Premessa
Volevo fare un
ringraziamento speciale alla Dott.ssa Giacinta Battaglini per avermi coinvolto
nello studio del Ninfeo di Genazzano. La stima e l’amicizia verso la Dott.ssa
nonché la passione per la storia e i monumenti dell’epoca mi hanno portato,
senza alcun indugio, ad accettare l’offerta per la ricostruzione del ninfeo.
Prima di iniziare
con il rilievo tecnico-fotografico, ho ritenuto opportuno procedere con uno
studio preliminare di tutta la documentazione esistente del monumento, di non
facile reperimento. Dopo aver studiato in maniera approfondita la storia, aver
reperito altri esempi di ninfei realizzati all’epoca del Bramante ho cercato di
capire, in qualità di architetto, quali potessero essere le reali intenzioni
rappresentative e architettoniche del genio bramantesco. Con diverse copie
della planimetria del ninfeo, mi sono recato in loco in compagnia della
Dott.ssa Battaglini e servendomi della
strumentazione a mia disposizione ( metro laser, fettuccia, metro rigido,
macchina fotografica, qualche chiodo,
spago e una scala a pioli) e ho
iniziato i rilevamenti scattando foto in di tutta l’area, dall’alto, dal basso, foto generali del manufatto e foto
di dettaglio con metro rigido per avere le giuste proporzioni in fase di
restituzione grafica. Sono state necessarie due campagne di rilievi, la prima
per prendere le misure generali e di dettaglio per eseguire la ricostruzione
virtuale, la seconda come verifica se quanto restituito all’interno
dell’ambiente cad rispondesse o meno alla realtà, e quindi effettuare qualche
aggiustamento. Il rilievo è stato
eseguito prendendo le misure perimetrali del manufatto e quindi tutto
l’ingombro esterno e tutti gli ambienti interni sfruttando la tecnologia laser,
successivamente, considerando che non tutti gli ambienti hanno le pareti a
squadro ho eseguito le triangolazioni
utilizzando la posizione del chiodo, per avere un punto fisso, e misurando
tutte le diagonali, dapprima con la fettuccia (metro a nastro) e poi
verificando con il laser. Successivamente sono passato alle misure di dettaglio
per definire le nicchie con tutti i relativi dettagli architettonici, anche in
questa circostanza ho utilizzato il metro laser e il metro rigido. Per
collocare correttamente le nicchie all’interno dei vari ambienti, ho eseguito,
ancora una volta, le triangolazioni come sopra descritto. Successivamente ho
rilevato la posizione del colonnato esterno con il relativo basamento e
stilobate, ridisegnando a mano libera i vari dettagli. Infine mi sono
concentrato sulla quinta interna delle serliane e con l’ausilio della scala
sono riuscito a prendere le misure non solo dell’altezza totale del ninfeo ma
anche di tutta la parte dell’epistilio e delle serliane stesse. Finita la prima
campagna di rilevazioni ho eseguito la restituzione grafica al cad producendo
la planimetria, successivamente ho realizzato prospetti e sezioni, prima di
procedere con la ricostruzione tridimensionale del manufatto ho ritenuto
necessario fare un secondo sopralluogo per verificare le misurazioni. Tornato
in ufficio, fatti gli opportuni aggiustamenti, ho iniziato a realizzare la ricostruzione
virtuale del ninfeo, di come secondo gli studi fatti da me doveva essere
all’epoca del Bramante. In prima istanza ho realizzato il modello
tridimensionale all’interno dell’ambiente cad per avere un controllo preciso e
matematico della ricostruzione, e riuscire ad ottenere piante, prospetti, sezioni,
prospettive e assonometrie di tutto il manufatto e con tutti i relativi
dettagli assolutamente rispondenti alla realtà. Successivamente, affinché il
lavoro potesse essere valutato e apprezzato al meglio ho deciso di realizzare
un secondo modello virtuale costruito all’interno del programma AUTODESK 3D
STUDIO MAX, basandomi sulla precisione dei dati espressi dal modello cad. Il 3D
realizzato con 3DS MAX mi ha consentito
di generare le immagini render attraverso l’applicazione dei materiali, lo
studio delle luci, e il posizionamento di diverse telecamere virtuali
contestualmente con quanto asserito dalla dottoressa Battaglini Giacinta.
Mauro De Persiis
Analisi
dell’edificio
Evoluzione storica
dell’Edificio
Immerso nel
paesaggio di tufo dei monti Prenestini, il complesso del Ninfeo è situato nel
fondovalle, in un luogo appartato, presso le rive del torrente Fossato. Poggia
su un rilievo del terreno ed è collocato, con un leggero dislivello interno,
contro il pendio.
Visto nel quadro
generale dell’architettura rinascimentale, l’edificio di Genazzano appare
singolare e isolato, lontano da ogni linea tradizionale specialmente per due
motivi. Il primo motivo consiste nel tipo di edificio, costituito da piccoli vani
chiusi, raggruppati attorno a una grande struttura aperta, a porticato. L’altro
motivo risiede nella collocazione paesistica: in fondo ad una vallata, assai
umida, senza vista in lontananza, in netto contrasto con le consuetudini
dell’epoca e con le note regole degli autori classici.
Si tratta di un
complesso molto originale e per questo merita di figurare tra gli esempi più
interessanti di architettura rinascimentale.
La facciata si
apre in tutta la sua larghezza verso est, ovvero verso il fondovalle e il
ruscello che attualmente scorre accanto alla costruzione ad una distanza di
40-50 metri. Elemento centrale dell’insieme è la loggia, un ambiente a tre
campate disposto in direzione nord-sud, dal quale si accede a tutti i rimanenti
spazi (Fig. 1). In origine tre arcate aperte con imponenti semicolonne
addossate a pilastri ne costituivano la facciata. Attualmente è visibile
solamente l’arco posto a sud, mentre gli altri sono crollati a causa
dell’incuria, delle calamità naturali susseguite negli anni e dall’instabilità
del terreno. I lati corti della loggia si aprono in esedre con un ordine di
pilastri, dotate ciascuna di due nicchie laterali contenenti sedute
caratterizzate da andamento concavo e di un passaggio centrale (Fig. 2).
|
Fig. 1 - Ricostruzione virtuale del Ninfeo sulla base di nuove ipotesi. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
|
Fig. 2 - Resti di uno dei lati corti della loggia, che si apre in un’esedra con un ordine di pilastri, dotata di due nicchie laterali contenenti sedute caratterizzate da andamento
concavo e di un passaggio centrale. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
Questi passaggi
conducono a spazi adiacenti la loggia, anch’essi compromessi dal punto di vista
statico. Una serliana in travertino a tre arcate di ordine tuscanico assolve ad
una doppia funzione, separa e contemporaneamente unisce la loggia con un
ambiente attiguo, posto sul fronte verso il pendio, rialzato lievemente e con
abside centrale. Sul medesimo lato, si trova un corpo edilizio molto
particolare, il cosiddetto "ottagono". Il suo interno è costituito da un ottagono
con quattro nicchie semicircolari disposte diagonalmente dotato di sedute e
un’imponente vasca d’acqua rotonda incavata nel pavimento. Verso sud, allo
spazio absidato è connesso uno stretto corridoio la cui lunghezza corrisponde a
quella del vano adiacente sud.
Nel 1997 il
complesso del Ninfeo è stato oggetto di un accurato studio condotto dalla
cattedra della Technische Universität di Berlino nella persona di Marina
Döring, in collaborazione con la cattedra di Fotogrammetria e di cartografia.
Tali ricerche hanno permesso di chiarire alcuni punti oscuri e di stabilire che
non si tratta di un complesso omogeneo edificato in una sola fase. Analizzando
accuratamente il monumento è riscontrabile uno sviluppo in tre diversi periodi
ma risulta chiaro che la fase intermedia si distingua nettamente da quella
precedente e dalla successiva. Questa fase principale è stata collegata da
diversi studiosi a Donato Bramante;
a conferma di ciò non sono stati ancora rinvenuti documenti, ma, come si
chiarirà più avanti, vi sono molti indizi di natura stilistica ed ideologica
che rendono tale ipotesi molto verosimile e attualmente quasi certa.
|
Fig. 3 - Prima fase edilizia. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
Osservando la
pianta del Ninfeo si può notare che due corpi edilizi divergono dalla tendenza
alla simmetria assiale presente su due livelli dell’intero complesso: si tratta
dei resti di una muratura del corridoio sud e dell’ottagono. L’opera muraria
restringe l’ambiente del corridoio sud come un vero e proprio ostacolo spaziale
ed essa non è in rapporto con altri corpi architettonici e attualmente assolve
soltanto la funzione di asse per la scala di cemento costruita recentemente per
unire la loggia, il corridoio e lo spazio absidato. La posizione delle
giunzioni e la mancanza di ogni corrispondenza con il resto dell’edificio
dimostrano che si tratta di resti ascrivibili ad un corpo architettonico non
appartenente alla fase costruttiva principale. Nella muratura del passaggio
incurvato tra la loggia e il corridoio sono ancora visibili i resti di un
architrave di travertino rimosso in un secondo momento. Le indagini
archeologiche hanno stabilito che originariamente il livello del corridoio
corrispondeva a quello dello spazio absidato ed è stato adattato a quello della
loggia soltanto in una fase costruttiva più recente. I reperti edilizi mostrano
chiaramente come nell’erigere i vani lungo il fianco della collina sia stato
preso atto delle preesistenze.
La traccia più evidente di ciò si trova nell’ottagono. Infatti se ad una prima
analisi il piano di calpestio sembra pavimentato con grossolane lastre di tufo,
un esame più accurato dimostra invece che questa “pavimentazione” si riduce a
una zona a forma di anello sviluppata in maniera concentrica intorno
all’apertura della vasca. Le superfici triangolari sono state riempite con
materiale lapideo di piccolo taglio posto su un letto di malta disgregata di
colore grigio. Tale materiale si distingue molto facilmente dal conglomerato
cementizio della pavimentazione anulare. Le otto pareti dell’attuale
costruzione sono state erette sopra, e di conseguenza, successivamente rispetto
alla “pavimentazione anulare” e alla sua vasca, ambedue frutto di una fase
costruttiva precedente. Essa non è stata realizzata per l’ottagono odierno ma
per un ambiente circolare la cui parete interna è conservata in negativo nel
bordo esterno concavo della pavimentazione anulare. Tutto ciò dimostra che
nell’ottagono e nel corridoio sud sono stati integrati resti di costruzioni
precedenti all’attuale Ninfeo. La datazione e la funzione di questo primo
complesso sono ancora abbastanza enigmatiche, l’unico reperto materiale che si
distingue nell’intera costruzione e che può essere considerato punto di
riferimento per una collocazione cronologica delle preesistenze è il pavimento
che circonda la vasca dell’ottagono. Esso si conserva in tutta la sua
estensione e non in pochi frammenti come avviene nella loggia e nello spazio
absidato. L’aspetto esteriore, la consistenza e l’assoluta resistenza all’acqua
corrispondono alle caratteristiche dell’opus
cementitium. Questo
cemento, il materiale più usato nell’antica Roma, rimane nascosto all’occhio in
quanto opera muraria posta tra lo strato in laterizio e quello in pietra viva.
La superficie irregolare del pavimento dell’ottagono documenta che attualmente
è rimasto solo il sottopavimento, il pavimento vero e proprio è andato perduto.
Conseguenza di questa osservazione è la proposta di datare l’edificio
preesistente nell’antichità. Considerata la rarità di resti riconducibili a
questa prima fase, l’attribuzione cronologica può avvenire esclusivamente per
via teorica, nonostante esistano alcuni fattori di ordine architettonico in
grado di confermare tale ipotesi. Infatti osservando gli elementi costruttivi
dell’ottagono, si fa palese l’applicazione di un sistema metrico antico.
Inoltre appare indicativo il fatto che nelle fonti che vanno dall’inizio del
XVIII secolo fino ai primi del XX,
il Ninfeo è definito antico perché considerato in relazione agli elementi
preesistenti. Il vero oggetto
interpretativo è sempre solo la vasca per la quale vengono proposte due diverse
letture: come luogo di culto e come complesso
termale.
Attualmente quest’ultima ipotesi risulta poco accreditata, perché non sono emersi
resti di ipocausti e di altri sistemi di riscaldamento indispensabili per un
impianto termale. Inoltre, anche l’autore del Manoscritto Sublacense ha
smentito la presenza di impianti di questo tipo presso Genazzano.
La collocazione temporale della costruzione originaria si basa su una tecnica
costruttiva caratteristica, per quanto riguarda la spiegazione della funzione
originaria, rimane come indizio soltanto la tradizione locale secondo la quale
questo sarebbe un antico luogo di culto.
Seconda fase costruttiva
Gli elementi
tipici del Bramante riscontrabili nell’edificio si trovano esclusivamente nella
parte centrale ovvero nella loggia caratterizzata da esedre e nello spazio
absidato.
Infatti soltanto
in questi punti si trovano gli ordini di lunghezza maggiore, le serliane ornate
di oculi e le decorazioni a conchiglia, tali riferimenti sono del tutto assenti
nei vani adiacenti.
Osservando la
geometria della pianta si può notare che il progetto per la loggia e per lo
spazio absidato è basato su un modulo circolare determinato dalla misura
dell’intercolumnio delle campate della loggia. La pianta risulta suddivisa in
singole cellule geometriche, trattate come spazi a pianta centrale
indipendenti, ma legati da una reciproca relazione. Si può facilmente constatare
come il Ninfeo consenta di distinguere tre fasi costruttive.
|
Fig. 4 - Seconda fase edilizia. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
Ad un edificio
preesistente in questa seconda fase sono stati aggiunti la loggia e lo spazio
absidato, procedendo anche con la restaurazione dell’ottagono. Successivamente
sono stati posti in essere vani adiacenti, la cui realizzazione secondaria è
confermata dalla presenza di giunzioni.
Nella seconda fase
edilizia la struttura ha subito l’aggiunta di corpi ma è stata anche ridotta
in alcune sue parti, risultando evidente che l’attuale passaggio tra il
corridoio sud e lo spazio absidato è stato creato solo successivamente. Si
tratta di un’apertura irregolare che nella larghezza riprende le dimensioni
della nicchia cieca dell’interno. In questo tratto, l’opera muraria confrontata
con le pareti della nicchia lavorate con cura risulta interrotta in modo
grossolano e nella zona alla base sono riscontrabili ancora i resti della
parete originariamente chiusa.
