Si
ricorderà in futuro come nel marzo 2020 si sia dovuta affrontare una
inaspettata quarantena a causa di una pandemia che, come uno tsunami,
ha travolto il mondo. Alla reclusione nella propria casa e alle
politiche di smartworking si sono dovuti adattare
anche i
musei, le fondazioni private, gli spazi istituzionali o no profit che
compongono il sostrato culturale internazionale dell’arte e della
cultura contemporanee. In questo difficile periodo, si è scelto di
sperimentare, in qualche caso di rafforzare, soluzioni di
coinvolgimento del pubblico che comprendessero gli unici strumenti e
mezzi a disposizione degli operatori, degli artisti, degli studiosi e
degli appassionati: i dispositivi elettronici e internet. Un esempio
pratico è la condizione di impossibilità di recarsi in biblioteca
di chi scrive e di chi ricerca. Con questo approfondimento si
raccoglieranno quindi delle fonti autorevoli e verificate ma aperte,
tutte digitali.
L’innovazione,
in questo caso, si è dimostrata alleata della diffusione culturale
sebbene i protagonisti abbiano dovuto sacrificare e riadattare tutte
le pianificazioni, le programmazioni e i palinsesti lasciando inoltre
in sospeso le conseguenze di una improvvisa digitalizzazione di
massa. Qualche mostra si è vista chiudere i battenti a poche ore
dall’inaugurazione, come nel caso di “Raffaello. 1520-1483”,
altri eventi espositivi non hanno nemmeno fatto in tempo ad aprire
per essere già rimandati a tempo indeterminato. Anche grandi colossi
del settore contemporaneo hanno lanciato soluzioni alternative, come
per Art Basel Hong Kong alla sua prima, e forzata, edizione
unicamente digitale. La Fiera Internazionale d’arte contemporanea,
con le Online Viewing Room, è stata comunque in
grado di
garantirsi 250.000 visitatori,
235 espositori, con oltre 2.000 opere che l’hanno resa «la
più costosa collezione di opere mai offerta attraverso un unico
portale online» come ha commentato Tim Schneider per Artnet News.
La
simulazione, la riproduzione e la condivisione di contenuti prodotti
intorno a questi mancati appuntamenti sono state le medicine per la
cura di questo specifico imprevisto. La tecnologia ancora una volta è
uno strumento, l’ancella di un tempo fluido, liquido, così come lo
definì Zygmunt Bauman, «dove
le
situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro
modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure».
Un tempo che scorre veloce e durante il quale il concetto stesso di
cultura sembra essere messo nuovamente in discussione data la
progressiva dissolvenza degli elementi di ‘durata’, ‘eternità’
(ormai non più interessanti per la società di consumo) e, dalla
pandemia di Covid-19 in poi, di ‘presenza fisica’ dell’opera
d’arte. Durante il lockdown a scombinare i fattori
dell’equazione del mercato culturale e del suo funzionamento è
stata proprio l’impossibilità dell’elemento di aggregazione
sociale, lo sforzo fisico di recarsi in un luogo per poter osservare
da vicino un’opera, assistere a un’inaugurazione o visitare una
mostra. Inoltre non potendo, ad esempio, staccare biglietti di
ingresso si è incontrata un’inevitabile condizione di perdita
economica che non ha consentito di rientrare degli investimenti.
L’assenza
di pubblico si è imposta creando il vuoto intorno alle opere d’arte
eliminando le occasioni in cui poterle osservare dal vivo e
incontrarne gli artisti. Nel volume “Duty Free Art”, Hito Steyerl
parla, in questo senso, di ‘economia della presenza’. L’artista,
che ha dedicato molti dei suoi lavori ai concetti di
personalizzazione e spersonalizzazione, presenza e assenza, ha
rilevato come «oltre a
produrre opere,
oggi gli artisti, o più genericamente i content provider, devono
dedicarsi a molti servizi accessori che sembrano diventare via via
l’aspetto più importante del loro lavoro: il momento delle domande
è più importante della proiezione, la lettura dal vivo è più
importante del testo, l’incontro con l’artista è più
significativo di quello con l’opera (…). L’economia dell’arte
è profondamente immersa in questa economia della presenza».
