedevano in Bruto il restitutore della libertas repubblicana e valutavano quindi positivamente il nuovo Bruto (Lorenzino). I secondi vedevano in Bruto il massimo exemplum di tradimento e così Lorenzino. Infatti affermavano che come Bruto aveva tradito il padre adottivo, così Lorenzino, imitandolo, aveva tradito il suo parente che l'aveva accolto e protetto .
Donato Giannotti parla più volte sia di Lucio Giunio Bruto sia di Marco Giunio Bruto esaltandoli come exempla virtutis da imitare . È soprattutto in due sue opere che si trovano tali affermazioni, Della repubblica fiorentina e i I dialogi de' giorni che Dante consumò nel cercare l'Inferno e l Purgatorio.
La prima opera Donato Giannotti la dedicò proprio al suo protettore, il cardinale N. Ridolfi. Già nella prefazione Giannotti sostiene che fra tutte le imprese, liberare le città dai tiranni è considerata una cosa grande e meravigliosa, poiché è una cosa fruttuosa e utile a molti e pertanto può essere compiuta solo da uomini virtuosissimi che, attraverso questa pericolosa impresa, giustamente acquisteranno grande onore e gli uomini dovranno celebrare il nome di costoro con grandissima lode. Infatti quelli che sono autori di rovinare la Tirannide, restano nella memoria di ciascuno gloriosi . Poi introduce l'argomento che più gli sta a cuore e cioè che non basta abbattere la Tirannide, ma è necessario creare una buona struttura del governo repubblicano ed è a questo fine che scrive il libro. Tornando al modo in cui tratta della figura di Bruto, nel IX capitolo del II libro, Giannotti ribadisce che nessuno che favorisca l'ascesa di un tiranno potrà mai dire di essere mosso dal desiderio di gloria et honos, poiché essi spettano solo a colui che libera la propria patria dalla tirannide, anche a costo della propria vita e come esempio cita proprio Bruto:
... Nessuno fu mai tanto scellerato, o stolto, che
non esaltasse Bruto insino al Cielo, per averlo ammazzato (si riferisce al tiranno), e renduto alla Patria la Libertà.
In questo passo non si dice se si tratti di Lucio o Marco Giunio Bruto, ma il fatto che il suo nome venga riportato subito dopo quello di Curione, in opposizione a lui, fa pensare che qui Giannotti si riferisca a Marco G. Bruto. Nel cap. II del III libro invece si cita direttamente Lucio Giunio Bruto e V. Publicola, come coloro che, dopo la cacciata del Tiranno Tarquinio (il Superbo) , riformarono lo stato.
Ma è soprattutto nell'VIII capitolo del IV libro che si ritrovano gli esempi più significativi, poiché qui l'autore cita insieme Cesare e Cosimo I de' Medici come esempi di persone che sono ascese violentemente al principato facendosi padroni della città .Subito dopo, parlando di come un cittadino privato può acquistare grande reputazione, dice che uno dei modi è quando uno, con la sua virtus, restituisce alla patria sua la libertà. Nel far questo, sostiene Giannotti, si può essere costretti alla violenza, poiché:
Non può alcuno liberare la Patria dalla servitù, senza ingiuriare molti, i quali sono divenuti amici di quella (Tirannide); laonde alcuna volta è avvenuto, che quantunque uno l'abbia liberata, nondimeno ha avuto poi maggiori difficoltà nell'ordinare, e difendere la Repubblica, che non ebbe del trarla della potestà, di chi l'aveva oppressata, siccome Bruto, quello che cacciò i Tarquinj, se volle difendere la Repubblica, fu costretto ammazzare il figliuolo. Bruto, e Cassio dopo la Morte di Cesare, la quale felicemente succedette, furono poi nel difendere la Repubblica da tante le difficoltà oppressi, che finalmente con quella ruinarono.
Questo passo è fondamentale, intanto perché, ponendo insieme Cesare e Cosimo I, egli manifesta bene la consuetudine sua (e di molti suoi contemporanei) ad operare continui paralleli tra il passato ed il presente, poi perché i due Bruti sono citati insieme come modelli di uomini valorosi che si impegnarono per procurare la libertas alla propria patria, nonostante le numerose avversità nel farlo: Lucio Giunio Bruto condannando a morte il figlio per aver tramato contro la Repubblica da poco creata e Marco Giunio Bruto fronteggiando, con Cassio, i seguaci di Cesare (senza riuscirci). Ma l'inciso la quale felicemente succedette in riferimento all'assassinio di Cesare, è un commento personale di Giannotti con cui egli si dichiara pienamente dalla parte dei tirannicidi.
