1) Prologo.
Negli studi dedicati a Faustina Maratti
(Roma 1679 ca.-1745), l’attenzione si è concentrata sulle vicende
della sua travagliata vita e sulle sue poesie di tema intimo ed
autobiografico. Il presente saggio intende invece analizzare dieci
sonetti della poetessa dedicati a mulieres
illustres dell’antica Roma,
dei quali solo quello
su Lucrezia ed in parte quello su Tuzia sono stati oggetto di studi
approfonditi: il primo per via del legame con l’episodio del
tentato rapimento di Faustina, il secondo perché composto come
ἔκφρασις del
quadro del padre
Carlo Maratti;
agli altri sonetti sono stati dedicati solo veloci e generici cenni.
Sebbene siano stati scritti da Faustina in un lungo arco di tempo,
questi dieci sonetti furono da lei concepiti come un ciclo unitario,
lo studio nasce pertanto dalla necessità di voler restituire a tale
gruppo la loro coerenza d’insieme, trattandoli come una serie
unitaria. Ciò ha permesso di comprendere come Faustina abbia voluto
creare un ciclo letterario ad imitazione di quello dipinto dal padre,
istaurando un rapporto di imitatio-aemulatio
con il suo stesso padre, mentre l’analisi dei singoli sonetti ha
evidenziato l’ampiezza e la profondità degli insegnamenti che
attraverso di essi Faustina volle impartire, nonché la sua
padronanza del pensiero di Bellori sui rapporti tra arte e
letteratura. Questo ciclo poetico, pertanto, si è rivelato assai
interessante per approfondire l’indicazione di Romano Cervone
sull’importanza che la cultura classicista dell’ambiente paterno
ebbe nella formazione antiquaria di Faustina.
2) Vita.
Prima
di affrontare i sonetti è opportuno riportare alcune informazioni
sulla poetessa, essenziali per una loro corretta valutazione.
Faustina era figlia del pittore Carlo Maratti (Camerano 1625 -
Roma 1713), che alla morte di Bernini era divenuto l’artista più
famoso e ricercato di tutta Europa. Egli era strettamente legato al
celebre antiquario Giovan Pietro Bellori (tanto che Rudolph lo
definisce una sorta di «erudito fratello maggiore» per il
pittore),
grazie al quale Carlo venne in contatto con i circoli eruditi
dell’epoca, compreso quello della regina Cristina di Svezia (di cui
Bellori era il bibliotecario). Maratti voleva un gran bene a questa
sua unica figlia a cui aveva dato il nome della propria madre e fece
sì che ricevesse un’educazione di alto livello, che comprendeva:
il disegno e i principi della pittura (impartitile dal padre stesso),
il canto, la danza, la musica (Faustina sapeva suonare il
clavicembalo), la lingua spagnola e soprattutto la poesia, di cui
ebbe come maestro Alessandro Guidi. La costante presenza in casa del
padre di eruditi come Bellori le giovò, permettendole fin da giovane
di venire a contatto con un ambiente culturale vivo e fertile.
Per Giorgetti il merito della poesia di Faustina consiste nel non
essere frivola, né artificiosa, poiché nata dalla sua diretta
esperienza. Egli infatti loda il suo stile poetico, in quanto nei
suoi componimenti traspaiono le sue gioie e sofferenze, con «un
candore ed un accento di sincerità notevolissimi».
Nelle sue opere possiamo trovare influssi della poesia di Petrarca,
derivati dagli insegnamenti del Guidi, ma anche una buona conoscenza
degli autori antichi, di quelli rinascimentali, come Poliziano,
e dei poeti e delle poetesse del Cinquecento, come Bembo, Giovanni
della Casa, Tansillo, la Stampa, la Gambara o Vittoria Colonna. Da
essi riprese alcuni spunti neoplatonici, anche se nelle sue poesie il
neoplatonismo è meno marcato rispetto ai sonetti del marito.
Il
29 maggio1703 il giovane Duca Giovangiorgio Sforza Cesarini,
innamorato di Faustina, tentò di rapirla mentre lei si stava recando
a messa con la madre e tre servitori. La Maratti si oppose con forza,
riuscendo a divincolarsi dagli assalitori e riportando una ferita
alla testa.
La notizia sconvolse il padre che chiese l’aiuto dei suoi più
potenti protettori: il cardinale Francesco Barberini ed il papa
Clemente XI Albani. Il Papa accolse le sue istanze decretando nei
confronti dello Sforza Cesarini la condanna a morte per decapitazione
e la confisca dei beni e, dal momento che egli era fuggito dai
territori dello Stato Pontificio, mise una taglia su di lui. Sebbene
iniziassero a circolare alcune voci non lusinghiere sul conto di
Faustina, che pretendevano un suo coinvolgimento sentimentale con lo
Sforza Cesarini,
negli ambienti colti frequentati dal padre lei divenne un vero e
proprio exemplum virtutis
(soprattutto
di pudicizia) e fu vista alla stregua di varie eroine romane.
Giampietro Zanotti, che divenne uno degli amici più fidati della
Maratti,
la lodava scrivendo che la sua bellezza eguagliava quella della
spartana Elena, ma, a differenza della moglie di Menelao, Faustina
aggiungeva quella «Virtù che sempre a beltà pregio accrebbe»,
tanto che se fosse stata rapita lei al posto di Elena, avrebbe acceso
e fatto risplendere in Asia un «sol d’onestate».
Anche altri poeti contemporanei la lodavano come «austero miracol di
bellezza e d’onestate».
Grazie
al padre e a Guidi, venne in contatto con gli esponenti
dell’Accademia dell’Arcadia,
di cui padre e figlia divennero membri il 2 maggio 1704: lei con il
nome di Aglauro (talvolta Aglaura) Cidonia
e lui di Disfilo Coriteo.
3) I sonetti dedicati a mulieres
illustres dell’antichità romana.
Ognuno
dei dieci sonetti qui indagati, tratta di un celebre personaggio
femminile della storia romana. La loro composizione impegnò la
poetessa per diversi anni; il terminus
ante quem
per quelli di Lucrezia, Porzia, Veturia, Tuzia è il 1716, quando
compaiono per la prima volta nel secondo volume delle Rime
degli
Arcadi (Roma, 1716). Fernando Antonio Ghedini, un membro
dell’Arcadia, in un sonetto dell’inizio del 1716, scriveva che
Faustina aveva superato in virtù le illustri latine che era allora
intenta a cantare,
ulteriore indizio che a quella data questi quattro sonetti
circolavano nell’ambiente arcade. I tre dedicati a Virginia,
Claudia ed Arria, accompagnati dai quattro precedenti, furono editi
nella raccolta curata da Bartolomeo Lippi (Rime scelte de’
poeti
illustri de’ nostri tempi, Lucca 1719). I due su Cornelia ed
Ortensia furono pubblicati nel decimo volume delle Rime
degli
Arcadi (Roma, 1747), due anni dopo la morte della Maratti.
L’ultimo, quello dedicato a Clelia, è invece rimasto inedito, fino
a quando Cracolici non l’ha riportato per intero nel suo articolo
del 2018.
L’ultimo
sonetto sopra citato si trova in un libretto, situato nell’Archivio
Zappi, che reca il titolo Scritti autografi e Stampati di o
relativi a Faustina Maratti Zappi apposto da una mano
recenziore.
Nel libricino Faustina, di propria mano, trascrive tutti e dieci
questi sonetti uno dopo l’altro, con la numerazione da 1 a 10, e
ciascuno è intitolato con il nome dell’eroina romana lì cantata.
L’ordine in cui Aglauro li ha qui disposti è il seguente: Veturia,
Porzia, Lucrezia, Tuzia, Virginia, Claudia, Arria, Ortensia,
Cornelia, Clelia.
Questo libricino conferma pertanto il fatto che, anche se all’inizio
Faustina non avesse pensato di farne una serie unitaria (il sonetto
di Tuzia forse è precedente agli altri), da un certo momento in poi
la poetessa sicuramente pensò di fare di questi sonetti un gruppo
compatto ed unitario, tanto da curare nel libretto persino il loro
ordine.
Tra
il ’600 ed il ’700 queste tematiche furono spesso affrontate
nell’arte
e nel teatro. I tragediografi, per riportare il teatro agli alti
ideali di un tempo, fecero infatti delle virtù dei personaggi
antichi, soprattutto di quelli romani, il soggetto prediletto delle
loro rappresentazioni.
Era poi di moda collezionare opere antiche (o imitazioni moderne)
rappresentanti illustri personaggi dell’antichità spesso suddivisi
per categorie (i filosofi, i poeti, gli oratori, ecc.), creando
gallerie di viri illustres
che
esemplificavano specifiche virtù.
Bellori stesso si era inserito in questo filone di studi con un
trattato
dedicato alla regina Cristina di Svezia, che possedeva numerose gemme
e monete antiche di homines
illustri,
molte delle quali sono lì riprodotte.
Si tratta infatti di una raccolta di incisioni di celebri personaggi
(suddivisi in tre sfere: filosofi, poeti, retori e oratori) riprese
da opere antiche (soprattutto cammei e monete). Bellori per il volume
tenne a mente tre precedenti di analogo genere: le Imagines
di Fulvio Orsini; il volume (formato da tre libri) di Pirro Ligorio;
l’ Iconografia cioè disegni d’Imagini de’ famosissimi
Monarchi, Regi, Filosofi, Poeti e Oratori dell’Antichità, di
Giovanni Angelo Canini, pubblicata postuma dal fratello Marcantonio
nel 1669.
Sotto
Clemente XI, per volere del papa, il rapporto tra l’Accademia di
San Luca e quella dell’Arcadia divenne molto stretto, con la
conseguenza che diversi pittori (tra cui il padre di Faustina)
divennero membri dell’Arcadia, così come letterati di quest’ultima
vennero accolti nell’Accademia di San Luca. Nel 1702, il Papa, con
l’appoggio di Carlo Maratti, principe dell’Accademia di San Luca,
e Giuseppe Ghezzi (segretario dell’Accademia di San Luca dal 1674
al 1716), decise di dare alla tradizione dei concorsi accademici
seicenteschi dell’Accademia di San Luca, un volto più solenne,
istituendo nel 1702 i concorsi Clementini, alla cui cerimonia di
premiazione, in Campidoglio, partecipavano anche i letterati
dell’Arcadia, recitando orazioni e poesie.
