La galleria Studio
Farnese si affaccia
al panorama artistico romano per la prima volta nel febbraio del
1969. La galleria sorgeva a Roma, in piazza Farnese 50. Lo spazio,
battezzato dall’intraprendente Maria Di Lella Alfani (1917-2006),
era dinamico ed eterogeneo e si apriva su un cortile che spesso
veniva utilizzato come prolungamento della superficie espositiva. La
quinta di scena, oltre ad essere la piazza celebre per la presenza
dell’omonimo palazzo sangallesco e per la sinergia con la diplomazia
francese che accoglie al suo interno, era la stessa città. Roma,
così come viene raccontata da chi ha vissuto quel periodo, era una
fucina di incontri artistici, di mescolanza tra le varie arti, di
possibilità di confronto tra eccellenze e persone comuni.
Allo stesso tempo, nel suo grembo,
fiorivano i germogli della contestazione che, anche in campo
artistico, generò nuove linee guida per le ultime sperimentazioni di
poetica, indirizzando l’intervento estetico artistico
nell’interesse della società intera
la cui non-creatività di massa, oramai conclamata, rappresentava
l’incipit della crisi di quel rapporto tra soggetto e oggetto, dei
processi di pensiero e delle operazioni tecniche
che erano già stati analizzati dalla pop-art
e che non tardarono ad ispirare l’arte cinetica e programmata.
Tenendo fede al proprio nome, che si
rifà alla parola ‘movimento’ nell’ultimo decennio l’arte
cinetica e programmata stava mellifluamente sviluppandosi,
estendendosi e cambiando forma, accogliendo l’apporto delle
macchine elettroniche moderne, in grado di restituire al pubblico una
vera e propria «opera aperta». Dai primi accenni in poi la ricerca
visiva cinetica è stata condotta da diversi gruppi operativi
accomunati dall’intento di spersonalizzare la prestazione estetica
eseguendo una divisione in settori di ricerca o un vero e proprio
controllo critico reciproco, seguendo sempre di più l’orma della
teoria del disegno industriale, con cui non solo ne condivise i
materiali ma anche l’obiettivo di fruizione.
L’interesse della Di Lella nei
confronti dell’arte cinetica nacque durante i quattordici anni
della sua permanenza parigina, durante la quale ebbe modo di
collaborare con la rivista Planète e con il Direttore generale delle
Accademie e Biblioteche, Attilio Frajese, per il quale scrisse
articoli di vario genere nell’edizione “Accademie e Biblioteche
d’Italia”. La sinergia con il Ministero della Pubblica
Istruzione la portò a realizzare articoli sulle Biblioteche
scolastiche francesi,
la Biblioteca Saint Geneviève e i mezzi audiovisivi
nell’insegnamento francese. In quegli stessi anni partecipò come
pubblico all’inaugurazione della storica mostra "Le Mouvement"
allestita nel 1955 dalla pioneristica e coetanea gallerista Denise
René (1913-2012), alla quale si deve – con la sopracitata mostra –
la consacrazione dell’arte cinetica.
Maria Di Lella rimase affascinata dalle
possibilità estetiche, dalle illusioni ottiche e dal concept
avanguardistico delle opere
di Yaacov Agam, Paul Bury, Calder, Marcel Duchamp, Robert Jacobsen,
Rafael Soto, Jean Tinguely e Victor Vasarely, presentate nella
Galerie Denise René. Una sperimentazione di respiro internazionale
che raccolse l’interesse rivolto agli strumenti percettivi di nuova
generazione, affrontando problemi già indagati dall’avanguardia
storica e adottando una metodologia di osservazione dei fenomeni visivi
che riproduceva in chiave estetica i procedimenti ottici e
psicologici della percezione, passando dal laboratorio della scienza
a quello dell’arte.
Recependo questo interesse polivalente dell’arte cinetica ad
accogliere i condizionamenti della scienza e di altre discipline,
Maria Di Lella Alfani, fondatrice dello Studio Farnese, dichiarava
che la galleria avrebbe coinvolto e realizzato «incontri
interdisciplinari tra artisti, architetti, critici, psichiatri,
biologi e musicisti» .