Quest'ideali sono ribaditi poco oltre dove si trova scritto:
Se alcuno liberasse la Città dalla servitù, perciocché per aver fatto sì egregia cosa, e tanto grata all'universale, acquisterebbe tanta reputazione, che avrebbe quella autorità, che egli volesse: per questa via camminò quel Bruto, che cacciò i Tarquinj, e fu sì grande la reputazione, che acquistò per sì egregio fatto, che potette riordinare la Repubblica in quel modo, che egli volle.
Il fondatore della Repubblica, L. G. Bruto, è qui espressamente indicato come modello positivo da seguire.
Nei Dialogi la figura di M. G. Bruto torna ad essere protagonista, visto che l'argomento del secondo dialogo , quello più breve, è proprio se Dante avesse fatto bene o meno a porre Bruto nel più profondo inferno.
Qui Donato Giannotti dà una valutazione totalmente positiva di Marco Giunio Bruto, facendo di lui un exemplum virtutis, ribadendo che, secondo il consenso universale, sono da esaltare coloro che uccidono i tiranni per restituire la libertas alla propria patria . Dante, secondo Giannotti, avrebbe errato nel collocare Bruto e Cassio nella bocca di Lucifero, infatti:
Oltra questo hà mostrato (il soggetto è Dante) di non hauer' saputo, che tutte le leggi del mondo promettono grandissimi et honoratissimi premij et non uituperosissime pene à coloro che spengono i Tiranni. Hà mostrato appresso di non sapere quanto fusseno honorati dal Populo Romano il primo Bruto, et Valerio Publicola per hauer' cacciato di Roma i Tarquinij, con quanto vituperio fusse dal sasso Tarpeio gettato à Terra Mallio Capitolino, non per essere stato Tiranno ma per hauer' mostrato voglia della Tirannide . ...
Le quali cose se egli hauesse saputo, non saria mai caduto in si fatto errore, che egli hauesse Bruto, et Cassio si fattamente dishonorati, i quali si come sempre sono stati, così anchora saranno à tutti gli huomini merauigliosi.
Di nuovo Giannotti accosta i due Bruti, il primo insieme a Valerio Publicola e il secondo a Cassio, come valorosi uomini da imitare per aver abbattuto la tirannide. Chiaramente le valutazioni di Giannotti sono di parte (della parte repubblicana ovviamente), poiché quando afferma che Bruto e Cassio sono stati sempre considerati meravigliosi da tutti, in realtà sta dando una valutazione parziale, perché sì, essi sono sempre stati lodati, ma bisogna aggiungere da tutti i fautori della repubblica e solo e soltanto da essi. Infatti accanto a questa versione, vi era l'altra versione largamente diffusa nel Medioevo e accettata da Dante, che vedeva in Bruto e Cassio i massimi exempla di tradimento in quanto avevano tradito la maestà dell'imperium che per volere divino Cesare aveva ricevuto e deteneva. Nel far questo, essi avevano commesso un tradimento contro Dio ed ecco perché in Dante essi stanno nella bocca di Lucifero insieme a Giuda. È proprio dai due diversi modi di concepire la figura di Bruto che derivano le diversità tra la visione di Giannotti e quella di Dante ed è sempre da qui che Lorenzino verrà identificato da tutti come il nuovo Bruto, ma con due significati opposti: uno estremamente positivo, l'altro profondamente negativo. Giannotti va oltre e sostiene che se Dante conosceva tutto ciò, allora si rese colpevole di un crimine di gran lunga più grave, poiché punirebbe coloro che invece meritano d'essere premiati .
Come fa notare G. Costa , le idee di Giannotti si possono riassumere nella sentenza:
Io intendo pur' questo, che egli hà messo Bruto et Cassio nelle Bocche di Lucifero, et io li uorrei collocare nella più honorata parte del Paradiso.