Il tema delle prime due classi di concorso di pittura e scultura, e
delle orazioni e poesie recitate dagli arcadi durante la cerimonia di
premiazione, era legato alla celebrazione della virtus,
esemplificata da grandi personaggi del passato,
ed è interessante osservare che il tema di Lucrezia fu assegnato
agli artisti nel concorso del 1709 (Pittura: I classe, Suicidio
di
Lucrezia; II classe, Tarquinio che violenta Lucrezia.
Temi
analoghi anche nella I e II classe di scultura)
ed il tema di Porzia nel concorso del 1710 (Pittura: II classe,
Suicidio di Porzia. Scultura: II classe,
tema analogo),
anni abbastanza vicini alla pubblicazione dei sonetti della poetessa
dedicati a queste due eroine.
Dalla
Vita di Maratti di Bellori apprendiamo
che il padre di
Faustina, negli anni ’90 del Seicento, aveva ricevuto dal signor
Montioni la commissione di dipingere sei quadri con illustri figure
femminili a mezzo busto tratte dalla storia antica, che dovevano
fungere da exempla
di
determinate virtù. Bellori ne descrive quattro: una Cleopatra con la
perla in mano, una Lucrezia col pugnale in atto di suicidarsi, una
Proba Falconia poetessa nell’atto di parlare dei libri di Omero,
Virgilio ed Ovidio lì raffigurati, ed una Tuzia vergine vestale col
cribro in mano. Di questi quadri a noi restano quello di Cleopatra e
quello della vestale Tuzia, a cui si aggiungono i disegni preparatori
dei quadri di Lucrezia e di Proba Falconia.
Nel
Settecento, cicli pittorici dedicati a celebri personaggi
dell’antichità presentati come exempla
virtutis,
si diffusero sempre più
anche in paesi stranieri, come la Gran Bretagna, proprio grazie ad
artisti italiani e Roma giocò un ruolo importante per via delle
numerose opere antiche di homines
illustres
lì presenti. In questo periodo, infatti, gli
artisti cercavano
di attenersi “filologicamente” all’iconografia di questi
personaggi ricavata dalle opere antiche che li rappresentavano o dai
volumi, soprattutto quello di Bellori, che contenevano incisioni di
opere antiche dove essi erano già disposti in categorie.
La
serie dipinta da Maratti e l’interesse nell’ambiente culturale da
lui frequentato verso questi temi, unito al fatto che l’occasione
per cui Faustina scrisse il sonetto su Lucrezia, uno dei primi di
questo ciclo, fu proprio il quadro di Lucrezia del padre, permette di
supporre che l’idea di comporre un ciclo poetico
dedicato a
eroine romane sia venuta alla poetessa dalla serie pittorica del
padre.
Che Faustina usasse l’arte e la letteratura artistica come fonte
d’ispirazione è del resto già stato scorto da Romano Cervone nel
sonetto Ah, rio velen delle create cose, dove
Faustina, per la
descrizione dell’Invidia, tiene conto, in parte, delle descrizioni
di tale vitium
presenti
nell’Iconologia di Ripa.
Se
l’idea della serie venne dal padre, per le virtù espresse il
modello è letterario. È infatti opportuno ricordare che nel creare
questi cicli pittorici, gli artisti si basavano sulle fonti
letterarie, in particolar modo sui testi di Livio, Valerio Massimo e
Plutarco, letti nei vari volgarizzamenti disponibili all’epoca o
negli originali (magari con l’aiuto di qualche erudito), da cui
traevano sia la vicenda sia la virtù esemplata da quel personaggio;
per esempio Francesco Saverio Baldinucci, nella biografia di Maratti,
afferma che Carlo dipinse una seconda Lucrezia per il marchese
Niccolò Maria Pallavicini, nella quale si attenne a quanto narrato
da Livio.
Anche Faustina in questi sonetti dimostra di avere un’ottima
conoscenza dei passi di Livio, Valerio Massimo e degli altri autori
antichi relativi alle mulieres
illustres
dell’antica Roma, ma al tempo stesso entra in
competizione con
essi, compiendo volutamente alcune “variazioni” funzionali al suo
discorso (si vedano quelli su Tuzia e Virginia). L’originalità di
questi sonetti traspare proprio dalla prospettiva nella quale le
protagoniste sono viste, poiché Faustina le presenta in una luce
capace di persuadere i lettori degli ideali lì espressi, che sono
sempre precetti da lei particolarmente sentiti, come rivelerà la
loro analisi. Scrivere poesie in cui si celebrava la virtù di famose
donne antiche proponendole come modello, per Faustina, infatti, non
era un semplice esercizio retorico, come invece spesso accadeva al
suo tempo, perché ella scorgeva forti affinità con quei personaggi,
soprattutto con Lucrezia, per via delle sue vicende personali, e
veramente vedeva in esse un exemplum
da
imitare. Faustina fa quindi un uso ‘personale’ di queste eroine,
in quanto nei loro comportamenti virtuosi trova una conferma della
virtuosità del comportamento da lei tenuto durante la vicenda del
tentato ratto.
Personalizzando e sviluppando in nuove direzioni le virtù di queste
eroine, Faustina rinnova un genere letterario e pittorico
tradizionale che spesso veniva all’epoca ripetuto senza troppe
variazioni.
L’analisi
unitaria delle dieci poesie ha pertanto evidenziato un dato
importante: la funzione paideutica. A differenza della maggior parte
delle sue poesie, questo gruppo di sonetti fu composto appositamente
per insegnare alle fanciulle (ma in generale a tutti coloro che li
leggevano) quale sia la via della virtus
e la gloria che si ottiene se si segue tale sentiero.
Su questo aspetto conviene soffermarsi. Uno dei più celebri quadri
del padre, L’ascesa di Niccolò Maria Pallavicini al Tempio
della Virtù,
mostra Apollo che indica al Marchese la strada che lo condurrà in
cima al monte della Virtù. Questa strada erta ed aspra è ripresa
dal mito di Eracle al bivio e dal celebre quadro di Annibale
Carracci
che lo rappresenta. Nel mito,
la strada che conduce in cima al monte della Virtù è dura da
percorrere, ad indicare la fatica che bisogna compiere per arrivare a
possederla. Nel quadro di Maratti, in cima al monte della Virtù vi è
il tempio della Gloria con davanti la sua personificazione a denotare
la gloria eterna acquisita da chi giungerà sulla sommità di questo
monte. Il dipinto, cronologicamente non molto distante dai primi
sonetti della presente serie, era ben noto alla figlia, che
probabilmente è l’autrice di un’ottava scritta in
accompagnamento al quadro,
dove nei primi due versi, in positio
princeps
quindi, si celebra questo specifico elemento («Viddi, o Signor, che
della Gloria al Tempio | Ti toglieva il bel Genio»). Faustina si
andò formando proprio negli anni in cui Carlo dipingeva questa tela,
che costituisce una sorta di manifesto degli ideali paterni, e
sicuramente, attraverso le incisioni e la descrizione belloriana,
doveva aver studiato il celebre quadro di Annibale Carracci ed il
mito che rappresenta; l’idea di gloria eterna che ottiene chi segue
la difficile via della virtus,
espressa
costantemente in questi sonetti (come la loro analisi mostrerà), e
di un ciclo che intenda guidare i lettori su tale sentiero, è
pertanto uno degli insegnamenti che le proviene dall’educazione
pittorico-letteraria ricevuta e dall’ambiente culturale in cui era
immersa.
Nel
creare codesta serie, Faustina non si prefigge certo di copiare il
padre o gli scrittori antichi; vuole invece rivaleggiare con questa
tradizione, pittorica e letteraria, precedente, riprendendone le
virtù, ma rinnovando le tematiche, che sono legate alle sue vicende
personali. Il fine, però, è sempre quello di insegnare ed è
interessante notare che nel comporre un ciclo di poesie didascaliche,
Faustina, l’eroina dell’Arcadia di Crescimbeni,
segua qui
quel genere di poesia paideutica professata da Gravina.
Se
Carlo Maratti era riuscito nell’impresa di creare brani in cui
«s’avanza la poesia della pittura», Faustina, «con raro
effetto», chiude il cerchio scrivendo pitture parlanti che
rivaleggiano con le poesie mute dipinte dal padre. Del resto se, nel
tracciare linee su una tela o delineare parole su un foglio, «la
mano [opera] serva ubbidiente all’operazione della mente»,
allora la base dell’operazione artistica e poetica è la medesima
(l’ingegno), differenziandosi poi nel modo in cui si esprimeranno.
Pertanto un ciclo poetico poteva prefiggersi di competere non solo
con la tradizione letteraria, ma anche con quella artistica. È in
questa tradizione classicista portata avanti dal padre e da Bellori,
che Faustina si è formata ed è con essa che la poetessa qui si
confronta.
3.1) Veturia.
Prese
per vendicar l'onta,
e l'esiglio,
Marzio
de' vinti Volsci il
sommo Impero,
E
impaziente, inesorabil,
fero
Cinse
la Patria di fatal
periglio.
E
ben potea sotto l'irato
ciglio
Servo
mirar lo stuol de'
Padri intero,
Ma
si oppose Vetturia al
rio pensiero,
E
andò sola, ed inerme
incontro al Figlio.
Quando
a baciarla ei corse;
allor costei:
Ferma,
che Figlio tu di
rupi alpine,
E
non di Roma, o di
Vetturia, sei.
Egli
allor rese pace al
Campidoglio:
E
quel, che non potean
l'armi Latine,
Fè
d'una Donna il glorioso
orgoglio.
Faustina
nel sonetto crea un esplicito contrasto tra il gesto del figlio e
quello della madre. Coriolano, per vendicare l’onta dell’esilio
subito, tradì la vecchia patria marciando con un esercito nemico
(quello dei Volsci) contro Roma e sconfiggendo in più occasioni
l’esercito romano.
Ma quando ormai era giunto vicino Roma, a questo rio pensiero si
oppose la madre che andò incontro al figlio. Coriolano, quando la
vide, corse a renderle omaggio, ma Veturia, mostrando tutto
l’orgoglio romano e anteponendo l’amore della patria a quello di
madre, lo fermò dicendogli che, finché continuava in quel folle
proposito, non era più figlio suo o di Roma. Da notare come nel
discorso di Veturia l’essere suo figlio non può essere scisso
dall’essere figlio di Roma e pertanto tradire la madre Roma
significa tradire automaticamente anche la madre biologica. Alle sue
parole, il figlio cede e, negli ultimi due versi, l’efficace
rielaborazione del celeberrimo v. 75 del XXXIII canto dell’Inferno
di Dante, serve a Faustina per creare una forte contrapposizione:
quello che non riuscirono a fare le armi romane,
riuscì a fare una donna e quest’impresa divenne pertanto il
glorioso orgoglio di una donna e non di un esercito. Nelle parole che
Veturia rivolge al figlio, in soli due versi Faustina riesce a
esprimere i concetti ed i valori che traspaiono dal discorso
riportato in Livio
e la sua figura viene usata per dimostrare come le donne possiedano
un amor patrio uguale a quello degli uomini con il quale possono
aiutare la patria.
