La nascita dell’interesse di Athanasius Kircher,
illustre erudito e monaco gesuita, per il mondo egizio, e in particolare per la
sua scrittura, è dovuta all’influenza di tre uomini che hanno giocato un ruolo
fondamentale a tal scopo: Pietro della Valle, Nicolas Peiresc e il cardinale
Francesco Barberini.
Il primo, di ritorno da un viaggio al Cairo, portò a
Roma un vocabolario copto–arabo che Kircher tradusse. Nicolas Peiresc, invece,
mise in contatto il gesuita con l’ambiente romano grazie alla sua amicizia con
il cardinal Barberini, il quale gli affidò l’incarico di insegnante presso il
Collegio Romano.
Partendo dalla traduzione di Kircher del
geroglifico egizio, possiamo notare come questa si attenga esclusivamente al
livello simbolico–formale e non a quello linguistico, per il quale dovremmo
attendere Champollion circa due secoli più tardi.
La natura
magica del simbolo egizio rispetto all’alfabeto normale, richiese dunque, per
Kircher, un atteggiamento diverso da quello del traduttore che compila un
vocabolario, quale è stato l’approccio moderno ai geroglifici, cercando
un’attitudine più simile a quella dell’iniziato o del sapiente, che gli
permettesse di penetrare i significati ermeticamente sigillati nei segni sacri.
Ciò che
ottenne, però, rinviava continuamente ad altri sensi per cui il geroglifico,
per Kircher, fu ogni segno che dava origine a uno slittamento continuo di
senso. Questa linea interpretativa portò alla lettura dell’aspetto simbolico
invece di quello semantico ma è oggi considerata di nessun rigore scientifico.
Ma
nonostante l’aver adottato la via simbolica, lo studioso aprì una nuova era del
geroglifico: diversamente dal periodo Rinascimentale in cui si teneva in scarsa
considerazione l’aspetto documentario, egli studiò direttamente e fece
ricopiare con cura i geroglifici reali, cercando, per quanto gli fu possibile,
di riconoscere gli oggetti che essi rappresentavano.
Prima di
lui Horapollo l’Egiziano si era occupato della decifrazione dell’ideogramma
egizio, dando luogo a geroglifici veri ed altri inventati.
Il metodo
che Kircher adottò prevedeva la scomposizione delle figure “geroglifiche” nelle
loro parti costitutive.
Esemplificativo
fu il procedimento con cui analizza lo scarabeo
antropomorfo, che venne scandito in sei elementi “semplici” a ciascuno dei
quali venne attribuito sia un senso anagogico, che uno mistico e magico.
Tale
metodo non scomponeva la figura, bensì mostrava come un’immagine geroglifica
sia una totalità complessa e polisemica il cui senso complessivo non coincideva
con la somma delle parti perché il tutto era maggiore della somma delle sue
parti.
Ma nonostante la decifrazione kircheriana non sia oggi
riconosciuta come valida, non si può non riconoscere la precisione e la
chiarezza delle sue trascrizioni che costituiscono un effettivo salto
qualitativo rispetto alle riproduzioni del passato.
L’amore per l’Egitto di Athanasius Kircher coinvolse
il mondo intellettuale e scientifico europeo a lui coevo, tant’è che venne
riconosciuto come il padre fondatore dell’egittologia.
Nel 1635 gli venne affidato l’incarico di insegnare
scienze matematiche presso il Collegio Romano dove nel 1651 fondò il Museo
Kircheriano, una Wunderkammer pubblica
di antichità e curiosità.
Qui lo studioso invitava i suoi studenti ad aprire gli
orizzonti della loro immaginazione coinvolgendo tutti nei suoi esperimenti
sulla luce ed il suono e allestiva spettacoli per spiegare il funzionamento
delle sue macchine favolose.
Il Museo era espressione di un interesse universale
ed enciclopedico.
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Fig. 1: Collezione di Athanasius Kircher, Museum Kircherianum presso il Liceo Visconti di Roma. Foto cortesia di Stefano Colonna.
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Fig. 2: Collezione di strumenti astronomici provenienti dalla collezione di Athanasius Kircher, Museum Kircherianum presso il Liceo Visconti di Roma. Foto cortesia di Stefano Colonna.
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I valori filosofici che il luogo voleva trasmettere
erano espressi nei cinque ovali affrescati sul soffitto.
Nel primo è raffigurata una salamandra tra le
fiamme, immagine di Kircher che induce i visitatori ad entrare senza paura tra
le fiamme degli ardui studi.
Nel secondo ovale una rondine marina, un pesce
volante imbalsamato, pendeva tra otto geni gonfi di vento.
La rondine è allo stesso tempo simbolo dell’unione
di un elemento superiore e di uno inferiore (aria e acqua), una curiosità
zoologica, un esperimento sul magnetismo e come se non bastasse serviva anche
come anemometro per scoprire le infiltrazioni d’aria nel Museo.
Nel terzo ovale era raffigurato un portatore d’acqua
intento a riversare il contenuto del suo vaso sulla terra, emblema della
benefica diffusione delle scienze.
Il quarto mostrava un giovane che versava fiori da
una cornucopia, figura dell’ingegno che svela i segreti della terra mentre nel
quinto e ultimo ovale era raffigurato lo Zodiaco.
Passiamo ad osservare l’incisione raffigurante il
Museo: come si vede ai cinque ovali corrispondono le cinque riproduzione degli
obelischi che diventano uno schema di passaggio dall’Uno, cioè dal principio di
conoscenza universale enunciato in ogni ovale, al molteplice, cioè alle varie
scienze e arti allineate lungo le pareti di cui Kircher è l’uomo personificato.
Esemplari erano, quindi, i modelli lignei degli
obelischi, che ancora oggi è possibile ammirare nel Collegio Romano divenuto
sede del Liceo Luchino Visconti, e che il monaco gesuita utilizzava per il
corso di egittologia da lui istituito.
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Fig. 3: Obelisco ligneo di Athanasius Kircher. Sullo sfondo, riproduzione del
Collegio Romano, Museum Kircherianum presso il Liceo Visconti di Roma. Foto cortesia di Stefano Colonna.
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Erano le copie di sei obelischi romani, tre dei quali rispettivamente dell’Obelisco
Lateranense, dell’obelisco Flaminio e di quello Mediceo.
Proprio
indagando la sede del Collegio Romano, mi sono addentrata in una ricostruzione
archeologica dell’area occupata dall’Iseo Campense.
Qui,
durante gli scavi, suscitò un grande interesse una tavola di bronzo ageminato
raffigurante al centro la dea Iside con due leoni al fianco e tutto intorno
differenti offerenti.
È la
Mensa Isiaca, apparsa per la prima volta nel 1527 durante il sacco di Roma,
chiamata anche Tabula Bembiana, perché appartenuta al cardinal Bembo, prima di
passare ai Gonzaga e ai Savoia, per giungere presso il Museo Egizio di Torino
che oggi la conserva.
Interessante
è il parallelo tra quest’opera e la
Divina Sapienza di Andrea Sacchi, sia per affinità iconografica che per la
storia che lega il dipinto all’interesse egizio dei Barberini, in particolare
di Urbano VIII.
Questi,
temendo di morire per una funesta previsione, fece giungere a Roma il filosofo
Tommaso Campanella e entrambi si chiusero per mesi, forse anni, nella sala di
Palazzo Barberini affrescata con la Divina Sapienza a compiere riti
magico–ermetici.
La
mia ricerca prosegue con l’identificazione dell’iconografia egizia nella
scultura e pittura del Seicento partendo dalla Piramide di Caio Cestio,
interessata nel corso del XVII secolo da un importante intervento restaurativo
da parte di Alessandro VII il quale fece abbassare il terreno, che in alcune
parti copre la piramide fino all’altezza di ventidue palmi.
Scopo
del Papa era di creare una chiesa al suo interno, di cui esiste anche un
progetto del Borromini ma che non fu mai eseguito.
