È
un clima di amore e dedizione per l’architettura quello che si
respira aggirandosi tra i numerosi disegni, schizzi, maquettes,
oggetti, fogli e appunti di una vita, quella di Gio Ponti. Un
pilastro del panorama architettonico novecentesco, un maestro per
intere generazioni, artista, visionario, intellettuale, in una parola
umanista, che ha creduto fortemente nel proprio mestiere, quello
dell’architetto, tanto da farne una sorta di credo laico.
Innamorato del suo lavoro l’ha affrontato con grande vocazione, da
vero missionario dell’architettura, senza retorica né fasti, ma
con leggerezza e (apparente) semplicità, le stesse che
caratterizzano quel “vivere alla Ponti”, del quale solo oggi,
quasi a distanza di sicurezza, si riesce a cogliere la portata.
«Vivevamo alla Ponti, in stanze senza porte, fra i quadri e i libri
suoi, in totale incanto, e dove solo la sua imperterrita Giulia
rompeva il bel disegno con bei disordini suoi, invenzioni sue, e lo
teneva, irritandolo all’erta. Incollava fotografie sui muri, fuori
dalle “pareti organizzate”, introduceva piatti scompagnati nella
perfetta tavola alla Ponti»1.
Sono queste parole della figlia Lisa a presentare l’architetto
fuori dai riflettori, nella sua dimensione più intima, forse più
vera, quella di uomo e di padre, che amava ospitare nella propria
dimora artisti, poeti, critici d’arte, tra tutti Edoardo Persico,
gradito habitué
dei convivi in casa Ponti. Eppure i suoi contemporanei - forse
spaventati dal vigore del ciclone pontiano, che ha fagocitato
energicamente architettura, arte, design, decorazione, editoria,
filosofia, con allure
sempre evocativa - hanno stentato a comprendere il valore delle sue
opere, e circostanza ancor più grave, del suo pensiero. Amare
l’architettura non
è solo il titolo della retrospettiva che il capitolino MAXXI, Museo
nazionale delle arti del XXI secolo, dedica all’architetto
milanese, ma è forse il monito che meglio racchiude, nella sua
immediatezza, lo spirito pontiano, messo a nudo nel suo celebre
breviario, o ideario d’architettura2,
scritto nel 1957, il cui sottotitolo recita «l’architettura è un
cristallo».
Lo stesso autore fornisce la chiave per leggere questo
assunto, partendo dalla forma autonoma ed incontaminata del
cristallo, pura, perfetta, finita. Del resto, quando abbiamo tra le
mani un cristallo, lo guardiamo con attenzione, ammiriamo il suoi
riflessi, lo maneggiamo e custodiamo con cura. Una cura che Gio Ponti
ci invita ad estendere all’architettura, con sguardo vigile e
consapevole, ben lontano da quell’osservatore distratto
egregiamente descritto dalla penna di Benjamin3.
Se la sterminata bibliografia dedicata al genio pontiano, fiorita in
epoca recente, attraversa la sua parabola concentrandosi di volta in
volta sui vari aspetti che hanno riguardato il lavoro
dell’architetto, ciò che manca, forse, è una prospettiva a volo
d’uccello. Eppure, nelle opere del maestro è sempre molto
difficile, se non impossibile, scindere il linguaggio architettonico
da quello artistico, del disegno industriale, o più semplicemente da
un pensiero, il suo, profondamente etico e poetico. Alberga in lui la
consistenza dell’impalpabile, per dirla con Germano Celant, una
naturale propensione che ancora oggi lo rende unico, perché «Ponti
lavora sul “misto”, là dove i limiti sono vaghi, transita da un
linguaggio all’altro, dalla grafica al design, dall’architettura
all’organizzazione culturale, dalla produzione artigianale a quella
industriale, dalla ceramica all’arredo…come se si muovesse in un
paesaggio dalle molteplici figure o giocasse con un caleidoscopio»4.
Un caleidoscopio ricco di trame e sfaccettature, la sua vita e il suo
lavoro, cosicché, ripercorrendo la mostra a lui dedicata, si respira
un’energia vibrante, frenetica, trascinante. Basta alzare lo
sguardo per ammirare, nella hall
del museo, una suggestiva installazione sospesa: grandi insegne in
Alcantara rievocano prospetti colorati ed immaginari, preannunciando
il viaggio nelle architetture di Ponti.