In
assenza di luogo, di artista e di pubblico, in questo tempo
apparentemente cornice dell’apice della capacità evolutiva umana,
non rimangono che i già citati apparecchi elettronici e internet,
che si prestano a una molteplicità di utilizzi. Un software per
creare realtà virtuale, un programma di post produzione digitale,
una stampante 3D possono sostituire strumenti più tradizionali come
il pennello, lo scalpello o la macchina fotografica, quindi
protagonisti di una rivoluzione tecnica che fa concorrenza
all’invenzione della fotografia o, andando ancora più a ritroso,
della prospettiva; un sito web, un’applicazione o un canale social
possono inoltre sostituire o rappresentare lo spazio espositivo in
quanto luogo fisico: possono riprodurlo, simularlo, diventarne
un’appendice o farne le sue veci nella forma di un white cube
3.0 sempre a portata di mano, così come il nostro proxy
può sostituire la nostra presenza al vernissage, il nostro like
un apprezzamento, il nostro commento una critica che avremmo espresso
in quel contesto, un’email l’inizio di una trattativa; infine
possono essere particolarmente funzionali alla catalogazione, alla
fruizione, alla conservazione del patrimonio culturale di
un’istituzione, di una collezione o di un paese, contribuendo alla
creazione di un patrimonio culturale digitale disponibile senza la
necessità di sfiorarlo fisicamente. Una rivoluzione globale data
dalla possibilità, con un click, di attivare tutte queste azioni da
un capo all’altro del mondo.
Se
oggi è possibile discutere dell’apporto della tecnologia nel campo
della creatività contemporanea è grazie alla sperimentazione,
all’innovazione tecnologica e al loro vivace assorbimento da parte
del mondo dell’arte che si è lasciato incuriosire non appena è
stato possibile. Alla fine degli anni ‘60 si guardava al computer
come a una chimera: questo strumento non era accessibile alla
maggioranza, sia per il suo costo elevato che per la specificità
delle sue funzioni oltreché per la difficoltà del suo
funzionamento. Jasia Reichardt, curatrice della mostra che per prima
ha posto un filo di contatto tra questi due mondi, racconta come
“Cybernetic Serendipity”, inaugurata presso l’ICA di Londra nel
1968, sia nata sulla scia dell’entusiasmo rivolto a questi nuovi
strumenti. Quarantasei anni dopo, nel 2014,
lo stesso ICA ha rievocato “Cybernetic Serendipity” coinvolgendo
nuovamente Jasia Reichardt che si è chiesta come sia possibile poter
raggiungere oggi le sensazioni provate negli anni ‘60, quando la
società si è accompagnata all’avvento dei computer verso l’ascesa
della prima arte cibernetica.
La
Reichardt, come punto di partenza, coinvolse gli scienziati che
collaboravano in quel momento per la rivista “Computer Automation”
che aveva già lanciato una competizione con un premio per chi avesse
presentato la migliore grafica al computer.
Interessata al carattere spesso randomico e aleatorio delle prime
operazioni che si potevano effettuare, Jasia Reichardt ne chiamò i
vincitori accostandoli all’intervento di artisti selezionati quali
Nam June Paik, Gordon Pask, Bruce Lacey, Rowland Emett e altri. Il
progetto espositivo “Cybernetic Serendipity” era diviso in tre
sezioni, la prima dedicata alle grafiche, alle animazioni, alle
composizioni, alla musica, ai poemi e ai testi generati al computer;
la seconda ai cybernetic device come opere d’arte,
agli
ambienti cibernetici, ai robot con controllo remoto e alle painting
machine; un terzo capitolo presentò le macchine stesse
intente a
dimostrare l’uso del computer.
Introducendo
il catalogo,
la curatrice dichiarava quanto la mostra avesse a che fare con le
‘possibilità’ piuttosto che con il ‘raggiungimento di
obiettivi specifici’ perché fino a quel momento «il
computer non aveva rivoluzionato né la musica, né l’arte, né la
poesia» definendone l’apporto come imparagonabile rispetto a
quanto fatto con la scienza e, per questa ragione, invitava a
escludere alcun giubilo «eroico».
