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Archeologia del vino Falerno nella Cisalpina romana: il caso della “Gens Papia

Chiara Della Valle
ISSN 1127-4883 BTA – Bollettino Telematico dell’Arte, 11 Novembre 2019, n. 878
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Area Archeologia
Introduzione

Il Falerno è stato sicuramente uno dei vini più consumati e apprezzati nell’antichità, sia nell’antica Roma, che in tutte le province dell’Impero.

Nel corso dei secoli, esso ha rappresentato per gli studiosi, non solo un elemento distintivo dell’antica tradizione enogastronomica campana, ma anche una testimonianza storica dei flussi commerciali, delle norme politiche, dei costumi e delle abitudini culturali della società romana.

Il Falerno è stato sicuramente uno dei prodotti più esportati oltre i confini dell’Italia e, per questo motivo, può essere ritenuto a tutti gli effetti uno dei primi esempi di globalizzazione nel mondo antico: dalle terre dell’antico ager Falernus, (corrispondente agli odierni comuni di Falciano del Massico, Carinola e Casanova)1 ubicato a nord-ovest della cosiddetta Campania Felix, il vino veniva imbarcato quasi sicuramente dai porti di Sinuessa e Minturnae, sulle navi onerarie che salpavano verso la Gallia, ma anche verso il nord Africa e l’Oriente (fig. 1). Ciò è confermato dalle scoperte archeologiche di numerosi relitti rinvenuti nei fondali di tutto il Mediterraneo sia occidentale che orientale e che hanno restituito molti contenitori destinati al trasporto di vino Falerno. Questi scambi commerciali contribuivano ad assicurare accordi pacifici e duraturi tra la capitale e le sue province.

Anche le norme legislative romane si sono occupate della circolazione vinaria, rispecchiando un traffico diffuso e un consumo eccessivo di vino, a tal punto che nel I sec. a.C. l’imperatore Domiziano fu costretto ad emanare un editto che vietava l’impianto di nuovi vigneti in Italia e che sanciva la loro riduzione nelle province.

Inoltre, il Falerno rispecchia un modus vivendi che ha coinvolto parecchie classi sociali romane, a partire da quella imperiale e aristocratica, per arrivare a quella dei condottieri militari.

Questo vino era consumato da tutti gli strati sociali, durante i pasti della giornata, fuori e dentro casa, durante i banchetti, le feste religiose e i riti funebri.

Era così rinomato e richiesto, che le anfore da trasporto venivano chiuse ermeticamente con tappo e sigillate con il pitaccium, una targa nella quale venivano indicate il luogo di origine del vino e la sua annata. Per questo motivo, il contenuto e il suo contenitore diventano, per gli archeologi, un ottimo indicatore cronologico, da cui ricavare informazioni utili per contestualizzare dati storici e geografici.

Ultimamente, gli enologi lo hanno considerato il primo DOC nella storia dell’enologia: il suo valore è stato riconosciuto anche dallo Stato, con un Decreto del Presidente della Repubblica nel 1989 e ribadito con un Decreto Ministeriale nel 2011.

Non è affatto un vino antico e scomparso del tutto, perché con i nuovi reimpianti delle viti, incentivati in particolare durante il periodo della dominazione borbonica nel Regno delle Due Sicilie, sono state ricavate tre tipologie: uno bianco con Falanghina, uno rosso a base di Primitivo e un altro rosso a base di Aglianico e Piedirosso; proprio quest’ultimo, secondo alcuni enologi, si avvicinerebbe di più all’originale produzione del Falerno, perché deriverebbe dallo stesso tipo di vitigno2.



La Cisalpina romana

La Cisalpina romana comprendeva quella parte dell'Italia settentrionale, racchiusa tra il fiume Adige a est, le Alpi a nord e il Rubicone a sud. Corrispondeva all’attuale Pianura Padana, comprese le regioni della Liguria e del Veneto. Era nota anche come Gallia Cisalpina, perché abitata dai Galli, uno dei gruppi etnici appartenenti alla popolazione celtica (fig. 2).

Questa zona fu oggetto di mire espansionistiche da parte del Senato romano, per cui, già a partire dal II sec. a.C., furono create svariate colonie, fondate città e concessa la cittadinanza romana a molti siti gallici, es. Aquileia, Mediolanum, Bergomum, Brixia, Mutina, Placentia e Cremona.

