Introduzione
Il
Falerno
è stato sicuramente uno dei vini più consumati e apprezzati
nell’antichità, sia nell’antica Roma, che in tutte le province
dell’Impero.
Nel
corso dei secoli, esso ha rappresentato per gli studiosi, non solo un
elemento distintivo dell’antica tradizione enogastronomica campana,
ma anche una testimonianza storica dei flussi commerciali, delle
norme politiche, dei costumi e delle abitudini culturali della
società romana.
Il
Falerno
è stato sicuramente uno dei prodotti più esportati oltre i confini
dell’Italia e, per questo motivo, può essere ritenuto a tutti gli
effetti uno dei primi esempi di globalizzazione nel mondo antico:
dalle terre dell’antico ager
Falernus,
(corrispondente agli odierni comuni di Falciano del Massico, Carinola
e Casanova)
ubicato a nord-ovest della cosiddetta Campania
Felix,
il vino veniva imbarcato quasi sicuramente dai porti di Sinuessa
e
Minturnae,
sulle navi onerarie che salpavano verso la Gallia, ma anche verso il
nord Africa e l’Oriente (fig. 1). Ciò è confermato dalle scoperte
archeologiche di numerosi relitti rinvenuti nei fondali di tutto il
Mediterraneo sia occidentale che orientale e che hanno restituito
molti contenitori destinati al trasporto di vino Falerno.
Questi scambi commerciali contribuivano ad assicurare accordi
pacifici e duraturi tra la capitale e le sue province.
Anche
le norme legislative romane si sono occupate della circolazione
vinaria, rispecchiando un traffico diffuso e un consumo eccessivo di
vino, a tal punto che nel I sec. a.C. l’imperatore Domiziano fu
costretto ad emanare un editto che vietava l’impianto di nuovi
vigneti in Italia e che sanciva la loro riduzione nelle province.
Inoltre,
il Falerno
rispecchia un modus
vivendi che
ha coinvolto parecchie classi sociali romane, a partire da quella
imperiale e aristocratica, per arrivare a quella dei condottieri
militari.
Questo
vino era consumato da tutti gli strati sociali, durante i pasti della
giornata, fuori e dentro casa, durante i banchetti, le feste
religiose e i riti funebri.
Era
così rinomato e richiesto, che le anfore da trasporto venivano
chiuse ermeticamente con tappo e sigillate con il pitaccium,
una targa nella quale venivano indicate il luogo di origine del vino
e la sua annata. Per questo motivo, il contenuto e il suo contenitore
diventano, per gli archeologi, un ottimo indicatore cronologico, da
cui ricavare informazioni utili per contestualizzare dati storici e
geografici.
Ultimamente,
gli enologi lo hanno considerato il primo DOC nella storia
dell’enologia: il suo valore è stato riconosciuto anche dallo
Stato, con un Decreto del Presidente della Repubblica nel 1989 e
ribadito con un Decreto Ministeriale nel 2011.
Non
è affatto un vino antico e scomparso del tutto, perché con i nuovi
reimpianti delle viti, incentivati in particolare durante il periodo
della dominazione borbonica nel Regno delle Due Sicilie, sono state
ricavate tre tipologie: uno bianco con Falanghina,
uno rosso a base di Primitivo
e un altro rosso a base di Aglianico
e Piedirosso;
proprio quest’ultimo, secondo alcuni enologi, si avvicinerebbe di
più all’originale produzione del
Falerno,
perché deriverebbe dallo stesso tipo di vitigno.
La
Cisalpina romana
La
Cisalpina
romana
comprendeva
quella parte dell'Italia settentrionale, racchiusa tra il fiume Adige
a est, le Alpi a nord e il Rubicone a sud. Corrispondeva all’attuale
Pianura Padana, comprese le regioni della Liguria e del Veneto. Era
nota anche come Gallia
Cisalpina,
perché abitata dai Galli,
uno dei gruppi etnici appartenenti alla popolazione celtica (fig. 2).
