Sommario
Aureliano Milani fu uno dei pittori più rappresentativi della scuola
bolognese attivi nell’Urbs nel secondo quarto del XVIII secolo, dove promosse un
ritorno all’arte dei Carracci. Nella Galleria degli Specchi di Palazzo Doria
Pamphili di Roma ha lasciato un maestoso ciclo di affreschi, di cui il presente
saggio si prefigge di mostrare come sia caratterizzato da un programma
iconografico più complesso di quanto finora ipotizzato e ben inserito nella
celebrazione genealogica di casa Pamphili. Si cercherà di spiegare, inoltre, come
il pittore non dovette avere la libertà di scegliere i temi da raffigurare,
come affermato da alcuni studiosi sulla base di Zanotti, ma la possibilità di
decidere come rappresentare i soggetti elaborati probabilmente da un erudito in
accordo con il committente. Quest’ipotesi si basa sia su quanto scritto nel
contratto di allogazione, riportato nell’Appendice
per la prima volta per intero, sia sull’analisi dei soggetti qui presenti.
1. Aureliano Milani
Aureliano Milani (Bologna 1675–1749) ricevette i primi insegnamenti di
pittura dallo zio Giulio Cesare Milani, passò poi brevemente alla scuola di L.
Pasinelli ed infine studiò sotto l’anziano G. Gennari.
Ben presto fu affascinato dall’arte dei Carracci, che iniziò a studiare
assiduamente anche grazie al Conte A. Fava, il quale divenne suo protettore,
permettendogli di copiare i celebri affreschi carracceschi presenti nel suo
palazzo. Per tutta la vita l’arte dei Carracci rimase il suo modello di
riferimento, invero gli studiosi hanno mostrato come uno dei suoi scopi fosse
quello di promuovere una “rinascita” dello stile dei Carracci, a tal punto che il
frate Giambattista Bernardi, ‹‹molto amatore della
sua pittura››, lo lodava e lo promuoveva presso gli altri come ‹‹un nuovo Carracci››.
Dalla loro arte apprese un attento studio dell’anatomia; il disegno saldo e
rigoroso, tanto che Zanotti poté scrivere che i Carracci stessi avrebbero visto
e valutato con piacere i suoi disegni;
il naturalismo, ovvero la necessità di tornare a verificare i modelli sulla
natura e quindi l’importanza della μίμησις della natura; l’uso di composizioni equilibrate e una
grande abilità prospettica, che gli permise di realizzare complessi scorci
prospettici. Chiaramente l’indagine di
Milani non si limitò solo ai Carracci, ma studiò anche i lavori dei successivi
artisti della scuola Emiliana–Bolognese. Prestò attenzione alle opere di Guido
Reni, per le composizioni più monumentali; a Guercino, per la prospettiva, il
naturalismo, l’esuberanza e la vitalità delle figure; ma anche a G. M. Crespi,
poco più anziano di lui, ed infatti in alcune sue opere si possono scorgere
influssi delle scene di genere di Crespi. Zanotti scriveva che ad essere ‹‹il piacere di questo pittore, e la delizia››, sono ‹‹questi argomenti, che vogliono uomini nudi, musculosi,
e terribili, […] siccome ancora i
malinconici, e vulgari, come messioni, e mercati, e cose simili››,
indicando così la preferenza del nostro pittore per soggetti “di Storia” dove
potesse mostrare le sue abilità disegnative (soprattutto nella resa
naturalistica di complesse pose di nudo) e prospettiche. Infatti ‹‹circa il disegno ha avuto sempre non pochi lodatori,
non così intorno al colore›› commentava Zanotti, spiegando che Milani si era
applicato più nel disegno che nel colore. Aggiungendo però che questo era
avvenuto ‹‹con ragion›› e che comunque anche nel colorito era ‹‹molto gradito››, Zanotti, che dà un buon giudizio del
pittore, probabilmente voleva rispondere a critiche che, dobbiamo supporre,
facevano di Milani un ottimo disegnatore, ma non altrettanto valido nelle
pitture, dove il colore è una componente essenziale. Del resto Zanotti constata
che ‹‹la fama di buon disegnatore gli ha fatto sempre avere
occasioni di far disegni più, che pitture, e molti, e molti se ne veggono, che
meritano di esser tenuti in pregio siccome il sono››.
A Bologna era stimato e ricoprì ruoli importanti nell’Accademia
Clementina: nel 1715 risulta uno dei Direttori dell’Accademia ed il 4 ottobre
1722, al momento del sorteggio del nuovo Principe dell’Accademia, fu estratto
proprio il suo nome, ma il biglietto fu rimesso nella borsa ‹‹essendosi egli stabilito in Roma da molti anni in quà,
con la famiglia, ne più si spera, che alla patria ritorni››. Milani
si era sposato a 24 anni e dalla moglie aveva avuto sette figli maschi e tre
femmine, era pertanto continuamente alla ricerca di commissioni per sfamare la
famiglia. Nel 1719 si trasferì a Roma
insieme con uno dei figli e qui riuscì a stabilirvisi, tanto che nel 1720 poté
far venire nell’Urbs anche il resto
della famiglia.
2. La Galleria degli Specchi: le fonti
Il Principe Camillo Pamphili il Giovane era il terzogenito di Giovan
Battista Pamphili.
Dallo zio Benedetto aveva appreso a prestare attenzione alle questioni
artistiche ed infatti anche egli diverrà un mecenate. Nel 1717, per conto dello
zio cardinale, aveva assunto l’architetto G. Valvassori, all’epoca trentenne,
che iniziò ad ottenere fama e successi proprio grazie a Camillo.
Morto il cardinale Benedetto nel 1730, Camillo affidò a Valvassori il compito
di costruire, riorganizzare ed ampliare tutta la parte del Palazzo che dà su
via Lata (via del Corso), in modo da far sì che il Palazzo di famiglia presso
il Collegio Romano si sviluppasse e si affacciasse su via del Corso con una
facciata monumentale. I lavori furono svolti dal 1730 al 1735
e, tra i nuovi ambienti costruiti da Valvassori, la Galleria degli Specchi è
uno dei più coerenti a livello architettonico e presenta una meravigliosa
decorazione ad affresco realizzata da Aureliano Milani per conto del Principe
Camillo. Il contratto di allogazione (in Appendice)
è datato 6 dicembre 1732 e fornisce il terminus
ante quem per la fine
dei lavori di costruzione di tale ambiente. Nel documento, il nostro
pittore si impegnava, a partire dal primo gennaio 1733, a dipingere tutto in un
anno per 550 scudi. Stabiliva, inoltre, che avrebbe cominciato dal lato con le
quattro parti del mondo e che avrebbe dipinto ogni cosa nella Galleria,
eseguendo gli affreschi ‹‹in conformità›› dei disegni da lui realizzati, segno che a Milani spettava sia la fase dell’inventio (cioè ideare
la composizione sulla base del tema datogli), sia quella dell’esecuzione. Ogni
cosa doveva poi essere approvata dal committente: dai disegni preparatori
all’uso della tempera invece dell’affresco per alcune parti secondarie.
Di quest’importante impresa,
Zanotti scriveva:
-
Ultimamente ha pinta la gallerìa del
Principe Panfìlio, e avendo potuto scegliere gli argomenti delle sue favole, a
suggetti s’è rivolto, che di nudi musculosi, e fieri abbisognano, estimando,
che qui consista la somma del suo sapere. Nello sfondato principale v’ ha la
caduta de’ giganti, e negli altri i fatti d’ Ercole. Vi sono poi ancora le
quattro parti del mondo, ed altre cose. Io sento dire, che questa sia l’opera
più stimata, ch’egli abbia fatto fin’ ora.
Secondo Zanotti quindi, il
Principe Camillo Pamphili avrebbe lasciato a Milani il compito di ideare il
programma iconografico e questi si sarebbe orientato su soggetti che
permettessero la rappresentazione di nudi in complesse torsioni, in modo da
poter mostrare la sua abilità nella resa anatomica, anche di quelle più
difficili.
Inoltre avverte che aveva udito che fosse l’opera più stimata che il pittore
avesse eseguito fino a quel momento. Come vedremo, il
programma iconografico è ben inserito nella “mitologia celebrativa” di casa
Pamphili, quindi è più probabile che Milani si sia trovato ad avere una certa
libertà, all’interno però di alcune direttive dategli dal committente. Del
resto quest’ipotesi è suggerita proprio dal contratto, nel quale il pittore si
impegnava a dipingere una Gigantomachia
e quattro ‹‹fatti›› di Ercole
(senza specificare quali), notizia che rivela che al momento del contratto si fosse
già previsto di realizzare tali soggetti, con il pittore che aveva, forse, la libertà di scegliere quali ‹‹fatti›› di Eracle rappresentare, ma non la possibilità di scelta di
Ercole come eroe protagonista. In realtà è probabile che tutte le scene siano
state ideate da un erudito legato ai Pamphili; la libertà di cui godette Milani
fu invece quella propria di tutti i pittori affermati, ovvero di poter ideare
l’iconografia del tema datogli. In ogni caso sicuramente tali soggetti gli
dovettero risultare graditi, dacché gli consentivano di esibire la sua bravura
nel disegno del nudo.