È proprio con Denise René che Maria
Di Lella Alfani intrattiene dei rapporti epistolari e degli scambi
che avrebbero dovuto sfociare in un’esposizione alla fine del 1969,
dal titolo “Hommage à Denise René”.
L’ambizione era quella di proporre in mostra, sottoforma di omaggio
della Galleria Studio Farnese all’attività della collega e amica,
proponendo dei multipli degli artisti che collaborarono con la
galleria parigina, istituzione che oramai vantava alle proprie spalle
una ricerca decennale intorno all’arte cinetica. A tale proposito
la selezione era orientata a richiedere quattro opere di Leparc dello
stesso anno, quattro opere di Vasarely – due del 1967 e due del
1969 – tre opere di Soto tra il 1967 e il 1968 e dei multipli di
Tomasello, Sobrino, Demarco e Yvaral.
L’esposizione sarebbe dovuta essere
l’ultima settimana dell’ottobre del 1969, esattamente circa 7
mesi dopo l’inaugurazione della stessa galleria, lasciando intuire
il percorso che appariva ben chiaro nella mente della sua direttrice.
Infatti, la Galleria Studio Farnese, inaugurò il 7 febbraio del 1969
con una mostra su Nicholas Schöffer, artista che vinse il Gran
Premio della critica alla Biennale di Venezia del 1968. L’esposizione
venne curata da Giulio Carlo Argan che accompagnò l’evento con
un’introduzione esaustiva: «Per quattro motivi principali sono
persuaso che, nel quadro delle attività artistiche degli ultimi
vent’anni, la ricerca di Nicholas Schöffer, sia la più rigorosa,
la più lucida, la più costruttiva, la più importante. Primo: è la
sola che realizzi il fenomeno artistico a dimensione urbanistica (…);
Secondo: è la sola che ponga in termini di correlazione integrativa
il rapporto tra arte e scienza; Terzo: porta a fondo il processo di
eliminazione del processo artistico (…); Quarto: dando il fenomeno
artistico come fenomeno urbano totale, lo pone come fenomenizzazione
integrale di un assunto teorico, di un’estetica»
.
La mostra ebbe grande risonanza mediatica e fu ripresa da gran parte
della stampa quotidiana e televisiva dell’epoca
italiana ed estera.
La concezione del fenomeno artistico
inquadrato nella dimensione urbana, guiderà i passi successivi della
programmazione della galleria Studio Farnese, in particolare nelle
mostre in cui sceglierà di accostare i progetti di architettura alle
opere di artisti plastici contemporanei, come fu nel caso delle
mostre dedicate a Paola Levi Montalcini, Paolo Portoghesi e Vittorio
Gigliotti (1969), Saverio Busiri Vici e Attilio Lunardi (1970); Igino
Legnaghi e Tommaso e Gilberto Valle (1970).
Tuttavia, una volta conclusa
l’esposizione di Nicholas Schöffer, Maria Di Lella scriveva, in
una lettera del 5 settembre 1969 indirizzata a Niki Rolf della
galleria Denise René, la richiesta di prestito di quindici opere che
sarebbero dovute arrivare a Roma al più tardi il 20 ottobre. Per
motivi da definire, la mostra non fu realizzata. Non potendo, per
cause ignote sopraggiunte, finalizzare il suo proposito, guardò a un
protagonista indiscusso della sperimentazione dell’arte
programmata, Bruno Munari. Nel 1962 Munari aveva dato vita, presso il
negozio Olivetti della Galleria Vittorio Emanuele di Milano, alla
mostra “Arte programmata”, che passò alla storia per la
teorizzazione dell’arte cinetica come paradigma del concetto di
«opera aperta».
Autore del catalogo dell’iniziativa, Umberto Eco, che riunì alla
presenza di Mari e Munari, gli artisti del Gruppo T e del gruppo N.
L’esposizione “Arte programmata”
seguì una vera e propria tournée fino al 1964, cinque anni prima
della mostra presentata allo Studio Farnese in cui furono esposte le
Flexy (sculture in acciaio scomponibili) e delle Xerocopie originali:
«Le opere di Munari – allo Studio Farnese – articolano le loro
proprietà attive in modi diversi, ma non contraddittori (…). Tutto
si stabilisce in maniera molto spontanea e provocante: il gioco della
fantasia e il rigore del calcolo trovano in Munari una perfetta
coincidenza».