La conquista romana modificò positivamente quei territori, attraverso la centuriazione, la creazione di cardini e decumani, le confische agrarie, le redistribuzioni di terre, i censimenti e soprattutto, in epoca augustea, attraverso la realizzazione di numerose strade, con cui favorire lo spostamento delle truppe e dei commercianti. Le vie Flaminia, Aemilia, Postumia, Fulvia, Popilia si sono ben conservate, in buona parte, fino ad oggi, grazie alla loro funzionalità, dovuta al percorso rettilineo, alla lieve pendenza, alla misura idonea della carreggiata e rappresentano ciò che rimane di quel processo di “romanizzazione” che portò una nuova cultura che si integrò perfettamente con quella preesistente.

Il sito che interessa particolarmente in questa sede è la città di Cremona.

Popolata anticamente dai Galli, essa divenne un castrum romano nel 218 a.C., insieme a Placentia (Piacenza), per motivi militari: dovette servire da baluardo contro l’avanzata dell’esercito cartaginese di Annibale e dei suoi alleati, i Galli. La città ha sempre avuto una posizione geografica strategica, sia perché attraversata dalla strada consolare romana Postumia, realizzata nel II sec. a.C. e che servì a collegare Aquileia e Genova, sia perché vicina al fiume Po, il quale le garantì una forte vocazione mercantile fin dall’antichità (fig. 3). Tale vocazione fu sfruttata in particolare dai Romani. Infatti, il suo porto divenne uno dei capisaldi del commercio di epoca repubblicana nel nord Italia fino al Medioevo. Sicuramente sia la via Postumia che il fiume Po, il quale è stato navigabile per lunghi tratti in epoca antica, hanno rappresentato le probabili strade di accesso per le merci provenienti dall’Italia meridionale, tra cui le anfore contenenti il vino Falerno (fig.4).

Negli ultimi anni, sono stati molti gli studiosi che si sono interessati alla storia inerente a questo corso d’acqua, allo scopo di comprendere meglio lo sviluppo delle dinamiche commerciali tra la zona settentrionale e meridionale dell’Italia antica.

Nell’articolo scientifico di Riccardo Querciagrossa, dedicato all’Evoluzione della regione del Delta del Po dalla preistoria ai giorni nostri, si mettono in risalto le fasi geomorfologiche del paesaggio, che hanno indissolubilmente accompagnato e condizionato la storia degli insediamenti umani.

La civiltà “Villanoviana” fu promotrice di un forte impatto ambientale nella Pianura Padana, perché, la sua vocazione commerciale la indusse a dare un impulso incisivo all’utilizzo delle vie fluviali, come percorso idoneo alla comunicazione interna tra i vari insediamenti3.

La maggior parte degli archeologi, ormai, condivide l’ipotesi che i Villanoviani siano stati gli antenati degli Etruschi, i quali, quindi, furono i primi a intuire il ruolo strategico che il fiume Po potesse avere sia per fini commerciali, che espansionistici. Per questi motivi, essi intrapresero quei lavori idraulici, che furono poi completati e perfezionati dai Romani. Questi si accorsero che quelle terre si trovavano al centro di una rete commerciale non indifferente e che potevano ricavare ulteriori risorse per la pesca, la caccia e la produzione di sale e laterizi4. Vennero costruiti argini, scavati canali di drenaggio per bonificare e irrigare le zone paludose e scavate numerose fosse per favorire la navigazione interna.

Sono numerose le fonti antiche che confermano la navigabilità del Po, tra cui Plinio il Vecchio, Virgilio, Strabone e tanti altri5.


Cremona e lo scavo in piazza Marconi

Cremona fu una delle città che trasse enormi vantaggi dalla presenza del Po. Verso la fine dell’epoca repubblicana, essa conobbe uno sviluppo economico, che le consentì di avviare un incremento edilizio, consistente nella costruzione di numerose domus signorili, come quella rinvenuta in piazza Marconi (fig. 5).

Siamo nel centro della città, dove, a partire dal 1983, la Soprintendenza condusse saggi di carattere scientifico, finché la continua fuoriuscita di materiale archeologico non fece altro che favorire l’apertura di una vera e propria campagna di scavo, iniziata nel 2005 e conclusa nel 2008.