Alcuni anni dopo, il ben
informato Crespi scriveva:
-
Sempre più incontrando le Opere del
Milani il comune gradimento, il sig. Principe Panfili fecegli dipingere la
volta della galleria nel suo palazzo, dalla parte del corso, tutta a fresco, e
vi espresse la caduta de’ Giganti, la quale è una delle sue più belle Opere,
arricchita d’altre storie, di puttini, di festoni, ed altre cose.
Anche egli, quindi, giudicava
questa una delle migliori opere eseguite dall’artista.
Nella descrizione della Galleria
fatta nel 1794 da Tonci, si afferma che l’autore degli affreschi era Melani. Non si sa bene se abbia
semplicemente sbagliato la scrittura del nome, cambiando la i con la e, oppure se si sia confuso con uno tra Francesco e Giuseppe Melani
(due fratelli frescanti che realizzarono numerosi affreschi a Pisa e Siena),
fatto sta che ciò generò una confusione tra gli studiosi successivi fino a
quando Loret non dimostrò l’errore.
3. Analisi iconologica
Come espresso nel contratto,
nella Galleria degli Specchi Milani affrescò non solo la volta, ma anche le due
lunette sopra i due ingressi posti sui lati corti della Galleria; le arcate
delle finestre, decorate con mascheroni, conchiglie e motivi fitomorfi
realizzati in gran parte in monocromo, ad imitare rilievi marmorei, e in parte
in oro; infine i catini al di sopra delle finestre, sui quali poggia la volta.
La volta vera e propria è così
strutturata: al centro vi è la Gigantomachia,
posta all’interno di una grande cornice dorata rettangolare che termina con una
centina nei due lati corti. È quindi concepita come un quadro riportato.
Osservando la volta con le spalle rivolte ad uno dei lati lunghi, a destra e a
sinistra del “quadro” centrale sono pensati altri due quadri riportati per
parte, con storie di Eracle: i due più esterni presentano una cornice dorata
ovale decorata con foglie d’alloro; i due più interni, ovvero quelli ai lati
del riquadro centrale, presentano una cornice d’oro rettangolare, con una
centina sul lato corto rivolta verso il “quadro” centrale, decorata con ovuli
nella parte esterna e un nastro in quella interna. Le due parti terminali della
volta prevedono un clipeo centrale e quattro figure femminili poste nei
pennacchi. La struttura della volta presenta quindi una ricerca di varietas, nella
diversità delle forme delle cornici e della decorazione ad esse legate, all’interno
però di una struttura simmetrica, equilibrata e ben bilanciata.
Nei pennacchi, al di sopra delle
paraste, vi sono ignudi in monocromo, ad imitare statue marmoree, colti in
complesse torsioni, dove il pittore poté mostrare le sue abilità
anatomiche–prospettiche. Anche i catini al di sopra delle arcate presentano
nella decorazione una varietas, posta però in modo da creare
simmetrie e quindi una composizione equilibrata. Sono dieci catini per lato e
quelli di un lato presentano la medesima decorazione di quello fronteggiante.
Partendo dal lato verso la chiesa di S. Maria in via Lata, nel primo catino è
dipinta una conchiglia marmorea con all’interno, al centro, un mascherone
dorato con sopra un putto “vero” che sostiene una ghirlanda floreale. Ai lati
vi sono due cornucopie dorate da cui escono vari frutti, simbolo di prosperità
ed abbondanza. Il secondo presenta una medesima conchiglia con all’interno due
putti alati che sostengono una colomba e sotto un mascherone dorato arricchito
di fiori variopinti. Nel terzo vi è la solita conchiglia con il mascherone
dorato con fiori e due putti alati, che però sostengono un giglio dorato. Nel
quarto ricorre il medesimo motivo del secondo. Il quinto e sesto catino si
estendono meno all’interno della volta per lasciare posto all’enorme “quadro”
centrale. Presentano entrambi uno sfondo che si finge di pietra scura, con al
centro una conchiglia dorata con dentro una maschera dorata di un putto
sormontata da una corona floreale variopinta. Ai lati della conchiglia vi sono
motivi fitomorfi sempre in oro. Il settimo catino ripresenta la decorazione del
secondo e l’ottavo la medesima del terzo. Il nono la stessa del secondo e il
decimo la medesima del primo.
La colomba ed il giglio che
ricorrono sono ovviamente gli emblemi dei Pamphili. Lo stemma della famiglia,
infatti, è composto da una colomba bianca che tiene nel becco un ramo d’ulivo
su fondo rosso e da tre gigli dorati su fondo blu scuro. Lo stemma si prestava
ad essere interpretato sia in chiave cristiana, sia in chiave pagana. Secondo la
prima interpretazione, la colomba rinviava alla colomba dello Spirito Santo che
reca il ramo d’ulivo simbolo di pace. Nella seconda, la colomba era sacra a
Venere, dea dell’Amore, l’ulivo ad Atena (visto come simbolo di Pace e
Saggezza)
ed i gigli a Giunone, dea dei matrimoni; pertanto rinviava ai temi di Amore (la
colomba di Venere), Pace e Sapienza (l’ulivo d’Atena), Unione (i gigli di Era).
Questi erano i concetti che i Pamphili volevano evocare con il loro stemma,
poiché li giudicavano collegati al loro cognome, che facevano derivare dalla
parola greca πάμφιλος-ον
(amico di tutti, caro a tutti). Il loro cognome conteneva pertanto il concetto
dell’amore di tutti verso tutti e dell’essere amati da tutti. A questo proposito i
Pamphili avevano inventato due genealogie per dimostrare come essi
discendessero direttamente da nobili famiglie della Roma antica. Una faceva
discendere la famiglia da Enea, figlio di Venere, ad indicare così che
l’origine stessa dei Pamphili era connessa con i temi di pace ed amore. In
questo modo si giustificava la colomba come emblema famigliare ed il fatto che
nel loro cognome fosse contenuta la parola greca φιλία
(amicizia, amore), in quanto discendenti della dea dell’Amore. Secondo l’altra
genealogia discendevano, invece, dal pacifico re di Roma Numa Pompilio e,
attraverso di lui, dallo spartano Pamphilius, un discendente di Eracle
e quindi, tramite quest’ultimo, direttamente da Zeus stesso.
Sui catini resta da sottolineare
la bravura di Milani nell’usare le ombre dietro le figure per creare l’idea
della profondità. Nella Galleria con la pittura si finge ogni cosa:
l’architettura, la scultura in marmo ed oro, la pittura stessa (i quadri
riportati) e la “vita vera” (i putti con i festoni floreali). Quest’idea di μίμησις ovviamente Milani, amante dei Carracci, la riprende dalla
Galleria Farnese, tenendo anche a mente quelle che erano state le fonti dei
Carracci: gli affreschi di Tibaldi, la volta della Cappella Sistina di
Michelangelo e il Raffaello delle Stanze Vaticane e della loggia della Farnesina.
Per le scene della volta vera e
propria, procederemo nell’ordine con cui Milani si impegnò a dipingerle, cioè
partendo dal lato dove vi è la porta che immette nella saletta con il Ritratto di Innocenzo X di Velázquez.
3.1 Le quattro
parti del mondo
All’inizio vediamo un clipeo centrale
contornato da una corona d’alloro marmorea. Nel clipeo vi è una cartina
geografica che rappresenta l’Europa (con l’Italia che spicca al centro) e
l’area mediterranea e, in alto a sinistra, si scorge una parte del nord America.
Intorno al clipeo, nei quattro angoli, vi sono le personificazioni di quattro
continenti. L’Europa è la figura
bianca con veste azzurra e mantello giallo. Ha la corona in testa, lo scettro
nella mano destra, la spada nella sinistra e una cornucopia dietro. È rivolta
ad osservare il cavallo che le sta accanto, il quale compie una torsione
simmetrica alla sua, ottenendo così un effetto di equilibrio compositivo.