3.2) Porcia.
Per
non veder del Vincitor
la sorte,
Caton
squarciossi il già
trafitto lato:
Gli
piacque di morir
libero, e forte
Della
Romana libertà col
fato.
E
Porzia, allor che Bruto
il fier consorte
Il
fio pagò del suo
misfatto ingrato,
Inghiottì
’l fuoco, e
riunissi in morte
Col
cener freddo del
Consorte amato.
Or
chi dovrà destar più
meraviglia
Col
suo crudel, ma glorioso
scempio,
L'atroce
Padre, o l'amorosa
Figlia?
La
Figlia più. Prese
Catone allora
Da
molti, e a molti diede
il forte esempio;
Ma
la morte di Porzia è
sola ancora.
Porcia
era la figlia di Catone l’Uticense. Nel sonetto, Faustina vuole
restituire all’estremo gesto di Porcia la stessa dignitas
e lo stesso valore del suicidio compiuto dal padre. In seguito alla
sconfitta della fazione filosenatoria a Farsalo, dove Cesare aveva
trionfato, Marco Porcio Catone si suicidò ad Utica (48 a. C.) per
morire da uomo libero e non da suddito. Anche il marito di Porcia, il
celebre cesaricida Marco Giunio Bruto, in seguito si tolse la vita a
Filippi per non cadere nelle mani dei vincitori (42 a. C.).
Porcia allora si suicidò e Faustina scrive che lo fece per
ricongiungersi in morte al marito, attenendosi alla versione di
Valerio Massimo che ne fa un esempio di amore coniugale (il suicidio
è posto nella sezione De amore coniugali).
Nelle due terzine Aglauro pone la domanda su chi dei due, con lo
scempio crudele, ma glorioso, che fecero di loro stessi, abbia
compiuto il gesto maggiormente da lodare: il padre che si suicidò
per la libertas
o la figlia che lo fece
per amore? Faustina non ha dubbi: Porcia.
Entrambi compirono un nobile gesto, ma il motivo per cui fu compiuto
da Porcia è ancor più nobile di quello del padre (e già gli
aggettivi usati al v. 11, l’atroce padre, o l’amorosa
figlia, sono indicativi della risposta fornita al verso seguente).
Nel rispondere al quesito, Faustina mostra di volersi rapportare con
il testo di Valerio Massimo, perché il memorialista latino, nella
parte finale della sezione dedicata a Porcia,
confessa di non saper decidere se fu più coraggiosa la morte del
padre o la sua, anche se, scrivendo che il modo in cui si suicidò il
padre era già stato usato, mentre quello di Porcia fu innovativo,
rivela una profonda ammirazione per la forza di lei. Faustina vuole
esprimersi su questo dubbio lasciato aperto dallo scrittore,
stabilendo così un rapporto attivo con il modello.
Se
però il gesto del padre, suicida per la libertà, è sempre stato
lodato
ed è divenuto un esempio per molti, la morte di Porcia è sola
ancora: essa non è stata lodata e non è divenuta un esempio.
Con questi versi, la poetessa intende porre rimedio a questa
situazione che percepisce come un’ingiustizia.
Da
notare il contrasto che si viene a creare nei vv. 7-8 tra il fuoco
che Porcia inghiottì per morire
ed il cener freddo del marito amato a cui la morte
l’aveva
ridotto. Porcia, bruciando dall’interno, diverrà cenere riunendosi
così a quelle di Bruto, ormai fredde, perché era passato del tempo
prima che a Porzia giungesse la notizia della sua morte.
C’è,
infine, da chiedersi se, nella scelta di questo personaggio, Faustina
non possa aver in parte tenuto conto delle opere realizzate per la II
classe ai Concorsi Clementini del 1710. Infatti, nella nota in cui si
stabilisce l’argomento della II classe di concorso, si legge
«Porzia, figlia di Catone e moglie di Bruto, sconsolata per la morte
del marito, s’ingoiò molti carboni accesi e ne morì». È interessante notare che dei primi quattro sonetti di codesta
serie, due trattano temi di due concorsi clementini svoltisi solo
alcuni anni prima; questo potrebbe essere un’altra prova che il
ciclo pittorico del padre e i temi dell’ambiente da lui frequentato
(o meglio, da lui diretto) abbiano fatto venire in mente alla
poetessa di realizzare una serie poetica che rivaleggiasse con queste
pittoriche. Anche ammesso che lo spunto per il sonetto le fosse
venuto da quel concorso (eventuale ulteriore dimostrazione di quanto
l’ambiente classicista del padre fu determinante per Faustina), si
preme però sottolineare l’originalità con cui Aglauro affrontò
l’argomento, nei modi sopra espressi.
3.3) Lucrezia.
Giovan
Battista Felice Zappi aveva scritto due sonetti dedicati a Lucrezia,
ma vi è una profonda differenza tra quello di Faustina e i due del
marito. I due di Zappi traggono spunto dal quadro dipinto da Maratti
che rappresentava Lucrezia.
Zappi, oltre ad essere un poeta, era un avvocato e di ciò bisogna
tener conto per la composizione delle sue due poesie. In accordo con
l’antica pratica delle controversiae
e delle suasoriae
egli compose due sonetti: nel primo difendeva Lucrezia, nel secondo
l’accusava.
Essi furono letti da Zappi il 2 febbraio 1716 in Campidoglio, in
occasione della cerimonia di premiazione degli artisti che avevano
vinto nei concorsi Clementini di quell’anno, alla presenza del papa
Clemente XI Albani, di vari cardinali e dei membri dell’Accademia
dell’Arcadia e dell’Accademia di San Luca. I due sonetti sono
riportati per la prima volta proprio nella Relazione
scritta
dal segretario dell’Accademia di San Luca, Giuseppe Ghezzi.
In
quello in accusa, Zappi si allontana decisamente dalla tradizione
romana (Livio per esempio) che faceva di Lucrezia uno dei più alti
exempla virtutis.
«Invan
resisti: un saldo
cuore e fido
Tu
vanti invano, e sia pur
ghiaccio o smalto:
Renditi
alle mie voglie, o
qui t’uccido,»
Disse
Tarquinio, colla
spada in alto.
«Nè
sola Te, ma Te col
Servo ancido:
E
poi dirò, che in amoroso
assalto
Ambo
vi colsi.» Alzò la
donna un grido:
«Giove;»
ma non udia
Giove dall’alto.
Ella
dopo il fatale aspro
periglio
Che
fe’? si uccise, e nel
suo sangue involta
Spirò;
ma con improvido
consiglio.
Rendersi
al fallo, e poi
morir, non basta.
Pria
morir, che peccare.
Incauta e stolta
Ebbe
in pregio il parer,
non l’esser casta.
Il
poeta accusa Lucrezia di ipocrisia, perché si è uccisa solo dopo la
violenza e non prima di averla subita: se avesse voluto morire
virtuosa, si sarebbe dovuta far uccidere da Tarquinio quando la
minacciò. L’ultima terzina recita infatti che non basta arrendersi
al fallo, e poi morir;
bisogna morire prima di peccare,
concludendo che Ebbe in pregio il parer, non l’esser casta.
Lucrezia dunque si suicidò per apparire casta e virtuosa, invece di
esserlo veramente, morendo prima che Tarquinio la violentasse. Qui
Zappi mostra l’abilità retorica tipica del bravo avvocato di saper
presentare la situazione in maniera consona al vantaggio della sua
causa, attraverso precise omissioni, distorsioni e la trasformazione
della vittima in colpevole, ingigantendo o sminuendo alcuni dettagli.
In
questo sonetto Zappi segue una tradizione letteraria cristiana
iniziata con Sant’Agostino – che criticava Lucrezia perché,
nonostante non avesse acconsentito all’adulterio, si punì
compiendo un crimine più grave della colpa stessa di adulterio: il
suicidio, crimine contro Dio
– e proseguita successivamente da altri autori che arrivarono ad
accusarla di falsità, poiché se avesse tenuto davvero alla virtù,
si sarebbe fatta uccidere da Tarquinio quando la minacciò, non
curandosi della calunnia che lui avrebbe diffuso su di lei, poiché
l’unico giudizio che conta è quello di Dio che conosce la verità.
Per tal motivo il poeta la definisce incauta e stolta.
Nel
sonetto in difesa, l’avvocato presenta la “sua cliente” in una
precisa luce: quella della donna sola, lasciata senza soccorso
e senza consiglio sia dai parenti, sia dagli dèi.
Che
far potea la sventurata
e sola
Sposa
di Collatino in tal
periglio?
Pianse,
pregò: ma invano
ogni parola
Sparse,
invano il bel
pianto uscì dal ciglio.
Come
a Colomba, su cui
pende artiglio,
Pendeale
il ferro in su
l’eburnea gola:
Senza
soccorso, oh Dei,
senza consiglio,
Che
far potea la sventurata
e sola?
Morir,
lo so, pria che
peccar dovea;
Ma
quando il ferro del suo
sangue intrise,
Qual
colpa in sé la bella
donna avea?
Peccò
Tarquinio, e il
fallo Ei sol commise
In
Lei, ma non con Ella.
Ella fu rea
Allora
sol, che
un’innocente uccise.
Per
vincere la causa, Zappi fa leva sulla supposta debolezza che sarebbe
propria del sesso femminile. Bisogna notare che la difesa non è
affatto assoluta. Alla domanda da lui stesso sollevata («Che cosa
poteva fare questa donna sventurata e sola?») Zappi risponde, nelle
terzine finali, comportandosi da avvocato. Sa che Lucrezia è
accusata di due colpe: aver “peccato” con Tarquinio e di essersi
suicidata.
Sa che non può scagionarla dalla seconda accusa e allora la difende
dalla prima, cercando di spiegare anche il motivo del suicidio per
rendere meno grave tale gesto agli occhi “della giuria”. Il v. 9
è decisivo e rivelatore del modo in cui ha impostato la difesa.