Un viaggio scandito dai
colori, quelli tipici della palette
pontiana, perché, come avrebbe detto l’architetto, tutto al mondo
deve essere coloratissimo. Ecco spiegata la bizzarra presenza del
giallo “fantastico” sulla rampa di accesso che conduce al salone
espositivo: lo stesso cromatismo che ritroviamo nella pavimentazione
in linoleum
del
Grattacielo Pirelli.
Questa sorta di spazio-limbo, che anticipa la
mostra vera e propria, è costellato di parole, o meglio di motti
d’effetto, un modo leggero, ma non per questo meno efficace, per
entrare in confidenza con il lessico e la poetica dell’architetto.
L’esposizione,
articolata in otto sezioni - Verso la casa esatta, Classicismi,
Abitare la Natura, Architettura della superficie, L’architettura è
un cristallo, Facciate leggere, Apparizioni di grattacieli, Lo
Spettacolo delle Città – riprende emblematicamente concetti chiave
espressi dal maestro e, tralasciando un ordine cronologico,
suggerisce piuttosto un attraversamento libero e dinamico, per nuclei
tematici.
Si scopre così che Gio Ponti è stato manifesto di una
stagione felice per l’architettura, quando realizzare plastici,
disegnare, schizzare, scrivere, costituivano le basi della formazione
architettonica. Ecco perché, la precisione dei modelli
tridimensionali, la chiarezza dei lucidi, le acute e secche
descrizioni che spesso accompagnano i suoi progetti, sono di una
bellezza disarmante, e incutono quasi un timore reverenziale ai più
giovani colleghi.
Ardua impresa
racchiudere
un excursus
così sterminato in uno spazio circoscritto, eppure, anche per
l’osservatore inesperto, la retrospettiva romana si rivela
un’occasione preziosa. In esposizione, tra una moltitudine di
opere, capolavori come la Concattedrale di Taranto, il grattacielo
Pirelli, il Palazzo Montecatini, fino alla serie delle domus
tipiche,
lì a ricordarci quanto ingiustamente Ponti sia stato sottovalutato
nella veste di progettista, fino a ieri grande assente nella
manualistica di riferimento, con un vuoto inaccettabile.
Forse,
l’aver rivestito ruoli diversi - art
director
per Richard Ginori, direttore di Domus e di Stile, designer di fama
internazionale - ha offuscato la grandezza e la portata delle sue
soluzioni progettuali, un prezzo troppo alto da pagare per un
architetto che è stato pioniere di una dimensione dell’abitare,
innovativa fino all’osso, proprio come la compianta Zaha Hadid,
vincitrice nel 1998 del concorso per la realizzazione del MAXXI.
Gli spazi fluidi del museo romano ospitano l’incontro magico e
“impossibile” tra i due architetti, geograficamente e
cronologicamente distanti, poeticamente affini. Un valore aggiunto,
certamente non secondario ma poco sottolineato, all’egregio lavoro
dei curatori, di concerto con i più noti archivi pontiani (Centro
studi e archivio della comunicazione dell’Università di Parma, Gio
Ponti Archives),
che rende questa esposizione di per sé unica.
Fautori di un nuovo modo di concepire e vivere lo spazio, Ponti e Hadid lo hanno liberato
da muri e divisori, il primo con la pianta libera, la seconda
approdando ad una dimensione propriamente sua, quella liquida.
Un binomio perfetto: entrambi visionari e rivoluzionari, hanno
attraversato, con la medesima cura progettuale, l’architettura e il
design, passando con nonchalance,
con
un piglio da fuoriclasse,
dalla
grande alla piccola scala, dal cucchiaio alla città, come avrebbe
detto in nostro Ernesto Nathan Rogers. Questa celebre espressione,
che ha assunto la potenza mediatica di uno slogan, racchiude il
principio della trasversalità, capitale nel modus
operandi
pontiano e hadidiano: una straordinaria capacità di abbracciare
l’etica progettuale nella sua complessità, senza mai perdere di
vista il fine ultimo dell’architettura, il benessere, la felicità
dell’uomo.