L’oggetto sotto i piedi dell’Europa, più che un globo terrestre, parrebbe una
sfera celeste. La corona in testa indica che ‹‹è stata sempre superiore, e
Regina di tutto il Mondo››. La cornucopia allude all’abbondanza e fecondità del
suolo europeo; lo scettro, la spada ed il cavallo indicano che è il continente
dominante, sede dei più potenti prìncipi e superiore in armi al resto del
mondo. La sfera celeste sotto i piedi denota che è ‹‹la prima e principale
parte del Mondo››. L’Asia è riconoscibile per la pelle mulatta, i capelli neri, il
turbante, le vesti suntuose, le scarpe a punta, l’asta e l’elefante. Tra l’Europa e l’Asia vi
è una maschera marmorea con ghirlande, che ricorre anche tra l’Africa e
l’America. L’Africa si riconosce per
il colore scuro della pelle, i capelli neri, il turbante con la spiga di grano,
che denota la gran copia di frumento qui presente, il leone, che indica
l’abbondanza di questi ed altri feroci animali, l’arco e la faretra con le
frecce. Tra l’Asia e l’Africa vi
è una conchiglia ed una maschera marmorea con una ghirlanda floreale. L’America, di carnagione un po’ più
rossiccia rispetto all’Europa, è vestita di bianco con un turbante ed una penna
anch’essi bianchi, un braccialetto d’oro al polso destro, una verga d’oro nella
sinistra ed un enorme drago accanto. I due catini laterali
presentano la doppia cornucopia con frutti e uve bianche e nere, che in Ripa è
un attributo dell’Europa che denota la sua abbondanza, e che qui sembra invece
evocare l’abbondanza di tutti e quattro i continenti. Da notare due elementi:
le indicazioni di Ripa sono scarsamente seguite e tutte e quattro le figure
femminili non presentano nudità, sebbene ciò fosse tipico per l’Africa e
l’America.
Sembra quindi emergere una volontà di pudicizia che appare anche nel resto
della galleria: le figure qui dipinte sono quasi tutte ignude, ma le parti
intime sono coperte (grazie alla torsione del corpo, o a un drappo o con altri
espedienti) o comunque poste in modo da non emergere troppo dal basso. A parte
i putti, le cui nudità non hanno mai costituito un problema, fa eccezione solo
la figura della Scultura che mostra
un seno. Nella Roma del ’700, l’esigenza moraleggiante non era affatto anomala.
3.2 Eracle e
Acheloo
A questo punto viene il primo
quadro riportato con i fatti di Eracle (Fig. 1). Qui l’Alcide sconfigge Acheloo
strappandogli uno dei due corni da cui, secondo la versione seguita da Ovidio, le Nereidi avrebbero
ricavato la Cornucopia, il corno dell’Abbondanza. Eracle è riconoscibile per
via della λεοντῆ, ha la barba marrone ed è
rappresentato come maturo. Acheloo ha un corpo umano e solo il volto di toro.
In teoria anche il resto del corpo sarebbe dovuto essere di toro, come compare
nelle incisioni che accompagnano i volgarizzamenti di Nicolò degli Agostini,
Lodovico Dolce e Giovanni Andrea dell’Anguillara; per quale ragione allora
qui non avviene altrettanto? Il motivo è che Milani amava mostrare la sua
abilità nella resa di corpi plastici in pose complesse e da qui l’espediente di
rappresentare Acheloo in questo modo. Le figure sono immerse in un paesaggio
naturale e nelle foglie e nella λεοντῆ si può
constatare il naturalismo di Aureliano, componente importante di tutti i
pittori carracceschi. Nel volto di Acheloo si può scorgere invece una vena
grottesca e quasi comica, che rinvia alle scene di
genere di G. M. Crespi, mentre nelle anatomie plastiche, muscolose ed un po’
esasperate, si scorge una vena di manierismo, tipico della tradizione bolognese.
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Fig. 1: Eracle e Acheloo, Roma, Galleria Doria Pamphilj © su concessione Amministrazione Doria Pamphilj s.r.l.
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Per Nicolò degli Agostini la
scena può essere allegoria di due concetti diversi: Acheloo può rappresentare
la filosofia ed Eracle la virtus ed il secondo posto sopra al primo denota
che la virtus
sta sopra la filosofia. In alternativa indica la vittoria della virtus (Eracle) sulla
libido et lascivia (Acheloo). La scena mostra quindi
Eracle come un exemplum
di fortitudo (fisica e
morale) e di virtus.
Inoltre il premio della contesa era la mano della principessa Deianira, a
denotare che le splendide nozze sono una ricompensa per il valore dimostrato
(sebbene ad Eracle queste nozze saranno fatali).
È importante notare che intorno
alla cornice vi sono quattro ignudi, due seduti e due in piedi. Quelli stanti,
però, non sono ignudi generici. Quello di sinistra ha la λεοντῆ,
si appoggia ad una clava con fare riflessivo ed ha un cinghiale sconfitto sotto
i piedi. È Eracle, rappresentato in riposo e pensante dopo aver vinto il
cinghiale di Erimanto. Il gesto in parte sembra
essere la fusione di due statue di Michelangelo: il gesto del braccio sinistro
dello Schiavo morente (Parigi, Louvre), qui trasposto al braccio destro, ed il
gesto pensante del braccio sinistro di Lorenzo
Duca d’Urbino (Firenze, S. Lorenzo, Sagrestia Nuova). La torsione del corpo
però richiama anche quella del Laocoonte.
Ripa spiega che Eracle che si
appoggia alla clava con fare riflessivo è simbolo di tutte le virtù, il
cinghiale rappresenta la sua forza fisica ed il leone la sua magnanimità (qui
da intendere nell’accezione originaria di grandezza d’animo), quindi Eracle è exemplum di tutte le virtutes: fisiche e
morali. Anche per Cartari, il fatto che l’eroe sconfisse mostri e tiranni, denota
la sua forza d’animo e non solo del corpo, la λεοντῆ,
la sua grandezza e generosità d’animo, mentre la clava, la sua Prudenza. Per Bonsignori,
l’uccisione del cinghiale indica la vittoria della virtus et veritas sull’ira.
Dalla parte opposta, in torsione
speculare, vi è sempre Eracle, riconoscibile per la clava. Sotto i suoi piedi
vi è un drago che, siccome ha una sola testa, piuttosto che l’idra di Lerna,
dovrebbe essere Ladone, il drago che custodiva il Giardino delle Esperidi e
quindi rinviare all’undicesima fatica compiuta da Eracle: portare ad Euristeo i
pomi d’oro del giardino delle Esperidi. Ulteriore indizio di
ciò, è il fatto che questo drago è molto simile al Ladone affrescato, forse da Solari,
sulle pareti della Galleria Farnese, ben conosciuta da
Milani. Ripa
afferma che la clava indica la ragione che regge e doma l’appetito dei sensi,
Eracle la virtus
che sa portare moderazione alla ‹‹cuncupiscenza›› ed alla ‹‹libidine››
rappresentate dal drago (non fa il nome di Ladone, ma dal contesto si evince
che è lui) e, importante, scrive che Eracle deve essere rappresentato giovane,
poiché giovane si trovò a scegliere tra la difficile ed aspra via della virtus e la dolce ma mortale strada del vitium. A differenza
del riquadro con Acheloo, infatti, entrambe queste figure di Eracle sono
giovani e sbarbate. Eracle è in effetti uno
dei pochi eroi che non viene sempre rappresentato giovane e bello, ma anche
maturo. Abbiamo già sarcofagi antichi, come quello di Palazzo Altemps, dove nel
corso delle fatiche Eracle invecchia, partendo come giovane e sbarbato,
divenendo poi maturo con la barba ed infine più anziano con la fronte
stempiata, probabilmente a rappresentare in chiave allegorica “le fatiche della
vita”.
A separare questo riquadro dal
successivo, vi è una finta decorazione marmorea fitomorfa, una conchiglia
dorata al centro e due putti alati visti di schiena che sorreggono ghirlande
floreali.
3.3 Eracle
uccide l’idra di Lerna
Il secondo riquadro rappresenta
Eracle che sta uccidendo con la sua clava l’idra di Lerna (Fig. 2). Rispetto al
rilievo di Algardi nella Sala di Eracle a Villa Doria Pamphili di Roma, il figlio di Alcmena,
più che combattere contro di essa, è colto nel momento in cui sta sferrando il
colpo fatale. Come nel precedente riquadro, infatti, Milani, grazie alla
disposizione dei corpi, riesce ad evocare subito il senso di vittoria dell’eroe.
Ercole è anche qui rappresentato maturo, con barba e capelli marroni e
contraddistinto dalla λεοντῆ e dalla clava. Per la torsione
e lo scorcio del corpo (dal primissimo piano allo sfondo) è probabile che
Milani abbia tenuto a mente la figura di Polifemo
che uccide Aci di Annibale Carracci
(Galleria Farnese). La scena si svolge in un
paesaggio con alberi e sullo sfondo vi sono le mura e la torre di una città.