L’avvocato, in quell’inciso lo so, usa una captatio
benevolentiae nei confronti della giuria. Sa che
essa è
composta da uomini che spesso tendono a scusare gli altri uomini dei
crimini sessuali compiuti verso donne, allora decide di immedesimarsi
in loro per guadagnarne il consenso, sostenendo che, effettivamente
sì, lei ha sbagliato, ma bisogna considerare che in quel frangente
era sola e senza aiuto e non aveva la forza fisica necessaria per
difendersi,
pertanto poté solo piangere sulla sua sorte, ma non opporvisi. Fu
Tarquinio a commettere un peccato nel suo corpo, ma
non con
lei, perché lei non si concesse mai volontariamente e solo di una
cosa è rea: di essersi suicidata. Nel verso finale, il modo in cui
il suicidio è presentato serve per rendere la giuria più incline a
non considerare questo gesto in maniera troppo severa; infatti Zappi
scrive che ella fu rea solo di aver ucciso un’innocente
(sé
stessa), ma nel definirla innocente ribadisce la sua non colpevolezza
nello stupro e a sua volta una giustificazione per quell’atto (non
resse alla vergona di quanto subìto proprio perché lei era senza
colpa).
Una
difesa di questo tipo avrebbe probabilmente fatto inorridire gli
storici e i memorialisti romani (e si spera anche le persone del
nostro tempo), come Livio o Valerio Massimo, che nel gesto di
Lucrezia vedevano il supremo exemplum
della sua virtù.
è però rivelatrice della mentalità del tempo, perché
evidentemente quella era – quantomeno Zappi la riteneva tale – la
strategia difensiva più adatta all’epoca per difendere una donna
che aveva subito uno stupro di cui bisognava mostrare come in nessun
modo fosse stata consenziente.
Morandi,
che ritiene la poesia di Zappi troppo frivola, scrive che in questi
due sonetti non si può scorgere quale opinione Zappi avesse
realmente su Lucrezia, perché in entrambi si comporta da avvocato,
scegliendo quella che riteneva la miglior strategia d’accusa o di
difesa.
Totalmente
diverso il sonetto di Faustina. Anche lei doveva conoscere il quadro
dell’eroina dipinto dal padre e, come detto sopra, forse fu proprio
la serie pittorica paterna che includeva quel dipinto, a spingerla a
scrivere un ciclo di sonetti di donne romane virtuose e infatti
questo sonetto dovrebbe essere stato scritto prima dei due del
marito, forse quando il padre era ancora vivo;
tuttavia questo sonetto non è un’ ἔκφρασις
del quadro paterno. La sua Lucrezia non è la donna debole ed
impotente dello Zappi, ma torna ad essere quella figura virtuosa, dai
saldi principi e dall’elevato valore morale, che conosciamo da
Livio,
dimostrando un’ottima consapevolezza proprio del testo liviano.
Bisogna considerare anche che Aglauro, avendo vissuto una situazione
simile, con l’affronto di dover sopportare maligne dicerie
menzognere, ben si identificava con Lucrezia.
Poiché
narrò la mal
sofferta offesa
Lucrezia
al fido stuol,
ch’avea d’intorno,
E
col suo sangue, di bell’
ira accesa,
Lavò
la non sua colpa, e
il proprio scorno;
Sorse
vendetta, e nella
gran contesa
Fugò
i Superbi dal regal
soggiorno,
E
il giorno, o Roma, di sì
bella impresa
Fu
di tua servitù l’ultimo
giorno.
Bruto
ebbe allora eccelse
lodi, e grate;
Ma
più si denno alla
feminea gonna,
Per
la grand’opra
inusitata, e nuova.
Che
il ferro acquistator di
libertate
Fu
la prima a snudar
l’inclita donna,
Col
farne in sé la
memorabil prova.
Fin
dal primo verso la poetessa parla della mal sofferta
offesa
che Lucrezia subì e già con questo denota l’innocenza della
moglie di Collatino. Lucrezia narrò quanto avvenuto ad una ristretta
cerchia di persone fidate (v. 2) e, accesa d’ira (per l’oltraggio
che aveva subito, v. 3), si uccise. Ma Faustina non scrive «si
suicidò», usa invece una formula estremamente significativa: «col
suo sangue […] lavò la non sua colpa e il proprio scorno».
Normalmente il verbo lavare quando è usato
metaforicamente è
associato ad una colpa o, meglio, al gesto significativo che una
persona compie per ‘lavar via’ una propria colpa; ma non è
questo il caso. Qui Lucrezia con il suo sangue lava una colpa non
sua. Tarquinio errò, solo sua è la colpa: cos’è allora che
realmente Lucrezia lava via dal suo animo con il suo sangue,
suicidandosi? L’oltraggio subito. Lucrezia torna ad essere quindi
quella donna dai saldi principi che si suicida per ribadire la sua
innocenza,
purificandosi con un atto di grande forza, così come la conosciamo
grazie a Livio.
La
seconda quartina narra gli effetti di questo gesto. Coloro che
assistettero al suo racconto, a partire da Lucio Giunio Bruto,
giurarono di vendicarla cacciando i Tarquini da Roma; infatti, nella
gran contesa che sorse (vv. 5-6), i
superbi (i Tarquini)
dovettero alla fine abbandonare Roma, definita regal soggiorno
poiché essi ne erano i re. Il giorno in cui fu compiuta questa
nobile impresa, fu anche l’ultimo giorno di schiavitù per Roma.
La prima terzina inizia con il nome di Bruto in positio
princeps per evidenziarlo, in quanto fu lui ad
assumere
l’iniziativa della cacciata dei Tarquini. Nel verso si afferma che
per quest’impresa ricevette somme e grate lodi, ma questo verso
intende mettere in risalto quanto espresso in quello successivo.
Bruto merita di essere lodato, ma lodi maggiori si denno
a
Lucrezia. Faustina non scrive che Lucrezia ‘merita’ lodi, ma che
a lei ‘sono dovute’ lodi; con il verbo dovere
accentua
maggiormente come non possano esserci dubbi sulla nobiltà del suo
comportamento e che esso non possa richiedere null’altro che elogi,
spiegandone il motivo: per il gran gesto inusitato e nuovo da lei
compiuto. Inoltre Faustina non scrive «si devono a Lucrezia», ma si
denno alla feminea gonna. Questa metonimia evoca
immediatamente
quella sfera femminile che di norma all’epoca era ritenuto il sesso
debole, ma a questa presunta debolezza si oppongono i vv. 10-11 che
sottolineano che a compiere quell’atto estremamente valoroso ed
inusitato fu una donna e non un uomo. Ecco la maggior vicinanza della
Lucrezia di Faustina a quella di Livio: anche la sua Lucrezia è una
donna capace di compiere un gesto che richiede virtù, forza e
coraggio.
Infine
nell’ultima terzina torna la stessa metonimia presente nel sonetto
del marito, il ferro, per indicare la spada, ma
come diverso
ne è l’uso! In Zappi la spada è il mezzo con cui Lucrezia peccò
togliendosi la vita; in Faustina è lo strumento con cui Roma e
Lucrezia acquistarono la libertà, divenendo il mezzo della suprema
prova della sua innocenza e virtù.
Aglauro sottolinea infatti che fu questa gloriosa (inclita)
donna a tirar fuori e ad usare per prima quella spada che darà la
libertà a Roma, provandola su sé stessa. L’allontanamento dalla
tradizione medievale, espressa nei sonetti del marito, e
l’avvicinamento al testo liviano, potrebbero derivarle proprio
dall’ambiente culturale del padre. Non solo, come riportato sopra,
sappiamo che Carlo, per la sua Lucrezia, si era attenuto al testo di
Livio, ma nel concorso clementino del 1709, dove Maratti era uno dei
giudici per la sezione della pittura, la nota in cui si dava il tema
si attiene strettamente alla tradizione liviana, tanto che
nell’argomento della prima classe di concorso si parla di Tarquinio
che « […] la violentò e finalmente fé tanto che trionfò (ma per
forza) del suo illibato amore» e, nella seconda classe, si
stabilisce «Che si esprimesse la violenza del Re Tarquinio fatta a
Lucretia, forzandola a consentire al suo illecito intento col pugnale
alla mano».
Morandi
profonde elogi per questa poesia, poiché, a differenza dei due
sonetti del marito, qui si evince subito quale fosse l’opinione che
Faustina aveva di Lucrezia e si capisce che tratta di un argomento a
cui tiene particolarmente, perché sente che la riguarda da vicino.
In particolare, lo studioso loda il v. 4 dove la poetessa riesce in
un unico verso a risolvere il dilemma di come si possa avere lo
scorno senza avere colpa: «Che è, pur troppo, così vero, giacché
nel mondo, com’era, com’è e come pare voglia essere ancora per
un bel pezzo, si può avere lo scorno, senza la colpa,
come appunto nel caso di Lucrezia».
Parole che, essendo state scritte nel 1888, fanno sicuramente
riflettere e la lungimiranza dello studioso è sorprendente ed amara
al tempo stesso.
3.4) Tuzia (o Tuccia).
Il
sonetto dedicato alla vestale Tuzia contiene un’ ἔκφρασις
del quadro realizzato dal padre, come si evince dai primi due versi. Come sopra accennato, è forse stato scritto prima degli altri,
quando la poetessa non aveva ancora concepito l’idea di scrivere un
ciclo di eroine romane, e incluso da Aglauro in questa serie in un
secondo momento.
La vicenda è ripresa da Valerio Massimo,
dal capitolo che tratta delle accuse infamanti e di come gli
innocenti riuscirono o non riuscirono a dimostrarsi tali. Tuzia era
una vestale che ingiustamente era stata accusata di aver rotto il
giuramento di verginità a Vesta, giacendo con un uomo. Allora, alla
presenza di testimoni, elevò una preghiera alla dea Vesta in cui, se
lei l’aveva sempre onorata nei sacrifici e non aveva rotto il
giuramento, le chiedeva in tal caso di permetterle col suo cribro di
attingere l’acqua dal Tevere e portarla fino al tempio di Vesta. La
dea accolse la richiesta e permise a Tuzia di compiere quest’atto
portentoso. Colui che invece l’aveva ingiuriata ingiustamente
ricevette, in seguito al miracolo, il biasimo da parte dei
concittadini.
Questa,
che in bianco
ammanto, e in bianco velo
Pinse
il mio genitor
modesta, e bella,
è
la casta romana
verginella,
Che
il gran prodigio meritò
dal cielo.