È chiaro e senza indugi Gio Ponti, quando scrive che la
massima lode alla quale un architetto deve aspirare è che i suoi
committenti gli dicano «Architetto, in questa casa che lei ha fatto
per noi, noi viviamo, (o abbiamo vissuto) felici: essa ci è cara.
Essa è un episodio felice della nostra vita»5.
Ecco perché, la piccola teca che ospita la prima edizione di Amate
l’architettura,
uno di quei testi che non dovrebbe mai mancare nella biblioteca di un
architetto o meglio, degli incantati dell’architettura, ci invita
ancora una volta a seguire, tra pagine colorate, il pensiero
pontiano, incredibilmente moderno nella sua concezione che tutto
rientra nell’architettura: sociologi, medici, industriali,
ingegneri, politici, «tutti debbono pensare Architettura, sentirne
il dovere, cooperare ad essa, partecipare all’Architettura»6.
Un libro che sembra scritto tutto d’un fiato, con un linguaggio
semplice e schietto, lo stesso che l’architetto mostra nelle sue
interviste, nei suoi interventi pubblici, persino quando parla in
francese, con un garbo d’altri tempi. Tempi che l’hanno visto in
prima linea nei gloriosi anni Cinquanta, quando l’Italia, in sella
alla Vespa
o a bordo della Topolino,
esportava in tutto il mondo la grande lezione del made
in Italy.
Di quella lezione Ponti è stato, ed è tuttora, indiscusso
protagonista: è grazie ad una sua intuizione che nel 1954 nasce il
concorso Compasso d’oro, che premia da allora le eccellenze del
design. Un alto riconoscimento che racconta molto del nostro Paese
nel periodo del boom
economico,
quando i più noti progettisti daranno vita ad oggetti evergreen, gli stessi che ci hanno accompagnato, e ancora ci accompagneranno,
per intere generazioni, a dispetto del tempo che passa.
Così, quasi alla fine del percorso espositivo, il visitatore è colto di
sorpresa, l’ennesima, non ultima di questa mostra: la possibilità
di attraversare, di sedersi, perché no di toccare con mano, una
living
room
pontiana, delimitata da mattonelle a fasce bianche e gialle (De Maio
Ceramiche), le stesse che avremmo trovato in Via Dezza 49 a Milano.
Quest’ultima residenza dell’architetto, vera e propria casa
manifesto, non ha pareti ma tende, ingegnoso escamotage
che dilata la percezione spaziale e permette di immaginare i flussi,
i percorsi, liberi ca
va sans dire,
dei suoi inquilini. E ancora, poltrone, pouf, il coffee
table
D.555.1
(Molteni), le lampade Bilia,
Pirellina
e
Pirellona
(Fontana Arte), icone del design che funzionano come incredibili
dispositivi della memoria.
Sicché, se l’osservatore più âgée
sentirà stranamente familiari questi oggetti, appartenuti forse alla
sua infanzia felice, il giovane fruitore, guardando sbalordito le
date di produzione, si chiederà se sono gli stessi che fino a ieri
ha visto in una vetrina del centro, o nella più nota rivista
d’interior
design.
Magia di Ponti.
Chi ha avuto la fortuna di tenere tra le mani una
Superleggera
(Cassina),
disegnata dall’architetto nel 1955, saprà che la celebre réclame
del bambino che solleva la sedia con un dito non è solo una trovata
pubblicitaria, è pura realtà. Ed eccola lì, sospesa per aria come
una star,
la seduta che riassume par
excellence,
in due parole, non una di più, la poetica del maestro: leggerezza e
semplicità.
Basta voltare l’angolo e il carosello di oggetti
continua: le maniglie Lama,
Cono e
Anello
disegnate per il Pirellone e prodotte da Olivari, i sanitari,
finalmente colorati, per Ideal Standard, i piatti, dalla rinnovata
classicità, per Richard Ginori.
Da questa giostra pontiana non si
vorrebbe mai scendere, perché Ponti, in
primis,
era uno uomo allegro ed ottimista, “perseguitato dalla fortuna”,
così amava definirsi. È la preziosa, ed affollatissima, lectio
magistralis
di Fulvio Irace (MAXXI, 29-11-2019) dal titolo emblematico Gio
Ponti. Elogio della leggerezza,
a rivelare questo volto meno noto dell’architetto, insieme alle sue
fortune. La prima, considerare un hobby il proprio lavoro, la
seconda, avere sposato Giulia Vimercati, la terza, essere stato
ingaggiato dalla Richard Ginori (dietro segnalazione di Ugo Ojetti),
la quarta, incontrare colui che diventerà editore di Domus, Gianni
Mazzocchi.