Gli archeologi riportarono alla luce i resti di un’enorme abitazione privata, le cui prime fasi di costruzione risalivano al II secolo a.C. La domus apparteneva ad una famiglia di notevole prestigio sociale. Infatti, le pitture parietali, i mosaici pavimentali con motivi ispirati ai miti greco-orientali, il ninfeo con giochi d’acqua, vasche e fontane e il giardino con statue in marmo, raffiguranti divinità erano l’emblema dei gusti e delle tendenze emergenti tra i patrizi romani di quel periodo.

Si trattava della tradizionale casa nobiliare romana dalla complessità architettonica e dal forte impatto scenografico, per la presenza di terrazzamenti, colonnati, ma soprattutto per la sua ubicazione, adagiata sulla riva del fiume6.

Inoltre, i materiali d’arredo degli interni e le tracce di alimenti e bevande erano indicatori di una classe dominante che commissionava prodotti provenienti non solo dall’area adriatica, ma anche dal sud Italia, tra cui l’area vesuviana e tirrenica, dal Nord Africa e dall’Oriente.

La ceramica emersa è molto variegata e attesta, non solo la presenza di maestranze locali, ma anche intensi scambi commerciali con i grandi centri dell’Etruria settentrionale, come Volterra e Arezzo, con l’Asia Minore, la Gallia Narbonese e tutti gli altri bacini produttivi del Mediterraneo7.

Sono tante le classi di materiali presenti: ceramica a “vernice nera”, ceramica “megarese”, ceramica grigia, ma soprattutto materiale anforario.

La tipologia di anfore, che per la maggior parte è stata trovata in condizioni integre, è quella delle cosiddette “Lamboglia 2” (fig. 6). Esse presentano vari tipi di orlo (a fascia obliqua bassa e alta, a fascia verticale bassa e alta, a fascia rettilinea alta e svasata); i corpi ceramici sono in genere depurati; il colore può variare dal giallo al rosa chiaro8.

La cosa più interessante, da un punto di vista scientifico, è sicuramente la presenza dei bolli sugli orli, sulle anse oppure sulle spalle dei contenitori anforari, perché essi hanno fornito chiare indicazioni sulla provenienza, sul tipo di prodotto, sui proprietari imprenditori e relativi committenti e sul contesto cronologico.

Il bollo, che interessa in questa sede, in quanto richiamerebbe un ambito produttivo tirrenico, è quello sul quale sono impresse tre lettere, retrograde, rilevate e appiattite (PAP) e che ricoprono l’orlo di un’anfora “Lamboglia 2” (fig. 7).

L’archeologa Brunella Bruno avrebbe collegato le tre lettere alla gens Papia, nota famiglia di imprenditori che ebbe una certa egemonia sulla gestione di attività commerciali di prodotti provenienti dall’ager Falernus e che avrebbe avuto atelier di produzione anche in Dalmazia. Tra i prodotti dell’ager Falernus, non poteva certo mancare il vino. Pertanto, questa “Lamboglia 2” trasportava sicuramente vino Falerno.

Questo tipo di bollo è stato riscontrato anche su vasellame rinevnuto in via Falcone a Milano9: questo dato, a mio parere, attesterebbe, non solo una relativa diffusione di materiale prodotto dalla gens Papia, ma anche la probabile esistenza di una rotta commerciale adriatica tra le coste apule e quelle dalmate.

Infatti, l’analisi delle argille, contenute nell’impasto dei reperti ceramici milanesi, avrebbe confermato la loro produzione in officine apule, le quali, pertanto, avrebbero avuto relazioni economiche con le vicine officine dalmate.

Il bollo in questione non era, però, legato ad un’esclusiva tipologia di anfora, perché è stato riscontrato anche su due anfore della tipologia “Dressel 1” e perfino in Francia. Questo elemento fa intuire che il tipo di contenitore, il suo prodotto e, pertanto, gli affari commerciali della gens Papia erano diretti anche verso le coste del Mediterraneo settentrionale.

A tal proposito, in piazza Marconi a Cremona sono state rinvenute anche anfore “Dressel 1”10 (fig. 8).

La loro quantità è piuttosto ridotta rispetto alle “Lamboglia 2” e non hanno bolli che consentano di confermarne una sicura provenienza campana, ma, dal momento che esse hanno rappresentato il “contenitore” per eccellenza dei vini tirrenici, non è da escludere che queste anfore cremonesi della tipologia “Dressel” avessero trasportato anche vino Falerno.