Il sodalizio con Bruno Munari non si
voleva esaurire solo con la mostra del 1969. Maria Di Lella, a
partire dall’anno successivo, iniziò a impostare una
collaborazione con l’Industria Ceramica C.A.V.A.,
con la quale riuscì a dare vita alla linea “Studio Farnese”: una
serie limitata di moduli rappresentanti il segno di un nuovo rapporto
tra arte e industria, con l’intento manifesto di lanciare «un
nuovo orientamento culturale nella realtà dell’industria” che,
nella sinergia tra CAVA e la Galleria Studio Farnese, avrebbe
stimolato «un più ampio discorso rispondente a quelle istanze
qualitative che già urgono oltre i limiti di un malinteso
consumismo».
Da questa collaborazione, sotto la coordinazione di Maria Di Lella,
nacquero sei modelli di piastrelle, di rivestimenti, sei modelli di
divisorio e sei sculture, rispettivamente firmate dai sei artisti
coinvolti: Sara Campesan, Angelo Colangelo, Attilio Lunardi, Nato
Frascà, Antonio Niero e Osvaldo Romberg.
I progetti, alcuni dei quali conservati
negli anni presso l’archivio della galleria, erano frutto di scambi
e confronti con Maria Di Lella. In occasione dell’inaugurazione
erano previsti anche due pannelli di Bruno Munari, come testimonia la
lettera di risposta che inviò il 26 febbraio del 1972 alla Di Lella.
Lettera che si conclude con un apprezzamento spontaneo di Munari, che
si premura che la direttrice della Galleria Studio Farnese stesse
continuando la propria attività: «Come sta, cara signora? Spero
bene e anche per la sua attività così pionieristica per una città
come Roma».
Purtroppo, invece, in quello stesso
anno la galleria chiuderà per motivi che non sono emersi, nonostante
l’interesse ricevuto da architetti, artisti, istituzioni e
personaggi del panorama artistico romano. A qualche mese dalla
cessazione dalla sua attività, lo Studio Farnese continuava ad
attivare vivaci collaborazioni, basti pensare al legame con
l’American Academy in Rome, allora diretta da Barlett Hayes, che le
chiese in prestito un’opera per la mostra “Dealers Choice”.
Un altro interessante sodalizio fu con Ugo Tognazzi, il quale decise
di aprire la propria abitazione di Torvaianica a un’esposizione
privata estiva con le opere di Antonio Niero, Sara Campesan, Franco
Costalonga e Lorenzo Indrini.
Che “la fine” dello Studio Farnese fosse stata repentina lo
testimonia la fiorente adesione di nuovi artisti a cui la galleria
Studio Farnese, nel corso dei due anni precedenti al termine della
sua avventura, dedicò delle mostre: Giorgio Giusti, in “Opere
cinetico-luminose” curata
da Giulio Carlo Argan (1971); Pier Virgilio Fogliati a cura di Lara
Vinca Masini (1970); Sara Campesan, Franco Costalonga, Attilio
Lunardi, Marcello De Filippo e Gino Scarpa nella mostra “Strutture
grafico-ambientali” curata da Italo Mussa (1970). Successivamente,
dopo un approfondimento dedicato alle opere di Osvaldo Romberg,
Federico Brook e Nato Frascà, la storia dello Studio Farnese si
concluse con la sua ultima esposizione: “Vivre a l’oblique” di
Claude Parent, nel maggio del 1972.
A filo della linea sottile che ha
distinto il clima del 1968 e quello del 1970, sono sorte e sono state
presentate a Roma le elaborazioni di correnti artistiche emerse quali
il minimalismo, l’arte concettuale, l'arte povera e la land art.
Esposizioni memorabili che hanno segnato la storia dell’arte quali
le personali del 1969 di Kounellis “12 cavalli vivi” e di Merz
presso la Galleria L’Attico di Roma; la retrospettiva su Pascali
alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e “Vitalità del Negativo
1960-1970” al Palazzo delle Esposizioni.