Questa
zona fu oggetto di mire espansionistiche da parte del Senato romano,
per cui, già a partire dal II sec. a.C., furono create svariate
colonie, fondate città e concessa la cittadinanza romana a molti
siti gallici, es. Aquileia,
Mediolanum,
Bergomum,
Brixia,
Mutina,
Placentia
e Cremona.
La
conquista romana modificò positivamente quei territori, attraverso
la centuriazione, la creazione di cardini e decumani,
le
confische agrarie, le redistribuzioni di terre, i censimenti e
soprattutto, in epoca augustea, attraverso la realizzazione di
numerose strade, con cui favorire lo spostamento delle truppe e dei
commercianti. Le vie Flaminia,
Aemilia,
Postumia,
Fulvia,
Popilia
si sono ben conservate, in
buona parte, fino ad oggi, grazie alla loro funzionalità, dovuta al
percorso rettilineo, alla lieve pendenza, alla misura idonea della
carreggiata e rappresentano ciò che rimane di quel processo di
“romanizzazione” che portò una nuova cultura che si integrò
perfettamente con quella preesistente.
Il
sito che interessa particolarmente in questa sede è la città di
Cremona.
Popolata
anticamente dai Galli, essa divenne un castrum
romano nel 218 a.C., insieme a Placentia
(Piacenza), per motivi militari: dovette servire da baluardo contro
l’avanzata dell’esercito cartaginese di Annibale e dei suoi
alleati, i Galli.
La città ha sempre avuto una posizione geografica strategica, sia
perché attraversata dalla strada consolare romana Postumia,
realizzata nel II sec. a.C. e che servì a collegare Aquileia e
Genova, sia perché vicina al fiume Po, il quale le garantì una
forte vocazione mercantile fin dall’antichità (fig. 3). Tale
vocazione fu sfruttata in particolare dai Romani. Infatti, il suo
porto divenne uno dei capisaldi del commercio di epoca repubblicana
nel nord Italia fino al Medioevo.
Sicuramente
sia la via Postumia
che il fiume Po, il quale è stato navigabile per lunghi tratti in
epoca antica, hanno rappresentato le probabili strade di accesso per
le merci provenienti dall’Italia meridionale, tra cui le anfore
contenenti il vino Falerno
(fig.4).
Negli
ultimi anni, sono stati molti gli studiosi che si sono interessati
alla storia inerente a questo corso d’acqua, allo scopo di
comprendere meglio lo sviluppo delle dinamiche commerciali tra la
zona settentrionale e meridionale dell’Italia antica.
Nell’articolo
scientifico di Riccardo Querciagrossa, dedicato all’Evoluzione
della regione del Delta
del
Po dalla preistoria ai giorni nostri,
si mettono in risalto le fasi geomorfologiche del paesaggio, che
hanno indissolubilmente accompagnato e condizionato la storia degli
insediamenti umani.
La
civiltà “Villanoviana” fu promotrice di un forte impatto
ambientale nella Pianura Padana, perché, la sua vocazione
commerciale la indusse a dare un impulso incisivo all’utilizzo
delle vie fluviali, come percorso idoneo alla comunicazione interna
tra i vari insediamenti.
La
maggior parte degli archeologi, ormai, condivide l’ipotesi che i
Villanoviani siano stati gli antenati degli Etruschi, i quali,
quindi, furono i primi a intuire il ruolo strategico che il fiume Po
potesse avere sia per fini commerciali, che espansionistici. Per
questi motivi, essi intrapresero quei lavori idraulici, che furono
poi completati e perfezionati dai Romani. Questi si accorsero che
quelle terre si trovavano al centro di una rete commerciale non
indifferente e che potevano ricavare ulteriori risorse per la pesca,
la caccia e la produzione di sale e laterizi.
Vennero costruiti argini, scavati canali di drenaggio per bonificare
e irrigare le zone paludose e scavate numerose fosse per favorire la
navigazione interna.
Sono
numerose le fonti antiche che confermano la navigabilità del Po, tra
cui Plinio il Vecchio, Virgilio, Strabone e tanti altri.