Alla luce di ciò
si può stabilire che la parete posteriore della nicchia in origine fosse
completamente chiusa e lo spazio absidato costituisse una semplice illusione
ottica, uno spazio non percorribile. Anche le due grandi esedre poste all’estremità
della loggia vengono dotate in questa terza fase di aperture che costituiscono
gli ingressi laterali alla loggia. Esattamente come le campate laterali con le
loro nicchie dotate di sedili, anche quella centrale, incorniciata da pilastri,
originariamente era chiusa.
|
Fig. 5 - Terza fase edilizia. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
L’analisi
geometrica e le indagini architettoniche e archeologiche svolte nel 1997
dall’équipe di studiosi tedeschi, forniscono finora, relativamente alla
concezione spaziale e alla struttura, i seguenti risultati: nella seconda fase
edificatoria, il complesso del Ninfeo era costituito solo dalla grande loggia e
dallo spazio absidato posto alle spalle delle serliane e costituiva la ricca parete
retrostante, configurata su due piani mediante la sua articolazione gradonata.
Le esedre formavano le due chiusure laterali dello spazio mentre l’ottagono si
distingueva dal resto dell’edificio sia dal punto di vista formale, sia
decorativo, come piccola costruzione centrale indipendente.
Al visitatore che si avvicinava frontalmente all’edificio si presentava una
facciata disposta in larghezza con tre arcate accompagnate da un ordine di
semicolonne tuscaniche.
Viste dal
fondovalle con i loro archivolti arricchiti da oculi, le serliane dello spazio
absidato apparivano incluse in maniera concentrica all’interno degli archi
della facciata. Questo effetto era accentuato dall’impiego di diversi materiali
da costruzione, i blocchi di pietra angolari dei piloni delle arcate
prospicienti la valle non sono in tufo, come i lati interni ma in travertino
come le serliane. Sulle semicolonne si sono conservati frammenti di uno strato
di intonaco chiaro che evidentemente simulava il travertino. Grazie alle
serliane retrostanti la facciata, dava l’impressione di costituire un prospetto
omogeneo di travertino che, attraverso l’uso delle nicchie sullo sfondo e
all’abside nella campata centrale, acquisiva una propria articolazione interna.
A seguito degli espedienti ottici utilizzati e della disposizione degli
elementi di travertino, il complesso risulta concepito in base ad una
percettibilità frontale esterna.
La Loggia
Tutti e quattro i
lati della grande sala sono posti in reciproca relazione attraverso i cinque ordini
tuscanici e le loro combinazioni presenti nell’edificio. Tali ordini, quello
monumentale a semicolonne nella facciata, quello a colonne delle arcate di
facciata e delle serliane e infine dei pilastri maggiori e minori delle esedre,
si differenziano, secondo la loro posizione, in base a dimensioni, proporzioni
e materiali. Nello
spazio interno le esedre ricalcano, in semplice tufo, il profilo in travertino
dell’imposta dei pilastri della loggia, convertendone la funzione in
trabeazione per il proprio ordine di pilastri. I profili dei capitelli dei
pilastri e del loro basamento concordano con quelli dei pilastri delle
serliane.
|
Fig. 6 - Rappresentazione virtuale della loggia. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
Quanto ad altezza
e larghezza, essi non hanno attinenza con nessuno degli appoggi verticali
presenti nella loggia e nello spazio absidato. Le loro basi sono state
innalzate in corrispondenza del livello dei sedili nelle nicchie. Con questo
espediente il fusto dei pilastri è stato accorciato ad una misura che risulta
troppo corta per l’ordine dei pilastri della loggia e troppo lunga per l’ordine
delle serliane e con una larghezza determinata in relazione a questa diversa
altezza, sulla base degli elementi adottati, si viene a creare in questo modo
un nuovo ordine proporzionale, dal quale dipendono le restanti parti
architettoniche delle esedre. Da tale sistema decorativo coerente che si
sviluppa all’interno della loggia si distingue perĂ² l’architrave della
serliana, il cui profilo evidenzia analogie con quello delle imposte dei pilastri,
ma si differenzia concettualmente in maniera netta al punto di far supporre che
nei punti di contatto delle parti tagliate devono essersi verificati problemi
di montaggio. Ad una più attenta osservazione dei due elementi risulta chiaro
che la trabeazione della serliana, a confronto con quella delle imposte,
presenta un profilo che non è né identico come sostenuto da Fasolo,
né ridotto, come affermato da Denker Nesselrath.
In seguito ad una accurata analisi dei vari elementi architettonici risulta evidente
che alcune componenti non furono realizzate direttamente per il Ninfeo ma
provenissero da altre architetture, attualmente non classificabili
cronologicamente. Il confluire armonico degli ordini viene interrotto dalle
zone di applicazione dei materiali edilizi riutilizzati, contrastanti la
concezione generale della decorazione architettonica. La decorazione a
conchiglia compare solo nelle esedre e ve ne sono tre diversi tipi che di volta
in volta vengono adattati con precisione per dimensioni, materiali e struttura
al luogo di applicazione (Fig. 7). Su entrambe le esedre si sono conservati
ancora resti delle originali calotte che si fanno notare per la loro
particolarità strutturale: già in fase costruttiva è stata data loro la forma
di conchiglia per cui le nervature sono state riprodotte con costole di pietra
e di malta, murate all’interno di un complicato involucro. Nelle nicchie
circolari, realizzate come esedre in miniatura, le costole sono costituite da
materiale lapideo, irregolare e di piccolo taglio. Spessi strati di malta sulle
superfici tra le nervature dimostrano che le conchiglie sono state
pre-modellate prima della rifinitura a stucco. Le calotte sono state realizzate
al di sopra di un arco di scarico in pietre cuneiformi irregolari. Le conchiglie
più piccole sono quelle che si trovano nelle nicchie sopra le sedute, ricavate
da monoliti di tufo.
In passato si è ipotizzato che originariamente lo spazio absidato presente
dietro le serliane, percepibile dall’esterno e che appartiene visivamente alla
loggia, avesse la funzione di teatro d’acqua. Tale ipotesi è motivata dalla
presenza di recipienti in terracotta collocati in file irregolari e in
corrispondenza con le nicchie circolari e angolari.
|
Fig. 7 - Nicchia sulla parete sud. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
Conseguentemente,
si pensò a possibili vasche di raccolta dell’acqua nelle nicchie e a vasche
incavate nel basamento dello spazio absidato.
Dopo un’attenta analisi è plausibile ipotizzare che i fori alle pareti,
considerate la loro forma e posizione, potrebbero essere il punto di ancoraggio
per le impalcature utilizzate per l’esecuzione di spettacoli teatrali e giochi
d’acqua. Attualmente l’edificio risulta sprovvisto di copertura ma la presenza
di imponenti pennacchi nella parte superiore dei pilastri in corrispondenza
degli attacchi con le arcate testimoniano la presenza di una copertura a cupola
nella campata centrale e a crociera in quelle laterali. Considerando le misure
cautelative adottate contro le infiltrazioni di acqua provenienti dall’alto,
come evidenziato anche dalla Döring,
si può ragionevolmente ipotizzare che nella zona centrale della loggia la
cupola avesse un Opaion con chiaro
riferimento ad una architettura classica romana come il Pantheon. Tale
espediente si rivela un ulteriore elemento di prova dell’utilizzo del ninfeo
come teatro, in quanto il fascio di luce che poteva entrare dalla suddetta
apertura avrebbe potuto suscitare negli spettatori meraviglia e incanto.
Lo stato di disfacimento
in cui versa attualmente quest’area del monumento è imputabile a problematiche
strutturali emerse a causa della natura argillosa del terreno e alla forza
distruttiva di un catastrofico terremoto che colpì la zona di Genazzano nel
1703. In passato l’ingresso al portico era costituito da una grande scala a
gradoni la cui esistenza è stata rilevata anche dall’indagine archeologica;
successivamente le campate laterali in origine chiuse furono aperte e la scala
perse la sua utilità.
L’ottagono
Il piccolo corpo a
pianta centrale con al centro la vasca in origine non presentava alcuna
apertura della parete, salvo lo stretto ingresso. Perciò è possibile che la copertura
consistesse soltanto in una cupola aperta avente la funzione di impluvium. Come già descritto, qui si
trova la cellula originaria dell’edificio e cioè la vasca d’acqua rotonda (Fig.
8). Il ruolo di grande importanza assolto dall’ottagono in relazione all’intera
costruzione è sottolineato da un sottile dettaglio, ovvero mentre le esedre della
loggia sono costituite interamente da tufo, la nicchia che conduce
nell’ottagono è stata realizzata in travertino. Questa differenziazione di
materiali potrebbe essere stata messa in atto per creare una nobilitazione che
si può interpretare come un omaggio all’edificio preesistente e quindi
all’antico.
|
Fig. 8 - Vista serliane con oculi. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
|
|
Fig. 9a,b - Particolare pilastri, capitelli, oculi. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
|
Fig. 10 - Serliana con abside. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
Osservando
attentamente questo spazio costituito da una vasca d’acqua centrale, appare
abbastanza palese che l’interpretazione di molti studiosi del passato secondo i
quali si trattava di antichi bagni (a cui si è già precedentemente accennato)
non è affatto casuale, infatti tra quest’ambiente e gli edifici termali ci sono
molte analogie. Oltre a
ciò bisogna anche segnalare la presenza di un impianto idraulico funzionante in
tre delle quattro nicchie circolari ovvero gli sbocchi di due tubi in
terracotta che proseguono all’interno dell’opera muraria e sono collegati tra
loro. La stessa vasca risulta alimentata dalle acque di falda della roccia
locale.
Nelle immediate
vicinanze non esiste una sorgente, tuttavia l’alimentazione del sistema di
condutture sarebbe possibile anche senza impianti di pompaggio, grazie alla
sorgente che si trova sull’altro versante della valle. La situazione
all’interno non è facilmente descrivibile perché i bordi dei tubi delle nicchie
risultano pesantemente danneggiati. Inoltre è necessario segnalare l’assenza di
bacini di raccolta e dei loro alloggiamenti. Mentre un’alimentazione con acqua
fredda è assicurata da due sistemi indipendenti, non è invece dimostrabile la
presenza di impianti di riscaldamento. L’ambiente quindi si presenta agli occhi
dell’osservatore come una sorta di teatro d’acqua concepito soltanto per essere
contemplato, per assolvere al desiderio di diletto di chi lo frequenta.
|
|
Fig. 11a,b - Rappresentazione virtuale dell’Opaion . Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
|
Fig. 12 - Sezione ottagono vista nicchie. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
|
Fig. 13a - Fotomontaggio di più foto della nicchia all'interno dell'ottagono del ninfeo scattate e assemblate da Giacinta Battaglini e da Mauro De Persiis.
|
|
Fig. 13b - Fotomontaggio di immagini della nicchia all'interno del Ninfeo. Foto cortesia ed elaborazione di Giacinta Battaglini e di Mauro De Persiis.
|
I materiali utilizzati
I materiali
utilizzati per l’edificazione del Ninfeo sono essenzialmente tre: tufo,
travertino ed arenaria.
L’elemento principale è sicuramente il tufo litoide reperibile a Genazzano e
nei limitrofi Cave e Valmontone. Il tufo impiegato durante la prima e la terza
fase di edificazione si distingue da quello usato durante la fase principale
(la seconda quella bramantesca) perché risulta più morbido ed è di colore
marrone più scuro. I blocchi presentano misure irregolari, su tutti i muri
corrono strati orizzontali continui. Il tufo è impiegato anche per le
squadrature degli angoli dei pilastri delle serliane e nelle nicchie. Il
travertino invece proviene probabilmente dalle cave di Tivoli ed è stato
utilizzato esclusivamente con finalità decorative. L’arenaria ferruginosa,
estratta dalle montagne ad ovest di Genazzano, è stata impiegata per rinforzare
i muri di sostegno dell’esedra nord e anche nell’apparato murario della loggia.
In alcuni punti è stata inserita per colmare i vuoti nei muri tufacei.
Rivestimenti e
finiture
Nell’intero
complesso si conservano solo pochi resti di intonaco, tuttavia risultano
sufficienti per avanzare alcune considerazioni. Dal momento che anche sulle
pietre dei muri, sul tufo e sul travertino sono riscontrabili tracce sottili di
questo materiale, è da supporre che si tratti di una sorta di scialbatura
avente lo scopo di uniformare cromaticamente i materiali costruttivi. Nei
frammenti di intonaco della loggia l’analisi chimica ha rivelato l’impiego di
un intonaco di calce idraulica resistente all’acqua. Sporadicamente, negli
angoli delle paraste dei piloni si trovano ancora resti della vecchia caldana
che con il suo materiale ricco di pozzolana è molto simile alla malta di
sigillatura, ma nel pavimento è arricchita di materiale lapideo, dello strato
originario si conservano solo alcuni frammenti, lastre di pietra piatta e
irregolari, di superficie liscia. Il ritrovamento di una pavimentazione cosi
grossolana stupisce in uno spazio con serliane e conchiglie concepito come
ambiente rappresentativo. Si potrebbe ipotizzare che si tratti di uno strato di
raccordo e non del pavimento originale; il confronto con il livello della
soglia dell’esedra sud e dei resti di caldana mostra però che queste lastre di
pietra costituivano la superficie del pavimento vero e proprio.
Tutti i pilastri
della loggia terminano poco al di sopra della linea d’imposta, bensì più in
alto vi sono solo l’arco trasversale sud della campata centrale della loggia e
i due brevi archi trasversali dello spazio absidato.
L’ordine tuscanico
Le colonne impiegate
nel Ninfeo sono tutte, come già detto, in ordine tuscanico, i capitelli si
distinguono nettamente dagli esempi coevi grazie ad un abaco non rifinito. Nei
primi decenni del XVI secolo si assiste alla definizione dell’ordine tuscanico,
elevato da "tuscanicae dispositiones" ad ordine architettonico. Vitruvio tratta
del tuscanico in maniera incompleta descrivendo il tempio etrusco
e gli architetti rinascimentali confrontano gli esempi antichi con le
descrizioni vitruviane del dorico e del tuscanico e, non trovando una precisa
corrispondenza degli elementi, prediligono alcuni dettagli a dispetto di altri
oppure considerano il carattere più o meno arcaico delle forme. Il testo di
Vitruvio costituisce l’unica fonte a disposizione degli architetti del
Cinquecento per distinguere il capitello tuscanico da quello dorico. Le uniche
colonne tuscaniche, con basi e capitelli propri, nettamente distinguibili da
quelle doriche si trovano nella scala elicoidale del Belvedere.