Vibrò
contr’essa aspra
calunnia un telo.
Per
trarla a morte
inonorata; ond’ella
L’acqua
nel cribro a
prova tolse, e quella
Vi
s’arrestò, come
conversa in gelo.
Di
fuor traluce il bel
candido cuore;
E
dir sembra l’ immago in
questi accenti
A
chi la mira, e il parlar
muto intende:
Gli
eroi latini forza di
valore
Difenda
pur, che a forza di
portenti
Le
vergini romane il Ciel
difende.
Il
primo verso, dove Tuzia è evocata ammantata in un abito bianco e con
un velo bianco in testa, descrive come Maratti dipinse la vestale.
Faustina sfruttò l’occasione fornitagli dal quadro del padre, per
trattare di un tema che aveva molto a cuore e che era strettamente
legato alla figura di Tuzia: la difficoltà di discolparsi da
calunnie, soprattutto per le donne. È un tema che sentiva molto
vicino, poiché nel corso della sua vita più volte si era dovuta
difendere da dicerie e false accuse.
Se una donna è virtuosa e viene accusata ingiustamente di una colpa
non commessa, ma le persone non le credono, potrà sempre contare
sulla protezione divina. Dio infatti conosce la verità ed è pronto
ad intervenire in difesa delle virtuose. Da notare come il colore
delle vesti di Tuzia rispecchi l’innocenza del suo animo,
esprimendo all’esterno la sua purezza interiore: al bianco
dell’abito e del velo (v. 1) corrisponde il suo bel cuore candido
(v. 9). Negli ultimi cinque versi, Faustina esalta l’immagine
realizzata dal padre che, pur essendo ‘muta’ perché dipinta,
riesce a trasmettere così bene la sua virtù e pare così vivida
che, chi la mira con attenzione, riesce ad intendere il suo
“discorso”. Su questo punto bisogna soffermarsi, poiché Faustina
affronta un tema molto sentito proprio nell’ambiente classicista
del padre.
Nelle
Vite di Bellori la novità consiste nella
Descrizione
dell’opera d’arte che diviene l’elemento centrale e
caratterizzante il suo metodo.
Per l’antiquario, la descrizione deve essere eseguita in modo
razionale, secondo un ordine preciso,
infatti di norma è costituita da quattro elementi così disposti: 1)
L’Argomento della Favola. 2) La
Descrizione vera e
propria. 3) L’Allegoria. 4) Osservazioni
stilistiche.
Il primo punto prevede l’identificazione del soggetto raffigurato.
Il secondo consiste nell’analizzare la composizione e quindi
studiare la disposizione delle figure nello spazio, rivelare le
simmetrie e le proporzioni, osservare come le figure esprimano ‘i
moti dell’animo’ attraverso ‘i moti del corpo’ e come siano
concatenate tra loro attraverso gesti e sguardi. Il terzo punto
consiste nello spiegare ‘il fine dell’opera’, rivelare cioè il
suo significato. Infatti, in base al celebre principio oraziano del
«miscēre utile dulci»,
l’opera
d’arte deve trasmettere insegnamenti profondi in maniera piacevole;
pertanto nel terzo elemento Bellori analizza il fine paideutico della
scena lì rappresentata. Solo nell’ultimo punto tratta le
considerazioni stilistiche (il disegno, i colori, l’uso del
chiaroscuro),
poiché esse sono il modo in cui il soggetto è tradotto in pittura e
quindi devono essere considerate successivamente agli aspetti legati
al soggetto.
Alla
base del suo metodo vi è un’idea antica di Simonide di Ceo. Il
poeta sosteneva che poesia e pittura fossero strettamente legate tra
loro ed aveva espresso questo concetto nel suo celebre detto «la
pittura è una poesia muta e la poesia una pittura parlante».
Questo principio venne ripreso da Orazio nell’Ars poetica
con la celebre formula: «Ut
pictura poesis».
Grazie alla fama del verso di Orazio, l’idea di uno stretto legame
tra pittura e poesia sopravvisse intatta nei secoli successivi, dal
Medioevo al Rinascimento, fino al Barocco. Bellori credeva fermamente
in questo rapporto tra letteratura ed arte, con la conseguenza che
applicò alle arti figurative le categorie della retorica classica,
usando l’idea di questo legame come guida per giudicare le opere
d’arte: il poeta, attraverso le parole, deve riuscire ad evocare
immagini nella mente di chi ascolta/legge, mentre il pittore deve
saper evocare una narrazione attraverso le immagini dipinte.
In
accordo con la teoria italiana dei generi artistici, Bellori riteneva
che la pittura di storia
fosse il genere più elevato ed infatti, come visto, nelle sue Vite
il primo punto del suo metodo descrittivo è costituito proprio
dall’Argomento della favola (il soggetto
rappresentato).
Come però nella letteratura forma e contenuto sono strettamente
legati – poiché un buon contenuto deve essere espresso in uno
stile altrettanto elevato
–
così in un quadro non basta il soggetto per rendere quel dipinto
nobile, ma è essenziale anche la composizione, cioè il modo in cui
quel soggetto è reso. Pertanto, subito dopo aver individuato il
soggetto lì raffigurato, per Bellori bisogna compiere la descrizione
vera e propria dell’opera per verificarne la validità, in accordo
con l’antica pratica dell’ ἔκφρασις. È in questa fase che si vede come per Bellori la pittura debba
essere una poesia muta, così come la poesia una pittura parlante. La
descrizione dell’opera diviene la prova suprema per verificare se
un dipinto sia valido oppure no, in quanto, se di quell’opera non
si riuscirà agevolmente a compiere una descrizione, vorrà dire che
non è una buona opera, poiché manca della capacità narrativa e
pertanto non è una poesia muta, come invece deve essere. Un’opera
sa narrare, e può quindi essere descritta, quando le sue figure
riescono ad esprimere in maniera diretta ed immediata i sentimenti e
quando si riesce a cogliere i collegamenti tra i personaggi
raffigurati. Le figure, pur essendo mute, devono riuscire ad evocare
una ‘storia’, rivelando i loro sentimenti, virtù e pensieri.
L’unico modo che il pittore ha di far ciò, è di studiare di ogni
singola figura i ‘moti del corpo’ (gesti, movimenti,
espressioni), i soli in grado di rivelare i ‘moti dell’animo’
(i sentimenti e le emozioni). Successivamente il pittore dovrà
collegare le figure attraverso i gesti e gli sguardi (la ‘mozione
degli affetti’), in modo da evocare una narrazione. Infatti
l’occhio dell’osservatore, seguendo i gesti e gli sguardi dei
personaggi, passerà da una figura all'altra secondo un dato ordine
di lettura, comprendendo così i sentimenti e gli stati d’animo
provati dai diversi personaggi. Solo in questo modo le figure mute
potranno “parlare”, evocando così una narrazione, ed il quadro
potrà essere una poesia muta.
Per Bellori i quadri di storia di Maratti erano quelli che meglio si
prestavano ad essere descritti,
riconoscendogli così la qualità di ‘poesie mute’. Uno dei
quadri di Maratti che meglio afferma lo stretto rapporto tra poesia e
pittura è proprio il ritratto di Bellori, dove l’erudito tiene in
mano il suo libro sulle Vite degli artisti a
denotare che,
come lo scrittore usa il suo medium (la scrittura)
per
eternare i pittori meritevoli (tra cui Maratti stesso), così il
pittore usa il suo medium (la pittura) per eternare
lo
scrittore, assolvendo in pieno al detto oraziano «ut
pictura poesis».
Bisogna infine ricordare che Bellori parla della sua Vita di
Carlo
Maratti in termini pittorici; infatti, rivolgendosi al
pittore,
gli chiedeva di scusarlo se nel dipingerlo in quei
fogli non
aveva né lumi né lineamenti pari
ai suoi, ma poteva
solo adombrarlo con il suo devoto affetto.
Così scrivendo, Bellori presenta l’intera biografia come una
pittura parlante.
Questo
excursus intende mostrare che
evidentemente Faustina assorbì
questi temi tanto cari all’ambiente culturale paterno. Del resto
Bellori frequentava assiduamente la casa di Maratti e le sue idee
dovettero giocare un ruolo importante per la formazione di Faustina,
cosa che non sorprende, considerando che l’erudito era il punto di
riferimento culturale per eccellenza del padre. Con il v. 11 lei,
poetessa e figlia di un pittore, non solo dimostra di considerare
pittura e poesia strettamente legate, in accordo con il concetto di
Simonide di Ceo, ma anche di conoscere le idee di Bellori, poiché
sottolinea la perfezione del quadro del padre proprio aderendo al
metodo belloriano, indicando che è un quadro capace di narrare, di
essere cioè una poesia muta, che lei, con la sua arte, trasforma a
sua volta in una pittura parlante, come Bellori aveva fatto con le
descrizioni delle opere d’arte presenti nelle sue Vite.
Tornando
al v. 11, cosa riferisce il parlar muto di Tuzia a
noi
lettori? Che gli eroi latini siano pure difesi dalla forza del loro
valore, perché intanto le vergini romane le difende il cielo stesso
a forza di portenti, come ha dimostrato il suo caso. È chiaro che
Faustina si sente tra quelle vergini romane protette dal cielo, e se
Tuzia fu salvata da un miracolo inviato dalla divinità come prova
della sua innocenza, Faustina fu difesa dal rappresentante di Dio in
terra, il papa Clemente XI Albani. Come Lucrezia nel sonetto a lei
dedicato, qui Tuzia viene da Aglauro vista come colei che ha
insegnato a lei e a tutte le donne come comportarsi nelle situazioni
difficili: seguire sempre la strada della virtus,
poiché è l’unica gradita alla divinità che conosce la verità e
che interverrà, se necessario, in favore delle virtuose. Inoltre,
come scrive Maier, il verso finale voleva forse essere un monito
velato che Faustina rivolgeva ai suoi calunniatori.
3.5) Virginia.
In
Livio la vicenda di Virginia è posta in parallelo con quella di
Lucrezia, poiché in entrambi i casi la morte di una fanciulla
virtuosa pose fine ad un governo iniquo: la cacciata dei re con
Lucrezia, la fine dei decemviri con Virginia.
D’Appio
a fuggir la
scellerata voglia,
E
d’un’ingiusta servitù
l’orrore,
Virginia
al disperato
genitore
Vittima
offerse la sua
intatta spoglia.