Cremona e
lo scavo in piazza Marconi
Cremona
fu una delle città che trasse enormi vantaggi dalla presenza del Po.
Verso la fine dell’epoca repubblicana, essa conobbe uno sviluppo
economico, che le consentì di avviare un incremento edilizio,
consistente nella costruzione di numerose domus
signorili, come quella rinvenuta in piazza Marconi (fig. 5).
Siamo
nel centro della città, dove, a partire dal 1983, la Soprintendenza
condusse saggi di carattere scientifico, finché la continua
fuoriuscita di materiale archeologico non fece altro che favorire
l’apertura di una vera e propria campagna di scavo, iniziata nel
2005 e conclusa nel 2008.
Gli
archeologi riportarono alla luce i resti di un’enorme abitazione
privata, le cui prime fasi di costruzione risalivano al II secolo
a.C. La domus
apparteneva ad una famiglia di notevole prestigio sociale. Infatti,
le pitture parietali, i mosaici pavimentali con motivi ispirati ai
miti greco-orientali, il ninfeo con giochi d’acqua, vasche e
fontane e il giardino con statue in marmo, raffiguranti divinità
erano l’emblema dei gusti e delle tendenze emergenti tra i patrizi
romani di quel periodo.
Si
trattava della tradizionale casa nobiliare romana dalla complessità
architettonica e dal forte impatto scenografico, per la presenza di
terrazzamenti, colonnati, ma soprattutto per la sua ubicazione,
adagiata sulla riva del fiume.
Inoltre,
i materiali d’arredo degli interni e le tracce di alimenti e
bevande erano indicatori di una classe dominante che commissionava
prodotti provenienti non solo dall’area adriatica, ma anche dal sud
Italia, tra cui l’area vesuviana e tirrenica, dal Nord Africa e
dall’Oriente.
La
ceramica emersa è molto variegata e attesta, non solo la presenza di
maestranze locali, ma anche intensi scambi commerciali con i grandi
centri dell’Etruria settentrionale, come Volterra e Arezzo, con
l’Asia Minore, la Gallia Narbonese e tutti gli altri bacini
produttivi del Mediterraneo.
Sono
tante le classi di materiali presenti: ceramica a “vernice nera”,
ceramica “megarese”, ceramica grigia, ma soprattutto materiale
anforario.
La
tipologia di anfore, che per la maggior parte è stata trovata in
condizioni integre, è quella delle cosiddette “Lamboglia 2”
(fig. 6). Esse presentano vari tipi di orlo (a fascia obliqua bassa e
alta, a fascia verticale bassa e alta, a fascia rettilinea alta e
svasata); i corpi ceramici sono in genere depurati; il colore può
variare dal giallo al rosa chiaro.
La
cosa più interessante, da un punto di vista scientifico, è
sicuramente la presenza dei bolli sugli orli, sulle anse oppure sulle
spalle dei contenitori anforari, perché essi hanno fornito chiare
indicazioni sulla provenienza, sul tipo di prodotto, sui proprietari
imprenditori e relativi committenti e sul contesto cronologico.
Il
bollo, che interessa in questa sede, in quanto richiamerebbe un
ambito produttivo tirrenico, è quello sul quale sono impresse tre
lettere, retrograde, rilevate e appiattite (PAP)
e che ricoprono l’orlo di un’anfora “Lamboglia 2” (fig. 7).
L’archeologa
Brunella Bruno avrebbe collegato le tre lettere alla gens
Papia,
nota famiglia di imprenditori che ebbe una certa egemonia sulla
gestione di attività commerciali di prodotti provenienti dall’ager
Falernus e
che avrebbe avuto
atelier
di produzione anche in Dalmazia. Tra i prodotti dell’ager
Falernus, non
poteva certo mancare il vino. Pertanto, questa “Lamboglia 2”
trasportava sicuramente vino Falerno.
Questo
tipo di bollo è stato riscontrato anche su vasellame rinevnuto in
via Falcone a Milano:
questo dato, a mio parere, attesterebbe, non solo una relativa
diffusione di materiale prodotto dalla gens
Papia,
ma anche la probabile esistenza di una rotta commerciale adriatica
tra le coste apule e quelle dalmate.