È Michelangelo , nel dialogo, a prendere le parti di Dante, pur premettendo che Bruto e Cassio meritassero lodi per il tirannicidio . Egli prima dimostra che Dante ben conosceva la natura malvagia dei tiranni e che meritassero di essere puniti . Dante quindi sapeva che Cesare era un tiranno e che Bruto e Cassio l'uccisero giustamente meritando lodi per quest'atto, visto che chi ammaza un Tiranno, non ammaza un huomo, ma una bestia in forma d'huomo , poiché i tiranni sono spogliati dall'amore verso il prossimo che caratterizza gli uomini e di conseguenza sono bestie. Bruto e Cassio quindi non peccarono, in primo luogo perché ammazzarono un'huomo, al quale ciascun Cittadino Romano per comandamento delle leggi era obbligato torre la vita. Secondariamente, perché non ammazarono un'huomo, ma una bestia uestita della imagine dell'huomo . Infatti, continua Michelangelo, Dante pose Catone l'Uticense come custode del Purgatorio proprio perché morì per difendere la libertà contro Cesare . Per comprendere allora perché Dante avesse punito Cassio e Bruto, bisognava andare a vedere dove egli li avesse collocati. Michelangelo sottolinea che essi sono posti tra i traditori della maestà divina. Infatti era stata la Provvidenza divina a stabilire che il mondo venisse conquistato dai romani e che l'impero romano fosse retto da imperatori. Di conseguenza Cesare aveva ricevuto l'imperium direttamente dalla Provvidenza divina e, uccidendo Cesare, Bruto e Cassio tradirono la maiestas divina .
Bruto e Cassio non valevano tanto come individui, ma nel loro ruolo di traditori della maestà divina, così come Cesare non valeva come uomo/tiranno, ma come colui che deteneva l''imperium per volontà divina .
Che sapete uoi se Dante hà avuto opinione, che Bruto et Cassio facesseno male ad ammazar' Cesare?
Che sapete uoi se egli diuenuto col tempo satio del dominare hauesse fatto come fece Sylla? Cio e hauesse restituito la libertà alla patria et riordinato la Republica? Hora se uiuendo egli hauesse fatto questo, non harebbono Bruto et Cassio fatto un' gran male ad ammazarlo?
Se adunque Cesare fosse vivuto, et hauesse fatto quel che fece Sylla, chi hauesse pensato innanzi d'ammazarlo, haria fatto grandissimo male. Et però Dante hà forse havuto opinione, che Cesare hauesse ad imitare Sylla. Et però hà giudicato, che Bruto et Cassio facesseno errore, et perciò meritasseno quella punizione, che egli hà dato loro.
In poche parole, noi esseri umani non possiamo conoscere il piano divino, nel caso specifico cosa la Provvidenza divina avesse avuto in mente per Cesare, e andando contro tale disegno si commette un terribile tradimento verso Dio .
La posizione di Michelangelo nei Dialogi è sì repubblicana, ma, educato nella filosofia neoplatonica cristiana di Marsilio Ficino, al primo posto mette la divinità, il fine ultimo a cui deve tendere l'anima. Nei Dialogi, tutti i dialoganti sono convinti che il miglior sistema politico sia quello repubblicano, ma si discute su quale sia la strada migliore per raggiungere tale forma di governo .
Bisogna infine ricordare che Donato Giannotti, insieme con Lorenzo Strozzi, stavano lavorando ad una tragedia che aveva come argomento proprio M. G. Bruto, dove il soggetto era tanto sublime che, affermava Giannotti, s'ella vi riuscirà come io mi persuado, senza dubio ne troveremo poche simili appresso i Greci .
Studiare la figura di Lorenzino e le idee repubblicane del gruppo che si riuniva intorno alla biblioteca del cardinale Ridolfi è importante per comprendere il Bruto di Michelangelo. Infatti l'opera era stata commissionata a Michelangelo da Giannotti per conto del cardinal Ridolfi proprio per essere posta nella biblioteca del cardinale, dove si riuniva il circolo filo repubblicano degli esuli fiorentini che ruotava intorno al cardinale.