Il
pubblico, a meno che non avesse letto le didascalie in mostra, non
avrebbe distinto se quell’opera fosse stata realizzata da un
artista, un ingegnere, un matematico o da un architetto. Quindi se «i
new media, come la plastica, o i nuovi sistemi come la musica visiva
o la poesia concreta inevitabilmente avevano già cambiato la forma
dell’arte», solo con l’avvento dei computer fu possibile
coinvolgere nuove figure e persone, oltre agli artisti, nel processo
creativo.
Avvalendosi
di consulenti del settore informatico, “Cybernetic Serendipity”
vivisezionò tutte le caratteristiche fondamentali di questo nuovo
strumento, dalla sua memoria all’input/output di informazioni,
dalle unità di controllo a quelle di calcolo numerico, fino a
intercettare il loro possibile ruolo nella creazione artistica,
fornendo specchietti storici, cronologia e un glossario della storia
del computer fino a quel momento. “Cybernetic Serendipity” non
aveva ancora gli strumenti per poter indovinare quanto lontano la
tecnologia avrebbe spinto l’arte, e se guardava il mondo da un
avamposto di osservazione più neutrale rispetto a quello di un
Aldous Huxley, certamente ebbe il merito di offrire interessanti
spunti di riflessione utili per poter anche solo immaginare un mondo
nuovo.
Di
certo è più semplice parlare con il senno di poi, soprattutto
adesso che possono essere elaborate al computer non solo le opere
d’arte, ma anche gli spazi espositivi e, in qualche caso, come si
vedrà, l’artista in quanto avatar. Ma l’eredità della mostra
fu dirompente, a partire dalla rottura delle barriere tra discipline e dallo lo slancio offerto agli artisti di adottare il computer come strumento di lavoro o di creazione favorendo l’instaurarsi della
cyber art intesa come la produzione
digitale di immagini, animazioni, interattività e collaborazioni tra le arti. Questo
avveniva quando solo pochi anni prima iniziarono a condursi i primi
esperimenti con altri strumenti tecnologici.
Dell’innovativo
approccio dell’artista alla macchina ne fu precursore, tra gli
altri, anche Bruno Munari che a partire dal 1964 produsse una serie
di stampe utilizzando la macchina fotocopiatrice Xerox.
Ma fu il video, senza dubbio, il dispositivo più innovativo fino
all’esordio del computer. La cinepresa e la videocamera furono
oggetto di interesse già dai primi esperimenti delle avanguardie
storiche passando per il “Manifesto del movimento spaziale per la
televisione”,
dai cortometraggi di Andy Warhol
fino a Bill Viola o a Studio Azzurro. Nel manifesto del movimento
spazialista, promosso nel 1952 da Lucio Fontana e sottoscritto da
artisti come Alberto Burri, oltre a eleggere la televisione a nuovo
elemento di creazione si esprime l’intenzione di abbracciare, da
quel momento in poi, qualsiasi nuovo strumento tecnologico. Le
caratteristiche di emancipazione dalla materia, di eterna
riproduzione, infinità delle dimensioni e degli orizzonti, davano la
possibilità di esprimere a pieno il nuovo concetto di arte
inseguendo un’estetica «per
cui il
quadro non è più quadro, la scultura non è più scultura, la
pagina scritta esce dalla sua forma tipografica. Noi spazialisti ci
sentiamo gli artisti di oggi, poiché le conquiste della tecnica sono
ormai a servizio dell'arte che noi professiamo».
A
livello internazionale tra i promotori della video arte non è un
caso ci fosse il sud coreano Nam June Paik, già incontrato tra gli
entusiasti partecipanti di “Cybernetic Serendipity”, a cui si
deve il concetto di electronic superhighway
(autostrada
elettronica n.d.r.), premonitore del futuro della comunicazione
worldwide nella nostra era,.
Poco prima del lockdown
la Tate Modern ha voluto ricordare l’artista visionario con una
grande mostra retrospettiva in cui era possibile apprezzare molte
opere dell’artista, alcune quasi premonitrici come “TV Garden”
che immaginava un mondo in cui la tecnologia sarebbe stata assorbita
dalla natura come parte integrante dei suoi paesaggi.