Frutto degli studi
vitruviani che Bramante intraprende prima del suo arrivo a Roma, le colonne
della scala hanno la base composta da un plinto, un toro e un listello con
cavetto, il capitello invece ha un abaco liscio, un echino ed un collare con
listello e cavetto .
Il fatto che l’antecedente diretto delle colonne del Ninfeo sia un’opera certa
del Bramante è un ulteriore indizio dell’autografia dell’edificio. Solo dopo la
pubblicazione del testo vitruviano ad opera di Fra Giocondo maturarono altri
esempi di ordine tuscanico. La loggia del cortile di Leone X a Castel
Sant’Angelo, può essere considerato in ordine tuscanico, pur avendo un
capitello con abaco rifinito a gola rovesciata. L’ultimo piano di palazzo
Alberini è una loggia scandita da un ordine tuscanico: le basi sono sempre con
plinto, toro e listello con cavetto, mentre i capitelli sono molto simili
all’interpretazione vitruviani del tuscanico del codice Mellon. Nel Ninfeo di
Genazzano ci troviamo di fronte ad un vero e proprio ordine tuscanico completo
di trabeazione, contratta nelle grandi esedre e tripartita nelle serliane.
L’ordine
tuscanico, usato coscientemente in una forma riconducibile alle indicazioni di
Vitruvio, insieme ad una elaborata articolazione delle membrature
architettoniche, una trabeazione contratta che risalta sui pilastri come
imposta e si trasforma nelle serliane in trabeazione tripartita, denotano una
grande maturità artistica. L’edificio è articolato in cinque ordini tuscanici
di dimensioni diverse.
Il fronte era scandito da un ordine gigante, con semicolonne che inquadravano
le tre arcate centrali e paraste che segnavano gli angoli di due stanze
laterali, simmetriche e leggermente aggettanti rispetto al fronte. Di
quest’ordine gigante restano sia le basi che gran parte dei fusti. Le esedre
sui lati corti della loggia sono tripartite da quattro paraste che reggono una
trabeazione ridotta a cornice e fregio. Le basi delle varie versioni del
tuscanico del Ninfeo di Genazzano hanno tutte le stesse modanature ma con
proporzioni diverse. L’altezza delle basi è circa metà del diametro delle
colonne o della larghezza delle paraste. Nell’ordine delle grandi esedre ed in
quello del prospetto il plinto è alto quanto l’insieme del toro, listello e
cavetto, mentre nell’ordine delle serliane e delle piccole esedre la base
risulta meno schiacciata. Per quanto riguarda i capitelli bisogna segnalare che
risultano divisi in abaco, echino e collarino.
Le proporzioni dei
capitelli del Ninfeo si avvicinano alle prescrizioni vitruviane, la larghezza
dell’abaco è sempre uguale al plinto di base. I capitelli sono di due tipi. Il
primo, usato sia nelle grandi esedre che nelle serliane, ha l’abaco liscio
rifinito superiormente da un listello con cavetto seguito verso il basso un
echino con collare. Il secondo, tipo
usato nelle piccole esedre, invece è composto semplicemente da un abaco liscio,
un echino ed un quarto di cerchio ed un collarino separato da un fusto tramite
un bastoncino. Il primo tipo, utilizzato anche nel castello Colonna, non è
affatto comune e denota la volontà di modernizzare l’ordine tuscanico unendo
due elementi distintivi di tale ordine: la fascia e il listello con cavetto.
Probabilmente il progettista intendeva creare un capitello tuscanico con un
abaco elaborato. I capitelli delle grandi esedre rispetto a quelli delle serliane
risultano più allungati, il collarino è alto quanto l’echino e l’abaco messi
insieme; l’echino è più alto che sporgente .
Il Manoscritto Sublacense
Il manoscritto ad
opera di un autore anonimo, contenente un’importante descrizione del Ninfeo, è
noto fin dai tempi del Senni, che lo cita nel suo testo Memorie di Genazzano e dei vicini paesi, ma nel corso degli anni se
ne sono perse le tracce fino al 1999 quando Marina Döring lo ha riportato alla
luce. Successivamente, non essendo stato inventariato, è stato nuovamente
smarrito, fino a quando nel luglio 2012 è stato riportato alla luce dalla
scrivente, grazie anche alla pazienza del direttore dell’archivio frate Romano.
Si tratta di un
documento molto importante poiché risale al XIX secolo, è completo di un
apparato di cinque tavole e analizza dettagliatamente l’intero complesso. Molte
delle opinioni espresse dall’autore oggi si sono rivelate infondate ma
l’analisi di questo manoscritto è comunque un importante strumento
d’interpretazione.
Nella prima tavola
sono riprodotte la pianta della prima facciata, la platea del primo atrio,
quattro nicchie e una porticina che conduce ad una vasca d’acqua.
Più difficile da
valutare è in che rapporto siano con le opere certe di Bramante le serliane
della tribuna di Capranica Prenestina,
terminata nel 1520 ma probabilmente già iniziata da Bramante. Sia ogni forma
dell’originale vocabolario architettonico, sia la sua magistrale composizione,
come pure i rapporti verticalizzanti sono compatibili con l’architetto di San
Pietro.
A rafforzare l’ipotesi
della presenza di Bramante a Genazzano contribuisce anche un’altra circostanza:
l’operato di un gruppo di scultori di formazione lombarda nella Chiesa di San
Paolo situata nei pressi del Ninfeo. La chiesa risale al 1222, anno iscritto
sulla campata in bronzo del campanile, ma che agli inizi del Cinquecento fu
interessata da un’importante operazione di restauro.
A questa fase sono ascrivibili l’ampliamento del coro e la realizzazione di
statue raffiguranti il Redentore e i dodici apostoli. Tra queste spiccano
soprattutto due busti in marmo raffiguranti San Pietro e San Paolo,
caratterizzati da un naturalismo classicizzante, attribuiti da Fabio Benzi a
Francesco Briosco, seguace del Bramante. Il ricco insieme scultoreo, databile
intorno al 1510-12, dimostra l’esistenza di un cantiere lombardo
particolarmente vivace nello stesso periodo in cui viene collocata la
costruzione del Ninfeo.
Bisogna costatare anche che la struttura muraria della zona absidale mostra una
tecnica costruttiva simile a quella del Ninfeo, a conci squadrati e spigoli
irregolari. Anche l’arco trionfale della chiesa di San Paolo è quasi identico a
quello del Ninfeo, che rende ancora più verosimile una continuità tra i due
cantieri e rappresenta un’ulteriore prova dell’autografia bramantesca del
Ninfeo.
|
Fig. 14 - Ricostruzione virtuale vista nord della loggia. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
|
Fig. 15 - Ricostruzione virtuale della facciata esterna. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
|
Fig. 16 - Subiaco, Archivio Colonna, Manoscritto Sublacense senza segnatura, pianta del ninfeo.
|
Viene messa in
evidenza la presenza di un bagno, ma l’autore specifica di non essere in grado
di poter affermare che vi sia comunicazione con la sorgente di acqua tiepida presente
nei paraggi. Inoltre figurano anche nicchie che adornano il recinto dei bagni,
la seconda facciata e la platea del secondo atrio, più alta del primo.
La seconda tavola
presenta una veduta della prima facciata che già all’epoca risulta semi distrutta
(Fig. 3). Nella didascalia posta sotto il disegno l’autore afferma che tutto
l’edificio è in ordine tuscanico-dorico e aggiunge inoltre che le colonne di
mezzo risultano interrate per metà.
|
Fig. 17 - Subiaco, Archivio Colonna, Manoscritto Sublacense senza segnatura, tavola 2 facciata principale
|
|
Fig. 18 - Subiaco, Archivio Colonna, Manoscritto Sublacense senza segnatura, tavola 3 seconda
facciata
|
La terza tavola
raffigura la seconda facciata, che divide il primo dal secondo atrio, gli archi
in questo punto sono traforati e più stretti di quelli della prima facciata, le
colonne sono caratterizzate da pilastri con le imposte che riempiono i vuoti.
La
quarta raffigura uno dei due lati del primo atrio dove si trova una porta in
mezzo a due nicchie.
La
quinta tavola rappresenta la terza ed ultima facciata visibile al di fuori
dell’edificio.
|
Fig. 19 - Subiaco, Archivio Colonna, Manoscritto Sublacense senza segnatura, tavola 4 nicchia
|
|
Fig. 20 - Subiaco, Archivio Colonna, Manoscritto Sublacense senza segnatura, tavola 5
|
L’edificio viene
descritto come una sorta di teatro che si affaccia verso i monti Ernici e nel
Manoscritto è esplicitato che il complesso oggetto della descrizione si trova
sotto Genazzano, proseguendo sulla via Latina, in zona Giardino e più
precisamente al trentesimo miglio. A partire da questo punto del manoscritto la
descrizione farà sempre riferimento alla contrada, detta Casa del bosco.
L’autore sostiene
che molti studiosi dopo aver visitato l’opera, considerando gli ornati e le
dimensioni, sono rimasti affascinati dall’esecuzione, altri invece ritengono
che non sia tra le migliori, ma ne sottolineano la singolarità.
Ribadisce che
tutta la zona nei pressi dell’edificio è denominata Giardino e che l’uso di
tale denominazione risulta usata in tutti i registi relativi ai tre secoli
precedenti la stesura del Manoscritto.
Inoltre specifica
che l’abbandono della frequentazione dell’edificio risale a poco dopo
l’edificazione.
Dopo aver
esaminato l’opera, essa viene valutata antichissima e fatta risalire
addirittura ai tempi di Ovidio, perché nel quarto libro dei fasti si fa
riferimento a celebrazioni di luoghi d’acque tiepide nel mese di aprile.
L’autore presuppone che potrebbe essere proprio il famoso edificio il luogo di
tali celebrazioni, sostenendo che la struttura si rivela adatta ad ospitare
manifestazioni sia di carattere pagano che religioso.
Il manoscritto
riferisce altre importanti notizie, rivela infatti, che nei dintorni si
svolgevano danze di uomini aventi sembianze di satiri e smentisce con forza la
presenza di sorgenti termali nel territorio compreso tra Genazzano e Paliano,
sostenuta invece dal Petrini.
Quest’affermazione è particolarmente eclatante anche per quanto concerne il
chiarimento della funzione perché smentisce l’ipotesi sostenuta dal Tommasetti,
secondo il quale si tratta di un edificio termale.
Donato Bramante Architetto della seconda fase
costruttiva
Anche dopo recenti
ricerche d’archivio non sono emersi indizi inconfutabili relativi
all’architetto del Ninfeo, ma le prove pro Bramante come progettista ed
esecutore della seconda fase costruttiva sono aumentate in modo considerevole
sulla base delle analisi formali dell’architettura. Le indagini mostrano che in
questa fase di costruzione, gli spazi laterali e i corridoi non erano stati
ancora realizzati. La parte esterna dell’edificio è retta da un sistema
geometrico omogeneo e razionale nel quale è riconoscibile la logica del progetto.
Esso si basa su modelli circolari che sommandosi dividono l’edificio in singole
cellule. Un analogo procedimento è stato riscontrato anche nei progetti
bramanteschi per San Pietro e per il coro di S. Maria del Popolo.
In numerosi
progetti come nel Tempietto e in tutti i lavori svolti in Vaticano,
l’architetto marchigiano di formazione lombarda si è dovuto confrontare con
strutture preesistenti. Come il progetto bramantesco di San Pietro dipende
dalle misure e dal tracciato delle fondamenta del coro, così nel Ninfeo i resti
dell’antico edificio precedente, nel corridoio sud e nell’ottagono, vengono
fusi con la nuova costruzione tanto da essere poco distinguibile dal resto del
complesso. Difficilmente, in presenza di un pavimento rimasto integro, i resti
dell’edificio precedente sottostante sarebbero stati percepiti come tali. Ciò
nonostante l’architetto ha lasciato nell’edificio stesso un segno indicativo
del significato storico di questo spazio. Infatti, sebbene l’ottagono e la sua
posizione di tamponamento dello spazio absidato siano resi invisibili al
visitatore del Ninfeo attraverso numerosi espedienti architettonici, la nicchia
dell’esedra che costituisce l’ingresso all’ottagono è stata decorata con
prezioso travertino.
L’analisi
architettonica ha dimostrato che al posto dell’odierno portale che collega lo
spazio annesso a sud e la loggia, si trovava in passato una terza nicchia,
probabilmente di forma circolare con sedili, come nelle zone laterali delle
pareti.
Ciò indica che in origine vi erano tre identici settori di nicchie,
incorniciati da pilastri e con una calotta a forma di conchiglia. Questa
ricostruzione trova, salvo la diversa proporzione, chiari punti in comune con
quella ipotizzata da Frommel per il coro di San Pietro.
La facciata del
Ninfeo si può confrontare con l’articolazione del distrutto coro bramantesco,
osservabile in una veduta di Maarten van Heemskerck. A San Pietro come a Genazzano un interno
molto articolato era racchiuso da un ordine colossale, le proporzioni erano
allungate e il ritmo era diversificato dall’inserimento di campate con nicchie.
La parete del
Ninfeo rivela la sua tridimensionalità nelle nicchie delle esedre, ma
soprattutto nella graduazione del rilievo tra la zona centrale e gli avancorpi
della facciata, condizione che si verifica anche nei campi parietali e nei
fasci dei pilastri del coro di San Pietro. Altro elemento che sorregge la tesi
dell’attribuzione bramantesca è sicuramente l’uso della serliana con cinque
oculi (Figg. 12, 13), molto amata dal Maestro e introdotta, come chiarito da
Frommel, presso Santa Maria delle Grazie a Milano.
|
Fig. 21 - S. Pietro, primo progetto del coro di Bramante e progetto di facciata. Firenze, Uffizi, Arch. 5, in Arnaldo Bruschi, Bramante Architetto, Bari, Laterza, 1973, p. 216.
|
|
Fig. 22 - San Pietro in costruzione prima del 1536. A destra l’esterno del coro di Giulio II, innalzato da Bramante.
|
|
Fig. 23 - Arco trionfale della chiesa di S. Paolo a Genazzano. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
Continuando con la
citazione delle analogie esistenti tra l’edificio sito a Genazzano e le opere
del Bramante, bisogna evidenziare che una delle peculiarità principali del
Ninfeo è la proporzione allungata degli ordini, che si riscontra in molteplici
opere del periodo romano. Le colonne del piano superiore del cortile del
convento di Santa Maria della Pace sono molto affini alle serliane presenti nel
Ninfeo, mentre le semicolonne del fronte esterno trovano un parallelo nella
facciata di Palazzo Caprini. Paraste allungate simili a quelle presenti nella
grande esedra di Genazzano si riscontrano nell’esterno del coro di San Pietro.