Nel
1663 iscrizioni del ponte sottolineavano il degrado della tomba indicato come segno della passata gloria
pagana, mentre il restauro veniva esaltato come atto di intercessione della
Chiesa per la protezione e la salvezza delle anime delle vittime della peste,
volendo in questo modo chiaramente rovesciare il significato simbolico del rudere, da
pagano a cristiano.
La
proposta di restauro più eclatante fu quella di Fioravante Martinelli che
propose la religiosa trasmutatione, ossia propose l’adattamento della piramide
a cappella in onore dei santi Pietro e Paolo.
Evidentemente
il papa sentiva il bisogno di giustificare
le spese profuse per restaurare un rudere pagano con valide motivazioni, e
quindi era necessaria la purificazione
del monumento da significati pagani.
Il
progetto di Martinelli però non venne mai realizzato e, dopo il restauro e lo
scavo del terreno circostante fino
al livello originario, fu praticata un’apertura, una piccola porta che metteva
in comunicazione l’esterno con la stanza interna.
Così
la piramide entrava nell’iconografia
cristiana diventando simbolo di morte e al tempo stesso di eternità.
Un particolare approfondimento va fatto sul rapporto culturale tra Kircher e
l’architetto del barocco Gian Lorenzo Bernini. Entrambi, infatti, hanno legato
il loro nome all’Obelisco Alessandrino e a quello Pamphili. Il primo fu
scoperto nel corso del Seicento nel giardino maggiore dei padri Domenicani
nella chiesa di Santa Maria Sopra Minerva e per introdurlo non si può omettere una
storia assai bizzarra.
Quando
fu riesumato, infatti, Kircher, soprintendente alle Antichità, si trovava fuori
Roma e dovette inviare il suo assistente Petrucci per ricevere la trascrizione
dei geroglifici sopra iscritti.
Purtroppo
l’obelisco aveva il quarto lato interrato, per cui Petrucci fu costretto a
mandare al gesuita solo i tre lati esposti, in attesa di vedere il quarto.
Con
somma sorpresa di tutti, però, fu Kircher a spedirgli la parte celata e ancora
più stupore fu sollevato quando, riesumato l’intero monumento, si poté constatare
come la sua trascrizione fosse perfettamente coincidente con il quarto lato,
ora visibile.
Probabilmente
Kircher aveva notato come le facce dell’obelisco fossero speculari a due a due
e quindi, per un criterio analogico si poteva dedurre il lato nascosto dallo
studio dei simboli di quello, invece, visibile.
Ma
anche per un erudito come Kircher questo metodo risulterebbe piuttosto
lungimirante per l’epoca.
Bisognerebbe,
invece, tener presente che anche il criterio di traduzione Kircheriano può
generare interessanti riscontri sul piano della decifrazione linguistica del
geroglifico.
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Fig. 4: Obelisco ligneo di Athanasius Kircher, Museum Kircherianum presso il Liceo Visconti di Roma. Foto cortesia di Stefano Colonna.
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Fig. 5: Obelisco ligneo di Athanasius Kircher. Museum Kircherianum presso il Liceo Visconti di Roma. Foto cortesia di Stefano Colonna.
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Passiamo
ora a descrivere l’intervento del Bernini, il quale fu incaricato di scolpire
una base per l’obelisco.
L’artista,
inizialmente, aveva pensato a una soluzione compositiva più audace che
prevedeva un Ercole che sosteneva in bilico, con le proprie braccia,
l’oscillante monolito.
Scartata
questa idea, egli ripiegò su un suo precedente progetto realizzato per erigere
una guglia nel giardino segreto di palazzo Barberini.
Proprio
per la committenza barberiniana, il progetto dell’opera pare fosse ispirato da
una xilografia tratta dall’Hypnerotomachia
Poliphili, testo scritto da
Francesco Colonna ed edito da Aldo Manuzio nel 1499.
Infatti,
come ipotizza Calvesi, il cardinale Francesco Barberini, conoscitore
di archeologia e appassionato di antichità prenestine, divenendo il feudo di
Palestrina proprietà Barberini dal 1630, probabilmente era a conoscenza
dell’autentico significato allegorico che si celava nell’elefante obeliscoforo
dell’Hypnerotomachia.
L’artista
ideò, forse ispirato dal cardinale, un elefante che reggeva l’obelisco, simile
a quello del Polifilo ma senza il cubo sotto la pancia e con alcune varianti
come testimoniano un disegno di Windsor e un bozzetto di terracotta, al tempo a
Palazzo Barberini e ora a Firenze in collezione Corsini.
Nel
primo l’animale presenta la testa e la proboscide volte a sinistra mentre in
cima all’obelisco svettano le api, stemma dei Barberini, nel secondo, invece,
la proboscide è volta a destra e la coda a sinistra.
Ma
il progetto non fu mai portato a termine nonostante il cardinale non avesse
ancora abbandonato l’idea nel 1658, come testimonia una lettera di Leonardo
Agostini, antiquario di casa Barberini, a Carlo Strozzi.
Si
può ipotizzare, infine, come sostiene Partini essere stato Papa Alessandro VII a
suggerire l’iconografia dell’elefante al Bernini in quanto nel Fondo Chigi, tra
gli stampati, c’è una copia dell’Hypnerotomachia scrupolosamente postillata dal
Papa ad ogni pagina, cosa che dimostra il suo interesse per l’argomento, testo
che ancora oggi possiamo consultare alla Biblioteca Apostolica Vaticana tra gli
incunaboli chigiani.
È
comunque certo che sia stato il Pontefice stesso a dettare la scritta, che
racchiude il significato dell’opera berniniana, sulla base dell’elefante, nella
quale di afferma come una solida Sapienza, simboleggiata dall’obelisco con i
geroglifici, dev’essere sostenuta da una mente valida e robusta, impersonata
dall’elefante, animale da sempre ritenuto simbolo di forza, equità e grande
intelletto.
Bernini,
su suggerimento dei Domenicani, proprietari di Piazza della Minerva, collocò
tra le zampe dell’animale un cubo, per dare, secondo questi ultimi, stabilità
alla scultura conferendo, invece, solo minor grazia ad un animale che ne è già
privo per antonomasia. A nulla valsero le argomentazioni dello scultore, che
sedici anni prima, a piazza Navona, aveva ideato la fontana dei Quattro Fiumi,
dove un altissimo obelisco si reggeva su uno scoglio traforato.
Decise,
però, di coprire il cubo con una gualdrappa che giungeva fino al basamento e
architettò una beffa, disegnando l’elefantino in modo che voltasse la terga al
convento dei frati, mentre la proboscide ne sottolineava la posizione
irriverente e la coda, spostata a sinistra, ne accentuava l’intenzione
offensiva.
Anche
nella xilografia dell’Hypnerotomachia l’incisore
colloca questo impedimento in pietra.
L’elefante, poi, con la testa rivolta indietro verso l’obelisco solare poggiato
sulla schiena, riprende la postura dell’elefante adoratore del sole,
rappresentato dalle fonti antiche, postura che esprime la dedica al Sole di
tutto il monumento.
Kircher
rivolge particolare attenzione ad esaminare i simboli del monumento egizio, in
particolare lo scarabeo stercorario inciso sul pyramidion.
Questo,
infatti, rappresenta il dio Khepri che, tutte le mattine, spinge su il sole
cosi come lo scarabeo la palla di sterco nella quale nidifica e si genera.
Questo
atto prevede tre fasi: la nigredo,
ovvero il momento in cui la materia si disgrega per poter mutare di forma, il
momento della putrefazione e della decomposizione. La palla di sterco in cui lo
scarabeo depone le sue uova, nutrimento delle larve che vi nasceranno, è la
chiara rappresentazione di questa fase.
La
successiva, chiamata, albedo
(opera al bianco) rappresenta il sorgere della vita e della luce dalla materia.
È
il momento della nascita della larva, del bianco verme, che si nutre della
materia con cui è composta la palla di sterco e la trasforma, assimilandola per
prepararsi all’ultima trasformazione.