Fu
un secondo evento espositivo, inaugurato il 19 ottobre 1969, che
contribuì ad un ulteriore approfondimento della ricerca.
“Computerkunst – On the eve of tomorrow” nacque per iniziativa
di un’altra donna, Käthe Schröder, fondatrice della Galerie
Clarissa.
Meteora nel panorama culturale di Hannover, dovette chiudere la sua
galleria cronologicamente prima di organizzare la mostra dedicata
alla computer art, che infatti ebbe poi luogo alla
Städtische
Galerie KUBUS. Ma la passione di Käthe Schröder per l’arte
digitale rimase come lascito, nel vero senso della parola, alla città
di Hannover alla quale donò la sua collezione poi riunita in una
mostra del 2010 allo Sprenglen Museum: “Die Virtualität des
Bildes. Frühe Computerkunst der Sammlung Clarissa” (La virtualità
dell’immagine. La prima Computer Art della Collezione Clarissa
n.d.r.).
La mostra coinvolse numerosi artisti quali Kurd Alsleben, Helmar
Frank, Georg Nees, Herbert W. Franke, Motif Edition, Alan Sutcliffe,
Computer Technique Group, Leslie Mezei, Jack P. Citron, Compro,
William A. Fetter, Dick Land, Ben F. Laposky, A. Michael Noll, Duane
M. Palyka, H. Philip Peterson, Richard C. Raymond, Len Sacon, e
Manfred R. Schroeder. Su iniziativa del Goethe Institute la mostra fu
riproposta nel 1970 con il titolo “Computerkunst – Impulse” e
fu inoltre resa itinerante;
tra il 1971 e il 1973 fu accolta in Inghilterra, India, Italia e
Svizzera.
Sempre
nel 1970, in occasione della Biennale di Venezia, ai celebri Giardini
fu accolta “Ricerca e Progettazione. Proposte per una Esposizione
Sperimentale” che ospitava anche una sezione dedicata alla computer
art. In quell’occasione infatti, come ricorda anche Francesca
Franco curatrice nel 2017 della mostra “Algorithmic Signs”
celebrativa di quel periodo e dell’arte computazionale, fu esposta
la “Matrix Multiplication”
di Frieder Nake. L’opera è importante nonché esemplificativa del
metodo innovativo frutto dell’incontro con il calcolo. Grazie a un
algoritmo matematico, utilizzato come matrice di più di un’immagine
e generato da un computer Telefunken T4, Nake collegava ad ogni
numero un segno visivo con una specifica forma e colore. Con un
ulteriore passaggio, che prevedeva l’uso di un raster
e di una macchina perforatrice elettronica Zuse
Graphomat Z64, si
generavano dei nastri che venivano poi inseriti in una macchina da
disegno, che infine generava la serie.
Nel
2010 lo stesso Nake dichiarò che «ogni singola opera d'arte
algoritmica non è altro che una sola istanza di quelle
potenzialmente infinitamente numerose della classe di opere definite
dall'algoritmo. La tragedia è che l'algoritmo stesso non mostra
spesso qualità visive. Le sue qualità sono il potenziale per
generare opere visive. Ma ciascuno dei suoi prodotti visivi è solo
un’ombra dell’algoritmo».
Il punto di vista di Nake, e dello storico dell’arte Grant D.
Taylor, è riportato nella scheda della serie conservata alla Tate
Modern e che aiuta a comprendere come la riflessione dell’autore
abbia evoluto nel tempo il suo punto di vista critico. Perché se
Grant D. Taylor sosteneva che il procedimento creativo di Nake, così
legato al computer, rompeva con «il tradizionale processo di
costruzione di un’immagine a partire da strutture visive perché i
dati di input erano semplicemente operazioni di calcolo»,
lo stesso Nake osservò che la sua computer art
fosse rimasta
in qualche modo ‘tradizionale’, poiché «ha dato luogo a lavori
di carta da appendere alle pareti di una galleria».
Queste opere furono uno dei primi esperimenti in cui il singolo
soggetto umano cessava di esistere come creatore, demandando tutto al
calcolo e alla macchina.