Nonostante l’impiego occasionale del canone vitruviano, Bramante fece uso delle
proporzioni degli ordini in modo più libero rispetto ai suoi allievi e
successori.
Un altro indizio
per collegare Bramante al progetto del Ninfeo è la scalinata, la cui
sottostruttura è venuta alla luce in seguito ai recenti scavi. Il reperto
ricorda un tipo di scala che, con il suo piano intermedio e gli scalini che
penetrano nello spazio di approdo, potrebbe essere definita come tipicamente
bramantesca. Nel primo XVI secolo si trovano solo pochi esempi paragonabili a
questo tipo di scala, ma è significativo constatare che sono tutti presenti in
opere di Bramante. L’esemplare più importante, ancora ammirabile, è costituito
dall’ingresso al Tempietto di San Pietro In Montorio. Qui i tre gradini del basamento continuano
con altri due gradini che incidono il podio rotondo dell’edificio. Il secondo
termine di confronto, una scala nel cortile inferiore del Belvedere, si è
conservata solo in un disegno della pianta di Lafréry.
La scalinata esterna a tre rampe costituisce la parte inferiore del
collegamento verticale nel quale i gradini terminano in un pianerottolo e da
qui altri tre gradini intagliano lo spazio in cui approdare. Allo stesso modo
l’emiciclo nel Cortile Superiore può essere paragonato a quello appena
menzionato. Anche in questo caso, una scalinata con profilo semicircolare porta
ad un podio intermedio e da qui penetra nell’ambiente successivo.
La prova più
importante di una partecipazione diretta di Bramante alla costruzione del
Ninfeo viene fornita però come già precedentemente accennato dal confronto con
l’incisione Prevedari. L’incisione dimostra l’interesse nutrito da Bramante nei
confronti del tema della rovina, infatti essa non rappresenta lo sfondo di
un’azione, ne è la protagonista, la rappresentazione dell’uomo dunque riveste
un ruolo marginale.
Il concetto di rovina moderna è estremamente importante per Bramante, ciò è
evidente anche dal fatto che l’architetto scelga di trasferire il concetto
espresso nel disegno in un’incisione: avvalendosi dell’operato di Bernardo
Prevedari stipula un contratto nel quale l’incisore si impegna a depositare una
somma di denaro come garanzia per la restituzione del disegno in condizioni
integre. Il forte legame esistente tra l’incisione e il Ninfeo fa supporre che
Bramante tramite Prevedari voglia fissare graficamente la propria visione della
rovina artificiale e dopo circa vent’anni la ribadisce nel Ninfeo di Genazzano.
Fino ad oggi non
esistono elementi certi riguardo il coinvolgimento diretto di Bramante al
progetto, tuttavia il numero di indizi architettonici in questa seconda fase è
tale da rendere inequivocabile la sua partecipazione. Inoltre il Ninfeo esprime
meravigliosamente la maniera grande bramantesca di cui il Belvedere è il
simbolo più eclatante, frutto di scelte lucidamente critiche, guidate da una
visione prospettico-illusionistica ma motivata da un rigore metodologico
preciso e determinato che si pone come strumento scientifico di affermazione
teorica e di verifica dei principi.
Il committente e
la datazione
La discussione su
chi sia il committente del Ninfeo è strettamente collegata a quella relativa
all’architetto, ritenendo Bramante artefice della seconda fase costruttiva si
può dedurre che i lavori in questa parte dell’edificio siano ascrivibili solo
al periodo compreso tra l’arrivo di Bramante a Roma nel 1499 e il 1514 (anno
della morte). In questo lasso di tempo caratterizzato da un breve interregno
dei Borgia (1501-1503), Signori di Genazzano erano il condottiero Prospero
Colonna, suo figlio Vespasiano e il nipote Pompeo.
|
Fig. 24a - Ricostruzione virtuale, con in evidenza chiari elementi di origine Bramantesca
|
|
Fig. 24b - Ricostruzione virtuale, con in evidenza chiari elementi di origine Bramantesca. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
Molti studiosi
ritengono che il committente dell’edificio di Genazzano sia Pompeo Colonna,
figlio di Girolamo principe di Salerno e della nobile dama romana Vittoria
Conti.
A tre anni, in
seguito alla morte del padre, Pompeo viene accolto in casa dello zio Prospero,
in età adolescenziale si impegna negli studi letterari ed entra a far parte
della cerchia umanistica raccolta intorno alla cugina Vittoria Colonna,
Marchesa di Pescara, una tra le voci poetiche più importanti del periodo. Oltre
alle lettere si interessa anche alle armi: la prima prova sul campo di battaglia
risale al 1° marzo 1498 quando a fianco di altri membri della sua famiglia
sconfigge gli Orsini.
Stringe un forte rapporto di amicizia con il re di Napoli Ferdinando d’Aragona
e si schiera al fianco di quest’ultimo contro il sovrano di Francia Luigi XII.
Dopo la partenza del sovrano napoletano per la Spagna, il 20 dicembre 1501
Pompeo Colonna è scomunicato dal Papa a causa di alcuni tentativi
insurrezionali e si allea con la Spagna. Mentre i Colonna vengono reintegrati
nei loro possedimenti da Giulio II, eletto Papa il 1° novembre 1503, sul
Garignano, ove si attesta l’esercito francese e quello spagnolo, Pompeo
impedisce il dilagare dei nemici francesi sulla sponda spagnola del fiume.
Nonostante i brillanti inizi militari, decide di non abbandonare la carriera
ecclesiastica.
Il Cardinale che
rappresenta la famiglia entro il sacro collegio, Giovanni, fratello maggiore di
Prospero, non è in buone condizioni di salute e Pompeo viene scelto come erede
e nel 1508, dopo la morte dello zio cardinale, ottiene il vescovato di Rieti e
le abbazie di Subiaco e Grottaferrata.
Successivamente organizza una congiura contro
il papa Giulio II ma temendo possibili ritorsioni decide
di scappare e di rifugiarsi nella villa di
famiglia a Nemi. A causa della sua ostilità contro il pontefice Giulio II, nel
1512 perde il vescovato di Rieti. Il 20 febbraio 1513 il Papa guerriero muore e
viene eletto Leone X Medici. Gli anni di questo pontificato si rivelano
positivi per Pompeo che instaura con il nuovo Papa un rapporto molto diverso da
quello che ebbe con il suo predecessore e a trentotto anni viene nominato
cardinale di Santi Apostoli.
Con la morte di Leone X termina il periodo d’oro del cardinal Colonna. Il nuovo
Pontefice Clemente VII lo ostacola e nel 1526 lo scomunica privandolo di tutte
le cariche che deteneva.
Poco dopo il Papa cade prigioniero dell’imperatore Carlo V per il quale Pompeo
svolge importanti attività militari. Il cardinale si prodiga per la sua
liberazione e come segno di gratitudine il pontefice concede a lui e a tutta la
famiglia Colonna il perdono. Pompeo muore a Napoli il 28 giugno 1532 in un
palazzetto sulla spiaggia di Chiaja.
Contatti tra
Pompeo e Bramante sono dimostrabili solo indirettamente, tuttavia è
ipotizzabile che durante il periodo in cui il Colonna svolge attività militare
per la casa reale spagnola conosca l’architetto, occupato nella realizzazione del
tempietto di San Pietro in Montorio, commissionato dalla stessa casata.
Altro probabile
punto di incontro tra i due potrebbe essere individuato in Santa Maria della
Pace dove Bramante è chiamato dal cardinale Oliviero Carafa per realizzare il
Chiostro. Pompeo detiene molti contatti con gli esponenti del partito
napoletano residenti a Roma e si reca spesso nei loro territori.
Inoltre non bisogna neanche escludere un incontro in Vaticano, oppure presso
Ascanio Sforza, fratello di Ludovico il Moro, committente di Bramante a Milano
e amico del Colonna.
Un’ulteriore
possibilità viene offerta dagli stretti rapporti di Pompeo con gli esponenti del
ramo Paliano dei Colonna. La madre dell’illustre poetessa Vittoria è Agnesina
da Montefeltro, figlia di Federico, Duca di Urbino. Bramante probabilmente ha
occasione di conoscerla in giovane età alla corte di Urbino. È probabilmente
grazie a lei che giungono presso la corte dei principi di Paliano numerosi
artisti di provenienza lombarda che, dopo le vicissitudini del 1499, lasciano
Milano e i suoi dintorni per cercare nuovi luoghi di attività.
Pompeo dunque ha
diverse possibilità di entrare in contatto con Bramante, dispone delle
conoscenze adeguate, è dotato, come rivelato dalle fonti, di un forte senso
artistico e di una rilevante passione per l’arte antica. Il Cardinale è infatti
molto legato ad Andrea Fulvio, poeta e antiquario discepolo di Pomponio Leto,
che nel 1510 scrive una lettera in versi elegiaci con dedica a Pompeo.
L’ambiente antiquario dell’Accademia romana di Pomponio Leto conferisce alla
figura del Cardinale i tratti di una passione mimetica per l’antichità.
Il possibile
contributo di Pompeo alla definizione architettonica del Ninfeo, mette in
relazione quest’opera alla complicata concezione dell’Antichità dell’Accademia
pomponiana. Inoltre a partire dal 1508, quando ottiene il vescovato di Rieti,
il Cardinale entra in possesso delle risorse finanziare necessarie a finanziare
il progetto del Ninfeo.
Bisogna anche considerare che è del tutto naturale che un aristocratico
ambizioso come Pompeo voglia realizzare un progetto grandioso in uno dei suoi
possedimenti. Nonostante la grande preparazione
culturale e le sue conoscenze, Pompeo non è l’unico che può aver commissionato
il Ninfeo, bisogna annoverare come committente anche il cugino Vespasiano,
figlio di Prospero.
Vespasiano
Colonna, duca di Traetto e principe di Genazzano, figlio di Prospero Colonna e
di Isabella Carafa, nasce tra il 1480 e il 1490 e sulle orme paterne abbraccia
la carriera militare. La prima notizia che si ha di lui è del 1521, nel
dicembre di quell’anno, infatti, il Sacro Collegio arruola mille fanti e ne
affida il comando a due Orsini e a due Colonna, uno dei quali è proprio
Vespasiano.
Agli inizi del
1524 è al comando di sessanta lance, trascorre i mesi estivi a Genazzano e ad
ottobre partecipa alla spedizione organizzata da Francesco I ad Asti.
Contribuisce con esborsi di denaro ai preparativi per la guerra antipapale
successivi alla posizione filo-francese assunta da Clemente VII.
Nella primavera
dell’anno successivo torna per un lungo periodo a Genazzano e perde la moglie
Beatrice Appiani, madre dell’unica figlia Isabella.
Dopo la conclusione
della lega del Papa con la Francia e la partenza dei rappresentanti di Carlo V
da Roma il 13 luglio 1526, il Colonna è convocato dal pontefice a Roma per fare
da tramite nelle trattative successive alla battaglia di Pavia. Nel luglio del
1526 passa a seconde nozze, prendendo in moglie la tredicenne Giulia Gonzaga,
una delle donne più famose della sua epoca. Il compromesso di matrimonio tra la
Gonzaga e il poco avvenente Colonna, redatto in casa d’Isabella d’Este è
rimasto segreto fino alla ratifica di Ludovico Gonzaga, padre della sposa, la
dote è stimata in 12.00 ducati.
Nel mese di agosto
la tensione tra i colonnesi e il Papa raggiunge il massimo livello e Vespasiano
occupa Anagni, e solo a questo punto si verifica una possibilità di
pacificazione. Il Colonna a Roma tratta un accordo con il pontefice, stipulato
il 22 agosto, in base al quale i colonnesi si impegnano a restituire Anagni, a
ritirare le loro armi dal Regno e a insorgere contro il Papa che a sua volta
perdona ai Colonna le inobbedienze e si proclama garante dei loro beni. Il 24
agosto vengono emanati i brevi di assoluzione, che annullano le bolle emesse
contro i Colonna nel mese di gennaio.
Imprudentemente
tranquillo, il Papa assottiglia la guarnigione di Roma e quando il 20 settembre
i Colonna arrivano fulmineamente in città la resistenza si rivela inefficace.
Gli invasori capeggiati dal Cardinal Pompeo Colonna e dai cugini Vespasiano e
Ascanio si impadroniscono di tre porte della città e penetrano da porta S. Giovanni.
Il contingente, forte di ottocento cavalli e di tremila fanti, sosta dapprima a
piazza SS. Apostoli, dove si trovano le case dei Colonna, poi al grido di
“Impero Colonna e libertĂ ” si portano a Trastevere e da lì giungono al Borgo
dove si danno al saccheggio, devastando anche i palazzi vaticani e la basilica
di S. Pietro.
L’Accordo siglato
il giorno dopo fra il Papa, che si rammarica del tradimento di Vespasiano, e
l’inviato imperiale Ugo di Moncada stabilisce una tregua di quattro mesi, e il
ritiro delle truppe dalla Lombardia e il perdono del Papa per tutti i Colonna.
Il Pontefice però non tiene fede agli impegni presi e il 20 febbraio 1527
emette una bolla contro Vespasiano Colonna e i suoi soldati. I Colonna si macchiano nei confronti di
Clemente VII anche di un’altra colpa: nel gennaio Napoleone Orsini organizza
l’ingresso in città di truppe imperiali guidate da Ascanio Colonna ma come
ricompensa Vespasiano Colonna offre la mano della figlia Isabella. Alla fine la
congiura fallisce e il matrimonio salta.
I Colonna dopo aver
ottenuto il perdono di Clemente VII nel marzo 1527, partecipano al sacco di
Roma, Vespasiano rientra a Roma insieme al Cardinale Pompeo e partecipa alla
capitolazione del Pontefice.
Vespasiano Colonna
è un personaggio da tenere in forte considerazione: in prima linea insieme al
cugino Pompeo nella lotta contro il papato, il poeta Pietro Gravina ne loda la
precisione e la grande cultura.