Padre,
dicea, m’accidi;
il reo non coglia,
coglia
più tosto morte il
mio bel fiore.
Sei
tra doglia agitato, e
tra furore:
vinca,
ah vinca il furor,
ceda la doglia.
Così
cadde innocente; e ’n
varia sorte
Fur
visti, il padre in
faccia scolorita,
ella
più che mai lieta
incontro a morte.
Vergine
illustre, al più
grand’uopo ardita,
n’insegni
tu, casta
egualmente, e forte,
che
ben si cangia coll’onor
la vita.
Virginia
si fece uccidere dal padre per sfuggire ad Appio Claudio che, per
poterla avere, aveva deciso di farne la sua schiava. Faustina esalta
la virtù e la forza d’animo mostrata da quest’eroina che preferì
morire virtuosa, piuttosto che vivere da schiava. I termini usati
sono efficaci: per sfuggire al desiderio scellerato
di Appio
Claudio e all’orrore di una servitù ingiusta
a cui il decemviro voleva ridurla (per giacere con lei), si offrì
al padre come vittima
sacrificale affinché potesse morire
pura e casta (non colga il reo il mio bel fiore). è
lei a
convincere il padre titubante a recidere la sua vita e se il padre
con estremo dolore compì quel gesto,
l’innocente andò invece incontro alla morte più
che mai
lieta. Faustina chiama Virginia, vittima,
innocente,
Vergine illustre, denotando in maniera
efficace come dovesse
essere vista. Nella terzina finale, si spiega quale insegnamento ha
lasciato alle successive fanciulle: esse devono essere caste ed al
tempo stesso forti, disposte a scambiare la vita con l’onore, cioè
disposte a morire virtuose piuttosto che a vivere senza virtù.
Virginia
figurava come uno dei massimi exempla
pudicitiae
del mondo antico e, nel presentarla come tale, Faustina dimostra di
ben conoscere i testi latini. La poetessa opera tuttavia un sottile,
ma fondamentale, cambiamento rispetto alla tradizione antica. In
Livio e Valerio Massimo, infatti, nella vicenda della sua uccisione,
Virginia ha un ruolo passivo, in quanto è il padre a decidere della
sua sorte. Faustina, invece, la trasforma in colei che prende
l’iniziativa della sua morte per rimanere virtuosa. Tale variazione
è operata da Aglauro in modo da conferire a Virginia un ruolo attivo
nella vicenda, per dimostrare la forza oltre alla virtù di cui le
donne possono essere capaci.
3.6) Claudia.
I
temi affrontati nella poesia dedicata a Claudia Quinta sono simili a
quelli del sonetto su Tuzia, poiché anche qui abbiamo una nobile e
virtuosa romana che dovette difendersi dall’accusa, falsa, di non
essere casta, dalla quale riuscì a discolparsi sempre grazie
all’intervento di una dea che, concedendole un prodigio, dimostrò
la sua virtù e castità. Sebbene fonti più tarde la dicano vestale,
in realtà, come apprendiamo da Livio e Ovidio,
Claudia era una matrona romana nobile e virtuosa, ma, per via del suo
abbigliamento elegante, era stata accusata ingiustamente di adulterio
da alcune voci ingiuriose. Lei era una delle matrone romane che erano
state scelte per accogliere il simulacro della dea Cibele che
giungeva dall’Asia Minore, ma la nave che lo trasportava si era
incagliata nei pressi della foce del Tevere; allora lei supplicò
Cibele di dar prova della sua virtù, permettendole di risolvere il
problema. La dea accolse la preghiera e fece sì che Claudia potesse,
legando la sua cintura alla barca, disincagliare la nave e trainarla
fino a Roma. L’intervento della dea in suo favore testimoniò la
sua innocenza rispetto alle accuse malevole e Claudia fu portata in
trionfo su un carro.
Immobile
sul Tebro era il
Naviglio,
Che
agl’incensi Romani
conducea
Il
Simolacro della Madre
Idea;
E
vana era mortal forza, e
consiglio.
Claudia,
che l’onor suo
posto in periglio
Nel
popolar sospetto allor
vedea,
Legò
il cinto alla Nave;
indi alla Dea
Volse
intrepida, e umìle i
prieghi, e ’l ciglio.
Trasse
il Legno, e la Diva
in un’ istante.
Or
qual sei Vincitor, che
gir presumi
A
così illustre Verginella
avante?
Il
Carro tuo da i
soggiogati Fiumi
Seguiro
i vinti Rè; ma
trionfante
Tragge
con se la Castitade
i Numi.
Il
v. 4 introduce la netta contrapposizione tra l’insufficienza degli
“strumenti” umani (mortal forza e consiglio) e il
mondo
degli dèi. Nei vv. 5-6 Faustina torna su un tema che aveva molto a
cuore, poiché da lei stessa sperimentato: le insinuazioni maligne,
infondate, ma difficili da smentire per l’innocente. Claudia vedeva
il suo onore posto in pericolo dalle voci che
circolavano
presso il popolo (il popolar sospetto), ed anche
lei,
intrepida e umile, chiese aiuto alla
divinità che esaudì la
sua preghiera con un intervento prodigioso. Nei vv. 10-14 Faustina
afferma che, mentre i generali romani vittoriosi, portati a Roma in
trionfo, dietro al carro trascinavano i re sconfitti, questa così
illustre verginella merita un trionfo maggiore, poiché la sua
Castitade, trionfante,
tira dietro sé i Numi,
cioè le ha attirato i favori della divinità stessa.
Faustina ribadisce ancora una volta, dopo il sonetto su Tuzia, che le
donne devono vivere virtuose, poiché la loro virtus
sarà ricompensata dalla divinità conoscitrice della verità. Anche
questo sonetto pertanto vuole essere un monito ai suoi falsi
accusatori.
3.7) Arria maggiore.
Il
sonetto dedicato ad Arria maggiore, la moglie di Cecina Peto, per la
tematica trattata è vicino a quello di Virginia.
Tra
ceppi avvinto, e già
dannato a Marte,
Si
abbandonò Cecinna a un
vil timore;
Nè
di sua man sapea
ferirsi il cuore
Per
far l’ore aspre men,
quanto più corte.
Arria,
che scorge il timido
Consorte,
Vibra
lo stilo in se; poi
con valore
Gliel’
offre, e dice:
Ecco, non fa dolore
Volontaria
ferita in petto
forte.
Tra
quante acquisto fer di
bella Gloria
Sprezzando
Morte, ah questa
è ben più degna,
Che
se n’ eterni in
faccia al Sol memoria.
Donna
fra quante il Mondo
addita, e segna,
Di
Poema dignissima, e d’
Istoria;
Che
ad amar fida, e a morir
forte, insegna.
Cecina
Peto aveva partecipato ad una congiura contro l’Imperatore Claudio
e quando questa era fallita, fu arrestato e condannato a morte. Nel
momento in cui doveva togliersi la vita con il pugnale, esitò;
allora la moglie Arria prese il pugnale e si trafisse, poi lo
estrasse e lo porse al marito dicendogli: «Paete,
non dolet»
(Peto, non fa male). Questo detto di Arria
divenne celeberrimo e
infatti Faustina al v. 7 riporta la traduzione letterale. Nel sonetto
la poetessa crea il contrasto tra la debolezza del marito e l’animo
forte della moglie, sviluppando una tematica già presente nella sua
fonte .
Cecina è presentato come timido e assalito da un
timore vile.
La sua esitazione a suicidarsi è vile, perché egli non ha modo di
scampare alla morte e se non si toglierà la vita con le proprie
mani, morendo onorevolmente e con dignità, morirà vilmente per mano
delle guardie imperiali che eseguiranno l’ordine di condanna a
morte che era stato emesso nei suoi confronti. L’uso dei termini
che accompagnano i due personaggi è significativo di
quest’opposizione: all’incertezza del marito che non sapeva ferir
il cuore di sua man, si oppone la fermezza di Arria
maggiore
che, afferrato quel pugnale, lo vibra in sé,
procurandosi con
valore una volontaria ferita e poi lo
offre al marito
dicendo: «Ecco, non fa dolore».
Arria ha dimostrato di non temere la morte e che è meglio morire con
onore e dignità (per mano propria), piuttosto che in maniera
infamante. Per Faustina, Arria merita grande gloria, tanto che la sua
memoria è degna d’essere eternata sia dagli storici, sia dai
poeti, perché ha insegnato ad amare fedelmente e a morire con onore.
3.8) Ortensia.
Ortensia
era figlia del console Quinto Ortensio Ortalo, grande oratore della
scuola asiana. Grazie al padre, lei aveva ricevuto un’ottima
educazione latina e greca che le permise di essere scelta dalle altre
matrone romane per pronunciare un’orazione nel foro romano con la
quale indurre i triumviri ad abolire, o quantomeno a rivedere, la
tassa che essi avevano imposto alle ricche matrone romane. In
quell’occasione diede mostra di grandi abilità retoriche,
riuscendo a persuadere i triumviri a modificare questa tassa. Anche
in questo caso la fonte è Valerio Massimo,
dal quale Faustina riprende le lodi oratorie che usa però per
sostenere nella terzina finale un concetto che doveva avere molto a
cuore.
Chi
è costei, che in volto
delicato
Tal
maestade, e tanto
orgoglio porta?
E
di cento Matrone audace
scorta
Entra
nel mezzo del Roman
Senato?
Pria
tace; e il guardo
intorno poi girato
Scioglie
i detti facondi; e
saggia, e accorta
Contro
il tributo
alteramente insorta,
Tolgasi,
disse, o Padri il
peso ingrato.
L'Oratrice
del Tebro,
Ortensia, è questa,
Ch'alto
ragiona; e in un
faconda, e bella
Ottiene
il don dell'onorata
inchiesta.
O
tu, che lodi sol Donna,
che tace,
Dì,
che taccia colei, che
mal favella:
Donna,
che saggia parli, e
piacque, e piace.
L’attacco
del primo verso (Chi è costei) è ispirato ad un
celebre
verso del Cantico dei Cantici 6:10 («Quae
est ista …»). Anche un altro
poeta arcade, Enea
Antonio Bonini (Acasto Lampeatico), aveva, probabilmente prima di
quello di Faustina, iniziato un sonetto con quest’incipit (Chi
è
costei, che a mezza notte è desta,).
La
prima quartina, formata da due domande retoriche, è dedicata alla
celebrazione di Ortensia di cui si esalta la maestà. Lei, facendosi
portatrice dei pensieri delle altre matrone romane,
entra solenne nel senato romano per pronunciare il suo discorso.