La
fase finale, la rubedo
(opera al rosso), è quella in cui la forma incompleta nata durante la fase di albedo
subisce la trasformazione finale e si fissa nella forma perfetta. È l’emersione
dello scarabeo, perfettamente formato, dal bianco bozzolo in cui ha compiuto la
sua trasformazione da larva ad essere alato, che trasporta il rosso disco
solare.
Sono
le tre fasi della filosofia alchemica in cui abbiamo una prima fase, che coincide
con il contatto con la parte peggiore di se stessi, una successiva, in cui
veniamo in comunicazione con la parte luminosa, possibile solo in seguito
all’aver sperimentato e riconosciuto la materia nera e aver deciso di
trasmutarla, ed infine, dopo aver concluso quest’opera di consapevolezza e
trasmutazione delle emozioni negative, si innesca l’ultima trasformazione che
ha come fine ultimo il raggiungimento dello stato di beatitudine,
l’illuminazione, la salvezza.
La
seconda opera che vede lavorare insieme lo studioso gesuita e l’architetto del
Barocco è l’obelisco Pamphili, in piazza Navona, antico stadio domizianeo.
Il
primo studio completo che Kircher intraprese sul geroglifico fu l’Obeliscus Pamphilius (1650) ed una
particolare attenzione è stata da me rivolta al suo frontespizio in cui
Saturno, divinità del tempo, con la sua opera distruttrice ha gettato a terra
l’obelisco e incatenato la Fama, che giace sul pavimento accanto ai suoi resti.
L’atmosfera
di desolazione è interrotta dalla Polimathia (Kircher) rappresentata in
procinto di scrivere mentre siede appoggiata con un piede ad un cubo, simbolo
di stabilità, ed un gomito sui tomi della sapienza egizia, della matematica
pitagorica, della filosofia greca, dell’astronomia caldaica.
Al
suo cospetto sta Hermes, l’inventore della scrittura sacra, che le porge un
rotolo con i geroglifici dell’Obeliscus
Pamphilius.
Seduto
ai piedi della Polimathia, con un piede sul dorso del coccodrillo,
rappresentante di oscurità e silenzio, troviamo Arpocrate, dio del silenzio
mistico, nell’atto di mettersi l’indice sulla bocca per ammonire i profani.
L’obelisco
egizio viene presentato come emblema del governo monarchico e simbolo capace di
collegare i grandi imperi del passato con il Papa che riunifica nella sua
persona potere regio e religioso insieme.
Nell’ideazione
dell’enorme scenografia Barocca, Bernini fu influenzato dall’interesse di
Kircher per l’Egitto. La ricchezza e complessità iconologica dell’opera non
sempre viene colta da un semplice visitatore, attento a farsi stupire dalla
grandiosità di questa pomposa orchestrazione piuttosto che da particolari
ritenuti, ad un primo esame, erroneamente minori.
Le
personificazioni dei quattro fiumi, che danno il nome alla fontana, sono solo
un dettaglio a livello di una lettura simbolica dell’opera che ha il suo perno
nel rapporto dicotomico tra bene e male.
La
caverna, simbolo di oscurità, fa da contraltare alla colomba, posta sul pyramidion, emblema della luce. Il
leone, simbolo di forza e saggezza è speculare all’ippopotamo, figura di
empietà.
Una
piccola trattazione va rivolta anche all’Obelisco di Antinoo, per il quale
Kircher giunse a Roma nel 1634. Dopo la morte di Adriano il culto di Antinoo è
stata proseguito fino al trionfo del Cristianesimo, quando il
suo nome cadde nella damnatio memoriae ma, dato che l’obelisco presenta un incisione con
geroglifici, il testo ha avuto la possibilità di sopravvivere alla distruzione
che colpì gli altri santuari.
L’obelisco
contiene una particolare titolatura in caratteri geroglifici egizi che
riporta a riscontrarvi un testo scritto da un sacerdote della città di Akhmim, un certo
Pétarbescheni, essendo stata rinvenuta sulla sua stele funeraria una titolatura
molto simile. Questi sono gli unici due casi in cui troviamo un simile
posizionamento dei geroglifici.
Le
scritture che lo adornano in tutti e quattro i lati raccontano la vicenda
riguardante la morte di Antinoo, la sua apoteosi, deificazione ed
installazione accanto agli altri Déi, oltre a darci le notizie sulla creazione
della città di Antinopoli,
nata in suo onore, e alla conseguente istituzione
di un culto specifico dedicato ad Antinoo.
La direzione dei geroglifici delle iscrizione da l’orientamento preciso delle
facce di un obelisco, tenendo presente che i singoli segni sono di norma
rivolti verso l’inizio dell’iscrizione stessa.
In
questo caso il lato frontale è il IV, con l’esaltazione di Adriano e Sabina e
la scena del sovrano che reca offerte ad Horakhty.
I
simboli del lato posteriore sono rivolti verso l’asse d’accesso del tempio
mentre quelli dei lati di fianco in direzione della facciata.
Come
rileva Romeo di Colloredo, da questo si può comprendere che l’obelisco era
posto sul lato orientale del tempio, come indica la presenza del dio Ra
Horakhty sopra l’iscrizione dedicatoria, il gemello, qualora esistito, doveva
presentare una scena analoga ma con l’adorazione di Atum.
Il tempio dinnanzi al quale l’obelisco era posto doveva avere un orientamento
secondo l’asse Est–Ovest.
Non è stata rinvenuta, invece, la vera base
dell’obelisco oggi al Pincio, che nel mondo romano, in cui la conoscenza della
scrittura geroglifica non era ancora diffusa, aveva una funzione sia
architettonica sia soprattutto propagandistica, con l’iscrizione commemorativa
e, nel caso di un luogo di culto, di dedica del monumento.
Sempre
attenendoci allo studio di Romeo di Colloredo, nella traduzione del testo di
cui Kircher si occupò, l’errore fondamentale è stato costituito dal non
procedere ad un esame diretto del testo ed ad una successiva traduzione
letterale, ed a considerare solamente il passo iniziale del lato I messo in
relazione con la presenza di un edificio dedicato ad Antinoe a Roma, e non l’insieme
dei testi incisi, dedicati al culto del favorito dell’imperatore ad Antinoe ai
suoi riti.
L’obelisco
non menziona assolutamente né la tomba di Antinoo né Tivoli e va precisato che
la teoria più recente è che l’Obelisco Aureliano non fosse neppure stato
eretto a Roma, ma ad Antinoe stessa, e trasportato a Roma solo nel III secolo.
È
da sottolineare, inoltre, l’assenza,
nelle scene e testi dell’obelisco, dell’elemento isiaco e del culto di Anubi. Un ultimo rapido sguardo, prima di passare alle
opere pittoriche influenze dall’Antico Egitto, invece, va rivolto alla
medaglistica del Seicento che vede raffigurati numerosi obelischi egizi.
Tra i pittori, invece, che Kircher influenzò
maggiormente ci fu Nicolas Poussin quando si trasferì a Roma nel 1642. A lui
dobbiamo un ciclo di opere che ha come fulcro la rappresentazione di temi
biblici che hanno come sfondo l’Egitto. Primo fra questi La Fuga dall’Egitto,
tela ritrovata negli anni ’80 in ben due copie, una autenticata immediatamente
dagli esperti fu acquistata dal Museo di Lione, l’altra, divenne proprietà
dello storico e critico d’arte Anthony Blath che ancora la sta indagando.
La
composizione del quadro si articola intorno ad una diagonale che delimita, a
sinistra, lo spazio sacro e, a destra, lo spazio profano e terreste.
Al
centro, la Sacra Famiglia attraversa, guidata da un angelo, un paesaggio che
evoca la campagna romana. Ogni sguardo indica una direzione o un dialogo
particolare: Giuseppe interroga l’angelo, Maria si volta indietro,
simboleggiando, con il suo atteggiamento, la nostalgia del passato, mentre
l’asino, nell’ombra, avanza verso un futuro ignoto e Gesù, al centro della
composizione, guarda lo spettatore.