Nel rappresentare l’episodio, Milani non ha seguito molto i testi, poiché non
c’è traccia del fuoco e l’idra ha sei teste. Il numero sei potrebbe
averlo ricavato dal rilievo di Algardi, dove vi sono sei teste, ma sette colli
perché uno è stato tagliato dall’eroe; dal basso, però, è più facile contare le
sei teste che i sette colli. In ogni caso, Milani è interessato a rappresentare
la scena in modo da rendere in maniera esplicita la vittoria dell’Alcide.
L’idra normalmente simboleggia i vitia del mondo,
tanto che per Ripa poteva essere rappresentata con sette capi ad alludere
ognuno ad uno dei sette peccati capitali. La vittoria di Eracle indica
quindi la vittoria della virtus sul vitium.
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Fig. 2: Eracle e l’Idra, Roma, Galleria Doria Pamphilj © su concessione Amministrazione Doria Pamphilj s.r.l.
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Il riquadro è affiancato sempre
da due figure di Eracle, riconoscibili per via della clava: uno anziano, con la
barba bianca, ed uno giovane e sbarbato. A proposito della clava di Eracle,
bisogna aggiungere che, mentre per Ripa era formata da legno di rovere (perché
in latino robur
significa quercia, ma anche forza, ed Eracle è il simbolo della forza fisica e
morale), per Cartari era formata da legno d’ulivo, che è la pianta che
compare nello stemma dei Pamphili.
Tra questo riquadro e quello
centrale torna lo stesso motivo che si trova tra il primo ed il secondo
riquadro, solo che qui i putti sono posti frontalmente e vengono aiutati da
ignudi a sospendere la ghirlanda. Ad un’estremità del riquadro centrale vi sono
infatti due ignudi, uno anziano ed uno giovane, che sorreggono una ghirlanda
con fiori e frutti. Nell’altra estremità troviamo sempre due ignudi, uno
giovane e l’altro più anziano senza capelli, che sorreggono una simile
ghirlanda. Essi sono quattro semplici ignudi, poiché non sono caratterizzati
come Eracle, ovvero non presentano attributi distintivi del figlio d’Alcmena.
3.4 La
Gigantomachia
Il finto quadro centrale con la Gigantomachia è molto più grande degli
altri e si finge posto davanti ad una volta a botte, con cassettoni marmorei
decorati con rosette dorate, attraversata da archi trasversali. Nella parte bassa di
questo enorme “quadro” centrale, vi sono dodici Giganti che avevano tentato la
scalata all’Olimpo e che vengono ora fatti precipitare. Sono quasi tutti
ignudi, ma, attraverso vari espedienti, si evita di esporre le parti intime,
confermando l’esigenza moraleggiante presente in questi affreschi. Vi è la
ricerca di una varietas
nelle pose, attraverso la quale Milani mostra tutta la sua abilità nella resa
dei corpi in diversi movimenti complessi: corpi posti in scorci ad arretrare e
in scorci ad avanzare, verso l’alto e verso il basso, a destra e a sinistra.
Esistono diverse varianti del
mito della Gigantomachia. I Giganti erano esseri
anguipedi dalle mille braccia, figli di Gea, che tentarono di spodestare Zeus e
gli dei olimpici scagliando contro di essi massi e querce infiammate e
ammassando monti su monti per raggiungere l’Olimpo; ma Zeus, con i suoi
fulmini, fece crollare questa costruzione. Né Ovidio, né Nicolò
degli Agostini descrivono l’aspetto dei Giganti, cosa che permise a
Milani di rappresentarli come muscolosi esseri umani e non come mostri,
potendosi così esercitare nella resa dell’anatomia. Come armi hanno clave, che
ormai gli sono cadute di mano e precipitano con loro verso il basso, e macigni,
che adesso crollano su di loro evocando il tentativo dei Giganti di scalare il
cielo ammassando massi.
Il Gigante di sinistra è posto in
scorcio verso il basso, con le mani che creano due semicerchi contrapposti che
incorniciano il volto. È un motivo che si ritrova nella figura di Dio che separa le tenebre dalla luce
nella volta della Cappella Sistina, che Michelangelo aveva a sua volta ripreso
dalla figura di Fetonte presente in un sarcofago antico. La figura centrale, che
ha le gambe in avanti ed il corpo ad arretrare, compie una torsione che ricorda
quella di Polifemo nel Polifemo e Galatea
della Galleria Farnese (la cui torsione è ispirata al Laooconte e al Torso del
Belvedere).
Da notare il bellissimo effetto illusionistico–prospettico di rappresentare i
massi che precipitano oltre la cornice, dando così l’idea di cadere addosso
allo spettatore hic et nunc, mentre egli
alza gli occhi per guardare la scena. Il fine di questa soluzione
prospettico–illusionistica è proprio quello di coinvolgere emotivamente lo
spettatore nell’opera d’arte. L’effetto illusionistico
ricorda quelli messi in atto pochi anni prima da G. Odazzi nella Caduta degli Angeli ribelli (Roma,
Basilica dei Santi Apostoli, 1714–1716). Milani poteva ben conoscere tale
affresco, considerando la vicinanza di Palazzo Pamphili alla Basilica dei SS.
Apostoli e forse il riferimento non è casuale, visto che la punizione dei
Giganti e quella degli Angeli ribelli alludevano allo stesso concetto: la
punizione di coloro che si macchiano di ὕβρις, in
particolare di ὕβρις contro la
divinità, come ha splendidamente mostrato Guthmüller in un saggio centrale per
la nostra analisi.
La scelta di rappresentare una
Gigantomachia non è affatto separata dal contesto della Galleria che presenta
scene con le gesta di Ercole. Secondo alcune fonti, come Apollodoro, Eracle
svolse un ruolo importante in essa, poiché fu l’eroe mortale che Zeus e gli dei
scelsero per farsi aiutare a uccidere i Giganti, che secondo un oracolo non sarebbero
potuti essere sconfitti senza l’aiuto di un mortale: infatti l’Alcide è qui
rappresentato.
In alto, al centro, vi è Zeus
assiso sulle nuvole, con l’aquila tra le gambe, barba e capelli bianchi. Ha il
volto rivolto verso i Giganti, mentre con la mano destra sta per scagliare la
folgore contro di loro. Zeus funge da asse di simmetria centrale della scena,
con quattro dee alla sua sinistra e quattro dei alla sua destra, a formare una
disposizione simmetrica. Le dee sono: Artemide, riconoscibile per via dei suoi
attributi: la mezzaluna posta tra i capelli, l’arco e la faretra con le frecce;
la regina Era, che accarezza il pavone, l’animale legato alla dea; Afrodite,
con lunghi capelli biondi e la colomba a lei sacra; Atena, che, come usuale,
indossa l’elmo, lo scudo e la lancia. Da notare che Era e Afrodite guardano
verso lo spettatore e ciò non è forse un caso, dacché queste dee sono collegate
con la famiglia Pamphili e la colomba tenuta da Venere rinvia all’emblema di
famiglia (Fig. 3).
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Fig. 3: Particolare della Gigantomachia con Zeus e le altre divinità, Roma, Galleria Doria Pamphilj © su concessione Amministrazione Doria Pamphilj s.r.l.
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Gli dei alla destra di Zeus
sono: Hermes, riconoscibile per via dei suoi attributi: il caduceo, il petasos
con le ali e la tromba; Eracle, con la λεοντῆ e la clava;
seguono due divinità maschili prive di attributi: una con capelli e barba
marroni vista di schiena, in torsione e semisdraiata, che, per via della posa
che richiama quella delle divinità fluviali, si potrebbe pensare essere
Poseidon; l’altra, con fronte stempiata e barba bianca, potrebbe essere Ade,
dal momento che Poseidon ed Ade ricorrono nel mito della Gigantomachia.
Sotto Zeus, a destra e a
sinistra, vi sono due personificazioni di venti che soffiano in una conchiglia
ricurva e sono assistiti, quello di sinistra da tre, quello di destra da due,
aiutanti bambini di cui si rappresenta solo il volto. I venti qui aiutano Zeus
a far crollare la montagna che i Giganti stavano erigendo per tentare la scalata
dell’Olimpo. Si può pensare che siano due venti impetuosi, come Austro e Bora,
ma Milani non pone elementi per distinguerli e probabilmente vogliono solo
evocare i venti che vengono in aiuto di Zeus, senza volerne indicare uno
preciso.