Una vita costellata da incontri fortuiti e fortunati,
complice la figura dell’angelo, ricorrente nell’iconografia
pontiana, finanche nei sogni, dove diviene messaggero di
spiritualità. Così, se nella Concattedrale di Taranto la grande
vela aperta sul cielo si configura come rifugio per gli angeli, il
monolitico Grattacielo Pirelli, viene descritto da Ponti come un
angelo con l’aureola staccata, per quella pensilina di coronamento
sospesa che imprime alla struttura il segno della leggerezza,
soprattutto di notte. Ma, la sintesi strutturale e formale dei
progetti pontiani è diretta conseguenza di una leggerezza ben più
radicata, quella poetica, con il quale il maestro ha affrontato ogni
aspetto del suo lavoro, preannunciando nelle note profezie7,
quale sarebbe stato il futuro dell’architettura. Tra i primi a
considerare la natura come parte integrante della casa, Ponti prevede
sempre spazi in grado di accoglierla, anche in assenza di veri e
propri giardini: altane, patii, balconi, diventano luoghi dove il
verde è protagonista, anticipando così un tema diffuso nello
skyline
metropolitano, quello del bosco verticale.
Ancora, è l’architettura che vive di notte e si veste di luce, fino a diventare illusiva,
un’altra delle sue profezie divenuta reale, a darci la misura di un
nuovo modo di intendere il costruire, a partire dal concetto di
comfort abitativo, avveniristico e moderno, perfettamente in linea
con le sue opere, fuori dal tempo.
È grazie all’obiettivo di sette fotografi, in una sorta di coinvolgente
mise
en abyme
all’interno della mostra, se queste arcinote architetture
continuano a stupire con tagli e prospettive inedite, un focus
diretto e immediato sul presente.
La sezione, curata da Paolo Rosselli, autore degli scatti per il Grattacielo Pirelli, è frutto
di un impegno corale, con fotografie di: Delfino
Sisto Legnani
(Concattedrale
di Taranto), Allegra Martin (Hotel Parco dei
Principi,
Sorrento), Giovanni
Chiaramonte (Villa
Planchart, Caracas), Filippo
Romano (Grandi
magazzini de Bijenkorf, Eindhoven), Giovanna
Silva
(Liviano e Rettorato di Palazzo Bo, Università di Padova) Michele
Nastasi (primo
e secondo Palazzo Montecatini, Milano), Stefano
Graziani
(Scuola di Matematica, Sapienza, Università di Roma).
La
carrellata di immagini che accompagna il visitatore lungo il tutto
percorso è un viaggio ulteriore e parallelo nei luoghi e nello
spirito di Ponti, che ha sempre creduto nella potenza della stampa,
della riproduzione, del mezzo fotografico, quali modalità
democratiche per diffondere l’arte senza distinzioni di classe.
Al confine con l’etica, la didattica, l’estetica, il più grande
insegnamento che da lui abbiamo ricevuto, riguarda proprio il ruolo
complesso e delicato dell’architetto, portatore sano di bellezza,
in grado di poter intervenire, o meglio agire, sul gusto e
sull’educazione collettiva.
E a noi non resta che far tesoro di questa lezione, guardando con fiducia ai giovani architetti, certi
che «da essi e dai loro compagni di tutte le scuole d’architettura
del mondo ci verranno opere pure e bellissime»8.
Parola di Gio Ponti.
LA MOSTRA
Gio
Ponti. Amare l’architettura,
dal 27 novembre al 13 aprile 2020, a cura di Maristella Casciato,
Fulvio Irace, Margherita Guccione, Salvatore Licitra, Francesca
Zanella, MAXXI, Roma.
NOTE
1 Licitra Ponti 1990, p. 22
4 Licitra Ponti 1990, p. 14.
8 Ivi, p. 296.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Benjamin
2000
Walter Benjamin, L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, (prima ed.