Faustina descrive
l’atmosfera di attesa
che
Ortensia sa creare
(vv. 5-6)
e la definisce saggia e accorta nella sua orazione
in cui
chiede che venga abolito il tributo ingrato che
era stato
imposto alle matrone romane. Oratrice che unisce la capacità
oratoria alla bellezza (in un faconda, e bella),
Ortensia,
grazie ai suoi argomenti elevati espressi in una forma magnifica
(alto ragiona in modo facondo), ottiene quanto
richiesto.
Viene definita con una metonimia oratrice del Tebro,
perché
romana.
Nella terzina finale Faustina esalta la figura di Ortensia, che
dimostrò di essere un’abile oratrice pur essendo donna, per poter
affermare, non senza orgoglio, che le donne possono dimostrarsi
oratrici e poetesse abili quanto gli uomini. Con il v. 12, attraverso
un generico tu, si rivolge a quegli uomini che
ritengono che
sia da lodare solo la donna che tace. A lui/loro dice di far tacere
solo quella donna che non conosce l’arte del parlare (mal
favella), perché la donna che sa parlare saggiamente,
piacque nel passato,
come piace nel presente (v. 14).
3.9) Cornelia.
Cornelia,
la coltissima figlia di Publio Cornelio Scipione l’Africano e
moglie di Tiberio Sempronio Gracco, fu la madre di Tiberio e Caio
Gracco e di Sempronia, moglie di Scipione l’Emiliano. Grazie al
padre aveva ricevuto un’ottima educazione latina e greca, vivendo a
contatto con il circolo filellenico degli Scipioni. Fu estremamente
celebre per le sue virtù.
А
qual mai non portò
vietato errore
La
non mai sazia aтbizion
di regno:
Ed
ecco pur d’inclita
Donna il core
(Rara
Virtù) prender gli
scettri a sdegno.
Chiara
per l’immortal suo
Genitore
Cui
diè la soggiogata
Affrica il degno
Nome;
stimò Cornelia un
vile onore
D’Egitto
il soglio, e di
sua gloria indegno.
Oh
qual restò di Tolomeo
l’orgoglio,
Che
avvezzo era qual Giove,
alla Germana
Del
talamo far parte, e in
un del soglio!
Di
sé Regina, e del suo
cor sovrana
Nata
al libero onor del
Campidoglio,
Sdegnò
barbari nodi Alma
Romana.
Nella
prima quartina Faustina presenta Cornelia come una figura quasi più
che umana. Nei primi due versi, infatti, afferma che l’ambizione di
regnare, un’ambizione che non è mai sazia, ha sempre portato gli
uomini a commettere i più nefasti atti (gli errori
più
vietati). L’esclamazione è posta in modo
da farla apparire
come una sorta di legge universale, ma nei due versi successivi la
poetessa rivela che eppure ci fu una donna il cui cuore possedeva la
rara virtù di disdegnare gli scettri (e quindi di non aspirare al
potere): Cornelia, il cui nome viene presentato (v. 7) solo dopo una
perifrasi (vv. 5-6) che delinea la sua appartenenza ad una famiglia
che ha segnato la storia di Roma; perifrasi funzionale alla
necessaria collocazione del personaggio per comprendere il rifiuto
del trono che le era stato offerto. Cornelia, orgogliosa del padre
che aveva raggiunto gloria immortale conquistando l’Africa, reputò
un disonore accettare la proposta di matrimonio che le aveva rivolto
Tolomeo VIII Evergete II, re d’Egitto, quando lei era rimasta
vedova.
Per comprendere i vv. 9-11 bisogna ricordare che nella dinastia dei
Tolomei (che si era insediata in Egitto in seguito alla morte di
Alessandro Magno) il sovrano era solito sposare la sorella (Germana)
ad imitazione di Zeus, che aveva sposato la sorella Era.
Cornelia,
che era nata come libera cittadina romana (v. 13) da un padre tanto
nobile e famoso, non volle divenire la regina di un paese straniero;
disdegnò pertanto i barbari nodi, preferendo vivere
libera,
Regina di sé stessa, sovrana del
suo cuore e fedele
alla sua patria. In questi versi si coglie da parte della figlia di
Scipione il valore della libertas
a
fondamento della società romana, con la consapevolezza di tutti i
diritti ed i doveri inerenti all’essere cittadino romano (civis
Romanus sum).
3.10) Clelia.
Gli
episodi di Orazio Coclide e di Clelia rientrano nei vari eventi
riguardanti il momento in cui Roma era assediata da Porsenna, re di
Chiusi. Orazio Coclide, vedendo i nemici arrivare dal Gianicolo, lì
affrontò da solo, dando il tempo al resto dei Romani di tagliare le
assi del ligneo pons Sublicius.
Una
volta crollato il ponte, Orazio si gettò nel Tevere, riuscendo a
raggiungere a nuoto incolume la riva dove vi erano i Romani.
In seguito alla pace tra Porsenna e Roma, Clelia fu una degli ostaggi
che l’Urbs
aveva dovuto consegnare al Re di Chiusi in cambio del ritiro del
presidio nemico sul Gianicolo. Spinta dalla volontà di emulare
Orazio Coclide, Muzio Scevola e gli altri Romani che si erano
distinti per virtù in quella guerra, Clelia di notte riuscì a
scappare dall’accampamento nemico, guidando con sé il resto delle
fanciulle in ostaggio. Passato a nuoto il Tevere, Clelia portò in
salvo le fanciulle riconsegnandole alle loro famiglie. Porsenna
all’inizio si adirò, ordinando ai Romani di restituirgli colei che
aveva avuto l’audace idea. I Romani, per rispettare il patto,
restituirono Clelia, ma a questo punto Porsenna, colpito dall’atto
compiuto dalla fanciulla, lodò il suo coraggio e le disse che non
solo le avrebbe restituito la libertà, ma che le avrebbe donato
anche la metà degli ostaggi Romani; Clelia scelse i fanciulli e con
essi ritornò a Roma.
Star
vede il Tebro nella
gran contesa
un
sol suo figlio, a tutta
Etruria a fronte;
e
dopo l’alta, e gloriosa
impresa
gittarsi
invitto dal difeso
Ponte.
E
Clelia allor, che pegno
ostil fu resa,
fattasi
duce alle compagne
pronte
fuggì
per l’onde, su
destriero ascesa
e
lo schernito Re lasciò
sul monte.
Onor
di premio militar fu
dato
al
Campion forte; e
all’inclita donzella
videsi
Equestre simulacro
alzato.
Ma
lor doveansi erger due
Templi, e fuore
sovra
l’imago por di
questo, e quella:
sagro
alla Libertà, sagro
al Valore.
Nella
prima quartina, senza nominarlo, Faustina parla dell’impresa di
Orazio Coclide, con il Tevere che vide uno solo dei suoi figli
stare di fronte all’esercito nemico. Per denotare la guerra,
Faustina usa qui la stessa metonimia presente nel sonetto di
Lucrezia: nella gran contesa.
Dopo
aver compiuto quest’impresa alta e gloriosa,
Orazio
si gettò dal ponte che aveva difeso. È opportuno prestar attenzione
all’uso delle parole, poiché nella costruzione del v. 4 si pone
volutamente di seguito invitto e difeso,
in modo da
valorizzare che fu proprio il fatto che lui riuscì a resistere da
solo all’assalto nemico (che rimase invictus
quindi), che gli permise la difesa del ponte. È anche interessante
notare che il maestro di Faustina, Alessandro Guidi, nella canzone
Tevere, laddove parla di Orazio Coclide
e Clelia,
usa l’aggettivo invitto per Clelia, che Agluaro
trasferisce
qui ad Orazio Coclide.
Ardita
è inoltre l’anastrofe del primo verso dove il verbo Stare,
in una costruzione tradizionale, dovrebbe andare a fine verso.
La
seconda quartina è invece dedicata all’impresa di Clelia,
posteriore alla prima e ad essa ispirata. È interessante notare che
mentre Clelia è nomata subito all’inizio della quartina che la
riguarda,
Orazio Coclide non viene mai chiamato per nome, ma solo alluso
mediante la sua celeberrima impresa che tutti conoscono. In questo
modo, in parte, Clelia si vede assegnare un peso di poco maggiore
all’interno del sonetto, nonostante le parti che parlano dell’uno
e dell’altra siano perfettamente uguali.
Clelia
era una delle fanciulle romane che erano state date dai Romani a
Porsenna come garanzia del rispetto dei patti
(v. 5). Con l’aggiunta di ostil (v. 5), Faustina
denota come
Clelia non fosse un ostaggio docile, ma maldisposta verso i nemici e
volenterosa di scappare. Nel v. 6, Faustina con quel pronte
sottolinea come anche le altre fanciulle erano disposte a fuggire,
avevano solo bisogno di una guida da seguire prontamente e questa
guida fu appunto Clelia, che si fece dux (= guida,
condottiero) per le altre fanciulle.
Come
si è sapientemente accorto Cracolici,
il v. 7 ci fa comprendere che Faustina, per questo sonetto, più che
Livio, abbia utilizzato come fonte Plutarco e Floro. Livio infatti
scrive che Clelia, come le altre fanciulle, guadò il Tevere a nuoto
e non a cavallo; Plutarco, invece, narra che attraversò il Tevere in
sella ad un cavallo,
e così Floro.
Considerando il fatto che all’epoca circolavano diverse traduzioni
di Plutarco, è possibile che sia stato lui la fonte di Faustina,
visto anche che si dilunga molto più di Floro sull’episodio.
A questi testi è però indispensabile aggiungere anche Valerio
Massimo che, come abbiamo visto, era un’altra delle fonti usate da
Faustina. Egli parla di Clelia nel capitolo De fortitudine
dove riporta la versione del guado del Tevere a cavallo.
Il
monte del v. 8 di cui si parla è il Gianicolo, sul quale Porsenna
aveva stabilito il presidio che, in base agli accordi di pace, doveva
ora ritirare. Nella prima terzina, Faustina espone i premi che Orazio
Coclide e Clelia ricevettero per le loro imprese: il primo, definito
forte campione (del popolo romano) per aver rappresentato da solo il
valore dei Romani contro i nemici, ricevette premi militari,
mentre alla gloriosa (inclita) fanciulla fu eretta
una statua
equestre. Come nel sonetto di Porcia, anche qui Faustina, nell’ultima
terzina, sente la necessità di affermare che i due protagonisti
della poesia meritano onori maggiori di quelli elargitigli. Secondo
lei bisognava infatti erigere in loro onore un templio ciascuno e
porre l’immagine di Orazio sulla facciata del templio eretto per
lui e l’immagine di Clelia su quella del templio eretto per lei. Il
templio con l’immagine di Orazio doveva essere consacrato alla
Libertas, mentre quello con l’effige di
Clelia, alla Virtus.