Infine, a Cremona sono attestate anche le anfore “Dressel 2/4”e le “greco-italiche”11. Lo studio, condotto sulle argille e sull’impasto, confermerebbe ancora una volta una provenienza tirrenico-campana di alcuni di questi contenitori.

Lo scavo di piazza Marconi ha sicuramente confermato la presenza del vino Falerno nei territori della Cisalpina romana.

Fino a pochi anni fa, gli archeologi, che hanno studiato i territori della Pianura Padana e in particolare il versante adriatico, sono sempre stati convinti che gli Appennini avessero costituito, fin dall’antichità, una barriera naturale per l’afflusso delle merci provenienti dal Tirreno. Questa convinzione era stata sempre confermata dai rinvenimenti di prodotti provenienti quasi esclusivamente dal Mediterraneo orientale e dagli altri empori dell’Italia adriatica. Quindi, sono stati sempre esclusi oppure minimizzati i rapporti commerciali con gli scali ubicati sul versante del Mediterraneo meridionale e in particolare di quello occidentale.

Invece, le ultime scoperte archeologiche, avvenute in alcuni importanti centri romani dell’Italia settentrionale, stanno confermando il contrario, mettendo in risalto l’esistenza di scambi commerciali con l’area tirrenica e l’accesso dei relativi prodotti nella Pianura Padana attraverso le acque del Po e dei suoi maggiori affluenti.

L’ostacolo naturale e geografico non era più così insormontabile di fronte alle abitudini sociali e alimentari dei nobili romani che vivevano nel nord Italia. Infatti, essi, fin dal II sec. a.C., iniziarono a commissionare prodotti costosi e di qualità, come il vino Falerno, adeguandosi, così, alla moda emergente tra le altre classi nobiliari del resto d’Italia. La richiesta era alta e continua.



La gens Papia: fonti e ipotesi ricostruttive relative alla sua origine e provenienza

La gens Papia, attestata sui bolli delle anfore, rinvenute nel nord Italia, presenterebbe un forte collegamento con alcuni dei principali porti che sorgevano lungo la costa tirrenica, in particolare Anxur (Terracina), Minturnae (Minturno) e Sinuessa (Mondragone).

Gli elementi che accomunano i tre siti, relativamente alle attività commerciali legate al vino, sono la vicinanza al mare, la posizione strategica tra il Tirreno centrosettentrionale e il restante versante meridionale, l’attraversamento della via consolare Appia (in particolare ad Anxur e Minturnae), la salubrità del clima, la fertilità del suolo, la diffusione di ville rustiche a carettere “produttivo”, di fornaci e magazzini per la produzione e il deposito del materiale anforario.

Questi fattori indubbiamente favorirono gli scambi commerciali, lo sviluppo economico delle terre circostanti, il sorgere di empori e l’arricchimento di famiglie imprenditoriali autoctone oppure trasferitesi in quelle zone, allo scopo di controllare direttamente gli affari delle loro officine e delle loro terre acquisite e trarre maggiori vantaggi.

Relativamente al sito di Anxur, nome col quale i Volsci chiamarono quella che poi sarà l’attuale città di Terracina, sono attestate diverse fornaci e in particolare una, la quale produceva anfore e le siglava con il bollo di Publius Veveius Papus, probabile proprietario dell’officina e membro quindi della gens Papia. Non si sa con certezza se costui fosse autoctono oppure solo operativo nella zona, ma sicuramente i suoi prodotti erano esportati in tutto il Mediterraneo, anche verso la Gallia, perché molte anfore con il suo bollo, soprattutto quelle appartenenti alla tipologia “Dressel 1”, sono state rinvenute sul relitto della Mandrague de Giens, nave affondata lungo le coste della penisola francese di Giens12.

La stessa fornace di Terracina era addetta anche alla produzione delle cosiddette anfore “Dressel 2/4”: di una di queste, in particolare, è stata scoperta un’ansa, siglata con il bollo di P. V. Papus e questo collegherebbe ancora una volta la proprietà di questa produzione ceramica alla gens Papia13.

Pertanto, in base ai resti dei materiali ceramici, si può dedurre che l’attività dell’officina di Papus sia stata operativa almeno fino al I sec.d.C.