Infatti,
l’analisi delle argille, contenute nell’impasto dei reperti
ceramici milanesi, avrebbe confermato la loro produzione in officine
apule, le quali, pertanto, avrebbero avuto relazioni economiche con
le vicine officine dalmate.
Il
bollo in questione non era, però, legato ad un’esclusiva tipologia
di anfora, perché è stato riscontrato anche su due anfore della
tipologia “Dressel 1” e perfino in Francia. Questo elemento fa
intuire che il tipo di contenitore, il suo prodotto e, pertanto, gli
affari commerciali della gens
Papia
erano diretti anche verso le coste del Mediterraneo settentrionale.
A
tal proposito, in piazza Marconi a Cremona sono state rinvenute anche
anfore “Dressel 1”
(fig. 8).
La
loro quantità è piuttosto ridotta rispetto alle “Lamboglia 2” e
non hanno bolli che consentano di confermarne una sicura provenienza
campana, ma, dal momento che esse hanno rappresentato il
“contenitore” per eccellenza dei vini tirrenici, non è da
escludere che queste anfore cremonesi della tipologia “Dressel”
avessero trasportato anche vino Falerno.
Infine,
a Cremona sono attestate anche le anfore “Dressel 2/4”e le
“greco-italiche”.
Lo studio, condotto sulle argille e sull’impasto, confermerebbe
ancora una volta una provenienza tirrenico-campana di alcuni di
questi contenitori.
Lo
scavo di piazza Marconi ha sicuramente confermato la presenza del
vino Falerno
nei territori della Cisalpina
romana.
Fino
a pochi anni fa, gli archeologi, che hanno studiato i territori della
Pianura Padana e in particolare il versante adriatico, sono sempre
stati convinti che gli Appennini avessero costituito, fin
dall’antichità, una barriera naturale per l’afflusso delle merci
provenienti dal Tirreno. Questa convinzione era stata sempre
confermata dai rinvenimenti di prodotti provenienti quasi
esclusivamente dal Mediterraneo orientale e dagli altri empori
dell’Italia adriatica. Quindi, sono stati sempre esclusi oppure
minimizzati i rapporti commerciali con gli scali ubicati sul versante
del Mediterraneo meridionale e in particolare di quello occidentale.
Invece,
le ultime scoperte archeologiche, avvenute in alcuni importanti
centri romani dell’Italia settentrionale, stanno confermando il
contrario, mettendo in risalto l’esistenza di scambi commerciali
con l’area tirrenica e l’accesso dei relativi prodotti nella
Pianura Padana attraverso le acque del Po e dei suoi maggiori
affluenti.
L’ostacolo
naturale e geografico non era più così insormontabile di fronte
alle abitudini sociali e alimentari dei nobili romani che vivevano
nel nord Italia. Infatti, essi, fin dal II sec. a.C., iniziarono a
commissionare prodotti costosi e di qualità, come il vino Falerno,
adeguandosi, così, alla moda emergente tra le altre classi nobiliari
del resto d’Italia. La richiesta era alta e continua.
La gens
Papia: fonti e
ipotesi ricostruttive relative alla sua origine e provenienza
La
gens
Papia, attestata
sui bolli delle anfore, rinvenute nel nord Italia, presenterebbe un
forte collegamento con alcuni dei principali porti che sorgevano
lungo la costa tirrenica, in particolare
Anxur
(Terracina), Minturnae
(Minturno) e Sinuessa
(Mondragone).
Gli
elementi che accomunano i tre siti, relativamente alle attività
commerciali legate al vino, sono la vicinanza al mare, la posizione
strategica tra il Tirreno centrosettentrionale e il restante versante
meridionale, l’attraversamento della via consolare Appia
(in particolare ad Anxur
e
Minturnae),
la salubrità del clima, la fertilità del suolo, la diffusione di
ville rustiche a carettere “produttivo”, di fornaci e magazzini
per la produzione e il deposito del materiale anforario.