1936), Torino, Einaudi, 2000.
Bojani,
Piersanti, Rava 1987
Gio
Ponti. Ceramica e architettura, a cura di
Giancarlo Bojani, Claudio Piersanti, Rita Rava, catalogo della
mostra tenuta a Faenza e Bologna, 1987, Firenze, Centro
Di, 1987.
Bossaglia
1980
Rossana Bossaglia, Omaggio
a Gio Ponti, Milano, Decomania, 1980.
Casciato,
Irace 2019
Gio
Ponti. Amare l’architettura, a cura di
Maristella Casciato, Fulvio Irace, Firenze, Forma
Edizioni, 2019.
Chiesa
2012
Rosa Chiesa, Gio
Ponti, Milano, Hachette, 2012.
Falconi
2004
Laura Falconi, Gio
Ponti. Interni. Oggetti. Disegni 1920-1976, Milano,
Electa, 2004.
Irace
1997
Fulvio Irace, Gio
Ponti. La casa all’italiana, Milano,
Electa, 1997.
Irace
2011
Fulvio Irace, Gio
Ponti, Milano, Il Sole 24 ore, 2011.
Irace,
Leoni 2013
Gio
Ponti, saggio e schede a cura di Fulvio Irace, Manuela Leoni,
Milano, Fondazione dell’Ordine degli architetti,
pianificatori, paesaggisti e conservatori della Provincia di Milano,
2013.
Irace,
Romanelli 1997
Gio
Ponti, a cura di Fulvio Irace, Marco Romanelli, catalogo della
mostra in occasione del Salone Internazionale del Mobile, 1997, Milano,
Cosmit, 1997.
La
Pietra 1988 a
Gio
Ponti, a cura di Ugo La Pietra, Milano,
Rizzoli, 1995.
La
Pietra 1988 b
Ugo La
Pietra, Gio Ponti. L’arte si innamora
dell’industria, Milano,
Coliseum, 1988.
Licitra
Ponti 1990
Lisa Licitra Ponti, Gio
Ponti. L’opera, prefazione di
Germano Celant, Milano, Leonardo, 1990.
Matteoni
2011
Gio
Ponti, il fascino della ceramica, a cura di
Dario Matteoni, catalogo della
mostra tenuta a Milano, 2011, Cinisello Balsamo, Silvana, 2011.
Mendini
1980
Alessandro Mendini, Gio
Ponti, in Il
design italiano degli anni 50, a cura di
Centro Kappa, Milano, Domus, 1980.
Ponti 2010
Gio Ponti, Amate
l’Architettura. L’Architettura è un cristallo, (prima ed.
1957), Rizzoli, Milano, 2010.
Portoghesi,
Pansera 1982
Gio
Ponti alla manifattura di Doccia, testi di Paolo
Portoghesi e Anty Pansera, Milano, Sugarco
Edizioni, 1982.
Roccella
2009
Graziella Roccella, Gio
Ponti, 1891-1979: maestro della leggerezza, Hong Kong,
Taschen, 2009.
Romanelli
2003
Gio
Ponti: a world, a cura di
Marco Romanelli, catalogo della
mostra itinerante tenuta a Milano, Rotterdam, Londra,
2002-2003, Milano, Abitare Segesta, 2003.
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Fig. 1 - Allestimento della mostra Gio Ponti. Amare l'architettura, MAXXI, Roma, 2019. Photo Bibiana Borzì, Courtesy Fondazione MAXXI
Fig. 2 - Allestimento della mostra Gio Ponti. Amare l'architettura, MAXXI, Roma, 2019. Photo Bibiana Borzì, Courtesy Fondazione MAXXI
Fig. 3 - Allestimento della mostra Gio Ponti. Amare l'architettura, MAXXI, Roma, 2019. Photo Bibiana Borzì, Courtesy Fondazione MAXXI
Fig. 4 - Allestimento della mostra Gio Ponti. Amare l'architettura, MAXXI, Roma, 2019. Photo Bibiana Borzì, Courtesy Fondazione MAXXI
Fig. 5 - Allestimento della mostra Gio Ponti. Amare l'architettura, MAXXI, Roma, 2019. Photo Bibiana Borzì, Courtesy Fondazione MAXXI
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