Nel gruppo in alto a sinistra vi
è un quinto personaggio, che volutamente avevamo omesso di menzionare prima. A
differenza delle altre figure di questa scena, costui indossa un abbigliamento
proprio dei nobili dell’epoca, ovvero una splendente armatura, sulla quale
Milani si esercita nella resa dei riflessi di luce, con l’elmo con pennacchio
bianco ed un manto giallo che rivelano uno status
sociale elevato. Il volto presenta inoltre una caratterizzazione fisiognomica
maggiore rispetto a quelli delle divinità che gli stanno accanto, pertanto egli
non è un dio e, come mostra il gesto, non partecipa alla lotta contro i
Giganti. Questi indizi inducono a ritenere che questa figura sia il committente
Camillo Pamphili ed è probabile che il volto sia un suo ritratto. Egli è posto
in piedi, è situato sul lato delle divinità maschili e significativamente è
posto sopra il suo antenato Eracle, mentre guarda a sinistra verso noi
spettatori a cui indica con orgoglio Zeus.
Come mostrato da Guthmüller, la caduta dei
Giganti denotava la sconfitta e la giusta punizione di chi si è macchiato di ὕβρις, in particolare del superbus che si ritiene uguale o superiore a
Dio. Ciò è espresso da Giovanni de’ Bonsignori e Nicolò degli Agostini, secondo cui i Giganti
alludono ai superbi, che credono di essere dei e di poter più di Dio stesso, ed
i massi alla superbia che reca con sé tutti i vizi. Anche per Cartari i Giganti
sono il simbolo del superbus
sprezzator di Dio che non fa mai cosa onesta e che vive costantemente nelle
tenebre dell’ignoranza umana. Ma c’è dell’altro. Zeus
è signore della folgore e garante di Δίκη e, in quanto
re degli dei, è il protettore di tutti coloro che in terra detengono un potere
(imperatori, re, prìncipi, duchi ecc.), poiché è egli che concede il potere ai
mortali, i quali lo amministrano in suo nome. Proprio per questo
motivo il tentativo dei Giganti di spodestare Zeus era interpretato come quello
degli angeli che si ribellarono a Dio, ed infatti entrambi
questi temi furono usati in arte per indicare la giusta punizione di tutti coloro che,
macchiandosi di ὕβρις, volevano andare contro coloro
che in terra detenevano un potere legittimo, in quanto conferitogli da Dio e
che essi amministravano in suo nome.
Per tal motivo la Gigantomachia
è un mito che ricorre spesso negli affreschi delle dimore di famiglie che gestivano
un potere,
come monito rivolto all’esterno, a
non voler andare contro il potere che essi esercitano legittimamente per mandato
divino, godendo pertanto della protezione del Dio dei cieli, ragion per cui non
potevano essere deposti. Il mito insegnava dunque che rivoltarsi contro di loro
significava macchiarsi di ὕβρις, perché
equivaleva ad andare contro la volontà di Dio e per questo motivo i ribelli
saranno giustamente sempre sconfitti e puniti. Tuttavia questo mito conteneva
anche un monito rivolto all’interno,
ai membri di quella famiglia, che venivano invitati a non peccare di ὕβρις, ma a vivere nel timor Dei, venerando
sempre la divinità a cui dovevano il potere.
Camillo Pamphili era un principe
ed il tema è quindi adatto alla sua dimora, ma esso si carica anche di
significati personali. Nell’affresco, Camillo indica Zeus. In parte,
sicuramente il gesto serve a denotare che il potere che detiene gli deriva da
Giove e che è quindi legittimo; tuttavia, nella genealogia dei Pamphili, Zeus è
il capostipite, poiché è il padre di Ercole da cui essi discendevano. Infatti
Camillo sta qui in piedi proprio dietro al suo antenato Eracle e addita Zeus.
Il gesto, quindi, probabilmente ha un duplice significato: mostrare con
orgoglio, come rivela l’espressione del suo viso, agli osservatori la
genealogia divina dei Pamphili che discendono da Zeus attraverso Ercole.
Secondo, indicare che il suo potere deriva legittimamente da Zeus ed è da lui
protetto, fungendo quindi da avvertimento a non attentare ad esso e da monito
alla famiglia a non peccare di ὕβρις, ma a vivere
nel timor Dei.
3.5 Eracle e
Anteo
Nel successivo riquadro è rappresentato
Eracle, riconoscibile per la λεοντῆ, che sta
stritolando Anteo, tenendolo sollevato da terra per impedirgli di ricevere le
forze da sua madre Gea (Fig. 4). Nel volto,
Eracle esprime la concentrazione e lo sforzo, mentre Anteo cerca con tutte le
sue forze di liberarsi. Nelle due figure si possono vedere i muscoli tesi, che
riflettono bene la violenza dello scontro. Anche qui la scena si svolge in un
paesaggio con alberi ed una fortezza sullo sfondo. L’albero dietro Ercole è una
quercia, che è una pianta legata all’eroe in quanto simbolo di forza. Dietro di
essa vi è un’altra pianta che potrebbe essere un alloro, simbolo di gloria eterna,
o un giovane ulivo (altro albero legato a Ercole). La scena compare anche nei
rilievi di Algardi sopra menzionati, dove si ritrova la
medesima lotta violenta. La vittoria su Anteo veniva vista come la vittoria
dell’anima, grazie alla Fede, Sapienza e Prudenza (Eracle), sulle debolezze del
corpo, ovvero le passioni (Anteo). Anche qui il riquadro è
fiancheggiato da due figure di Eracle, una matura con barba, λεοντῆ e clava, e l’altra giovane con solo la clava. Tra questo ed
il successivo quadro riportato torna il motivo fitomorfo con conchiglia dorata
e due putti, visti di schiena, che tengono una ghirlanda ciascuno.
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Fig. 4: Eracle e Anteo, Roma, Galleria Doria Pamphilj © su concessione Amministrazione Doria Pamphilj s.r.l.
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3.6 Eracle che
uccide Nesso
Il successivo riquadro presenta
Eracle che uccide il centauro Nesso che stava rapendo Deianira (Fig. 5). L’Alcide ha già
attraversato il fiume Eveno dal veloce corso e si trova sulla riva opposta. Tra
i piedi vi è la sua clava, indossa la λεοντῆ e, come
rivelano i gesti, ha appena scagliato la freccia dall’arco che stringe in mano.
Il dardo ha colpito alla coscia Nesso, il quale si trova
in mezzo al fiume Eveno mentre tentava di scappare con Deianira. Il volto del
centauro esprime agonia, causata dalla freccia di Eracle che è intrisa del
sangue avvelenato dell’idra di Lerna.
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Fig. 5: Eracle, Deianira e Nesso, Roma, Galleria Doria Pamphilj © su concessione Amministrazione Doria Pamphilj s.r.l.
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Deianira indossa una veste
gialla ed i suoi gesti e la sua espressione rivelano la paura ed il tentativo
di divincolarsi da Nesso. La torsione del corpo di Deianira – con il busto e le
braccia rivolti a destra, il volto a sinistra e verso l’alto, il braccio destro
sollevato ed il sinistro abbassato – in parte richiamano la Persefone del Ratto di Persefone di Bernini (Galleria
Borghese) che sicuramente all’epoca era l’esempio più celebre di fanciulla
rapita che, disperata, cerca di sfuggire alla presa del suo rapitore. Nesso, come tutti i
centauri, viene di solito visto come emblema delle passioni ed in particolare della
libido, mentre Eracle che lo uccide,
come simbolo dell’anima che con la virtus sconfigge le passioni.
Da notare che anche qui l’albero
dietro ad Eracle è una quercia, a sottolineare che egli è l’eroe della forza
fisica e morale. Come nel primo riquadro ovale, la cornice è circondata da
quattro ignudi: i due in basso sono semplici ignudi posti in torsione e visti
di schiena, come nel primo ovale, ed i due in alto rappresentano Eracle. Quello
di sinistra è dipinto maturo, con la barba, in posa riflessiva, mentre si
appoggia alla clava (come quello di sinistra del primo ovale) ed ha il piede
posto su una testa di leone morto, che ovviamente rinvia alla prima delle sue
fatiche: l’uccisione del leone di Nemea e questo spiega perché
non abbia indosso la λεοντῆ. Eracle è l’eroe civilizzatore,
che, sconfiggendo gli esseri del χάος, porta la
vittoria della civiltà sulla non civiltà, del κόσμος
sul χάος. Inoltre la pelle ricavata dal leone sconfitto diverrà il
simbolo della sua grandezza e generosità d’animo. Per Bonsignori il mito
alludeva alla vittoria della virtù sui tiranni e sulla superbia.
In quello di destra, Eracle è
giovane e sbarbato, come quello di destra del primo ovale, ha la λεοντῆ e si appoggia alla clava. Sotto i suoi piedi vi è una testa
di toro, che rinvia alla settima delle sue fatiche: la cattura del toro di
Creta. La figura rinvia sempre
alla virtus
fisica e morale di Eracle capace di sconfiggere le belve del χάος, spesso viste come sinonimo delle passioni incontrollate.