Tuttavia, nella stessa città, fino
all’exploit della galleria Studio Farnese, la presenza dell’arte
cinetica a Roma si può contare sulle dita di una mano. Pertanto, nel
clima di quel periodo storico orientato ad accogliere artisti e
correnti internazionali, il tentativo messo in atto da Maria Di Lella
Alfani, gallerista, donna, nella difficile Roma degli anni ’70,
rimane una gemma rara fino a questo momento non annoverata.
* Si ringrazia Federico Alfani per la
disponibilità alla consultazione dei documenti inerenti all’archivio
dello Studio Farnese, del quale si rimanda al sito
https://studiofarnese.com/
per la consultazione di alcuni articoli e contenuti digitalizzati,
così come all’indirizzo email studiofarnese@mail.com
per maggiori approfondimenti.
NOTE
BIBLIOGRAFIA
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2009
Giulio
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moderna, 1770-1970, Sansoni
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Giulio
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Studio Farnese, Roma 1969
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Carlo
Bertelli, Giuliano Briganti, Antonio Giuliano, Storia
dell’arte italiana, Volume
IV, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori 2009, p. 570
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LELLA 1969
Maria
Di Lella, Lettera a Denise René, 15 marzo 1969
FRAJESE
1961
Attilio
Frajese, Lettera a Maria Di
Lella Alfani, 23 marzo 1961
HAYES
1971
Barlett
Hayes, Lettera di Barlett
Hayes a Maria Di Lella Alfani,
21 gennaio 1971
MENEGUZZO,
MORTEO, SAIBENE 2012
Marco
Meneguzzo, Enrico Morteo, Alberto Saibene, Programmare
l’arte, Olivetti e le neoavanguardie cinetiche,
Johan & Levi editore, 2012, p. 21
MUNARI
1972
Bruno
Munari, Lettera di Bruno
Munari a Maria Di Lella Alfani,
26 febbraio 1972
PANCOTTO
2016
Pier Paolo Pancotto, Arte
contemporanea: dal Minimalismo alle ultime tendenze,
Carocci Editore 2016, p. 47
TOGNAZZI
1971
Ugo
Tognazzi, Lettera di Ugo
Tognazzi a Maria Di Lella Alfani,
25 agosto 1971
DÉPLIANT
-
Statement della galleria per la
comunicazione stampa, 1972
-
AAVV, Una città inabitabile, in “L’Unità”,
25 marzo 1969
-
Sandra Orienti, “Xerocopie” e
“Flexy” a Roma, ne Il Popolo, 12 ottobre 1969
-
Estratto dal depliant della Linea Studio
Farnese – CAVA (1969): “Il punto di arrivo di una ricerca
operativa la C.A.V.A. spa ha voluto iniziare fin dal suo primo
Seminario 1968 nel rapporto tra la ceramica e l’architettura.
L’iniziativa per un nuovo orientamento culturale nella realtà
dell’industria è per la CAVA un impegno a farsi stimolo di un più ampio
discorso rispondente a quelle istanze qualitative che già urgono oltre
i limiti di un malinteso consumismo. Ad un gruppo di artisti dello
Studio Farnese CAVA ha così chiesto forme nuove per il più antico
materiale del mondo: sono nate – dal segno originario – una piastrella,
un rivestimento, un divisorio, una scultura. I risultati, che la CAVA
s.p.s. ha oggi il piacere di presentare, sono frutto di uno sforzo
articolato in tre momenti – organizzazione, creazione, produzione –
rispettivamente assunti dalla CAVA stessa, dagli artisti dello Studio
Farnese che è stato l’agente coordinatore dell’incontro operativo. È
rilevante che i prodotti di una operazione cos’ concepita vadano oltre
le risposte espressive dei singoli artisti indicando un nuovo rapporto
arte-industria, mediato attraverso l’azione di organismi operativi e
culturali di nuova caratterizzazione. Al dovere quindi di tutti gli
industriale, artisti, architetti,, professionisti, di far sì ce la
produzione sia espressione autentica delle loro esigenze, è dedicato
questo sforzo”.