A tal proposito, lo studio, condotto da Panella sulle epigrafi anforarie e menzionanti P. Veveius Papus, ha confermato che l’officina fosse di sua proprietà e che fosse ubicata in località Canneto, al confine col comune di Fondi14.

La città di Terracina aveva il suo vino locale, il Caecubum, per cui non è sicuro che le anfore di Publius Veveius Papus trasportassero il campano, seppur vicino e più richiesto vino Falerno.

Ma, indubbiamente, la presenza di un’officina della gens Papia nel territorio di Terracina, conferma che essa si occupava della produzione di anfore vinarie, con relativi bolli impressi, lungo la costa tirrenica.

Sul versante più meridionale del mar Tirreno, sorgeva un altro scalo portuale, strategico per le rotte commerciali nel Mediterraneo. Si trattava della colonia di Minturnae ( attuale città di Minturno), fondata come praesidium, cioè punto nevralgico che servì a controllare un territorio determinante tra Roma e Capua e le vicine città degli Aurunci, che si erano ribellate all’espansione romana15.

Minturnae, da sempre, ha avuto una forte vocazione emporica, anche grazie al fatto di essere attraversata dalla via Appia (che assicurava i contatti con la capitale e con la parte meridionale dell’Impero) e grazie alla sua vicinanza alla foce del fiume Liri-Garigliano (via di comunicazione che garantiva gli scambi con molte località dell’entroterra)16.

Proprio lungo l’argine destro del Garigliano, gli archeologi hanno scoperto un atelier, dove si producevano anfore della tipologia “Dressel 1” e “Dressel 2/4” con il bollo Pap impresso, che servivano a trasportare i vini locali, non molto rinomati, ma anche il vicino Falerno. Il dato interessante è che questi contenitori sono stati rinvenuti anche all’interno della stiva di molti relitti, recuperati lungo le coste della Gallia e dell’Oriente, attestando la forte vocazione commerciale di Minturno17 e la presenza di ville rustiche nel suo territorio, dedite ad un’intensa viticoltura18.



Una delle tante ville rustiche è stata individuata in località Vignali: la maggior parte dei reperti anforari, che costituiscono il suo principale materiale archeologico, è rappresentata dai contenitori di tipo “Dressel”, che, ancora una volta, legano il contesto alla lavorazione e al commercio della vite, senza escludere il toponimo “Vignali” (da vigna/vigneto), il quale sarebbe stato riscontrato proprio in molte località ubicate tra il Lazio meridionale e la Campania settentrionale19.

Inoltre, nel territorio di Minturnae esisteva una famiglia molto potente, la Gens Caedicia, che si occupava di attività politiche e commerciali della zona, in particolare dell’allevamento di ovini, della produzione di formaggi e del trasporto di anfore, sia verso il centro Italia che verso il nord Africa, come dimostra il rinvenimento di numerosi bolli anforari20.

Questa gens sarebbe stata originaria della vicina colonia di Sinuessa, il centro principale nel quale veniva coltivato il vino Falerno, dal quale partivano le navi onerarie e il quale produceva le anfore contenenti vino Falerno.

Anche Sinuessa, attuale città di Mondragone, fondata nel 297 a.C., era ricca di fornaci e molte di queste producevano anfore, in particolare della tipologia “Dressel”, recanti bolli che menzionavano i Caedicii. Si trattava degli esponenti di quella stessa gens che gestiva affari potenti a Minturnae e che, data la mole delle ricchezze e del potere accumulati, avrebbe attribuito addirittura il proprio nome ad un vicus intero, proprio nei pressi della colonia di Sinuessa.

Ciò è stato confermato dalla scoperta di un’epigrafe, risalente al I sec. a.C. e usata tra i materiali di reimpiego nel campanile della cattedrale di Carinola21. L’epigrafe apparteneva al monumento funerario di un certo L. Papius, appartenente alla tribù Falerna e fu apposta dal figlio, che era stato duoviro di Sinuessa22.

Nell’epigrafe vengono menzionati i coloni di Sinuessa, i Caediciani e i Papii ai quali venivano offerte, ogni anno, delizie di ogni genere e uno spettacolo gladiatorio, per commemorare L. Papius23.