Le
diagonali del quadro convergono verso il gesto protettivo della Vergine,
ricordando, in tal modo, che la fuga in Egitto fa parte dei sette dolori di
Maria e preannuncia la Passione di Cristo.
L’uomo
che osserva in secondo piano, è probabilmente un testimone o il simbolo di un
mondo antico e misero, visti gli indumenti che indossa, che si confà al
paesaggio bucolico circostante.
In
un’incisione della tela di Pietro Del Po’, notiamo la riproduzione fedele della
composizione eccetto per un particolare, la cavezza dell’asino, non presente in
Poussin. Tale strumento, per il Del Po’, sarebbe stato dimenticato dall’artista
francese dando un senso al gesto della mano di San Giuseppe.
Blath,
invece, ne conferma l’assenza, asserendo che l’atto del santo è un arguto
espediente di Poussin per far spiegare all’angelo che l’asino non ha bisogno di
cavezza per essere guidato, conoscendo la strada grazie allo Spirito Santo.
Alcuni
critici notano, inoltre, come l’animale sia ormai sfinito, e questo trova il
suo riscontro nel fatto che la Madonna cammini a piedi per sollevarlo dalla
fatica.
L’angelo,
quindi, starebbe a dire a Giuseppe di affrettarsi perché le guardie di Erode
sono sulle loro tracce e il santo risponderebbe che non può perché l’asino è
stanco e glielo indicherebbe con il gesto della mano.
Poussin,
trasferitosi definitivamente a Roma nel 1642, attinge la propria ispirazione
alle vestigie dell’antichità, alle opere del Rinascimento, ma anche ai modelli
classici contemporanei di Annibale Carracci.
Ad
esempio, la figura della Vergine che si volta indietro deriva, molto
probabilmente, da un bassorilievo romano, mentre l’atteggiamento dell’angelo e
la posa del viaggiatore sdraiato evocano affreschi e incisioni di Raffaello, il
primo, inoltre, riprende la rappresentazione della vittoria alata greca.
L’architrave
con vaso e l’albero ricurvo, in secondo piano, sono tratti da un mosaico
romano, l’aquila che uccide il serpente, invece, è una raffigurazione presente
su una moneta greca del IV secolo a.C.
Uno
studio a parte è stata fatto sui vari pentimenti di Poussin, il secondo vaso,
ad esempio, è stato successivamente aggiunto dipingendolo su una porzione di
cielo, così come il drappo della Vergine che risulta più bianco nella parte
superiore, la linea del suo velo e dei monti.
La
punta della lancia, invece, sarebbe più chiara per risaltare meglio al nostro
sguardo e guidarci verso l’immagine dell’aquila e del serpente, probabile
prefigurazione del martirio di Cristo.
La
linea tremante dell’architrave fu mal giudicata dal Bernini, che molto ammirava
l’artista francese, affermando come ad una certa età bisognerebbe smettere di
dipingere.
L’opera
fu ordinata all’artista, nel 1657, da un fabbricante di seta lionese, Jacques
Sérisier, che si era trasferito a Parigi.
A 63 anni, Poussin era uno dei grandi
protagonisti della pittura europea, caposcuola del classicismo francese.
La
Fuga in Egitto è una delle opere più
enigmatiche di questo artista–filosofo, il quale esprime, in questa tela, la
propria riflessione universale sull’esilio.
Nel Riposo durante la Fuga in Egitto
notiamo, invece, da subito una differenza sostanziale con l’ambientazione
dell’opera appena descritta.
Qui, infatti, la scena viene rappresentata sullo
sfondo di un paesaggio bucolico, privo degli elementi identificativi della
cultura dell’antico Egitto, quali obelischi ed architetture orientaleggianti,
che invece troviamo nella prima.
Il dipinto, eseguito dall’artista nel 1657, mostra
quanto la cultura rinascimentale romana abbia influito su Poussin una volta
trasferitosi, nel 1642, in una delle città europee più pregne di classicismo.
Siamo davanti ad un capolavoro di pura erudizione
in cui Poussin mostra di indagare e comprendere le religioni creando un
sincretismo, in questo caso, tra quella cristiana ed egizia.
L’occhio dell’osservatore tende a concentrarsi sull’imponente
reliquiario di Serapide posto al centro della composizione, attorniato da una
serie di obelischi e di architetture orientaleggianti.
Su questo sfondo, un po’ più in basso, si staglia
la sacra famiglia, il nucleo cristiano dell’opera.
Si fonde così Nuovo ed Antico Testamento in
un’iconografia del tutto nuova, con un San Giuseppe che porge una ciotola ad
un’egiziana per essere servito, esattamente come poco più sotto un egiziano
offre cibarie alla Madonna ed al Bambino proteso in avanti.
Il Bellori
ha letto quest’atto come un omaggio che la religione orientale fa a quella
cristiana creando una comunione tra due popoli.
Tale ipotesi interpretativa troverebbe il suo
contrappunto nell’immagine del reliquiario di Serapide, che alluderebbe, per la
sua forma, ad un baldacchino eucaristico.
La mia indagine sul pittore francese si conclude
con l’esame delle opere Mosè salvato dalle acque e Mosè affidato alle acque.
Il Mosè salvato dalle acque fu dipinto per
il banchiere Pointel, uno dei principali collezionisti di quadri di Poussin,
nel 1647, quando l’artista stava completando per Freart de Chantelou l’Ordine
della seconda serie dei Sacramenti.
Pare che Chantelou preferisse il quadro di Pointel
ma conosciamo la rivalità gelosa fra i due amici di Poussin che insistettero
ambedue per possedere un autoritratto del pittore.
Quest’opera è la seconda dei tre Mosè salvato che
si conoscevano.
Nella prima versione del Louvre del 1638, dallo
stile molto simile a quello dei Pastori di Arcadia, sempre presso il
museo parigino, Poussin mette in primo piano il gruppo scultoreo delle figlie
del Faraone, creando, grazie ai colori chiari e al perfetto equilibrio delle
forme, un’atmosfera di serenità propria delle opere di quel periodo.
La tela Schreiber, dipinta nel 1651, non ha
la monumentalità statica della prima versione, l’artista tenta di variare
espressioni e atteggiamenti per animare la composizione.
Il quadro del Louvre, dipinto quattro anni prima,
colpisce soprattutto per il suo tono notturno che conferisce uno strano fascino
all’opera.
Poussin ci tiene a creare qui un’atmosfera di
raccoglimento che non si trova in nessuna delle altre versioni. La scena non illustra un episodio
tratto dalla Bibbia, ma un episodio narrato da Giuseppe Flavio nel suo Antiquitates
ludaicae.
Qui
l’artista sceglie il momento esatto in cui la figlia del faraone, Termuti,
aveva posto «il fanciullo nelle braccia
di suo padre; ricevutolo lo strinse al petto per amore della figlia e gli pose
sul capo il proprio diadema. Mosè, però, lo gettò a terra facendolo rotolare
al suolo come un giocattolo di ragazzi e con i piedi lo calpestò: questo parve
un cattivo presagio per il regno.
Lo scriba sacro,
quello che aveva preconizzato che la nascita di questo fanciullo avrebbe recato
umiliazione all’impero degli Egiziani, alla vista di ciò, si fece avanti per
ucciderlo, e lanciando grida spaventose, disse: questo, o re, è il fanciullo che
Dio ci disse di uccidere per prevenire ogni nostro timore; predizione
confermata dall’ingiuria verso il tuo regno e dal diadema calpestato.
Uccidendo
costui, sollevi gli Egiziani dalla paura che hanno di lui ed elimini agli Ebrei
le ardite speranze che suscita».
Subito
dopo, continua Giuseppe Flavio, Termuti gli impedì di ucciderlo
strappandoglielo di mano. Poussin interpreta lo stesso momento in un altro
quadro, portato a termine qualche anno più tardi in cui però si allontana dal
bassorilievo di Icario trasferendo la scena dall’esterno in un interno, e
usando come modello per il poggiapiedi l’oggetto su cui Ercole poggia la
propria mazza nell’affresco di Raffaello Le nozze di Cupido, conservato
nella Villa Farnesina a Roma.