Nella Galleria quindi, non solo
nella forma dei riquadri, ma anche nelle figure che si trovano intorno ad essi,
vi è una ricerca di ordine e simmetria: le finte tele ovali hanno quattro
figure, due ignudi e due Ercole, mentre quelle rettangolari due personaggi
(entrambi Ercole). Inoltre è da sottolineare la disposizione delle scene:
quelle esterne hanno a che fare con il matrimonio con Deianira (Eracle con
Acheloo e con Nesso), quelle più interne rappresentano la sconfitta di esseri
selvaggi e non civilizzati (Idra e
Anteo, due mostri: uno di forma animale e l’altro umanoide), la cui sconfitta
denota la vittoria della civiltà sulla non civiltà e della virtus sul vitium. Non è
pertanto da escludere che nella scelta delle scene ci sia un rinvio al tema
delle buone nozze come premio per chi si dimostra capace di superare con virtù
gli ostacoli della vita, anche se ciò solo in parte si adatta alla biografia di
Camillo.
3.7 Le Arti
Nella parte finale della volta
si ritrova un motivo analogo a quello iniziale, confermando la ricerca di
simmetria. Anche qui si immagina una vola a crociera con al centro un clipeo
con una cornice marmorea a forma d’alloro. Nel clipeo è posta, su un cielo
azzurro, una sfera armillare dorata. Intorno, nei quattro pennacchi, vi sono
quattro figure femminili che alludono alle Arti: la Pittura è riconoscibile per i pennelli e la tavolozza dei colori.
In accordo con Ripa, ha i capelli neri, a indicare i continui pensieri sulla μίμησις della natura e dell’arte, e una catenina d’oro al collo che
sostiene una maschera posta sul petto, simbolo dell’imitatio. Indossa una
bella veste bianca, con sopra un mantello azzurro tenuto fermo al collo, e un
manto blu chiaro.
Le vesti preziose servono a denotare la nobiltà della pittura, poiché è un’arte
che implica l’utilizzo della mens prima che della
mano e pertanto appartiene alla sfera delle artes liberales e non a quella
delle artes mechanicae.
Accanto c’è la Scultura, riconoscibile per lo scalpello
nella mano destra, per il volto scolpito su cui poggia il braccio destro e per
la statuina nella sinistra. Ha una corona d’alloro in testa, perché come
l’alloro resta sempre verde, così una scultura resta sempre bella contro la
malignità del tempo; indossa una veste “vaga” (rossa in questo caso) che le
lascia volutamente scoperto il seno destro. Questo è interessante, poiché è
l’unica figura della Galleria che esibisce esplicitamente, ed in maniera
perfettamente visibile dal basso, una parte intima del corpo, andando contro quell’esigenza
moraleggiante visibile nel resto delle figure. Tra l’altro, Ripa non dice di
rappresentarla con un seno scoperto e quindi è da ritenersi un atto volontario
del pittore, forse motivato dalla sua volontà di mostrare la propria capacità
nella resa di corpi nudi ‹‹vaghi››, scelta che comunque dovette essere avallata
dal committente.
A dividere la Pittura dalla Scultura
vi è una conchiglia marmorea incorniciata da girali d’acanto, sormontata da una
maschera marmorea con una ghirlanda floreale, il tutto sempre dipinto.
Poi viene l’Architettura, con una tavola, su cui è realizzato un progetto,
sostenuta con la mano sinistra e una riga nella destra. Indossa una veste
bianca, un manto giallo e, come vuole Ripa, ha le braccia nude. Tra lei e la
Scultura vi è una maschera marmorea con sopra ghirlande floreali.
La quarta è una figura femminile
che indossa una veste gialla ed un manto bianco, entrambi ricoperti di stelle
d’oro. Ha una stella sulla fronte e due alette ai lati del capo; con la mano
sinistra indica verso l’alto, mentre con la destra tiene un compasso ed accanto
ha una tavola con sopra una piramide. Non è facile capire esattamente quale Personificazione
rappresenti, forse allude alla Geometria
e Matematica, fondamento delle tre
arti sorelle, per via delle alette, del compasso e della piramide. In ogni caso
la stella sulla testa può rinviare all’ispirazione divina e la veste stellata al
fatto che quell’arte sia divina, in quanto ispirata dalla divinità. Tra questa figura e la
Pittura vi è un motivo analogo a quello tra la Scultura e l’Architettura.
3.8 Lunetta
con Eracle e Alcesti
Restano da trattare le due
lunette poste alle due estremità della galleria, finora trascurate negli studi.
Partendo da quella del lato in cui si trovano le Arti, è qui rappresentato
Eracle, riconoscibile per via della λεοντῆ e della clava,
che sta conducendo fuori dagli Inferi Alcesti (Fig. 6). Con la mano sinistra,
l’Alcide aiuta Alcesti ad uscire dall’antro, mentre il suo volto è concentrato
su Cerbero, che ha un collare da cui partono due catene e che, da custode
dell’ingresso degli Inferi, abbaia con le sue tre teste vedendo due persone
uscirne. Sulla sinistra vi è invece Caronte, posto sulla sua barca lignea che
solca le acque dell’Acheronte, pronto a trasportare i due eroi sull’altra
sponda, affinché possano tornare al mondo dei vivi.
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Fig. 6: Lunetta con Eracle e Alcesti, Roma, Galleria Doria Pamphilj © su concessione Amministrazione Doria Pamphilj s.r.l.
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A differenza della tragedia di Euripide,
Eracle non lotta con Thanatos vicino alla tomba di Alcesti, ma va a riprenderla
direttamente nell’Ade, secondo una variante già presente in Fulgenzio e nel Mitographus Vaticanus
primus. Già Fedro,
nel Simposio di Platone, considerava
Alcesti come simbolo della potenza di Amore che induce ad anteporre la vita e
la salus dell’amato
alla propria.
Eracle, che riporta Alcesti da Admeto, compie questo gesto come segno di
riconoscenza verso Admeto che l’aveva ospitato e quindi sottolinea i valori
dell’amicizia e dell’ospitalità. La scena potrebbe anche leggersi come l’anima
virtuosa (Eracle e Alcesti) che dopo la morte risorge alla vita eterna, libera
dalle passioni e dai vizi della carne, rappresentati da Cerbero, ma non pare necessario
ricercare qui significati troppo profondi.
3.9 Lunetta
con un mito di Eracle
Nell’altra lunetta (Fig. 7) è
rappresentata una scena un po’ misteriosa. Al centro vi è Eracle, riconoscibile
per la λεοντῆ, che ha atterrato una figura maschile possente e muscolosa,
vista di schiena e con un drappo rosso indosso. Con la mano sinistra gli tiene
il capo premuto contro la terra, mentre con la destra si appresta a sferrargli
il colpo decisivo. Dietro vi è una grande quercia ed altri alberi. Accanto
all’Alcide vi è una figura femminile che fugge spaventata verso destra, coprendosi
il volto con la mano destra, orripilata da ciò che sta succedendo. Indossa una
veste gialla analoga a quella che porta Deianira nella scena con Nesso. All’estremità
destra vi è una personificazione fluviale rappresentata con la consueta
iconografia di una figura maschile semisdraiata, che appoggia il braccio
(sinistro) su un vaso da cui esce l’acqua che forma il fiume che scorre lì. Al
fiume si sta abbeverando un pascolo di mucche, che si trova sulla sponda
opposta rispetto ai personaggi al centro. Sullo sfondo, a destra, si possono
vedere le mura di una città. Anche all’estremità sinistra si possono scorgere
le mura di un’altra città, dalla cui torre pare salire del fumo.
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Fig. 7: Lunetta con un episodio di Eracle, Roma, Galleria Doria Pamphilj © su concessione Amministrazione Doria Pamphilj s.r.l.
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Nonostante sia la lunetta posta
sul lato da cui abbiamo iniziato la nostra analisi, si è scelto di trattarla
per ultima perché non à facile capire quale impresa di Eracle sia qui
rappresentata. Il problema principale è che Eracle ha compiuto numerose imprese
ed inoltre Milani, come abbiamo visto, rappresenta le scene in maniera un po’
libera rispetto alla tradizione, concependo l’iconografia della scena in modo
tale da adattarla a ciò che lui voleva mostrare, per esempio la sua bravura
nella resa dei corpi. Anche in questa scena l’attenzione è tutta focalizzata
sulla resa anatomica delle due figure poste al centro. Dobbiamo trovare
un’impresa svolta presso un fiume, con una figura femminile e che forse prevede
la distruzione di una città. Interessante notare che nella Sala di Ercole di Villa Doria Pamphili a Roma è presente un rilievo
di Algardi con Eracle che uccide una figura maschile presso un fiume, anche qui
personificato, sulla cui interpretazione Batorska si è trovata di fronte ai
nostri stessi problemi. Non è impossibile che vi
sia rappresentata la stessa scena, ma appunto quale? La studiosa propone due
soluzioni: Eracle e Cicno o Eracle e Eurizione (il bovaro di
Gerione). Queste soluzioni potrebbero essere adeguate per il rilievo, ma non
per il nostro affresco. Nel primo caso manca una figura femminile (Eracle non
affronta Cicno con Deianira al fianco) e forse perfino il fiume. Nel secondo, è
vero che vi sarebbe la mandria, ma anche in questo caso manca un personaggio
femminile. Le imprese a cui Eracle partecipò sono innumerevoli, ma diverse di
esse non sono particolarmente note e riteniamo più probabile pensare che sia
invece qui raffigurato un episodio di Eracle abbastanza famoso e rappresentato
in arte.