Questi
fattori indubbiamente favorirono gli scambi commerciali, lo sviluppo
economico delle terre circostanti, il sorgere di empori e
l’arricchimento di famiglie imprenditoriali autoctone oppure
trasferitesi in quelle zone, allo scopo di controllare direttamente
gli affari delle loro officine e delle loro terre acquisite e trarre
maggiori vantaggi.
Relativamente
al sito di Anxur,
nome col quale i Volsci chiamarono quella che poi sarà l’attuale
città di Terracina, sono attestate diverse fornaci e in particolare
una, la quale produceva anfore e le siglava con il bollo di Publius
Veveius Papus,
probabile proprietario dell’officina e membro quindi della gens
Papia.
Non si sa con certezza se costui fosse autoctono oppure solo
operativo nella zona, ma sicuramente i suoi prodotti erano esportati
in tutto il Mediterraneo, anche verso la Gallia, perché molte anfore
con il suo bollo, soprattutto quelle appartenenti alla tipologia
“Dressel 1”, sono state rinvenute sul relitto della Mandrague
de Giens, nave
affondata lungo le coste della penisola francese di Giens.
La
stessa fornace di Terracina era addetta anche alla produzione delle
cosiddette anfore “Dressel 2/4”: di una di queste, in
particolare, è stata scoperta un’ansa, siglata con il bollo di P.
V. Papus
e questo collegherebbe ancora una volta la proprietà di questa
produzione ceramica alla gens
Papia.
Pertanto,
in base ai resti dei materiali ceramici, si può dedurre che
l’attività dell’officina di Papus
sia stata operativa almeno fino al I sec.d.C.
A
tal proposito, lo studio, condotto da Panella sulle epigrafi
anforarie e menzionanti P.
Veveius Papus,
ha confermato che l’officina fosse di sua proprietà e che fosse
ubicata in località Canneto, al confine col comune di Fondi.
La
città di Terracina aveva il suo vino locale, il Caecubum,
per cui non è sicuro che le anfore di Publius
Veveius Papus
trasportassero il campano, seppur vicino e più richiesto vino
Falerno.
Ma,
indubbiamente, la presenza di un’officina della gens
Papia
nel territorio di Terracina, conferma che essa si occupava della
produzione di anfore vinarie, con relativi bolli impressi, lungo la
costa tirrenica.
Sul
versante più meridionale del mar Tirreno, sorgeva un altro scalo
portuale, strategico per le rotte commerciali nel Mediterraneo. Si
trattava della colonia di Minturnae
( attuale città di Minturno), fondata come praesidium,
cioè punto nevralgico che servì a controllare un territorio
determinante tra Roma e Capua
e le vicine città degli Aurunci, che si erano ribellate
all’espansione romana.
Minturnae,
da sempre, ha avuto una forte vocazione emporica, anche grazie al
fatto di essere attraversata dalla via Appia
(che
assicurava i contatti con la capitale e con la parte meridionale
dell’Impero) e grazie alla sua vicinanza alla foce del fiume
Liri-Garigliano (via di comunicazione che garantiva gli scambi con
molte località dell’entroterra).
Proprio
lungo l’argine destro del Garigliano, gli archeologi hanno scoperto
un atelier,
dove si producevano anfore della tipologia “Dressel 1” e “Dressel
2/4” con il bollo Pap
impresso, che servivano a trasportare i vini locali, non molto
rinomati, ma anche il vicino Falerno. Il dato interessante è che
questi contenitori sono stati rinvenuti anche all’interno della
stiva di molti relitti, recuperati lungo le coste della Gallia e
dell’Oriente, attestando la forte vocazione commerciale di
Minturno
e la presenza di ville rustiche nel suo territorio, dedite ad
un’intensa viticoltura.
Una
delle tante ville rustiche è stata individuata in località Vignali:
la maggior parte dei reperti anforari, che costituiscono il suo
principale materiale archeologico, è rappresentata dai contenitori
di tipo “Dressel”, che, ancora una volta, legano il contesto alla
lavorazione e al commercio della vite, senza escludere il toponimo
“Vignali” (da vigna/vigneto), il quale sarebbe stato riscontrato
proprio in molte località ubicate tra il Lazio meridionale e la
Campania settentrionale.