Dopo aver tracciato le tappe fondamentali della vita del condottiero, alla luce
delle frasi del Gravina riguardanti l’edificio di Genazzano, bisogna prendere
in considerazione il coinvolgimento di Vespasiano in tale impresa. Oltre alla
testimonianza del poeta non sono ancora emerse prove documentarie indicative ma
alcune circostanze rendono verosimile quest’ipotesi. Vespasiano Colonna e il
cugino Pompeo, hanno dei comuni obbiettivi e combattono fianco a fianco contro
il papato, inoltre Pompeo è cresciuto con lo zio Prospero, i due cugini vivono
nella stessa casa come fratelli ed è quindi verosimile pensare ad una collaborazione
del capitano di ventura in un’impresa del cugino cardinale. Bisogna anche
considerare che la moglie di Vespasiano è una donna di grande cultura, che ha
vissuto la sua giovinezza presso la corte di Piombino e ha frequentato
personaggi che l’avrebbero potuta mettere in contatto con Bramante, allevata
dal colto padre Giacomo Appiani e dall’illustre Vittoria Piccolomini,
probabilmente influenza le scelte del marito e lo indirizza verso progetti
importanti. Vespasiano quindi può essere messo in relazione al Ninfeo anche se
ancora non sappiamo se egli interviene attivamente all’ideazione del monumento
oppure se si occupa soltanto della parte finanziaria. Inoltre è necessario
anche capire se il Principe partecipa al cantiere a partire dalla prima fase,
oppure se comincia a seguire i lavori in un secondo momento.
Ripercorrendo
cronologicamente le tappe fondamentali della costruzione del Ninfeo per
scoprire il probabile contributo di Vespasiano Colonna, si evince che nel 1518
l’edificio è già stato costruito perché, come segnalato da Frommel,
costituisce lo schema di partenza per la realizzazione del primo modello per
Villa Madama per il quale costituisce molto probabilmente il modello di
partenza. Il primo progetto realizzato da Raffaello per la splendida villa, il GDSU 273 risalente all’estate del 1518, è caratterizzato da elementi riscontrabili a
Genazzano quali la loggia centrale con campata sormontata da cupola, due
campate laterali coperte da volta a crociera ed esedre laterali con nicchie
diagonali e varchi centrali. Il secondo GDSU 314, ovvero quello definitivo,
risulta invece decisamente più distante dalla concezione del Ninfeo. Questi
elementi indicano che Raffaello inizialmente prende spunto dall’opera situata a
Genazzano e successivamente preferisce intraprendere una strada diversa. Molto
meno plausibile appare l’ipotesi che l’architetto del Ninfeo osservi in
anteprima il primo progetto di Raffaello e ne tragga ispirazione, quindi il
1518 rappresenta un termine ante quem
per l’edificio di Genazzano .
In quell’anno
Pompeo Colonna torna nell’Urbe, quindi è probabile che ai tempi
dell’edificazione della Villa posta su Monte Mario, la loggia e l’ottagono del
Ninfeo, cioè le parti attribuite a Bramante, non siano ancora terminati e che
di questi lavori se ne occupi proprio Vespasiano Colonna, che in quel momento
vive stabilmente a Genazzano e può seguirli personalmente.
Come
abbondantemente riferito da Gravina nelle sue opere, Vespasiano Colonna
possiede le conoscenze necessarie per seguire tale impresa e ama l’antico
quindi può essere verosimilmente accostato al Ninfeo. In mancanza di altre
prove, le Sylvae costituiscono
l’unica fonte per tale relazione, e quindi meritano di essere inserite di
diritto tra i documenti riguardanti l’edificio. Volendo circoscrivere con più
precisione il momento in cui l’opera fu commissionata, credo sia opportuno
concentrarsi sul periodo compreso tra il 1508 e il 1511, anno in cui la
conflittualità esistente tra Giulio II e i baroni romani culmina in una crisi
profonda. Si ritiene poco probabile che in un momento di difficoltà economica
dovuta alla crisi con il papato i Colonna abbiano commissionato il Ninfeo. Per
questo si reputa più verosimile una datazione entro il 1511 e si può escludere,
quindi, che il Ninfeo risalga al 1499, quando Bramante giunge a Roma, perché
solo durante la progettazione di San Pietro arriva a concepire strutture
robuste caratterizzate da un linguaggio plastico che distingue nettamente il
Ninfeo dalle prime opere romane.
Il Ninfeo,
elemento di un paesaggio artificiale
Osservando la
valle del Ninfeo, l’attenzione viene catturata da particolari fenomeni
topografici. La valle non presenta una sezione a forma di V tipica dei paesaggi
di tufo, ma appare piatta e larga sia al di sopra che al di sotto del Ninfeo.
Inoltre la superficie di questa zona non declina seguendo la naturale pendenza
del ruscello, ma si divide, attraverso sbalzi di differente altezza, in almeno
tre gradoni distinti.
La forma
particolare della valle e le posizioni sicuramente non casuali degli sbalzi
superiori del terreno, danno adito all’ipotesi che questi gradoni potrebbero
non avere origine naturale, come la diga nella parte inferiore della valle.
A confermare
questa supposizione contribuiscono anche le analisi archeologiche svolte nel
1998 dall’équipe di ricercatori tedeschi. In quell’occasione è emerso un tratto
di muro alto mediamente 80 cm che segue inizialmente un corso lineare est-ovest
e poi devia verso nord con una profonda curvatura. Il muro della parete arcuata
è largo 1,10 m, il lato che dà sull’area antistante il Ninfeo, ha una
sporgenza, larga 40 cm, simile ad un giardino. Completando graficamente la
forma concava, si ottiene un semplice cerchio con un raggio interno di 9,30 m.
Sia sul lato interno, sia su quello esterno dell’edificio si conservano resti
di intonaco molto resistente all’acqua, grazie all’aggiunta di pozzolana rossa
e laterizio. Le superficie delle pareti presentano caratteristiche molto
diverse tra loro: il lato interno infatti è caratterizzato da un intonaco dello
spessore di circa 2 cm e da resti di un rivestimento colorato, il lato esterno
invece presenta uno strato di intonaco di spessore quasi doppio, privo di
pigmenti e un profilo parietale obliquo.
Considerando che
su entrambi i lati del muro è applicato dell’intonaco e data la curvatura
verticale della parte esterna, appare chiaro che non si trattava di un muro di
protezione. L’utilizzo di un intonaco particolarmente impermeabile fa dedurre
l’esigenza di tutelare il Ninfeo dal contatto con l’acqua. Questa arrivava dal
lato posto più in alto rispetto al ruscello, dove il muro era caratterizzato da
uno strato di intonaco particolarmente impermeabile, pendente e curvato in
forma convessa in modo da garantire una resistenza ottimale contro la
pressione.
Le ricerche hanno
dimostrato che in passato c’era un secondo lago artificiale collocato tra il
Ninfeo e il Ponte Pizzuto. È stato inoltre riscontrato che la valle del Ninfeo
è caratterizzata dalla presenza di tufo a ovest, di calcare a est, e da un
largo strato di creta. Questo materiale argilloso, sul quale è stato fondato
anche il Ninfeo stesso è perfettamente impermeabile.
Se quindi qualcuno
dovesse cercare nei Monti Prenestini il luogo perfetto per la realizzazione di
un lago artificiale, lo troverebbe nella valle del Ninfeo. Questa zona è ideale
per tale scopo, sia per la presenza della creta, materiale adatto alla
sigillatura del fondo, sia per la ricchezza d’acqua a disposizione. I risultati
delle indagini mostrano che in passato non esisteva soltanto il lago
artificiale del muro antico, ma anche un secondo bacino al di sopra dal Ninfeo.
Tale notizia è confermata dai Notai di Genazzano del 18 febbraio 1576. Qui il
complesso architettonico del Ninfeo viene definito «comedomus Iardini prope loco ubi erat lacus».
|
|
Fig. 25a,b - Ricostruzione virtuale, con in evidenza chiari elementi di origine bramantesca. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
|
La valle
Attualmente appare
chiaro che non era stata progettata solo l’area circostante il Ninfeo, ma anche
la valle intorno ad esso attraverso la creazione dei laghi artificiali. In
questo paesaggio creato artificialmente il Ninfeo è soltanto un elemento
architettonico decorativo.
A circa 150 metri
al di sopra del Ninfeo si trova la contrada "La Soglia" che viene considerata già
dal Senni come facente parte dell’edificio.
Qui il Fossato sfocia nella valle del Ninfeo, tra due formazioni tufacee che
quasi si toccano. A pochi metri da questo luogo si trova il lavatoio, la cui
sorgente è posta all’interno di una cella muraria, sulle pareti della quale
figurano resti di affreschi medioevali colorati. Particolari architettonici
come l’intonaco, l’utilizzo di enormi blocchi di tufo con complicati
collegamenti e resti di apparati decorativi, indicano che non si tratta di una
porta d’ingresso di un orto contadino ma di un elemento architettonico
costruito con notevole spesa.
Nel 1703 la Porta del Giardino
viene menzionata per la prima volta nel Catasto Giorgi,
ma il primo ad occuparsene dettagliatamente è stato l’autore del manoscritto
Sublacense nel 1800. Egli scrive «A distanza eguale
di ca.200 canne sopra l’edificio andando contro il corso del ruscello alla
parete sinistra si trova una sorgente di acqua tiepida che funge da lavatoio,
ed è carissima alle nostre lavandaie nell’inverno, ma il suo fabbricato ed un
suo interno reclusorio ne fa congetturare altro più nobile uso in addietro.
Poco più sopra si osservano gli avanzi di un antico opificio ed è notabile un
cunicolo sotterraneo che trafora tutto un colle per riunire le acque di due
torrenti».
L’autore
sottolinea il fenomeno della sorgente calda e riconosce che la cella della
sorgente del lavatoio, oggi inaccessibile, aveva un tempo una funzione estremamente
importante, attualmente dimenticata. Non descrive il portale come tale, ma lo
segnala come resto di un edificio antico (avanzi di un antico opificio). L’area
si configura quindi come una sorta di locus
amoenus.
Circa 70 m più a
sud, seguendo il corso del torrente Fossato, si trova il Ponticello Pizzuto, un
ponte largo circa 4 metri costruito in grossi blocchi di tufo che crea un
passaggio attraverso il fiume e allo stesso tempo corrisponde allo sbalzo di
terreno superiore. Più giù, lungo il ruscello, si trovano il Ninfeo e il muro
lungo.
Un altro
particolare all’interno dell’area merita di essere menzionato, anche se si
trova ad una distanza di 350 metri dal Ninfeo. Si tratta di una formazione di
tufo evidente anche osservando la carta topografica della zona dal livello
della strada, le pareti rocciose si innalzano verticalmente per 20 metri. A
circa 50 m da questo punto, a metà del pendio, è posta una vasca d’acqua
tiepida con una propria sorgente. A prescindere dalla grandezza della vasca, bisogna
sottolineare che il bordo del bacino rivolto a valle è rivestito con lastre di
travertino regolare e quasi quadrate. Il rivestimento in travertino porta ad
escludere che si possa trattare di un abbeveratoio per animali.
Dopo aver
osservato attentamente il Ninfeo e l’area circostante si puà constatare che
nella valle si trovano elementi architettonici che potrebbero essere
relazionati all’edificio. Ciò indica che il Ninfeo costituisce parte di un complesso
che trasforma la valle del Fossato in un parco con diverse attrazioni e punti
di sosta. La porta del giardino ha la funzione di apertura e di ingresso a una
porzione di paesaggio nobilitato da interventi artificiali. A ciò si aggiungono
tre laghi artificiali, uno più piccolo al di sopra del Ponticello Pizzuto, uno
a sud trattenuto dal bordo del bacino al di sopra della zona d’ingresso del
Ninfeo e uno più grande regolato dalla diga sud.
Nel 1559 gran parte delle contrade che formavano la valle del Ninfeo viene
ceduta, come già detto, da Marcantonio Colonna ad alcuni contadini di Genazzano
per l’impianto degli orti. I coltivatori avevano però bisogno di terra e non di
laghi, per questo motivo è possibile che la diga superiore abbia smesso di
funzionare da questo momento in poi. Considerato che il livellamento della
sezione trasversale della valle e la contestata sedimentazione testimoniano la
presenza continua dei laghi per alcuni decenni, è possibile dedurre che questi
bacini artificiali furono realizzati al più tardi nei primi anni del XVI secolo
e furono in grado di appianare il fondo della valle per diversi anni.
Le tracce di
carattere architettonico e geologico fanno supporre che la realizzazione di
questo parco paesaggistico sia avvenuta durante la seconda fase di costruzione
del Ninfeo. In riferimento a ciò è necessario accertare se nel Rinascimento
siano stati realizzati altri giardini di esperienza. Bisogna tener presente che
in merito a questo tema risulta più semplice individuare esempi risalenti
all’epoca antica conosciuti nel Rinascimento rispetto a quelli realizzati
proprio nel Cinquecento. Tra gli esempi antichi è possibile annoverare le
descrizioni delle ville imperiali, i cui ampi giardini ricordano la valle del
Ninfeo, sia per i loro diversi edifici di sosta sia per la loro natura. A parte
i resti quasi inaccessibili della villa di Nerone con i suoi tre famosi laghi
artificiali nel frattempo distrutti,
il complesso di villa Adriana a Tivoli costituisce una delle poche ville
antiche che nel ‘500 conservano ancora il giardino con antiche rovine di
edifici. Il Belvedere di Giulio II in Vaticano e il Villino Chigi al Tevere
rappresentano gli esempi romani di ville suburbane più illustri dei primissimi
anni del XVI secolo, ma i loro impianti non sono paragonabili a quello della
valle del Ninfeo. Solo a partire dalla seconda metà del XVI secolo si trovano
giardini dalla concezione confrontabile, come quello del Sacro Bosco a Bomarzo.
Solo in un’altra
opera quasi contemporanea al Ninfeo si individuano risonanze di un fantastico
paesaggio artificiale, in uno scambio tra arte e natura. Si tratta di un’opera
letteraria: l’Hypnerotomachia Poliphili.
L’Hypnerotomachia
Poliphili
L’Hypnerotomachia Poliphili, pubblicata a
Venezia nel 1499 da Aldo Manuzio il Vecchio, narra il combattimento amoroso di Polifilo
in sogno, un vero e proprio viaggio iniziatico che ha per tema centrale la
ricerca della donna amata, metafora della trasformazione interiore alla ricerca
dell’amore platonico.
L’incunabolo aldino suscita da sempre un notevole interesse negli studiosi di
arte dei giardini in quanto contiene la descrizione di un giardino che per
conformazione e composizione, e soprattutto per essere pura idealità, può
considerarsi l’archetipo dei parchi reali del Rinascimento. Il suddetto si
configura con l’isola di Citeria, sacra a Venere, ed è innanzitutto metafora
del traguardo del viaggio iniziatico compiuto da Polifilo, l’eroe protagonista.