Potrebbe trattarsi dello scontro
con Caco.
Sulla destra sarebbe rappresentata la valle col fiume Tevere, dove si abbeverò il
pascolo che l’Alcide aveva sottratto a Gerione, al centro Ercole che uccide
Caco e sulla destra Caca, la sorella di Caco, che fugge spaventata; infine la
città sulla sinistra, da cui sembra uscire del fumo, può rinviare agli
accampamenti dei locali che Caco saccheggiava (Virg. Aen. VIII, 200–201; Ov. Fast.
I, 551–552). Bonsignori considera il mito come una vittoria della virtù sul
demonio che corrompe gli animi. Che Caco avesse un aspetto umanoide sembra
evincersi dai versi di Virgilio e Ovidio; in ogni caso c’è sempre
la variante di Livio che ne fa un semplice pastore forte e sicuro e nell’arte
moderna lo si può trovare rappresentato come un uomo muscoloso e possente, per
esempio in Domenichino. Certo lo scontro si dovrebbe
svolgere nella grotta di Caco, invece che all’aperto, ma anche questo non
costituisce un problema, poiché Milani si è mostrato piuttosto libero nella
rappresentazione delle scene. Il mito è ricorrente
nell’arte moderna italiana, si svolge a Roma e sarebbe quindi adeguato ad una
dimora principesca romana; per di più, diversi elementi qui presenti si
adattano al mito. Ciò che invece può destare perplessità è la figura di Caca
che fugge inorridita. È vero che era la sorella di Caco, però è anche vero che
fu lei a dire ad Ercole dove trovare il fratello. Inoltre è un personaggio che
compare solo in fonti tarde, sebbene fosse noto
all’epoca.
Tuttavia, a sostegno di tale ipotesi, si può menzionare la presenza di questa
scena negli affreschi eseguiti da Carlo Antonio Rambaldi (1680–1717) e Antonio
Dardani (1677–1735) nella Stanza di
Ercole (1707–1710) di Palazzo Buonaccorsi a Macerata. Questi due pittori
bolognesi, più o meno contemporanei di Milani, si erano formati anch’essi sugli
affreschi dei Carracci presenti a Bologna, in particolare di quelli a Palazzo
Fava, e, come il nostro pittore, proponevano ad inizio Settecento un ritorno
all’arte dei Carracci. Nella scena di Eracle e Caco,
quest’ultimo indossa un manto rosso, come la figura sconfitta da Ercole nella
scena di Milani qui analizzata. Caco è rappresentato in sembianze umane ed
anche qui è presente la stessa attenzione per figure realizzate con un forte
senso plastico, elemento che non sorprende visto che la fonte di tutti questi
pittori erano gli affreschi dei Carracci. Nell’affresco di Palazzo Buonaccorsi
bisogna però constatare che la scena è resa in maniera tale che non ci siano
dubbi sull’episodio raffigurato e manca la figura femminile.
Altre ipotesi che si possono
avanzare sono:
II) Eracle che uccide Lico, che
voleva assassinare Megara ed i suoi figli. La figura femminile che fugge
sarebbe quindi la moglie di Eracle, Megara, che più tardi l’Alcide avrebbe
ucciso in preda alla follia. La scena si svolgerebbe a Tebe, subito dopo che Eracle
era sceso negli Inferi per catturare Cerbero. In effetti la lunetta di fronte
rappresenta Eracle che torna dagli Inferi e il mito di Megara era molto noto
all’epoca, in particolare in letteratura, grazie alla tragedia di Euripide, l’Eracle, ma soprattutto grazie all’Hercules furens di Seneca. Il fiume sarebbe allora
l’Asopo, il maggior fiume della Beozia, che segnava il confine tra il
territorio di Tebe e quello di Platea. In quel tempo, tuttavia, se il mito
godeva di una solida fama nella letteratura italiana, era invece scarsamente
rappresentato nell’arte monumentale.
III) Eracle che uccide Eurito,
con Iole che fugge spaventata. Iole non perdonò ad
Eracle l’uccisione del padre e dei fratelli, in seguito alla quale divenne sua
schiava. L’espressione orripilata della fanciulla qui dipinta può ben addirsi a
lei. Sulla sinistra comparirebbe Ecalia, la città di cui Eurito era re e che
Eracle saccheggiò. Il problema di questa interpretazione è che Eracle conquistò
la città con un esercito e che, oltre al padre, uccise anche i fratelli di
Iole: tutti personaggi che qui non compaiono. Certo Milani potrebbe aver voluto
ridurre la scena solo ai personaggi principali in modo da creare una
composizione ordinata, armonica e ben bilanciata, dove tutte le figure potessero
essere plastiche, scultoree ed individualizzate, in accordo con i princìpi
classicisti, come quelli di Bellori–Maratti, dove ciò è possibile solo nelle
composizioni con poche figure. In effetti, in tutte le scene, Milani si attiene
a questi princìpi. Tuttavia i dubbi su tale ipotesi restano, poiché nell’arte
moderna questa è una scena non frequente.
IV) Eracle che uccide il
centauro Eurizione (diverso da quello prima menzionato) per fare un favore a
Dessameno. In questo caso la giovane sarebbe Mnesimache. La metà inferiore
dell’uomo ucciso da Eracle non si vede, quindi potrebbe anche essere un
centauro, tuttavia lo riteniamo meno probabile, anche perché il mito non ha una
grande tradizione figurativa.
Tra quelle proposte riteniamo
che la prima ipotesi, Eracle e Caco, sia la più attendibile, per la sua
ricorrenza in arte e perché si svolge a Roma, e che la seconda e la terza siano
le due alternative più plausibili, in quanto storie note, sebbene, soprattutto
la terza, non molto ricorrenti nell’arte moderna.
4. Eracle exemplum virtutis per Camillo
Nei trattati rinascimentali
Eracle è considerato un exemplum virtutis, poiché è colui che non si lascia tentare
dalle lusinghe dei vitia,
ma sceglie la dura strada della virtus, simbolo quindi dell’anima che
sconfigge le passioni e le debolezze del corpo e pertanto assunto anche come
esempio di Sapientia. È inoltre considerato come exemplum di particolari virtù positive, come la
Prudentia e la Fortitudo (sia del corpo sia dell’anima)
e perfino dell’Eloquenza. È poi il
simbolo di honos et gloria connesse con il trionfo della virtus ed in generale
come esempio di quella che i greci chiamavano μεγαλοψυχία
(la grandezza d’animo, la magnanimità). In quanto eroe che uccide mostri
selvaggi è poi stato sempre considerato un eroe civilizzatore, capace di
sconfiggere gli esseri del χάος, portando la
vittoria della civiltà sulla non civiltà, del κόσμος
sul χάος.
Trovare Camerini e Gallerie di
nobili decorati con le imprese di Eracle non è quindi raro, né strano; infatti
Eracle, per il proprietario della dimora, in questo caso Camillo Pamphili il
Giovane, ed i suoi discendenti, fungeva sia da exemplum di forza fisica, morale e di ogni
virtù che essi erano chiamati ad emulare, sia da garanzia di gloria et honos eterne nel mondo materiale e di ricompensa massima dopo la
morte,
come premio per quelle virtù (Eracle fu infatti divinizzato alla sua morte come
ricompensa delle sue imprese). Inoltre Eracle è figlio di Zeus che, in quanto
sovrano degli dei, è colui che concede legittimamente il potere a coloro che in
terra lo detengono, come i prìncipi, nonché colui che li protegge e qui la scena della Gigantomachia presente al centro vuole
evocare proprio questo concetto.