Quest'opera serviva quindi per celebrare la figura di Bruto come tirannicida, dove Bruto valeva chiaramente come exemplum virtutis da imitare, da prendere a modello. Al tempo stesso in quel circolo si esaltava Lorenzino per aver assassinato il duca Alessandro presentandosi come nuovo Bruto e nel M. G. Bruto scolpito da Michelangelo si vedeva anche il nuovo Bruto toscano, attraverso l'allora consueta comparazione tra passato e presente. Proprio come Marco Giunio Bruto, assassinando Cesare, si era dimostrato all'altezza del suo celebre antenato, Lucio Giunio Bruto, così Lorenzino, compiendo quell'atto, si era dimostrato il degno erede di quei due celebri personaggi. Nel Bruto di Michelangelo questi messaggi erano ben presenti, visto che quest'opera era rivolta proprio ai membri del circolo repubblicano del cardinale. In poche parole, in quel gruppo, l'opera doveva servire prima di tutto come elogio del tirannicidio, ma in secondo luogo per celebrare e legittimare l'atto di Lorenzino che aveva assassinato il duca Alessandro, poiché nel Bruto si vedeva il nuovo Bruto, cioè Lorenzino. In terzo luogo, l'opera si rivolgeva ai membri di quel gruppo come exemplum da imitare nei confronti di tutti i tiranni e bisogna ricordare che a Firenze vi era il nuovo duca Cosimo I e forse l'opera potrebbe essere vista come un invito ad agire contro il nuovo tiranno o quantomeno così potrebbe essere stata considerata da alcuni.
2.5 La reinterpretazione medicea del Bruto di Michelangelo.
A questo punto bisogna toccare un altro argomento ad esso collegato e molto dibattuto, quello della datazione. Siccome l'opera celebra l'assassinio del duca Alessandro, il 6/01/1537 può essere preso come terminus post quem , che tuttavia si può alzare al 1539, che è l'anno in cui Giannotti entrò al servizio del cardinale Ridolfi, poiché l'opera fu commissionata da Giannotti per il cardinale . Alcuni pensano che sia stata realizzata immediatamente dopo l'ingresso di Giannotti alla corte del cardinale e quindi tra il 1539 e il 1541 , altri pensano che l'opera sia stata realizzata subito dopo l'assassinio di Lorenzino, avvenuto nel 1548, in questo caso l'opera sarebbe stata commissionata in sua memoria . Di sicuro il terminus ante quem è dato dalla morte del cardinale N. Ridolfi avvenuta nella sera de 20 gennaio 1550 .
Il carattere repubblicano del Bruto fece si che quest'opera fosse vista in maniera problematica da coloro che appartenevano al partito filomediceo, tanto è vero che Vasari nella prima edizione delle sue Vite (1550) non menzionò l'opera perché probabilmente i suoi significati antimedicei erano ancora troppo evidenti. Nella seconda edizione (1568) la citò, ma accuratamente non indicò il fatto che l'opera fosse un'apologia del tirannicidio . Quando verso la fine del 500 l'opera fu acquistata dai Medici , per far sì che l'opera non fosse considerata una celebrazione del tirannicidio, si decise di aggiungere un distico sul piedistallo, tuttora visibile, che recita:
Dum Bruti effigiem sculptor de marmore ducit / in mentem sceleris venit et abstinuit.
Quest'iscrizione ribalta completamente il significato dell'opera perché trasforma Bruto da exemplum virtutis da imitare in un exemplum malvagio da evitare assolutamente, rifacendosi alla versione più diffusa nel Medioevo che faceva di Bruto il massimo exemplum di tradimento. Così il Bruto di Michelangelo, nato per essere una celebrazione degli ideali repubblicani, venne trasformato in un'opera di segno opposto volta a fornire un modello negativo che bisognava tenere presente non più per imitarlo, ma per esortarci a non imitarlo. Per di più il distico serviva ad indicare un ripensamento in Michelangelo stesso sugli ideali repubblicani, poiché si insinua che egli avrebbe lasciato incompiuta l'opera in quanto inorridito dall'atto del tirannicidio, con un ovvio rinvio all'assassinio del duca Alessandro commesso dal nuovo Bruto, e questo implicherebbe un ripudio degli ideali repubblicani da parte del maestro, cosa ovviamente non vera .
NOTE
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Vedi nel BTA:
SIMBOLOGIE ANTIQUARIALI
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