Tornando
alle due interpretazioni di Mosè bambino calpesta la corona del faraone, nel
1647 l’artista aveva dipinto un’altra versione del Mosè salvato dalle
acque, di dimensioni maggiori (Parigi, Louvre, 1647), la prima versione
dava risalto al gruppo di donne egizie presenti sulla sinistra della tela, che
indicano il bambino salvato, sulla destra, nel secondo caso l’artista pone
Mosè al centro del gruppo di donne che lo circondano e su cui domina la figura
della principessa.
La scena è ora situata in un ampio paesaggio
ricco di dettagli, con colline, valli, costruzioni e corsi d’acqua, che allo
stesso tempo mette in rilievo la composizione e l’architettura del gruppo in
primo piano.
Per
la parte sinistra, Poussin trae l’ormai nota ispirazione da Raffaello, il suo
Mosè, infatti, adotta la posa del Platone di Raffaello e gli Israeliti sono
distribuiti nello spazio pittorico, al modo in cui l’arco di roccia sullo sfondo
rappresenta una sorta di corrispondente naturale dell’arco architettonico che
incornicia Platone e Aristotele nell’affresco Vaticano.
In
Mosè affidato alle acque il quadro
descrive le diverse emozioni dei personaggi presenti: tristezza e rassegnazione
sulla faccia, rivolta altrove, del padre Amram, una perplessa esitazione
nell’espressione di Aronne, terrore e disperazione sul volto della madre di
Mosè, Iochebed, che, accorata, volge uno sguardo quasi implorante verso
l’altrettanto angosciato marito.
Persino
il dio del fiume Nilo violando le abitudini di queste entità mitiche che
usualmente non interferiscono né reagiscono alle azioni umane dimostra
compassione nei confronti del dolore di Iochebed.
La Sfinge, che appare imperturbata e impassibile,
l’infante Mosè, che gesticola allegro e sua sorella Miriam, che porta un dito
alle labbra indicando il gruppo riunito e invitando al silenzio, dimostrano emozioni
rispettivamente neutre e positive.
La
scena quindi appare perfettamente calma e bilanciata: a sinistra le figure di
Amram e Aronne e, in direzione opposta, sulla destra, quella di Mosè; nel
mezzo la madre Iochebed, che mostra apertamente il proprio dolore, fissando con
occhi spalancati il marito che si allontana ad occhi chiusi, e la cui emozione
viene riflessa dalla triste espressione del dio del fiume Nilo.
La madre è tuttavia incorniciata dal profilo
della Sfinge sulla destra, e dal mezzo profilo di sua figlia Miriam sulla
sinistra, che indica una via d’uscita da questa tristezza mostrando il
possibile, e imminente, salvataggio di suo fratello.
La
presenza di Mosè nell’opera di Poussin ricopre un arco di quasi trentanni ed è
la celebrazione del potere di Dio e la dimostrazione che la saggezza umana a
confronto non può nulla.
Anche
Salvator Rosa si interessò d’Egitto immediatamente dopo il suo rientro a Roma,
nel 1649, quando incontrò Kircher.
Il
Democrito in meditazione è un grande
quadro cupo e sinistro, dai contenuti oscuri. L’opera, infatti, richiama non solo
i geroglifici e l’egittofilia, ma
anche la struttura labirintica del metodo e del pensiero mostrati dal monaco
gesuita nei suoi libri, il suo mondo sovrabbondante di significative immagini,
giungendo a rispecchiare perfino gli oggetti contenuti nel suo Museo del
Collegio Romano.
L’impianto
scenografico si incentra sui resti dell’antico, sui geroglifici dell’obelisco
che recitano, come spiegava Kircher, le fragilità della vita umana, sull’erma
del dio Termine e sui resti delle anatomie che Democrito, atomista e medico,
oltre che filosofo, contempla a terra malinconicamente.
Su
tutto poi predomina quasi minacciosa la natura, il cielo plumbeo che sovrasta
il capo del pensatore, le fronde che lo nascondono e la terra, pronta a
risucchiare ogni cosa.
Un
obelisco e geroglifici analoghi, compaiono qualche anno più tardi in un
dipinto, la Humana Fragilitas del
1656, che reitera nel significato il su citato quadro.
La
candela tenuta dal putto sulla sinistra, le bolle soffiate dal suo compagno, il
coltello, le farfalle e le foglie di cipresso rinforzano la litania mortuaria
mentre un sinistro scheletro alato porge all’infante, in braccio alla propria
madre, un cartiglio dal funesto presagio.
È
possibile creare un parallelo con il frontespizio dell’Obeliscus Pamphilius, dove una donna alata alza la penna e guarda
in direzione di Mercurio che le porge un cartiglio su cui è illustrato
l’obelisco.
Analogamente
all’erudito tedesco, il pittore napoletano è catturato dall’esotico per
giungere alla lettura di una verità ultima.
Concluderei
questa serie di opere ed artisti che attinsero all’Egitto, con Lamaire ed il Sacrificio a Minerva, la cui scoperta è
dovuta a Maurizio Fagiolo dell’Arco, è tanto più interessante quanto
l’iscrizione che porta sul verso dimostra con sicurezza la sua appartenenza
alla celebre collezione di Cassiano dal Pozzo.
L’identificazione
di Ursula Verena Fischer Pace di un disegno preparatorio conservato alla
Galleria degli Uffizi ne aumenta l’importanza.
Gilles
Chomer e Sylvain Laveissière hanno giustamente notato i rapporti di stile tra
questo dipinto e le stampe della Storia
di Paride incise da Pierre Lemaire dal ciclo di dipinti di Vignon.
Un’attribuzione
a Pierre Lemaire del Sacrificio a Minerva appare verosimile.
Essa
deve essere avanzata con prudenza poiché non conosciamo né la data né le
circostanze relative all’ingresso del dipinto nella collezione dal Pozzo, e
l’iscrizione posta sul verso della tela non indica il nome di battesimo del
pittore. Un confronto stilistico con delle stampe la cui datazione è essa
stessa incerta è di per sé insufficiente per portare a qualsiasi affermazione
certa.
Sullo
sfondo della tela svetta un’evanescente piramide, quasi eterea, come se fosse
stata inserita successivamente dal pittore, richiamo della cultura egizia.
Prima
di chiudere lo studio sull’iconografia egizia nella pittura del Seicento, un
ultimo sguardo è rivolto alla rappresentazione di Cleopatra nella stessa ed in
particolare all’opera dell’artista caravaggesca
Artemisia Gentileschi, il Suicidio di
Cleopatra.
Inizialmente attribuita a Guido Cagnacci, una figura che non
è né bella né graziosa, bensì una pesante, sgraziata, di un realismo assoluto
con tutti i suoi difetti.
La Gentileschi sembra voler affermare la propria libertà di
donna e di pittrice che non sottostà ai limiti imposti dall’Accademia, ma
lascia la propria mano libera di seguire la fisicità del corpo, la bellezza di
un volto che cede a una smorfia di dolore, paura e angoscia.
L’artista sembra anticipare il momento in cui si assiste alla
desacralizzazione della donna con l’inizio dell’età contemporanea, decadendo la
pittura storica e religiosa, ciò che è stato soggetto privilegiato come
immagine della bontà e della bellezza, assume una connotazione estetica
assoluta, al di là dei temi e dei generi.
Essa viene rappresentata nel momento più tragico della sua
storia, il suicidio.
Raramente un nudo rinuncia alla sua gradevolezza per
privilegiare la sua essenza carnale, fatta di odori e sudori.
La parte finale della mia ricerca verte sul riconoscimento di
elementi afferenti alla cultura egizia nei dintorni di Roma ovvero a Palestrina
e a Tivoli.