Inoltre,
nel territorio di Minturnae
esisteva
una famiglia molto potente, la Gens
Caedicia, che
si occupava di attività politiche e commerciali della zona, in
particolare dell’allevamento di ovini, della produzione di formaggi
e del trasporto di anfore, sia verso il centro Italia che verso il
nord Africa, come dimostra il rinvenimento di numerosi bolli
anforari.
Questa
gens
sarebbe
stata originaria della vicina colonia di Sinuessa,
il
centro principale nel quale veniva coltivato il vino Falerno,
dal quale partivano le navi onerarie e il quale produceva le anfore
contenenti vino Falerno.
Anche
Sinuessa,
attuale città di Mondragone, fondata nel 297 a.C., era ricca di
fornaci e molte di queste producevano anfore, in particolare della
tipologia “Dressel”, recanti
bolli che menzionavano i Caedicii.
Si
trattava degli esponenti di quella stessa gens
che gestiva affari potenti a Minturnae
e che, data la mole delle ricchezze e del potere accumulati, avrebbe
attribuito addirittura il proprio nome ad un vicus
intero, proprio nei pressi della colonia di Sinuessa.
Ciò
è stato confermato dalla scoperta di un’epigrafe, risalente al I
sec. a.C. e usata tra i materiali di reimpiego nel campanile della
cattedrale di Carinola.
L’epigrafe apparteneva al monumento funerario di un certo L.
Papius,
appartenente alla tribù Falerna
e fu apposta dal figlio, che era stato duoviro di Sinuessa.
Nell’epigrafe
vengono menzionati i coloni di Sinuessa,
i Caediciani
e i Papii
ai quali venivano offerte, ogni anno, delizie di ogni genere e uno
spettacolo gladiatorio, per commemorare L.
Papius.
Il
particolare,
che interessa in questa sede, è che il contenuto attesta la presenza
della Gens
Papia
nella zona dell’Ager
Falernus,la
sua ricchezza e influenza,
il
suo legame con il vicus
dei Caedicii
e
il movimento di affari, da parte di questi, tra Minturnae
e Sinuessa.
A
tal proposito Zannini evidenzia un dibattito inerente l’esistenza o
meno di un pagus
di nome Papia:
alcuni studiosi, come il professor Guadagno, hanno confutato la sua
presenza, altri, invece, l’hanno fortemente sostenuta, in base al
fatto che i Papii
siano stati menzionati nella suddetta iscrizione.
Un’altra
prova, che confermerebbe l’esistenza dei Papii
nel territorio di Sinuessa
e
in
particolare nei pressi del cimitero di Mondragone, sarebbe
rappresentata dal frammento di un’iscrizione, inserita all’interno
della pavimentazione musiva della soglia d’accesso di un edificio e
che menzionerebbe un certo L(ucius)
Paapi(us) Poo(llio).
Secondo Crimaco, trattandosi di un edificio pubblico ed essendo
stato, costui, un personaggio così potente, avrebbe addirittura dato
il nome ad un vicus
intero
(vicus
Papius),
appartenente al pagus
Sarclanus, proprio
come
nel caso della Gens
Caedicia.
Al contrario, altri studiosi ritengono che non si tratti altro che di
una villa privata, sulla cui soglia d’ingresso si sarebbe
semplicemente conservato il nome del proprietario.
Al
di là della veridicità o meno di tali teorie, è necessario
sottolineare che, all’interno dell’edificio, oltre all’iscrizione
sopra menzionata e ai numerosi frammenti ceramici riconducibili ad
anfore, è stata individuata anche una sala, contenente un torchio
destinato alla pigiatura delle uve. Pertanto, ci troveremmo di fronte
ad una di quelle cosiddette “aziende”, che erano tipiche
dell’ager
Falernus
e che si specializzerà, anche nei secoli successivi, nella
produzione di vino locale.