La scelta di queste tematiche da
parte di Camillo affonda però ancor di più nelle radici stesse della genealogia
familiare, poiché Eracle non era solo un exemplum esterno, ma, in quanto progenitore
della stirpe dei Pamphili, era il grande antenato da imitare. Camillo,
scegliendo queste tematiche, voleva quindi dimostrare di essere degno dei suoi
avi. Inoltre è probabile che volesse misurarsi anche con il celebre nonno
Camillo, il nipote del papa Innocenzo X. Nel Casino del Bel Respiro nella Villa
Pamphili di Roma, il nonno Camillo aveva fatto decorare una sala con stucchi,
eseguiti da R. Bolla e G. M. Sorrisi su disegni di Algardi, e affreschi,
realizzati da G. F. Grimaldi, incentrati sulle imprese di Ercole ed infatti
questa sala è nota come Sala di Ercole
(1646).
Non possiamo affermare con certezza che queste decorazioni fossero conosciute
da Milani, poiché le scene coincidenti presentano nessuna o solo vaghe
analogie. Certamente però questa sala era ben nota al committente, Camillo
nipote, ed è probabile che, decidendo di far decorare la Galleria del Palazzo
(che tra l’altro era divenuto dei Pamphili proprio grazie al nonno Camillo),
abbia voluto imitare quel ciclo fatto realizzare dal nonno per mostrarsi suo
degno discendente ed erede, nonché valido continuatore della virtù non solo del
nonno, ma anche del capostipite Ercole.
Questa analisi ha cercato di
mostrare come la scelta dei temi raffigurati non sia affatto casuale, ma
presupponga una precisa volontà di Camillo e ciò conferma quanto sopra
ipotizzato, ovvero che Zanotti è in errore nell’affermare che Milani ideò il programma
iconografico. Come rivela il contratto, egli ricevette indicazioni sulle storie
da realizzare (Gigantomachia e fatti di Ercole), avendo semmai la
possibilità di scegliere quali fatti di Ercole rappresentare, ma anche questo
suscita forti dubbi, poiché la scelta di un episodio come quello di Eracle e
Alcesti presuppone una certa erudizione. È più probabile, pertanto, ritenere
che il programma iconografico fu elaborato da un erudito vicino ai Pamphili in
accordo con il committente. Milani ebbe, invece, la libertà, propria di tutti i
pittori affermati, di decidere come
rappresentare le scene indicategli, cioè la libertà d’inventare l’iconografia (e
non il tema), giacché rappresentò l’evento mitico in maniera piuttosto libera,
senza attenersi troppo al modo in cui la scena era descritta nelle varie fonti, ma sviluppandola in modo
consono alle sue esigenze, con giusto gli elementi
principali capaci di rendere l’episodio riconoscibile (e nel caso di una
lunetta neanche questo).
Perfino la scelta della parte
iniziale e terminale della galleria probabilmente non furono decise da Milani,
poiché esse si inseriscono bene nel resto del programma iconografico. Infatti
le quattro parti del mondo (incentrate sull’Italia) possono alludere al fatto
che grazie ad Eracle, antenato dei Pamphili, e al buon governo dei Pamphili,
tutto il mondo è stato civilizzato e la virtus ha trionfato. Le Arti, invece,
indicano che, grazie alla protezione e al mecenatismo dei Pamphili, in questo
caso di Camillo il Giovane, tutte le arti prosperano ed in questo modo Camillo
si pone come degno continuatore non solo del mecenatismo del nonno Camillo, ma
anche di quello dello zio Benedetto, dal quale aveva appreso l’importanza di questa
attività.
Se oggi quindi la figura di
Camillo il Giovane non appare molto studiata (non è presente nel Dizionario
Biografico degli Italiani), questo imponente ciclo di affreschi resta una delle
testimonianze principali delle sue ambizioni e della sua politica culturale.
APPENDICE
Con
la pnte., da valere
come fosse publico, e giurato destro Io Sotto.s.tto mi obligo di dipingere la
Volta del Braccio della Galleria del Palazzo al Colleggio Romano dell’Ecc.mo
Sig. Prpe. D. Camillo
Pamphilj Ald.ni Facchinetti
verso il Corso principiando dal muro accanto il Fenestrone verso la Chiesa di
S. Maria in Via Lata sino al muro doppo il Fenestrone sopra il Portone di
mezzo, verso il Corso, con Istoria grande nel mezzo Rappresentante la caduta de
Giganti, con cornice attorno dipinta, o’ pure di Rilievo di Stucco, come più
comportarà la Sudetta Pittura, et a compiacimento di detta Ecc.za; e nel
restante di detta Volta, cioè dà capo, e dà piedi al detto Quadro di mezzo,
quattro Istorie, due per parte Rappresentanti li fatti di Ercole con ornamenti
attorno di Cornici simili alla Sudetta, ornati con putti, e figure nude in
conformità delli disegni dà me fatti, e sottoscritti da S. Ecc.za Pne. li quali
doveri in appresso consegnare in mano di detta Ecc.za per giustificazione della
mio Opera, et in oltre mi obligo similm.e di dipingere tutte le lunette, archi
delle Fenestre, Fenestroni, et altri Vani in detta Galleria, come anche gli
Sguinci delle Fenestre, altezza de Parapetti delle medeme, Zoccolo attorno
tutto detto braccio di Galleria all’altezza di detti parapetti di Fenestra,
facciate di muro dalla Volta sino abbasso, nelle due Teste di detta Galleria,
una dove è la Porta che esce alla loggia scoperta verso la Chiesa, e l’altra
incontro, e tutti detti Siti dipingerli con Requadri, Cartelle, Festoni,
Cornici, Pilastrini, et altri ornamenti necessarj, e corrispondenti alla
Pittura della Volta et à compiacim.to di S. E. Prone. et il tutto dipinto con
vaghezza di colori, sì le carnaggioni, che i Panni dippinti à buon fresco, e la
Cornice, et ornamenti, che necessariam.e andranno lumegiati d’Oro, debbano
lumegiarsi a d’Oro buono, e non falso, e tutte le S.udette Pitture farle à
tutte mie Spese robbe, e Fatture per il prezzo di Scudi Cinquecentocinquanta
senza poter pretendere augm.to di sorte alcuna per qualsiasi lavoro, che possa
farsi per compim.to di detta opera dovendo andare tutto à mie Spese, intendendo
adesso per sempre di restar sodisfatto di detta Somma per tutta la Sudetta
opera, anche fosse stimata doppo finita in maggior Somma obligandomi di dare
compita tutta dett’opera nel termine di un anno da principiarsi à contare dal
giorno d’oggi, che S. Ecc.za benignam.te mi venga somministrando in tempo, che
dipingo qualche somma di denaro, si per il p.zo di Colori, che per mio
mantenimento, con questo però che per sicurezza debba restare in mano di S.
Ecc.za parte della Somma che importaranno le mie operazioni, et alfine
dell’Opera pagarmi il Residuo, e non terminando il tutto nel tempo Sudetto sia
Padrone S. Ecc.za di prendere altri Pittori à tutte mie Spese, e far terminare
detta Opera anche importasse Maggior Somma obbligando perciò me stesso beni, et
Eredi nella più ampla for[ma?] della N. fam. Aplica in fede questo dì 6 Dec.re 1732.
In
oltre sono Io Infratto convenuto con l’Ecc.mo Pnpe. Pamphilj Sopra detto, che
nonostante, che di sopra si sia detto di dipingere tutte le Sopra dette Pitture
à buon fresco, debbino le medeme essere dipinte à fresco, o tempra a d’uso di
buona Pittura, à compiacim.to però sempre di S. Ecc. Prone. come anche sia
detto di sopra di terminare la Sudetta opera nel termine di un anno da dover
principiare il giorno della data del Sopra dett’Obligo, questo pure siamo
convenuti che debba principiare il primo di Gennaro prossimo 1733. Io Aureliano
Milani mi obligo quanto sopra m..
Io
Nicola Can.co Rolani fu’ pnte., e viddi fare la Sud.a Sottoscrizione. Io
Filippo Costantini fui pnte., e viddi fare la Sud.ta Sottoscrizione..
Ringraziamenti
Si desidera esprimere un profondo ringraziamento alla famiglia Doria
Pamphilj e alla dottoressa Alessandra Mercantini, direttrice dell’Archivio
Doria Pamphilj, per aver permesso l’accesso all’archivio di famiglia e per aver
rilasciato l’autorizzazione alla pubblicazione delle immagini qui presenti. Si
esprime un sincero ringraziamento anche al professore Marco Ruffini, professore
associato di Storia della Critica dell’Arte all’Università di Roma “La
Sapienza”, per il prezioso aiuto fornito; al professore Stefano Pierguidi,
professore associato di Museologia e Critica all’Università di Roma “La
Sapienza”, per gli utili consigli; al professore Stefano Colonna, ricercatore
di Museologia e Critica all’Università di Roma “La Sapienza”, e al BTA per aver
accolto con favore questo articolo.
NOTE
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