Nelle sale del Museo Archeologico di Palestrina, mi sono
soffermata sul Mosaico Nilotico oggetto di studio nel XVII secolo.
La
Fortuna Primigenia della città si confrontò, dunque, con altre divinità dalle
analoghe caratteristiche, e su tutte Iside, nelle quali viaggiatori prenestini
riconobbero la propria divinità tutelare.
Il
mosaico, realizzato a Praeneste da artisti alessandrini alla fine del II sec.
a.C., potrebbe derivare da un originale pittorico dell’epoca di Tolemeo
Filadelfo, ed andrebbe interpretato come un’allegoria dell’Egitto sotto il
dominio dei Tolemei.
L’opera fu identificata con il lithostroton collocato da Silla nel delubrum della Fortuna Primigenia al
tempo di Plinio.
Data
l’eccezionalità del disegno si è ipotizzata una committenza illustre.
Negli
ultimi anni il mosaico è stato collegato alla figura di Cleopatra che era a
Roma al tempo di Cesare, e poi ad Alessandria, fu sposa di Marco Antonio che
godeva a Preneste di un forte potere politico, altri lo hanno correlato ad
Augusto ed alla conquista dell’Egitto, altri ancora lo datano al tempo di
Adriano e dei Severi.
Per
Zevi una datazione al tempo di Cleopatra pare improbabile perché, proprio in
quegli anni, Cicerone, affermava la decadenza del santuario.
Sembrerebbe,
invece, risalire al II secolo a.C., periodo in cui il culto prenestino era maggiormente
diffuso.
La
fortuna del mosaico presenta vicende rocambolesche.
Scoperto
probabilmente durante i restauri del palazzo baronale di Palestrina fatti da
Francesco Colonna romano e datati agli inizi del Seicento, il mosaico fu
studiato nel 1614 da Federico Cesi, il fondatore dell’Accademia dei Lincei,
giunto a Palestrina per il suo matrimonio. Nello stesso anno Cassiano dal Pozzo
lo riprodusse in tavole a colori.
Sempre
in quegli anni fu acquistato dal cardinale Andrea Peretti, vescovo di
Palestrina, che lo fece portare in pezzi a Roma.
Il
nuovo cardinale di Palestrina, Francesco Barberini, riuscì a ottenere di nuovo
in dono il mosaico ma, durante il trasporto, l’opera, sistemata al contrario
sui carri, subì danni tali da dover essere restaurata sulla scorta delle tavole
di Cassiano dal Pozzo.
Riportata
a Palestrina, fu collocata in una stanza del palazzo baronale dove, nell’Ottocento,
fu sottoposta a un nuovo restauro, ma una ricomposizione inesatta ne modificò
la disposizione delle parti.
L’ultimo
distacco fu realizzato durante la seconda guerra mondiale, per ragioni di sicurezza.
In questa occasione il mosaico fu sottoposto a un nuovo restauro che consentì
di mettere in evidenza le parti originali.
Nei
primi anni Cinquanta del Novecento fu riportato a Palestrina e collocato nella
sala in cui è attualmente esposto.
In
occasione dei restauri, diretti da Salvatore Aurigemma e da Giorgio Gullini, è
stato possibile riconoscere le parti rifatte, come il frammento con la barca di
papiro e i banchettanti sotto un’incannucciata, il cui originale si trova oggi
nel Pergamon Museum di Berlino, dopo essere stato donato al granduca Ferdinando
II dei Medici.
In
età moderna, grazie al rinvenimento nel Castello di Windsor delle tavole di
Cassiano dal Pozzo, si è potuto ricomporre l’originale, almeno graficamente.
Non
possiamo non menzionare che l’opera fu descritta nella Hypnerotomachia di Francesco Colonna nel 1499.
L’autore
dell’Hypnerotomachia, inoltre, cita il
«lithostrato in Praeneste» a confronto di un mosaico figurativo con animali e
fiori: ben sapeva quindi che il litostrato ricordato da Plinio era un mosaico
con figurazioni, essendo, generalmente, meramente un commesso di marmi, o
piccole pietre, senza figure.
Ciò
conferma che conosceva l’opera.
Lo
stesso Colonna illustra una scena che richiama singolarmente il mosaico
prenestino, nella descrizione degli «acquatici monstriculi nell’acqua
simulata», dei «semihomini», degli «hippopotami» ed altri animali.
Per
tre volte, infine, si ricorre nel testo all’immagine della piena del Nilo, il
tema del mosaico.
Passiamo
ora ad esaminare la raffigurazione, ovvero una veduta obliqua dall’alto
dell’Egitto da nord a sud durante una piena del Nilo.
La
rappresentazione è a volo d’uccello, così da creare artificiosamente delle
anse, in modo da far seguire l’andamento del fiume da sinistra verso destra e viceversa
e non in senso verticale, e al fine di far rientrare quest’immenso paesaggio in
soli 4,5 metri di altezza. Nella parte alta del mosaico sono raffigurate la
Nubia e l’Etiopia.
Qui
predominante è il paesaggio, dove il Nilo scorre tra rocce scoscese animate da
belve e cacciatori di colore.
Ogni
animale è contrassegnato da un nome in greco, spesso poco leggibile, in parte
per le lacune già presenti in antico, in parte per i molti e non rigorosi
restauri subiti.
Perfino
l’aspetto e la denominazione degli animali è spesso alterata.
Alcuni
animali sono infatti del tutto fantasiosi, come nel caso di quello con il corpo
di elefante (o rinoceronte) e la testa di coccodrillo, oppure degli uccelli con
lunghe code e delle scimmie con criniere.
Alcuni
animali vengono poi indicati con nomi del tutto inventati, come il camelopardoo
il coccodrillopardus, ovvero un coccodrillo–pantera.
Il
nucleo centrale della rappresentazione è nella parte inferiore destra, dove è
raffigurata una delle metropoli dell’antichità, Alessandria.
La
città, come rivela il suo nome, fu fondata da Alessandro Magno nel 332 a.C. e
si diceva che vi fosse sepolto il sovrano.
Vi
appare un grande edificio colonnato, coperto da una tenda, sotto la quale
alcuni soldati celebrano un rito.
Si
distinguono tra gli altri, per la maggiore statura, forse un araldo e una
figura femminile. A destra si trova il porto con le isole e la torre di Faro, dalla
parte opposta si trovano degli scogli e il promontorio di Lochias su cui è
situata una reggia e dietro appaiono dei giardini recintati.
La
presenza all’interno del bacino di una nave militare e di una nave commerciale
fa supporre che si tratti del grande porto che Strabone descrisse.
L’isola
nell’angolo inferiore destro va quindi identificata con Faro, come testimonia
la presenza di una grande palma, una delle sue principali caratteristiche.
Poco
più in alto è visibile un’edicola dalla quale fuoriesce una processione con
quattro figure maschili che sorreggono una tavola (ferculum) sulla quale si
erge un candelabro.
A
destra si riconosce per la testa canina una statua del dio Anubi.
L’assenza
del famoso Faro, una delle sette meraviglie dell’antichità, potrebbe essere
spiegata supponendo che il modello al quale si è rifatto il mosaico sia
anteriore alla sua costruzione.
Al
centro, in basso, va ricollocata la scena di banchetto che si trova oggi a
Berlino, con le feste celebrate in onore di Serapide a Canopo.
Qui
appaiono alcune coppie distese su letti triclinari sotto un pergolato e
intrattenute da suonatori.
Più
in alto si osserva una nave con un gruppo di armati intenti nella caccia agli
ippopotami e una capanna di canne innanzi alla quale si trovano un contadino e
un pescatore.
Seguendo
il percorso del Nilo, risalendo quindi verso destra, appare un grande tempio
con una cinta muraria munita di torri e di una porta monumentale, probabilmente
quello della città di Memphis o quello di Karnak presso Tebe.
Più
a sinistra appare la città di Hermopolis Magna, il cui santuario era celebre
per il culto degli ibis, che poggiano numerosi sulle sue mura.