A prescindere dalle vicende narrate, l’isola giardino di Citeria costituisce la
sintesi di tutti gli elementi del giardino umanistico, nonché l’anticipazione
di alcuni principi manieristi. Fra i libri del Rinascimento l’Hypnerotomachia Poliphili è quello che
più direttamente ha influenzato le scelte architettoniche ma anche simboliche e
ideologiche del giardino cinquecentesco, offrendo indicazioni operative e
proposte concrete senza comunque evadere dai confini di un’utopia, ragion per
cui ha avuto, soprattutto a livello figurativo, una diffusione enorme nel
Cinquecento.
Il giardino è il
pretesto per mettere in evidenza quegli aspetti della cultura umanistica che
entrano in gioco e sostanziano ogni forma d’arte, nella consapevolezza che
nessun’arte è in grado di integrare e rappresentare le varie tendenze
filosofiche, artistiche e matematiche dell’epoca più adeguatamente dell’architettura
e di conseguenza della nuova arte dei giardini ad essa direttamente legata.
L’opera è scritta nella forma di romanzo visionario, infatti, secondo una
tradizione medioevale, il sogno è la forma letteraria che consente all’autore
di far coesistere personaggi umani e creature mitologiche, illustrando vicende
eroiche e idilliache nelle quali è magistralmente celato un insegnamento
esoterico. La narrazione è caratterizzata da molte allegorie, le vicende
descritte e i personaggi hanno significati molto profondi. Polia rappresenta la
Saggezza e la ricerca di Polifilo è dunque una ricerca della saggezza e della
conoscenza quale poteva apparire agli occhi dei filosofi dell’antichità.
L’itinerario percorso dal visionario lo conduce, attraverso la via della
conoscenza ritrovata grazie alla Fortuna (il Destino), alle prese di coscienza
che riguardano il destino dell’uomo verso la sorgente della vita.
Il libro è
suddiviso in trentotto capitoli, composto da due parti, distanti tra loro per
quanto riguarda contenuti, elementi linguistici e stile narrativo. Nella prima
parte, in cui emerge la passione dell’autore per l’architettura, Polifilo narra
in prima persona i fatti accaduti in seguito alla perdita di Polia e il
successivo ricongiungimento con l’amata; nella seconda parte, più
introspettiva, la protagonista femminile prende la parola, racconta delle sue
origini e dell’innamoramento.
Il testo è
arricchito da centosettantadue xilografie in gran parte dedicate
all’espressione dell’idea di giardino rinascimentale. Bisogna tener presente
che l’Hypnerotomachia non è soltanto
un libro illustrato, il modo in cui l’autore si serve delle immagini è infatti
innovativo e atipico.
Un fatto notevole e inconsueto nella tradizione del libro è che in questo caso
incisioni e testo sono stati ideati contemporaneamente. Sicuramente l’autore ha
concepito i disegni nello stesso momento in cui ha ideato il testo; ciò
significa che le immagini corrispondono a un personale progetto iconografico.
Inoltre, guardando l’opera nel suo insieme, si può affermare che l’autore si
sia servito in modo consapevole del disegno come di un secondo registro
comunicativo rispetto alla parola. La collocazione delle immagini nel testo è
libera, i centosettantadue disegni infatti sono sparsi lungo il racconto e non
coincidono con l’inizio o la fine dei capitoli. Il disegno interrompe la
lettura, o meglio irrompe nello scritto, determinando una continua integrazione
tra i due registri comunicativi
e apparendo come mezzo principale per comunicare lo sviluppo narrativo. Le
tavole risultano spesso sostitutive di descrizioni letterarie in quanto cercano
di integrare momenti narrativi omessi nell’opera. In alcuni casi l’autore ha
trasferito nel testo le caratteristiche del disegno e viceversa. Ciò si riscontra
in alcune descrizioni di strutture architettoniche per le quali Polifilo spende
fiumi di parole, ricorrendo a riferimenti e termini tecnici per esemplificare
il metodo progettuale. Il testo risulta quindi pregno di dettagli
architettonici, rendendo superfluo un disegno particolareggiato, come ad
esempio la descrizione della Magna Porta nel Libro I. Questa particolare
sinergia fra scrittura e immagini, che crea talvolta scompensi o squilibri, è
intenzionale e rende evidente un aspetto fondamentale: l’inscindibilità del
testo dalle figure.
A proposito
dell’interazione fra i due sistemi comunicativi, disegno e parola, l’autore si
avvale di due diversi artifici che costituiscono altrettanti casi limite dal punto
di vista del rapporto testo immagini: i geroglifici (hierogliphica), nei quali il disegno si fa parola, e i technopaegnia, nei quali la parola si fa
disegno. Il fascino dell’antico Egitto e la forte portata simbolica del
significato dei geroglifici furono oggetto di attenzione fin dall’antichità e
rappresentarono un fenomeno curioso dell’Umanesimo, in particolare l’interesse
dei filosofi del Quattrocento era volto alla scrittura ideogrammatica degli
egizi, considerata depositaria di grandi verità celate dietro un sistema
linguistico difficilmente comprensibile.
L’universo dei
simboli egiziani, sconosciuto e fantastico, si mostra agli occhi del mondo
grazie a un importante rinvenimento, gli Hieroglyphica
di Horapollo. Il manoscritto alessandrino, risalente al IV secolo d.c., è
stato portato a Firenze nel 1419 dal sacerdote fiorentino Cristoforo
Buontelmonti dall’isola greca di Andros ed è caratterizzato dalla spiegazione
di duecento geroglifici.
Nell’Hypnerotomachia un’attenzione
particolare meritano i fregi, epigrafi, oggetti di arredamento come vasi,
altari, fontane e interi progetti architettonici. Il racconto di Polifilo
appare sorprendente anche per questo aspetto. Infatti, utilizzando non
solamente descrizioni ma veri e propri progetti, introduce in un romanzo
d’invenzione una materia tecnica adatta piuttosto ad un trattato. Inoltre
bisogna considerare che la prassi di illustrare con disegni tecnici un trattato
che cominciò a diffondersi proprio nella seconda metà del Quattrocento è
limitata al manoscritto. Sia l’edizione del De
re edificatoria di Leon Battista Alberti, sia le edizioni quattrocentesche
del trattato De Architectura di
Vitruvio furono date alle stampe prive di corredo illustrativo.
Dal punto di vista
letterario, le descrizioni di insiemi architettonici rientrano nella tradizione
del romanzo allegorico di cui supportano l’apparato simbolico che dà luogo
all’allegoria. La presenza di tali elementi contenutistici sia nel testo sia
nelle immagini fa supporre uno specifico interesse architettonico dell’autore e
apre un ulteriore campo d’indagine intorno all’Hypnerotomachia, ponendo interrogativi sulla cultura
architettonica-figurativa dell’autore e sullo spazio concesso all’architettura
nel testo.
L’espressione in apertura d’opera preannuncia la chiave di lettura dell’Hypnerotomachia «ubi humana omnia non
nisi sommium esse docet» e nello stesso tempo giustifica quello che puĂ²
apparire come un contrasto all’interno dell’opera: da una parte l’atmosfera
onirica in cui sono calati tutti gli oggetti descritti, privi di coordinate
spaziali e temporali, dall’altra lo zelo, talora eccessivo, con cui l’autore
indugia sulle descrizioni dei manufatti architettonici, insistendo sulla
procedura progettuale e compositiva o su questioni relative alla geometria e
alla teoria delle proporzioni,
descrivendo analiticamente anche i più minuti particolari con l’uso di una
terminologia tecnica erudita.
Pur premettendo
che un nuovo gusto descrittivo unito a una nuova attenzione a guardare,
misurare, descrivere i fenomeni naturali si afferma nella seconda metà del
Quattrocento come effetto di una rinnovata concezione della natura e del cosmo
e diventa una tendenza generale riscontrabile in ambiti diversi, sembra
comunque necessario fare alcune considerazioni a proposito dell’insistenza
sugli aspetti metodologici e specialistici dell’architettura nell’Hypnerotomachia. In primo luogo va riconosciuto un personale e
reale interesse dell’autore per l’architettura, infatti numerosissimi e
documentati sono i riferimenti ai trattati di Vitruvio, e soprattutto
dell’Alberti.
Tenendo conto che l’intera vicenda del romanzo si svolge nella dimensione del
sogno, si può comprendere come con l’apporto dell’elemento teorico, l’autore
riesca ad avvicinare al reale ciò che è creazione fantastica, dando consistenza
di cose concrete e tangibili ai manufatti che sono frutto della sua fantasia.
Per quanto
riguarda l’architettura, la fonte principale a cui sono da riferirsi le teorie
e molte volte la stessa terminologia usata da Polifilo, è Leon Battista Alberti.
L’opera è anonima
ma la prima lettera di ogni capitolo, forma un acrostico: POLIAM FRATER
FRANCISCVS COLVMNA PERAMAVIT (“Fratello Francesco Colonna amò intensamente
Polia”). L’acrostico è stato individuato agli inizi del Cinquecento, come
risulta dalla sua trascrizione sul frontespizio del Polifilo posseduto dalla
Biblioteca Augustea di Perugia.
Il Frater Franciscus Columna è stato
riconosciuto da Maurizio Calvesi nella persona di Francesco Colonna signore di
Palestrina, uomo dotto, appassionato di antichità e appartenente all’Accademia
romana di Pomponio Leto.
Un altro gruppo di
studiosi appoggia la tesi - di Maria Teresa Casella, Giovanni Pozzi e Lucia A. Ciapponi secondo cui l’autore sarebbe da identificare in Francesco Colonna,
frate domenicano nato a Venezia nel 1433.
Gli studi
meticolosi di Calvesi hanno dimostrato che l’opera è riconducibile al Colonna
romano, appartenente al ramo di Palestrina della famiglia, poeta e letterato,
protonotario apostolico, canonico lateranense di San Pietro e governatore di
Tivoli. Il suo nome compare sul portale del palazzo da lui fatto erigere sulle
rovine del santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina. Questo tempio è situato su una montagna
arditamente tagliata con mezzi artificiali a creare una parete verticale, come
quello intitolato alla medesima Dea incontrato da Polifilo nel suo peregrinare.
Sulla cima del Tempio descritto nell’Hypnerotomachia
è presente la statua della dea Fortuna. Una stampa di Hendrick van Cleeve
risalente alla metà del Cinquecento mostra una soluzione analoga nel Santuario
Prenestino.
La città laziale è
menzionata tre volte nel romanzo così come le querce e i lecci che ne
impreziosiscono il paesaggio.
Anche il Tempio di
Venere descritto nel testo trova riscontro nell’emiciclo colonnato che coronava
il Santuario prenestino inglobato da Francesco Colonna nel proprio palazzo.
Nella realtà il Palazzo è un perfetto semicerchio; lo sviluppo circolare si
otterrebbe con il suo ideale raddoppio.
Polifilo, descrivendo una volta poggiante sul tetto del Santuario spiega come
questa forma sia generata da un "volvendo semicirculo" (COLONNA F. 1499, quad. n, c. ii, f. 1, l. 36). Il tempio è dedicato a
Venere madre di Enea e antenata di Cesare, giudicato dal Colonna fondatore del
Palazzo di Palestrina.
Questi indizi insieme
all’epigramma di Raffaele Zovenzoni datato 1474, nel quale si indica Francesco
Columna Antiquario come autore del Polifilo, fugano ogni dubbio riguardo la
paternità dell’opera.
Il viaggio di
Polifilo, tramite ideale tra il racconto allegorico alla maniera di Dante e le
nuove esigenze culturali dell’Umanesimo, combina il lessico della tradizione
cavalleresca medioevale e quello derivato dalla cultura classica, trovando
nella raffigurazione reale, immaginata ed onirica di paesaggi e giardini, una
delle sue tematiche principali, da un lato l’iconologia delle immagini viene
composta su modelli e stilemi classici sulla rivisitazione filologica che ne
fece l’Umanesimo, dall’altro l’insieme di questi dati antiquariali viene
disposto e svolto concettualmente secondo l’estetica medioevale.
In questo
complesso contesto culturale il paesaggio come agente narrativo ed elemento di
lettura dell’anima diviene la cornice naturale alla vicenda di Polifilo e le
rovine classiche trovano in questo procedimento un luogo d’elezione per il
dispiegamento delle loro potenzialità semantiche ed evocative. Il paesaggio
descritto dal Colonna, definito dall’alternarsi di luoghi d’abbandono, di
monumenti e di ruderi lasciati allo sviluppo incontrollato della vegetazione, non
appare neutrale, ma costituisce un elemento fondante della narrazione, intonato
agli stati d’animo del protagonista ed alla temperatura emotiva del racconto.
Un interesse
particolare riveste indubbiamente uno dei quesiti ripetutamente proposto dai critici
che si sono occupati di analizzare i paesaggi onirici del Polifilo: quali sono
le fonti figurative e iconografiche a cui si è ispirato l’autore delle tavole
che accompagnano il testo del Colonna?
Secondo Acidini
Luchinat, i paesaggi con rovine classiche, illustrati nelle tavole della Hypnerotamachia, divenuti modelli per la
creazione di molti dei giardini rinascimentali, potrebbero ritrovare analogie
figurative negli antiquaria umanistici en
plein air, di cui il quattrocentesco giardino murato di Lorenzo de Medici
in piazza San Marco costituisce uno dei primi esempi conosciuti. In effetti la
potenza della combinazione allegorica proposta dal Colonna con tanta efficacia
espressiva costituisce un precedente concettuale e figurativo che
caratterizzerà tutta la produzione letteraria ed architettonica sull’argomento,
stabilendo un sistema di relazioni estetiche, filosofiche, semantiche e
culturali che interesseranno la costruzione del paesaggio fino ai nostri giorni.
Il ninfeo nel primo libro delle Sylvae di Pietro
Gravina
Pietro Gravina
Pietro Gravina
(1453-1528), umanista di origine siciliana ma vissuto dalla prima giovinezza
alla morte quasi sempre a Napoli, sarebbe oggi certamente più conosciuto e
apprezzato se non ci fossero stati ostacoli, tra cui la difficoltà di reperire
le sue opere e la lingua da lui adottata, il latino.
Il suo Poematum libri contenente l’Epigrammatum liber, Sylvarum et elegiarum
liber e i Carmen epicum è stato
pubblicato a Napoli nel 1532, quattro anni dopo la morte grazie all’interessamento
del Duca di Palena, che lo ha assistito durante gli ultimi mesi della sua vita.