Il particolare, che interessa in questa sede, è che il contenuto attesta la presenza della Gens Papia nella zona dell’Ager Falernus,la sua ricchezza e influenza, il suo legame con il vicus dei Caedicii e il movimento di affari, da parte di questi, tra Minturnae e Sinuessa24.

A tal proposito Zannini evidenzia un dibattito inerente l’esistenza o meno di un pagus di nome Papia: alcuni studiosi, come il professor Guadagno, hanno confutato la sua presenza, altri, invece, l’hanno fortemente sostenuta, in base al fatto che i Papii siano stati menzionati nella suddetta iscrizione25.

Un’altra prova, che confermerebbe l’esistenza dei Papii nel territorio di Sinuessa e in particolare nei pressi del cimitero di Mondragone, sarebbe rappresentata dal frammento di un’iscrizione, inserita all’interno della pavimentazione musiva della soglia d’accesso di un edificio e che menzionerebbe un certo L(ucius) Paapi(us) Poo(llio). Secondo Crimaco, trattandosi di un edificio pubblico ed essendo stato, costui, un personaggio così potente, avrebbe addirittura dato il nome ad un vicus intero (vicus Papius), appartenente al pagus Sarclanus, proprio come nel caso della Gens Caedicia26. Al contrario, altri studiosi ritengono che non si tratti altro che di una villa privata, sulla cui soglia d’ingresso si sarebbe semplicemente conservato il nome del proprietario.

Al di là della veridicità o meno di tali teorie, è necessario sottolineare che, all’interno dell’edificio, oltre all’iscrizione sopra menzionata e ai numerosi frammenti ceramici riconducibili ad anfore, è stata individuata anche una sala, contenente un torchio destinato alla pigiatura delle uve. Pertanto, ci troveremmo di fronte ad una di quelle cosiddette “aziende”, che erano tipiche dell’ager Falernus e che si specializzerà, anche nei secoli successivi, nella produzione di vino locale.

Il vivo interesse da parte della gens Papia nei confronti del vino e della sua commercializzazione, è stato ulteriormente confermato dalla recente scoperta di due iscrizioni avvenuta a Roma: una menziona un certo L.Papius L.f. Pheselus, come mercator vinarius, l’altra insiste come bollo su un’anfora vinaria e appartiene ad un certo L.PAPI.SABI.27.


Conclusioni

Tra il IV e il V sec. d.C. la produzione in Campania e la relativa commercializzazione di vino Falerno non sembrò interrompersi, infatti, secondo Crimaco e Sogliani, esso continuò ad essere menzionato nei provvedimenti legisltivi imperiali, ad esempio in merito al prezzario delle bevande consumate.

Pertanto, la Campania, in particolare l’Ager Falernus, rappresentò ancora uno dei principali bacini di rifornimento di risorse alimentari per l’impero28.

I dati archeologici e, soprattutto le fonti letterarie, confermano un dinamismo commerciale e urbano, almeno nella parte settentrionale della Campania, anche durante il VI secolo.

A tal proposito, Procopio di Cesarea, nel descrivere l’arrivo dei Bizantini lungo la fascia costiera campana, all’interno della sua opera dedicata alla guerra greco-gotica, menziona le loro navi cariche di viveri locali, in particolare di grano e di vino29.

E’ singolare pensare che una semplice bevanda, come il vino, abbia contribuito ad arricchire il sistema economico dell’antica Roma e ad affiancare, al tradizionale impianto architettonico della domus romana lungo le coste oppure all’interno di grandi appezzamenti di terra, il sistema delle cosiddette ville “schiavistiche”. Infatti, il lavoro agricolo con le relative cure per le coltivazioni vinicole era affidato agli schiavi, la cui richietsa sul mercato crebbe notevolmente tra la fine dell’età repubblicana e l’inizio dell’età imperiale. I proprietari delle ville romane divennero veri e propri imprenditori, grazie ai loro piccoli e medi possedimenti, anticipando, in qualche modo, la figura del feudatario che dominerà, per una buona parte, durante il Medioevo e non solo.

Infatti, dopo le cosiddette invasioni barbariche, che portarono alla fine dell’impero romano e al crollo di tutto il sistema agricolo europeo, la ripresa dell’agricoltura sarà favorita, sia dal lavoro minuzioso dei monaci all’interno delle loro abbazie, che dei nobili con il loro sistema gerarchico, basato sulle figure dei vassalli, valvassori e valvassini.