Il
vivo interesse da parte della gens
Papia
nei confronti del vino e della sua commercializzazione, è stato
ulteriormente confermato dalla recente scoperta di due iscrizioni
avvenuta a Roma: una menziona un certo L.Papius
L.f.
Pheselus,
come mercator
vinarius,
l’altra insiste come bollo su un’anfora vinaria e appartiene ad
un certo L.PAPI.SABI..
Conclusioni
Tra
il IV e il V sec. d.C. la produzione in Campania e la relativa
commercializzazione di vino Falerno
non sembrò interrompersi, infatti, secondo Crimaco e Sogliani, esso
continuò ad essere menzionato nei provvedimenti legisltivi
imperiali, ad esempio in merito al prezzario delle bevande consumate.
Pertanto,
la Campania, in particolare l’Ager
Falernus,
rappresentò ancora uno dei principali bacini di rifornimento di
risorse alimentari per l’impero.
I
dati archeologici e, soprattutto le fonti letterarie, confermano un
dinamismo commerciale e urbano, almeno nella parte settentrionale
della Campania, anche durante il VI secolo.
A
tal proposito, Procopio di Cesarea, nel descrivere l’arrivo dei
Bizantini lungo la fascia costiera campana, all’interno della sua
opera dedicata alla guerra greco-gotica, menziona le loro navi
cariche di viveri locali, in particolare di grano e di vino.
E’
singolare pensare che una semplice bevanda, come il vino, abbia
contribuito ad arricchire il sistema economico dell’antica Roma e
ad affiancare, al tradizionale impianto architettonico della domus romana lungo le
coste oppure all’interno di grandi appezzamenti di
terra, il sistema delle cosiddette ville “schiavistiche”.
Infatti, il lavoro agricolo con le relative cure per le coltivazioni
vinicole era affidato agli schiavi, la cui richietsa sul mercato
crebbe notevolmente tra la fine dell’età repubblicana e l’inizio
dell’età imperiale. I proprietari delle ville romane divennero
veri e propri imprenditori, grazie ai loro piccoli e medi
possedimenti, anticipando, in qualche modo, la figura del feudatario
che dominerà, per una buona parte, durante il Medioevo e non solo.
Infatti,
dopo le cosiddette invasioni barbariche, che portarono alla fine
dell’impero romano e al crollo di tutto il sistema agricolo
europeo, la ripresa dell’agricoltura sarà favorita, sia dal lavoro
minuzioso dei monaci all’interno delle loro abbazie, che dei nobili
con il loro sistema gerarchico, basato sulle figure dei vassalli,
valvassori e valvassini.
Tale
legame, fondato su vincoli di fedeltà e giuramento verso il padrone
da un lato e su protezione e alloggio a favore del subordinato
dall’altro, richiamava quel rapporto di tipo clientelare che aveva
caratterizzato una buona parte delle dinamche sociali dell’impero
romano.
Pertanto,
la lavorazione del vino, da parte degli antichi romani, contribuì a
modificare profondamente il paesaggio, congiungendo impatto naturale
e impatto antropico all’interno di dinamiche storiche, economiche,
politiche e sociali che avrebbero condizionato la popolazione anche
nei secoli successivi.
La
storia dell'alimentazione nel mondo romano può rappresentare
un’interessante chiave di lettura di quel processo di
romanizzazione che ha reso Roma una città cosmopolita, basata su una
significativa varietà di usi, costumi e tradizioni. In particolare,
durante l’età imperiale, grazie alla sottomissione di province
ostili e lontane, l'Urbe cercò di uniformare le differenze sociali
e, soprattutto alimentari, all’interno di etnie diverse. I
rifornimenti alimentari, che provenivano dalle terre italiche più
fertili, tra cui quelle che si affacciavano sul versante tirrenico,
erano richiesti in ogni parte dell’impero e, soprattutto il vino
Falerno,
hanno
reso onore a quei territori, rendendoli immortali nell’ambito della
storia economica e politica dell’antica Roma.
NOTE