Nonostante la poca fama nutrita dalle sue opere, Gravina merita un posto
importante all’interno della letteratura cinquecentesca poiché egli sceglie
coraggiosamente di scrivere in latino riportando in auge la tradizione del
poema staziano e anche perché a partire dal 1498 frequenta la celebre accademia
napoletana di Giovanni Pontano.
In una lettera indirizzata al Pontano per consolarlo della prematura scomparsa
del figlioletto, Antonio de Ferris gli rammenta che agli antichi accademici se
ne sono aggiunti di nuovi, legati al suo magistero destinati a lasciare una
discendenza intellettuale duratura, tra costoro compare il nome del Gravina.
La stima e
l’apprezzamento delle sue opere valgono al poeta palermitano la carica di
canonico del duomo di Napoli per iniziativa del viceré Consalvo di Cordova.
Alla partenza di Consalvo per la Spagna, il letterato è accolto in casa di
Prospero Colonna e del figlio Vespasiano per il quale compone un epigramma.
Gravina e i
Colonna di Genazzano
Le opere del poeta
siciliano contengono importanti riferimenti a Genazzano e alla famiglia Colonna.
Tra i destinatari delle elegie spiccano infatti Prospero Colonna, Pompeo
Colonna, Vespasiano Colonna e Vittoria Colonna, oltre ad altri illustri
personaggi napoletani e romani tra cui: Leone X, Traiano Caracciolo, Isabella
d’Aragona ecc.
A Pompeo Colonna
sono rivolte quattro elegie, nelle quali sono messe in evidenza le doti
dell’illustre personaggio, appellato come “firma Columna”. L’epiteto firma
Colonna usato la prima volta da Petrarca nei confronti dei Colonna romani, ha
assunto nel corso degli anni il valore di formula araldica. Il componimento scritto da Gravina dimostra
che l’epiteto è rivolto ai membri romani della famiglia e si rivela quindi
risolutivo anche ai fini dell’attribuzione dell’Hypnerotomachia a Francesco Colonna romano definito anch’egli nello
stesso modo.
L’epistolario di
Pietro Gravina attesta che il letterato risiede a Genazzano e gode
dell’ospitalità di Vespasiano Colonna certamente dal giugno al settembre 1524 e
forse fino ai primi mesi del 1525 quando è ormai un anziano di circa
settant’anni e qui si esilia con la speranza di fuggire dall’epidemia di peste
che ammorba Napoli, forse, per trovare un’ultima definitiva dimora all’ombra di
qualcuno che possa proteggerlo e sostenerlo. Dall’analisi delle lettere inviate al figlio
Tranquillo, si evince la considerazione nutrita da Gravina verso i membri della
famiglia Colonna e in particolare verso Prospero, il figlio Vespasiano e il
nipote Pompeo. Alcune epistole inviate da Genazzano decantano le lodi del
Principe Vespasiano Colonna, descritto come un uomo estremamente intelligente e
dotato di grande perspicacia oltre che di straordinaria memoria.
Il poeta confida di passare dalla mattina alla sera in compagnia dell’illustre
amico e di condividere con lui qualsiasi cosa.
Prospero Colonna
invece è il destinatario di una lettera inviata da Napoli e datata 6 dicembre
1518, nella quale
Gravina narra un episodio accaduto a Palermo durante una tempesta, ritienendo
che il racconto del gesto eroico compiuto da alcuni marinai per salvare le loro
navi possa servire da esempio al prode condottiero.
Il 4 luglio 1517 da Napoli indirizza una lettera a Pompeo Colonna nella quale
si congratula per la carica di cardinale appena ricevuta e aggiunge che spera
di essere considerato uno dei suoi più fedeli amici.
La descrizione del
Ninfeo nelle Sylvae
Tra i Monti
Prenestini Pietro Gravina compone il primo libro delle Sylvae, dedicato al patrizio Napoletano Girolamo Carbone,
appartenente anch’egli all’Accademia di Giovanni Pontano. Il poeta descrive
all’amico il viaggio fatto nei territori della famiglia Colonna e si concentra particolarmente
sul soggiorno in un castello che non esplicita nei versi ma indica con nome
greco equivalente all’espressione latina: “proles
lovis”.
L’assenza del
toponimo esatto potrebbe indurre erroneamente qualcuno a pensare che si tratti
del castello della Colonna. Il suddetto castello, che peraltro non ha nulla a
che vedere con la descrizione panoramica dell’oppidum celebrato dal Gravina, è in realtà feudo di Pier Francesco
Colonna di Zagarolo, ramo laterale dei Colonna di Palestrina,
e dunque non ascrivibile tra i luoghi residenziali di Vespasiano Colonna,
Beatrice Appiani e la figlia Isabella.
Nel suo poema
Gravina non rivela mai palesemente di trovarsi a Genazzano ma analizzando
attentamente il componimento, le espressioni usate e i personaggi a cui fa
riferimento appare chiaro che la cittadina oggetto della descrizione è proprio
quella che ospita il Ninfeo. Ad avvalorare tale tesi contribuisce anche il
poema del coevo letterato Minturno intitolato Geneazanos nel quale si narrano le vicende relative alla fondazione
della città, avvenuta per mano di Ercole e ribadite anche da Gravina in
riferimento al Castello della città da lui descritta.
Il Gravina spiega
la posizione topografica che occupa il centro abitato e riferisce che è posto
su uno sperone tagliato, la cui parte più alta guarda a nord, verso l’Orsa
maggiore, mentre la parte più bassa declina verso l’Austro,
rivelando che la cittadina ha dato i natali ad illustri personaggi che si sono
fatti onore anche a Roma. Decanta poi il clima, i corsi d’acqua, le bellezze
del passaggio e celebra il luogo in quanto culla di coraggiosi capi in guerra
con ovvio riferimento a capi colonnesi. Inoltre il poeta loda Oddone Colonna,
Papa con il nome di Martino V, Antonio Colonna prefetto di Roma e Prospero, da
poco defunto, di cui vengono esaltate con prolisse iperboli i meriti militari e
in particolari le vittorie sulle truppe francesi. Il condottiero è il protagonista
di intense pagine delle Sylvae, nelle
quali si narrano le vicende legate alla sua infanzia e si ripercorrono le tappe
fondamentali della sua carriera militare; il poeta inoltre prevede che non sarà
facile trovare qualcuno in grado di emulare i successi di Prospero.
Particolare enfasi
è rivolta verso Vespasiano, giudicato degno erede del padre Prospero, Signore
di Genazzano e suo mecenate, e a sua moglie Beatrice Appiani figlia di Giacomo
Appiani, Signore di Piombino e di Vittoria Piccolomini.
La dimora di
Vespasiano viene giudicata aperta alla poesia; la personalità del Principe è
abbondantemente messa in risalto, è infatti descritto come una persona
disponibile e capace di leggere ogni tipo di documento. Gravina rivela che dopo
qualche ora di riposo il Principe passa la giornata ad occuparsi delle
questioni del paese e assiste a cerimonie sacre.
Beatrice Appiani è
paragonata ad una sibilla ammaliatrice dotata di indiscussa eleganza, parole
d’affetto sono riservate anche alla giovane Isabella, protagonista di alcuni
versi, giudicata degna figlia di entrambi i genitori. Il poeta ritiene che
Vespasiano Colonna, la moglie e la figlia rappresentino tre ancore di salvezza
per lui, tre stelle capaci di guidarlo nel porto desiderato.
Canta diffusamente
le bellezze del paesaggio che ammira facendo riferimento anche al ruscello
denominato da sempre Rio e a quello a est della valle chiamato Fossato.
Il letterato
rivela l’abitudine di passeggiare a cavallo, per ammirare le bellezze della
natura nei pressi di una costruzione romana di rara bellezza posta al di fuori
delle mura a sinistra. Egli scrive:
Ipse ego vectus
equo soleo descendere ad imum
Oppidum, ubi extremae egressum extra moenia portae
In levam me blonde loci natura propinqui
Adlicit, hiuic faciem nunc munificentia
nostri
Principis inducit
pulchram, rariqe decoris
Romanum iam surgit
opus, latioque colendum
Erigitur genio, e mufis curisqe, levamen
Secessus procerum, charitum domus , aura
clientum,
Hic fontes vivique lacus et utrinque
recedunt
Hippodromi densae incumbunt a vertice
Sylvae
La descrizione di
elementi chiaramente riscontrabili nella valle del Ninfeo come la fonte, il
lago e il bosco rende palese che il poeta napoletano si sia trovato a
contemplare il monumento bramantesco. L’edificio viene definito romanum opus: manufatto romano, cioè in
stile romano ed è attribuito alla magnificenza di un Principe facilmente
riconoscibile in Vespasiano Colonna poiché l’autore nelle sue epistole riserva
l’appellativo «nostri principi» solo a questo personaggio e anche perché come
già detto Prospero Colonna era morto da pochi mesi. Il Gravina a Genazzano
trascorre molto tempo con Vespasiano e insieme ammirano le bellezze del luogo;
è quindi possibile che opus Romanum
sia la definizione, generica ma univoca, assegnata al manufatto dai Colonna e,
forse, dall’ architetto.
I plurali usati («fontes», «vivi lacus», «ippodromi», «sylvae») sono quasi certamente plurali di
uso poetico, frequentissimi in Gravina e in questo poema. La fonte menzionata
potrebbe non essere la celebre fontana di Genazzano chiamata "Soglia" come viene
naturale pensare ma la cisterna d’acqua nell’ottagono. Il lago è quello
artificiale citato anche negli atti notarili del 1576, in cui il notaio
menziona le case del giardino in cui era il lago. L’ippodromo è invece un
elemento inedito nella configurazione del Ninfeo, nessun’altra fonte
riguardante il monumento rivela l’esistenza di questa struttura.
Considerando
l’amore per i cavalli nutrito da Vespasiano, la presenza di un ippodromo non
sembra impossibile e la conferma di una struttura di questo tipo rafforzerebbe
la sua paternità.
Probabilmente il
Ninfeo fu concepito come un giardino-ippodromo, utilizzato per lo svolgimento
di spettacoli d’acqua.
L’idea del giardino-ippodromo deriva dalle descrizioni delle
ville di Plinio il Giovane, da queste hanno tratto ispirazione Raffaello per il
progetto di Villa Madama (1516 e 1519) e Peruzzi per il progetto, non
realizzato, della villa a Salone per il cardinale Trivulzio (ante 1525; cfr. Fig. 3). Il laghetto ai
piedi di un casino in una vallata ombrosa costituisce un topos ricorrente nel Rinascimento e compare anche
in una celebre immagine dell'Hypnerotomachia Poliphili.
Il monumento è
appellato da Gravina come luogo di ritiro per persone ragguardevoli, casa delle
Ceriti, brezza dei clienti.
Il Sito del Ninfeo
è indicato precisamente fuori le mura, uscendo dalla porta a sud,
successivamente detta Romana, nella valletta sottostante la boscaglia di Colle
Pizzuto.
Il primo libro
delle Sylvae è un documento
estremamente importante per quanto riguarda il monumento di Genazzano perché
narra un viaggio compiuto nel 1524 quindi pochissimi anni dopo la realizzazione
dell’edificio, svela l’esistenza di un ippodromo e soprattutto rivela il
coinvolgimento di Vespasiano Colonna mai contemplato tra i possibili
committenti-finanziatori.
Nel Ninfeo sono
stati rinvenuti resti del pavimento originale e di intonaco sapientemente
applicato, ciò testimonia che nella seconda fase di costruzione l’edificio era
stato ultimato. L’esistenza dei rivestimenti smentisce l’ipotesi dell’abbandono
dei lavori prima della fine, avallata in passato da molti critici.
Ciò spinge a pensare che il Ninfeo in questa fase di costruzione, a prescindere
dall’ottagono strettamente collegato ad esso, doveva
consistere solo in una loggia per giardino, priva di spazi di soggiorno, di
cucine e di locali per servizi sanitari. Mancava quindi tutto il necessario per
una permanenza prolungata e confortevole. Alla luce di queste considerazioni
l’interpretazione dell’edificio come villa, sostenuta da Bruschi e Frommel
appare oggi verosimile soltanto per la terza fase, durante la quale furono
aggiunti ulteriori corpi. Inoltre, i reperti della loggia (Fig. 9) suggeriscono
importanti spunti di riflessione, poiché sebbene l’edificio riporti tracce
degli attacchi di una struttura a volta (Figg. 10, 11) lo spazio interno della
loggia, al quale una copertura garantisce normalmente una chiusura superiore
dello spazio, risulta accuratamente protetto dall’umidità. Si riscontra quindi
l’uso di misure cautelari normalmente applicate in uno spazio esterno.
Le
pendenze del pianerottolo, le grandi lastre irregolari della pavimentazione, la
caldana, gli intonaci idraulici e una malta impermeabilizzante applicata sulle
parti di muro particolarmente soggette a rischio, indicano l’intento di una
protezione dalle infiltrazioni. Dal momento che il suolo naturale è costituito
da creta, è da escludere che si trattasse di umidità ascendente. La spiegazione
a questa precauzione potrebbe essere la presenza di un tetto parzialmente
aperto.
La
motivazione di un progetto cosi paradossale potrebbe risiedere nella volontà di
emulare alcuni esempi di edifici con presupposti architettonici analoghi, in effetti
innumerevoli disegni del XV e XVI secolo dimostrano l’interesse nutrito dagli
artisti per la ricerca sulle testimonianze dall’antichità. Non venivano
documentate soltanto rovine esistenti ma anche rovine inventate entro paesaggi
di fantasia. Quest’ultime risultano concepite tenendo presenti modelli
architettonici reali ma raffigurano un contesto architettonico e paesaggistico
modificato. Nelle rappresentazioni di rovine fantastiche è possibile constatare
che per i disegnatori era del tutto irrilevante se l’ambiente della rovina
rappresentata fosse tratto da una rovina autentica, oppure da un edificio
contemporaneo .
Una rappresentazione di rovina di fantasia molto particolare è costituita
dall’incisione Prevedari di Bramante.
Nel
commento a Vitruvio del Cesariano, diretto scolaro di Bramante, compaiono, come
illustrazioni dei tempi antichi descritti dal trattatista romano, organismi
molto simili a quello dell’incisione .
Queste circostanze autorizzano a pensare che Bramante volesse rappresentare un
tempio dell’antichità caduto parzialmente in rovina e adattato a chiesa
cristiana per indicare la continuità e la concordanza tra il mondo pagano e
quello cristiano. Come è stato proposto dal Mulazzani, è possibile che Bramante
abbia voluto rappresentare l’antico tempio di Giano, mitico fondatore di
Milano, sul quale, secondo la tradizione, era stata costruita la chiesa di San
Giovanni alle quattro facce, ora distrutta.