Tale legame, fondato su vincoli di fedeltà e giuramento verso il padrone da un lato e su protezione e alloggio a favore del subordinato dall’altro, richiamava quel rapporto di tipo clientelare che aveva caratterizzato una buona parte delle dinamche sociali dell’impero romano.

Pertanto, la lavorazione del vino, da parte degli antichi romani, contribuì a modificare profondamente il paesaggio, congiungendo impatto naturale e impatto antropico all’interno di dinamiche storiche, economiche, politiche e sociali che avrebbero condizionato la popolazione anche nei secoli successivi.

La storia dell'alimentazione nel mondo romano può rappresentare un’interessante chiave di lettura di quel processo di romanizzazione che ha reso Roma una città cosmopolita, basata su una significativa varietà di usi, costumi e tradizioni. In particolare, durante l’età imperiale, grazie alla sottomissione di province ostili e lontane, l'Urbe cercò di uniformare le differenze sociali e, soprattutto alimentari, all’interno di etnie diverse. I rifornimenti alimentari, che provenivano dalle terre italiche più fertili, tra cui quelle che si affacciavano sul versante tirrenico, erano richiesti in ogni parte dell’impero e, soprattutto il vino Falerno, hanno reso onore a quei territori, rendendoli immortali nell’ambito della storia economica e politica dell’antica Roma.







NOTE

1 Zannini 2009, p. 33: è ancora aperto il dibattito in merito ai precisi confini dell’ager Falernus

La testimonianza più valida sarebbe quella riportata dallo storico Tito Livio, secondo il quale in epoca preromana l’ager avrebbe avuto come delimitazione naturale il fiume Volturno e successivamente sarebbe finito in mano al popolo dei Campani, per poi essere definitivamente assoggettato dai Romani (LIV.,VIII 11, XXII 15).

3 Querciagrossa 2004, pp. 6 - 7.

4 Querciagrossa 2004, p. 10.

5 Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 117121; Virgilio, Bucoliche, 9, 57; Strabone, Geografia, V, 1, 11: verso la fine del II sec. a.C. il console Scauro fece scavare canali navigabili lungo il Po e prosciugare le terre vicine.

6 Cremona romana: dai ritrovamenti ottocenteschi allo scavo di Piazza Marconi in Guida archeologica di San Lorenzo- Museo Archeologico, Cremona 2009.

7 Nicodemo, Ravasi, Volonté 2008, pp. 285, 286, 287.

8 Le “Lamboglia 2” prendono il nome dal loro studioso; sono contenitori che si diffondono tra la fine del II sec. a.C. e la fine del I sec. a.C.; avevano un corpo ovoide, espanso vero il fondo, un orlo a fascia verticale, un collo cilindrico o troncoconico, le anse a bastone ed erano destinate al trasporto di vino.

9 Nicodemo, Ravasi, Volonté 2008, pp. 292 - 294.

10 Le anfore cosiddette “Dressel 1” si diffondono tra la metà del II sec. a.C. e la fine del I sec. a.C.; avevano un corpo ovoide affusolato, un orlo alto, un collo lungo e cilindrico, le anse a bastone schiacciato e verticali; erano destinate al trasporto di vino e prodotte negli atelier dell’Italia centrale tirrenica.

11 Le “Dressel 2/4” si diffondono tra la metà del I sec. a.C. e la fine del I sec. d.C.; avevano un corpo affusolato, un orlo piccolo ad anello, un collo cilindrico, le anse a bastoncelli ed erano destinate al trasporto di vino.

Le “Greco-italiche” sono contenitori molto più antichi rispetto alle “Dressel” e alle “Lamboglia”, si diffondono tra la fine del III sec. a.C. e la metà del II sec. a.C.; avevano un corpo ovoide affusolato, un orlo a sezione triangolare, un collo cilindrico, le anse a bastone schiacciato; erano destinate al trasporto di vino e prodotte negli atelier dell’Italia centrale tirrenica.

12 Da Google: consultare il sito http://www.scubaportal.it/relitto-mandrague-de-giens.html; Zannini 2009, p. 59.

13 Capecchi, De Marinis, Mosca, Patera, Shepherd 2006, p. 139.

14 Panella 1998, pp. 540 - 544.

15 Coarelli 1989, p. 35.

16 Coarelli 1989, p. 16.

17Coarelli 1989, pp. 44 - 45.