Nell’ultimo verso, pertanto, si evince di quale virtù, per
Faustina, questi due eroi erano i campioni: la libertas,
Orazio, la virtus,
Clelia. Orazio
è campione della libertà, perché grazie al suo coraggio ha fatto
sì che i Romani non soccombessero all’esercito nemico e pertanto
ha difeso e garantito la libertas
del popolo romano;
Clelia invece è la campionessa del valore, perché, come un dux
(un comandante), si è messa in sella ad un cavallo alla guida delle
fanciulle, conducendole in salvo sull’altra sponda del Tevere,
meritandosi perciò il rispetto non solo dei Romani, ma perfino di
Porsenna stesso, proprio per il suo valore. Nel lodare il suo valore,
Faustina segue le fonti antiche: Livio parla infatti di virtus,
sottolineando come Porsenna non solo ammirò la sua virtus,
ma la onorò pure;
Plutarco usa l’aggettivo τὸ
ἀνδρῶδες
(virile, forte, coraggioso)
che è quindi sempre connesso con la virtus;
Valerio Massimo parla addirittura di lumen
virtutis, scrivendo che lei, una puella,
portò agli uomini (viris)
il lumen
virtutis (la fiaccola della virtù).
Giustamente
Cracolici
ricorda come l’iconografia di Orazio Coclide che fronteggia i
nemici e quella di Clelia che a cavallo guada il Tevere guidando le
altre fanciulle, fossero ben diffuse in arte. Per la scena di Orazio
Coclide che difende il pons
Sublicius
gli esempi in pittura sono molteplici; per limitarci solo ad alcuni
dei più importanti presenti a Roma, si possono citare gli affreschi
nel Salone di Villa Lante sul Gianicolo,
quello di Luzio Luzzi nella Sala della Biblioteca a
Castel
Sant’Angelo (anni ’40 del ’500) e l’affresco di Tommaso
Laureti a Palazzo dei Conservatori (1587-1594). Per l’iconografia
di Clelia che attraversa il Tevere, si possono citare gli affreschi
che si trovavano nel Salone di villa Lante sul Gianicolo, eseguiti
tra il 1524-1525 ca. da vari pittori della bottega di Raffaello,
dove compariva l’episodio dell’attraversamento del
Tevere, compiuto da Clelia a cavallo, sia quello di Porsenna
che dona a Clelia il cavallo.
Di questi affreschi nel Seicento circolavano numerose incisioni e
sicuramente erano noti a Carlo Maratti e al suo ambiente. L’episodio
era presente anche in almeno una delle facciate dei palazzi romani
affrescate da Polidoro da Caravaggio.
L’iconografia di Clelia che attraversa il Tevere riscosse dunque
una certa fortuna dal Rinascimento in poi
e di solito Clelia viene rappresentata a cavallo. Cracolici ricorda
inoltre come lo stesso padre di Faustina, Carlo, avesse realizzato un
disegno a penna, poi inciso da Andrea Procaccini, che rappresentava
Clelia a cavallo mentre attraversa il Tevere con le altre fanciulle.
Questo denota che nelle decorazioni pittoriche, in generale, e
nell’ambiente del padre, in particolare, si seguiva la versione di
Valerio Massimo e di Plutarco (Clelia che guada il Tevere a cavallo
invece che a nuoto) e il fatto che anche Faustina segua questa
versione, è indirettamente un ulteriore indizio di quanto fosse
legata al mondo pittorico e all’ambiente culturale del padre in cui
si era formata ed era cresciuta.
4) Epilogo.
L’analisi
dei sonetti ha rivelato che Faustina li aveva concepiti come una
serie letteraria capace di rivaleggiare con analoghe serie, sia
letterarie, sia pittoriche, compresa quella del padre. Quello su
Tuzia fu appositamente ideato come una ‘pittura parlante’ in
omaggio, ma al tempo stesso in competizione con la ‘poesia muta’
dipinta da Carlo, sottolineando così lo stretto legame tra arte e
letteratura ed entrando in gara anche con quanto fatto da Bellori
nelle sue Vite. Dal modello pittorico paterno
riprese l’idea
di un ciclo unitario di figure femminili presentate come exempla
virtutis, ma si distaccò da esso per quanto
riguarda gli
insegnamenti che i sonetti dovevano trasmettere, poiché li utilizzò
per veicolare principi che le erano cari.
La
scelta delle figure antiche è inoltre rivelatrice della sua ottima
conoscenza della storia romana, poiché le protagoniste di questi
sonetti sono sempre adeguate a veicolare i temi affrontati, segno che
la loro selezione è stata ricercata con estrema cura dalla poetessa,
che, accanto a eroine celebri come Lucrezia e Virginia, scelse anche
figure non troppo note, come Claudia e Ortensia, che erano però
adatte ai sui scopi. Faustina mostra quindi di aver studiato gli
autori latini, soprattutto storici e memorialisti come Livio e
Valerio Massimo, e per opporsi ad alcune riletture misogine (che
circolavano al suo tempo) di quelle eroine romane, è a questi
scrittori antichi che si rivolge per trarre da loro l’auctoritas
necessaria a smentire quelle riletture (come nel caso di Lucrezia). I
dieci sonetti rivelano inoltre affinità con il modo di procedere di
Valerio Massimo, poiché anche Faustina presenta le virtù attraverso
esempi di personaggi che si sono distinti in esse, ma, coerentemente
con il suo fine, gli esempi sono ridotti a sole figure femminili.
Faustina istaura però con gli antichi un rapporto di
imitatio-aemulatio,
perché nel caso di
Virginia modifica a vantaggio della sua tesi la versione riportata
dagli antichi e nel sonetto su Porcia risponde esplicitamente alla
domanda lasciata aperta da Valerio Massimo.
Nei
sonetti, le mulieres illustres
evocano
virtù diverse: Lucrezia è un exemplum
di pudicizia e di grandezza d’animo; Porcia di forza e di fedeltà
nell’amore; Veturia, Cornelia e Clelia educano all’amor patrio e
ai valori della società romana; Tuzia e Claudia insegnano come la
divinità difenda le donne virtuose dalle false accuse; Virginia e
Arria sono un esempio di coraggio, honos
et dignitas;
Ortensia dimostra come
anche le donne possano distinguersi nell’ars oratoria:
tutto
dipende dallo studio, non dal sesso.
Secondo
la disposizione dei dieci sonetti curata da Faustina sopra esposta,
la serie si apre con una madre anziana, Veturia,
che insegna
come perfino l’amore materno debba essere subordinato a quello
patrio, e si chiude con una fanciulla, Clelia, che
si fa guida
delle altre fanciulle ponendosi come exemplum
del valore. In mezzo vi sono altre figure
femminili che
costituiscono modelli di vari comportamenti, alcune per la sfera
pubblica, altre per quella privata (quindi sia per la vita activa,
sia per la vita contemplativa): dalla fedeltà
coniugale alla
castità, dalla costanza nell’amore alla fermezza d’animo,
dall’importanza della cultura/educazione alla dignitas
ed al valore. Sono così rappresentanti, attraverso modelli
esemplari, tutti i possibili ruoli femminili: figlia, vergine, sposa,
madre e madre anziana/nonna (nel caso di Veturia) e tutti gli
insegnamenti più importanti che una puella
doveva apprendere. Come i cicli pittorici di exempla
virtutis, questi sonetti possiedono pertanto un
chiaro
fine paideutico, indirizzato soprattutto alle giovani fanciulle in
via di formazione alle quali Faustina mostra la via della virtus.
Al tempo stesso, nelle virtù di questi personaggi, Aglauro trova una
conferma del valore del comportamento da lei tenuto durante gli
spiacevoli eventi che segnarono la sua vita. Tali insegnamenti sono
pertanto rivolti tanto agli altri, quanto alla poetessa stessa.
Ringraziamenti.
Si
desidera esprimere un sentito ringraziamento al Professor Marco
Ruffini, per i preziosi consigli che hanno contribuito a migliorare
l’articolo, e al Professor Pietro Petteruti Pellegrino, per le
utili indicazioni fornite. Un sincero ringraziamento va anche al
Professor Enrico Arcaini e alla Professoressa Pia Galetto per i
suggerimenti indicatimi.
NOTE
* Si è
venuti a conoscenza dell’articolo Cracolici 2018, dedicato
al ciclo poetico qui analizzato, solo quando il nostro saggio era ormai
concluso, si è però fatto in tempo ad integrare nel presente saggio le
novità espresse in quest’importante articolo di Cracolici.
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unusual lady,
«Labyrinthos», XI-XII,
1992-1993, 21-24, pp. 191-213.
-
Rudolph 1995: Stella Rudolph, Niccolò Maria
Pallavicini.
L’ascesa al Tempio della Virtù attraverso il Mecenatismo,
Roma, Ugo Buzzi Editore, 1995.
-
Rudolph 2000: Stella
Rudolph, Carlo Maratti, in L’idea del
Bello. Viaggio per
Roma del Seicento con Giovan Pietro Bellori, cat.
della
mostra, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 29 marzo-26 giugno 2000,
a cura di Evelina Bora e Carlo Gasparri, Roma, De Luca, 2000, pp.
456-478.
-
Veneziani 2007:
Serena Veneziani, Maratti, Faustina, «Dizionario
Biografico
degli Italiani», LXIX, 2007, pp. 451-453.
Sitografia:
-
Bussotti 2014:
Alviera Bussotti,‘Ut Virtus pictura
et poesis’. Forme della virtù tra
Arcadia e
Accademia di San Luca (1702-1716), in I cantieri
dell’italianistica. Ricerca, didattica e
organizzazione agli
inizi del XXI secolo. Atti del XVII congresso
dell’ADI –
Associazione degli Italianisti (Roma, La Sapienza 18-21 settembre
2013), a cura di Beatrice Alfonzetti, Guido Baldassarri e
Franco
Tomasi, Roma, Adi editore, 2014, pubblicazione
on-line
(http://italianisti.it/upload/userfiles/files/2013%20Bussotti.pdf).
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