Poco dopo la
realizzazione del disegno dell’artista marchigiano, l’incisore Bernardo
Prevedari fu incaricato di eseguirne una trasposizione su rame. L’opera
raffigura l’interno di un edificio a tre navate con una prospettiva centrale a
più fasi, una vera e propria dimostrazione programmatica dei principi di
Bramante agli esordi della sua attività milanese .
L’organismo rappresentato in questa incisione costituisce una variante del
tradizionale schema architettonico, ovvero la realizzazione di edifici con
pianta a croce inscritta in un quadrato. Ciò che spinge ad includere
l’incisione Prevedari nel gruppo delle rovine è la condizione in cui l’edificio
viene mostrato: il lato destro appare infatti in stato di decadimento e del
pilastro in primo piano si è conservato solo il basamento. L’arcata che esso
sosteneva è oggi spezzata nell’area intorno alla sommità, così che l’arco, la
cornice dell’imposta e l’oculus
inseriti nel muro frontale sembrano rappresentati in sezione trasversale. Il
fusto della parasta rivolto verso la stanza adiacente presenta grosse fessure
sotto la parte centrale del suo lato esterno, che forse hanno segnato l’avvio
del crollo del suo arco trasversale, del quale si conserva soltanto un resto
della zona dell’imposta. La volta al di sopra di esso presenta una grande
apertura irregolare, su cui fiorisce una rigogliosa vegetazione. Attraverso le
quattro opaia sulla volta a croce sopra il quadrato si vede il cielo, ciò
dimostra che non vi è la copertura. Sulla base di una iscrizione architettonica
disegnata riportante le parole «Bramantus fecit in Mlo» e confermata dal
contratto tra Bramante e l’incisore Prevedari che ci è pervenuto,
il progetto raffigurato nell’incisione è uno dei pochi lavori autografi del
maestro.
L’edificio è
tagliato nella sua parte anteriore, come una sezione prospettica, secondo un
gusto riscontrabile nei disegni architettonici realizzati tra la fine del
Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, e presente anche nella celebre
rappresentazione del tempio rotondo di Venere nella Hypnerotomachia Poliphili.
Le analogie tra il
Ninfeo e l’incisione Prevedari sono evidenti, entrambi gli edifici si basano su
una composizione di arcate, la cui sequenza di volte, una campata con cupola
ribassata affiancata da altre due con volte a crociera è certamente
comparabile. In tutti e due i casi le campate sono accompagnate da profondi
archi trasversali, inoltre anche analizzando i singoli dettagli è possibile
scorgere notevoli somiglianze. Le più significative sono date dagli oculi che
costituiscono un elemento caratteristico in entrambi gli edifici.
Nell’architettura raffigurata nell’incisione Prevedari essi appaiono solo
sporadicamente ed in forma monumentale nelle pareti frontali delle arcate ma
presentano le stesse pronunciate incorniciature come quelle di Genazzano.
Inoltre, in entrambi gli edifici sono presenti conchiglie nelle calotte delle
nicchie, i cui lati sono innalzati nella caratteristica forma semicircolare e i
cui snodi risalgono dall’arco della calotta con effetto plastico.
Tenendo conto delle
caratteristiche contraddittorie dei reperti edilizi presenti nello spazio
interno del Ninfeo, osservando il rudere di fantasia proposto dall’incisione
Prevedari, si nota un’ulteriore analogia costituita dalle volte aperte.
Nell’incisione
sono visibili due tipi di apertura delle volte, l’apertura nella navata
laterale da intendere come una lesione e, in secondo luogo, le opaia inserite
nella volta a crociera della navata centrale come elementi decorativi
architettonici.
Ma anche con queste ultime, data la mancanza di un tetto protettivo
l’architettura appare incompleta. Si verifica quindi un immediato contatto tra
esterno e interno riscontrabile anche a Genazzano.
Confrontando
l’architettura raffigurata nell’incisione Prevedari con la sala del Ninfeo dove
uno spazio interno integro risulta avere misure di protezione contro gli
elementi atmosferici, si arriva inevitabilmente alla formulazione dell’ipotesi
che anche a Genazzano si sia verificata una situazione di apertura della volta
(grazie alla presenza di un opaion) come nell’ambiente illustrato
nell’incisione.
Tutte le analogie
esistenti tra il ninfeo e l’incisione Prevedari hanno condotto la Döring a
formulare l’ipotesi della rovina artificiale. Studi recenti hanno portato a
ripensare e riformulare nuove ed interessanti ipotesi circa la destinazione
d’uso del monumento.
Sono stati
riscontrati elementi architettonico strutturali come ad esempio i pennacchi di
partenza delle volte a crociera, accenni di cupole con finiture molto
elaborate, che inducono fortemente a pensare al ninfeo come una struttura
caratterizzata da una copertura eseguita da una serie di volte a crociera e
cupole.
Evidentemente in
entrambi i casi non si tratta di edifici incompiuti. Come nel Ninfeo
testimoniano i rivestimenti, così la meticolosa stuccatura e il pavimento
dell’incisione dimostrano che in tutte e due gli edifici si fa riferimento ad
architetture che in un determinato momento del passato sono state portate a
termine. Conseguenza delle concordanze tra l’architettura di Genazzano e la
rovina d’invenzione dell’incisione milanese è l’interpretazione del Ninfeo come
rovina artificiale.
Giacinta Battaglini
NOTE
FONTI D’ARCHIVIO
AC MANOSCRITTO Subiaco, Archivio Colonna, Manoscritto
Sublacense.
AC NOTULE Subiaco, Archivio Colonna, Notule Catastali,
serie III C, busta 4.
ACS NOTAI 1769 Roma, Archivio Centrale dello Stato, Notai di
Genazzano, 18 febbraio 1769.
BIBLIOGRAFIA
ARNOLDUS-HUYZENDVELD
1999
Antonia
ARNOLDUS-HUYZENDVELD, L’ambiente naturale
di Genazzano, in relazione al “Ninfeo di Bramante”, Rocca di
Papa, 1999.
BARUCCO 2000
Patrizia
BARUCCO, L’ordine tuscanico nel Ninfeo e
nel Castello: problemi di datazione ed attribuzione in Il castello Colonna a Genazzano, a cura di Agostino BURECA,
Roma, Fratelli Palombo Editore, 2000,
pp. 141-150.
BELTRAMI 1917
Luca
BELTRAMI, Bramante e Leonardo praticarono
l’arte del bulino? Un incisore sconosciuto: Bernardo Prevedari, in
“Rassegna d’Arte antica e moderna”, 4, 1917, pp. 187–94.
BENZI 1989
Fabio
BENZI, Un cantiere e un gruppo di sculture
lombarde a Genazzano: documenti e ipotesi su un complesso bramantesco
sconosciuto, in Roma, centro ideale
della cultura dell’Antico nei secoli XV e XVI. Da Martino V al Sacco di Roma
1417-1527, Atti del Convegno Internazionale di Studi su Umanesimo e Rinascimento
(Roma, Università degli Studi “La Sapienza”,
Facoltà di Lettere e Filosofia, Istituto di Storia dell’Arte, 25-30 novembre
1985), a cura di Silvia DANESI SQUARZINA, Milano, Electa, 1989, pp.
303-315.
BORSI 1997
Stefano BORSI, Bramante e
Urbino: il problema della formazione, Roma, Officine Edizioni, 1997.
BRUSCHI 1985
Arnaldo
BRUSCHI, L’architettura a Roma al tempo
di Alessandro VI: Antonio da Sangallo il vecchio, Bramante e l’Antico autunno
1499 - autunno 1503, in “Bollettino d’arte”, Ser. 6, vol. 29, 1985, pp.
67-90.
BURECA 2000
Agostino BURECA, Il Castello Colonna a Genazzano: ricerche e
restauri, Palombi, Roma, 2000.
CALVESI 1980
Maurizio CALVESI, Il
sogno di Polifilo prenestino, Roma, Officina Edizioni, 1980.
CALVESI 1983
ID.,
Il sogno di Polifilo prenestino,
Roma, Officina, 1983.
CALVESI
1987 Riscontri
ID., Hypnerotomachia Poliphili. Nuovi riscontri e nuove evidenze documentarie per Francesco Colonna signore di Preneste, in “Storia dell’Arte”, 60, 1987, pp. 85-136.
CALVESI 1996
CERRONI
2002
Monica CERRONI, Pietro Gravina in Dizionario
Biografico degli Italiani, vol. 58, Roma, Treccani, 2002, pp. 770-772.
COLONNA F. 1964
[Francesco
COLONNA Sr.], Hypnerotomachia Poliphili,
a cura di Giovanni POZZI e Lucia A. CIAPPONI, Padova, Antenore, 1964.
COLONNA
F. 2004
ID.,
Hypnerotomachia Poliphili, a cura di
Marco ARIANI e Mino GABRIELE, Milano, Adelphi, 2004, 2 voll.
COLONNA S. 1996
Stefano
COLONNA, Anteprime documentarie
polifilesche, in Maurizio CALVESI, La
«pugna d’amore in sogno» di Francesco Colonna romano, Roma, Lithos, 1996,
pp. 313-317.
CONSORTI 1909
Aida
CONSORTI, Il cardinale Pompeo Colonna,
Roma, Consorti, 1909.
COPPI 1855
Antonio
COPPI, Memorie Colonnesi, Roma, Tipografia
Salviucci, 1855.
DENKER NESSELRATH
1990
Christiane
DENKER NESSELRATH, Die Säulenordnungen
bei Bramante, Worms, Wernersche-Verlagsges, 1990.
DÖRING 2001
Marina DÖRING, La nascita della rovina artificiale nel Rinascimento italiano ovvero il
Tempio in rovina di Bramante a Genazzano,
in “Donato Bramante: ricerche, proposte, riletture”, a cura di Francesco
Paolo DI TEODORO, Urbino, Accademia Raffaello, 2001, pp. 343-406.
FASOLO 1964
Furio FASOLO, Rilievi e ricerche a Genazzano, sulla costiera Pontina, e inizio di
studi nella valle dell’Amaseno: relazione sull’attività svolta in collegamento
con la Facoltà di Architettura, in “Bollettino dell’Istituto di Storia e di
Arte del Lazio meridionale”, 2, 1964, pp. 167-169.
FOGLIATI, DUTTO
2004
Silvia
FOGLIATI, Davide DUTTO, Il giardino di
Polifilo: ricostruzione virtuale dalla Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna stampata a Venezia nel
1499 da Aldo Manuzio, con una introduzione di Giovanni MARIOTTI, Nota al
Liber de simplicibus di Susy Marcon, Milano, Franco Maria Ricci, 2004.
FROMMEL 1994
Christoph Luitpold FROMMEL,
Abitare all’antica: il palazzo e la villa da Brunelleschi a Bramante, in Rinascimento da Brunelleschi a Michelangelo,
la rappresentazione dell’architettura, a cura di Henry MILLON, Milano, RCS,
1994, pp. 183-204.
FROMMEL 2003
ID., Il
“Ninfeo” di Bramante a Genazzano, in Architettura
alla corte papale del Rinascimento, a cura di Christoph Luitpold FROMMEL,
Milano, Electa, 2003, pp. 215-238 (ediz. orig. Bramantes “Nifeo” in Genazzano, in “Romisches Jahbuch Fur
kunstgeshichte”, 12, 1969, pp. 138-161).
Giardini Medicei 1996
Giardini medicei. Giardini di palazzo e di villa nella Firenze del
Quattrocento, a cura di Cristina ACIDINI LUCHINAT, Federico
Motta, Milano, 1996.
GIOVIO 1551
Paolo
GIOVIO, Le vite di Leon decimo et
d’Adriano VI sommi pontefici, et del cardinal Pompeo Colonna, scritte per mons.
Paolo Giouio vescouo di Nocera, & tradotte da m. Lodouico Domenichi, Firenze, Lorenzo
Torrentino, 1551.
GRAVINA 1532
Pietro
GRAVINA, Napolitani Poematum libri ad
illustrem Ioannem Franciscum De Capua Comitem. Sylvarum et Elegiarum liber,
Carman epicum, Neapoli ex Officina Ioannis Sulsbacchii Hagenouensis,
Germani, 6 Mai 1532.
GRAVINA 1992
ID.,
Epistolario, introduzione, traduzione
e note di Alfonso DELLA ROCCA, Napoli, Loffredo Editore, 1992.
LAMPRECHT 1987
Heinz-Otto
LAMPRECHT, Opus caementitium : bautechnik
der Romer, III ed, Duffeldorf, Beton
-Verlarg, 1987.
MATTEINI 2009
Tessa
MATTEINI, Paesaggi del tempo: documenti
archeologici e rovine artificiali nel disegno di giardini e paesaggi, Firenze, Alinea, 2009.
MULAZZANI 1978
Germano
MULAZZANI, Il tema iconografico
dell’incisione Prevedari, “Rassegna di Studi e di Notizie”, Milano, 1978.
PETRUCCI 1982
Franca
PETRUCCI, Pompeo Colonna in Dizionario
Biografico degli Italiani, vol. 19, Roma, Treccani, 1982, pp. 407-413.
PORTOGHESI 1986
Paolo PORTOGHESI, Architettura del Rinascimento a Roma, Milano, Electa, 1986.
SCAGLIA 1986
Giustina
SCAGLIA, “Stanze-stufe” e “stanze-camini”
nei “Trattati” di Francesco di Giorgio da Siena, in “Bollettino d’arte”,
39/40, 1986, pp. 161-184.
SCATIZZI 2011
Pietro
SCATIZZI, Il Ninfeo di Genazzano:
relazione storica, Roma, Soprintendenza ai Beni Architettonici e Ambientali
del Lazio, 2011.
SENNI 1838
Girolamo
SENNI, Memorie di Genazzano e dei vicini
paesi, Genazzano, Comune di
Genazzano, 1991 (ristampa anastatica dell’ed. Roma, presso M. Perego-Salvioni,
1838).
THOENES 1974
Christopher
THOENES, Note sul “Ninfeo” di
Genazzano, in Studi Bramanteschi. Atti del Congresso Internazionale,
Milano-Urbino-Roma 1970, 1974, pp. 575-583.
VITRUVIO 1997
ID., De architectura libri decem, a cura di
Pierre GROS, Torino, Einaudi, 1997.
Vedi nel BTA:
LE XILOGRAFIE DELL'HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI
|