18 Tchernia 1986, p. 46.

19 Coarelli 1989, pp. 136 - 139.

20 Coarelli 1989, pp. 70 - 71.

21 Zannini 2009, p. 63.

22 Ruffo 2010, pp. 79 - 80; CIL X 4727: L(ucius) Papius L(uci) f(ilius Ter(etina tribus) Pollio duovir L(ucio) Papio f(ilio) Fal(erna tribu) patri.Mulsum et crustum colonis Senuisanis et Caedicianeis omnibus munus gladiatorium cenam colonis Senuisanis et Papieis.Monumentum (sestertium duodecim milibus) ex testamenarbitratu L(uci) Novercini L(uci) f(ili) Pup(inia tribu) Pollionis.

23 Zannini 2009, p. 64.

24 Coarelli 1989, p. 70; Ruffo 2010, p. 78.

25 Zannini 2009, p. 63.

26 Crimaco 2002, pp. 107- 109; Ruffo 2010, pp. 66, 73.

27 Zannini 2009, p. 64.

28 Crimaco, Sogliani 2001, p. 2.

29 Procopio, Guerra Gotica, VI, 19; Pagano 2009, p. 12.






BIBLIOGRAFIA

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Cremona romana: dai ritrovamenti ottocenteschi allo scavo di Piazza Marconi in Guida archeologica di San Lorenzo- Museo Archeologico, Cremona 2009.

NICODEMO, RAVASI, VOLONTE’ 2008

Marcella Nicodemo, Thea Ravasi, Marina Volontè, Le vie delle anfore. Il commercio di derrate alimentari a Cremona dal II secolo a.C. attraverso la testimonianza dei recipienti anforari dello scavo di Piazza Marconi, Cremona 2008, pp. 285-303.

PAGANO 2009

Mario Pagano, Continuità insediativa delle ville nella Campania fra Tarda Antichità e Alto Medioevo in La Campania fra Tarda Antichità e Ato Medioevo di Ebanista C. e Rotili M., Atti della Giornata di studio, Tavolario Editore, Cimitile (NA) 2009.

PANELLA 1998

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Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 117‐121.

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Riccardo Querciagrossa, L’evoluzione della regione del Delta del Po dalla preistoria ai giorni nostri, 2004 da http://www.fmboschetto.it/didattica/area_docenti/Po_RQ.pdf

RUFFO 2010

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TCHERNIA 1986

Andrè Tchernia, Le vin de l’Italie romaine. Essai d’historie economique d’apres les amphores, Roma 1986.

VIRGILIO

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ZANNINI 2009

Ugo Zannini, I Fora in Italia e gli esempi campani di Forum Popilii e Forum Claudii, Collana Le Orme (Giuseppe Vozza Editore), Casolla 2009.





SITOGRAFIA

http://www.fratellidivino.com/blog-2/falerno-del-massico-mito-e-realta/

http://www.scubaportal.it/relitto-mandrague-de-giens.html


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Fig. 1: Ager Falernus in rosso; le colonie di Minturnae e Sinuessa in giallo da Google immagini

Fig. 2: Gallia Cisalpina in rosso da Google immagini

Fig. 3: Il percorso della via Postumia in rosso e Cremona in blu da Google immagini

Fig. 4: Il percorso del fiume Po in blu e Cremona in rosso da Google immagini

Fig. 5: Carta archeologica della città di Cremona e scavo di Piazza Marconi evidenziato in rosso da Google immagini

Fig. 6: Anfora "Lamboglia 2" da Google immagini

Fig. 7: Thea Ravasi, Bollo PAP in scala 1:1 su anfora "Lamboglia 2" da Piazza Marconi, Cremona da Le vie delle anfore. Il commercio di derrate alimentari a Cremona dal II secolo a.C. attraverso la testimonianza dei recipienti anforari dello scavo di Piazza Marconi, 2008.

Fig. 8: Marcella Nicodemo, Anfora "Dressel 1" dallo scavo di Piazza Marconi- Cremona da Le vie delle anfore. Il commercio di derrate alimentari a Cremona dal II secolo a.C. attraverso la testimonianza dei recipienti anforari dello scavo di Piazza Marconi, Cremona, 2008.



Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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