All’estrema
sinistra si scorge una scena con gruppi di persone, due obelischi e un pozzo,
probabilmente il nilometro di Elefantine; il tempio potrebbe essere quello di
Iside sull’isola di File, posta di fronte a Siene, oggi Assuan.
Le figure sembrano intente a dare notizia
della piena del Nilo e la scena rappresenterebbe, quindi, un compendio delle
operazioni di controllo e del conseguente sfruttamento delle inondazioni.
La
visione d’insieme non è quella dell’Egitto faraonico, bensì del paese
ellenizzato, con templi costruiti secondo i canoni greci, che ospita truppe di
opliti e dove indigeni e animali costituiscono un mero paesaggio di sfondo.
Il
mosaico costituisce contemporaneamente una carta geografica e una tavola di
storia naturale ovvero un’allegoria dell’Egitto sotto i Tolomei dalle coste del
Mediterraneo fino alla terra selvaggia degli Etiopi.
Vi
è stata riconosciuta anche la processione trionfale del faraone greco Tolomeo
II Filadelfo, ovvero l’annuncio della sua vittoria ad Alessandria che determinò
il consolidamento dell’impero.
Esso
porrebbe derivare da un originale pittorico dell’età di Tolomeo collocato forse
nel Tempio di Tyche che si ergeva nell’agorà di Alessandria.
Si
è pensato anche a una libera composizione tratta dagli album naturalistici
approntati dagli scienziati al seguito di Tolomeo II Filadelfo nella spedizione
del 280 a.C. lungo il corso del Nilo fino all’Etiopia, che dovette esser un
resoconto simile a quello voluto da Napoleone durante la sua campagna, con la Description de l’Egypte in diciotto
volumi (1809–1816).
Altro
importante reperto della zona fu l’Obelisco di Palestrina il cui ritrovamento
avvenne in più fasi.
La
frammentarietà del manufatto e forse pure l’esistenza di un altro obelisco
piuttosto simile ritrovato a Roma e acquisito poi nella collezione Albani
successivamente portato a Parigi e, infine, a Monaco di Baviera, dove si trova
tuttora davanti all’ingresso della collezione egizia della città, hanno fatto
sì che si parlasse spesso di due obelischi prenestini.
Quello
di Monaco interessa maggiormente la mia ricerca in quanto Kircher, nel 1660,
descrisse e illustrò la parte antica (quella di mezzo) che serviva da pietra
angolare del Palazzo Cavalieri in Piazza di Branca, oggi Cairoli.
Ambedue
gli obelischi sono in granito rosso e di proporzioni non troppo elevate,
presentano una simile impaginazione delle quattro facce, iscritte con
geroglifici grandi e ben spaziati che corrono all’interno di una cornice
costituita da una doppia incisione verticale ai lati.
L’epigrafia
e lo stesso contenuto dei due monoliti sono simili.
L’obelisco
proveniente da Roma si presenta meglio conservato e mancano solo la parte bassa
e la sommità, abilmente reintegrate da P. Cavaceppi nel XVIII secolo.
I
due obelischi forniscono un dato chiaro: il nome del dedicante che, trascritto
in geroglifici, non sembra comunque dare adito a dubbi e sarebbe Titus Sextius
Africanus. Ambedue, invece, risultano chiari per quanto riguarda il nome
regale: l’uno, quello di Monaco, mostra un solo cartiglio frammentario
agevolmente ricostruibile, tuttavia, come contenente il generico appellativo di
Cesare; l’altro, il prenestino, riporta due frammenti di cartiglio che pongono
svariati problemi interpretativi.
Gli
studiosi hanno riconosciuto il nome di Cesare nel primo cartiglio, mentre per
il secondo alcuni ipotizzano Claudio ma ci sono dubbi in merito.
Ultimo
punto di interesse della mia ricerca è il Canopo di Villa Adriana, indagato per
gli scavi condotti nel corso del Seicento. Si deve a Pirro Ligorio, famoso
architetto napoletano al servizio del cardinale Ippolito d’Este, il
riconoscimento del Canopo a Villa Adriana, di fronte all’articolato padiglione,
che egli definì tempio del dio Canopo o Nettuno.
L’identificazione
di questa zona della villa con il canale egizio che congiungeva l’omonima città
di Canopo - sede di un celebre tempio dedicato a Serapide - con Alessandria,
sul delta del Nilo, venne accettata senza riserve, come documenta ampiamente la
letteratura archeologica.
Non
solo Ligorio vi aveva trovato una statua di Iside ma tale dato sembrò
ulteriormente confermato dall’attribuzione a questa zona di Villa Adriana anche
del ciclo di sculture egittizzanti in basalto e pietra nera, oggi conservate
presso i Musei Vaticani, frutto di ritrovamenti settecenteschi da parte dei
Gesuiti.
Una
recente rilettura critica delle fonti antiquarie ha tuttavia consentito di
recuperare il vero luogo di ritrovamento di tali sculture, da riconoscere nella
zona di fronte alle Cento Camerelle, compresa anch’essa nel Settecento nella
proprietà dei Gesuiti e dove recentemente sono venuti in luce materiali del
tutto analoghi, frutto delle campagne di scavo condotte negli ultimi anni.
La
presenza di uno stibadium, o letto tricliniare, all’interno dell’ampio
padiglione a esedra del Canopo prova che il complesso sia da interpretare come
un grande spazio per banchetto all’aperto, arricchito da giochi d’acqua: le
cascatelle, i canali, e il mosaico di pasta vitrea sulla grande volta a
ombrello dell’esedra conferiscono al padiglione quasi l’aspetto di una fontana
monumentale.
Lo stibadium, costituito da un
basamento in muratura di forma semicircolare e dalla superficie inclinata, era
coperto in antico da tappeti e cuscini: gli ospiti vi si sdraiavano in
occasione del convito, rinfrescati dallo scorrere dell’acqua in rivoli,
cascatelle e fontane, che circondava i commensali garantendo frescura e una
piacevole atmosfera, completata dalla vista sul lungo specchio d’acqua.
Quest’ultimo,
inquadrato da un pergolato e da siepi di fiori, era completato da numerose
sculture, in parte emergenti dall’acqua: su un dado in muratura nella zona
meridionale era posizionato il gruppo di Scilla, mentre sul lato opposto era
verosimilmente collocato il coccodrillo-fontana di marmo cipollino.
Fra
i ritrovamenti venuti in luce negli anni cinquanta, quando tutta l’area venne
liberata dall’interro, si rinvennero, oltre al coccodrillo, anche una statua di
personaggio semisdraiato raffigurante il Nilo e due Sileni canefori (portatori
di canestri) con funzione di telamoni, derivanti da modelli di ambiente
alessandrino. In aggiunta alla statua di Iside scoperta da P. Ligorio, sono
comunque poche le sculture di soggetto egizio provenienti con certezza dal
Canopo, tutte peraltro realizzate non in stile egittizzante, ma secondo i
canoni dell’arte ellenistica.
Non
appare dunque giustificata l’ipotesi di caricare di un significato religioso
questa zona della villa, la cui sistemazione in senso egizio, alluderebbe al
rilancio del culto di Serapide promosso da Adriano e alla celebrazione del
nuovo dio Antinoo. Tale teoria, che ha avuto largo seguito, implica anche un
altro presupposto, ugualmente da rigettare: che l’imperatore avesse voluto
rappresentare qui l’“Egitto del viaggio”, alludendo al viaggio in Egitto nel
quale era morto il giovane favorito.
In
realtà, come provano i marchi di fabbrica presenti sui laterizi, la costruzione
del Canopo va collocata in una data decisamente antecedente al 130 d.C. e
l’edificio noto come Canopo va piuttosto interpretato come una rappresentazione
evocativa di un ambiente egizio in senso esotico, un giardino nilotico
destinato ai banchetti, analogamente al canale sul delta del Nilo, famoso per
le feste che vi si svolgevano.
Nel
Seicento la villa si estendeva su una superficie di circa 120 ettari, di cui
oggi solo 40 sono visitabili. Dieci ettari sono, invece, occupati dall’Accademia di proprietà della famiglia
Bulgarini che possiede il terreno dal ’600 ed è responsabile degli
scavi nella zona che conducono alla scoperta di numerosi reperti, tra i quali i
candelabri Barberini, ora ai Musei Vaticani.
Concludo
l’elaborato con l’esame di uno dei testi preganti per la traduzione del
geroglifico egizio in età Kircheriana: I geroglifici di Horapollo, l’unica
opera sistematica pervenutaci integra dall’antichità sull’interpretazione dei
geroglifici egiziani, giacché degli altri pochi trattati sul medesimo argomento
attestati dalle fonti (il più famoso dei quali fu composto da Cheremone,
sacerdote e filosofo stoico, vissuto nel I sec. d.C.) ci restano soltanto
sporadiche citazioni in alcuni scritti di autori greci e latini.
Fino
al ’400 l’opera di Horapollo fu totalmente sconosciuta in Occidente e sembra
che essa fosse pressoché ignota anche in Oriente: gli scrittori bizantini
preferiscono infatti attingere le informazioni da Cheremone quando trattano
problemi inerenti alla scrittura egiziana.
Soltanto
dal XV sec., quando furono divulgate alcune traduzioni latine anteriori alla
prima edizione a stampa del testo greco pubblicato a Venezia nel 1505 da Aldo
Manuzio, quest’opera ha cominciato ad attirare l’attenzione degli studiosi, che
fino al XVII sec. la ritennero molto antica, al pari degli scritti attribuiti ad
Ermete Trismegisto, e quindi in grado di far conoscere parte di quell’arcano e
remotissimo sapere egiziano, verso il quale già Pitagora Erodoto e Platone
avevano mostrato rispetto e ammirazione.
In
realtà dal Settecento i filologi si sono resi conto che il trattato di Horapollo
(o piuttosto il rifacimento che Filippo ne fece) fu composto in epoca tarda: è
scritto in un greco poco accurato, senza concedere nulla o pochissimo alle
finezze della elaborazione letteraria, al punto che in taluni passi l’esposizione
risulta contorta e oscura.
Questa
constatazione smorzò gli entusiasmi che l’opera aveva suscitato al punto tale
che si sospettò che essa fosse addirittura una falsificazione umanistica,
quindi non meritevole di essere presa in seria considerazione.
Bisogna
attendere gli inizi del XIX sec. per una parziale rivalutazione di questo trattato,
quando lo Champollion, fondatore della moderna egittologia, intuì le prime
corrispondenze tra alcuni geroglifici descritti da Horapollo e i segni
ideografici usati nei testi e sui monumenti egiziani.
I
Geroglifici sono un trattato
catalogico costituito da 2 libri e comprendente rispettivamente 70 e 119
capitoli, in cui sono descritti e spiegati circa 200 ideogrammi.
Nel
I libro sono raccolti in sezioni abbastanza omogenee concetti attinenti alla
cosmologia, alla teologia, all’astronomia, alla liturgia, etc., che talvolta
risultano affini con quelli esposti nel Corpus Hermeticum.
Horapollo
prende lo spunto da elenchi di geroglifici, suddivisi per categorie,
arricchendone la spiegazione con ampie digressioni, desunte da fonti più o meno
attendibili, che gli fornivano informazioni utili per la conoscenza del
pensiero scientifico-religioso e, in generale, della civiltà egiziana.
Nella
trattazione del I libro l’autore si avvale di due criteri espositivi: col primo
privilegia i concetti a cui corrispondono i diversi segni grafici che li
esprimono, col secondo dà rilievo ai diversi significati espressi da un ideogramma,
raccogliendoli in uno o più capitoli successivi.
L’esposizione
non segue né un ordine alfabetico, né un evidente schema logico consequenziale,
anzi in alcuni casi non risulta affatto perspicua la relazione di un paragrafo
con quello successivo o con quello che precede, forse a causa di un maldestro
rimaneggiamento effettuato in tempi successivi alla composizione.
Tuttavia
si nota come Horapollo abbia cercato di organizzare i capitoli seguendo un
criterio associativo, grazie al quale i concetti si legano l’uno all’altro per
analogia o per opposizione, oppure per affinità formale dei segni.
Nei
capitoli conclusivi, Horapollo riprende i concetti astronomici con i quali ha
iniziato il trattato: torna a parlare del segno che raffigura il mese, prima di
soffermarsi sugli ideogrammi che indicano il sorgere del sole, il tramonto e
infine l’oscurità.
L’opera
di Horapollo rientra nel gruppo degli scritti antiquari composti da un
ristretto gruppo di eruditi e filosofi egiziani, fieri oppositori del
Cristianesimo, che frequentavano nel V sec. l’Accademia ad Alessandria.
La
riduzione dei geroglifici a ideogrammi, privi di qualsiasi valore fonetico,
permette tuttavia di inserire nell’opera, senza alcuna stridente
contraddizione, segni estranei alla scrittura, che erano comunemente impiegati
nelle arti figurative per il loro valore emblematico o per il loro valore
allegorico nel linguaggio letterario di testi provenienti da culture diverse da
quella egiziana, trasformando spesso l’opera in un manuale di simbologia e
tradendo i motivi che avevano portato alla composizione dell’opera, ossia
offrire un valido strumento esegetico che permettesse di rendere nuovamente
intelligibili gli antichi testi teologici e liturgici, scritti in geroglifico,
cosí da recuperare idealmente anche quella identità nazionale, che rischiava di
andare perduta con l’introduzione di divinità e culture straniere in Egitto.
D’altra
parte, che questo sistema di scrittura fosse decifrabile dando ai segni solo un
valore iconico, i segni vengono ad avere la forma di animali, ignorandone
quello fonetico, non è una convinzione peculiare di Horapollo poiché essa è
diffusa presso gli scrittori del I secolo a.C..
Il
problema posto dall’individuazione delle fonti è particolarmente importante,
perché in sostanza coincide con quello della cultura dell’ambiente di
Horapollo.
A
priori possiamo ammettere che egli si sia servito sia di fonti scritte che di
informatori orali, ed inoltre che egli abbia riferito cose che erano più o meno
ben conosciute nel suo ambiente per tradizione o per esperienza diretta.
Orbene,
se prendiamo in considerazione il mero dato quantitativo, rileviamo che su un
totale di 162 geroglifici l’interpretazione è (più o meno) vera in circa 90
casi, ossia nel 57% del totale: ciò mostra inequivocabilmente che il sapere al
quale faceva riferimento Horapollo era complessivamente di qualità mediocre.
La
percentuale è inoltre troppo bassa per ammettere che Horapollo avesse una reale
conoscenza del sistema geroglifico egiziano, come del resto tutti gli studiosi
hanno sino ad oggi riconosciuto.
Ci
sono, tuttavia, attribuzioni di significato corrette argomentate
scorrettamente, il che è quasi la norma, ed attribuzioni scorrette che hanno però
alla base un sapere genuino.
Il
problema delle fonti è complesso soprattutto per la compresenza di fonti
scritte ed orali, di buona e di mediocre qualità, di lingua greca e di lingua
egiziana. Inoltre, c’è disparità tra la qualità dell’informazione grafica e
quella culturale.
L’uso
e la conoscenza dei geroglifici venne declinando durante i primi secoli
dell’era volgare, quando i programmi di edilizia sacra degli imperatori romani
si arrestarono ed i templi si impoverirono in maniera grave ed irreversibile,
la loro autonomia era andata perduta da molto tempo.
Possiamo
concludere che la passione per il simbolo egizio affonda le sue radici già in
epoche antiche ma è con l’esperienza di Kircher a Roma che ha la sua più ampia
diffusione. Come si è potuto comprendere, tutti gli artisti che entrarono in
contatto con il monaco gesuita hanno subito il fascino della cultura egizia dando
vita a grandi capolavori che rapiscono l’attenzione di coloro che gli osservano.
NOTE
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