Questo
risultato, come anticipato, insieme alla cercata e approfondita
liason con la macchina (di qualsiasi
tipologia fosse), fu
intuito ed esplorato sia dall’arte cinetica che specialmente
dell’arte programmata pur rimanendo comunque entrambe focalizzate
sulla possibilità di riprodurre un movimento o comunque una
variazione formale di un elemento, non prescindendo dalla
sequenzialità delle immagini, come diapositive di un videoclip.
Aspetti, questi, non cruciali per la prima computer art,
piuttosto effetti collaterali della sua storia evolutiva,
specialmente se si pensa all’afflato vitale che il digitale e il
virtuale possono donare a oggetti o personaggi immaginari, ad esempio
nelle opere di Ed Atkins, in grado di muoversi nello spazio e mutare,
nell’arco temporale dell’opera, oltre l’impossibile,
raggiungendo un’estetica della finzione ibrida e ossimorica, tra il
surreale e l’iperrealista.
In
linea con l’interesse già incontrato da “Cybernetic Serendipity”
e da altri appuntamenti tra scienza e arte, è interessante citare
per l’Italia, l’inedito interesse per l’argomento da parte di
un’altra donna, Maria Di Lella Alfani. Fondatrice dello Studio
Farnese, tra il 1968 e il 1972, propose una programmazione incentrata
sull’esplorazione delle nuove possibilità generate dal dialogo tra
arte, architettura, scienza e altre discipline.
Proprio in una delle occasioni espositive dello Studio Farnese
vennero esposte oltre alle Flexy (sculture in acciaio scomponibili)
anche le Xerocopie originali di Bruno Munari: «Le opere di Munari –
allo Studio Farnese – articolano le loro proprietà attive in modi
diversi, ma non contraddittori (…). Tutto si stabilisce in maniera
molto spontanea e provocante: il gioco della fantasia e il rigore del
calcolo trovano in Munari una perfetta coincidenza».
La
serendipità cibernetica degli anni ’60 e ’70 si è evoluta
divenendo quindi oggi resilienza cibernetica, in un ventennio non
senza traumi riportati, dall’11 settembre ad oggi. Se è
prerogativa dell’arte incontrarsi con la realtà tanto quanto con
la finzione, è intrinseco nella natura del digitale e del virtuale
che queste viaggino su due binari paralleli che solo attraverso
l’immaginazione e la volontà dell’artista giocano a inseguirsi
riproducendosi o distorcendosi a vicenda, così come le proprie vite
si costruiscono in forme nuove per essere poi riprodotte
inequivocabilmente manipolate sui social media. Sebbene tutta l’arte
sia frutto di invenzione, di manipolazione, di riproduzione o
produzione ex novo, solo adesso il suo complesso sistema, con tutte
le sue componenti, può attingere largamente a forme estreme di
creazione, organizzazione ed esibizione a livello globale.
Il
6 dicembre 2019 il profilo Instagram di Lil Miquela,
musicista che vanta più di 2 milioni di follower su Instagram,
pubblica una foto scattata in occasione di Art Basel Miami in
compagnia di Jerry Saltz, il critico d’arte di punta del New York
Magazine – già premio Pulitzer per la Critica nel 2018 – e
Marylin Minter, artista statunitense. Geolocalizzati alla Soho Beach
House, un club members only internazionale
esclusivo, posano
estremamente naturali davanti alla fotocamera, interrotti nel bel
mezzo di una discussione, colti dalla foto che non gli ha dato il
tempo di mettersi in posa. La classica immagine scattata durante un
evento, se non fosse che Lil Miquela non esiste e se esiste di certo
non in carne e ossa. Nonostante sia una cantautrice e, come molti
artisti di oggi, influencer, nonostante i suoi
rapporti –
almeno apparenti – con personaggi famosi affatto di fantasia,
proprio come Jerry Saltz, Lil Miquela è un avatar, il frutto di una
elaborazione digitale tridimensionale alla quale sono stati
attribuiti specifici connotati fisici e di personalità, costanti in
tutte le sue manifestazioni e apparizioni, così come costante è la
sua caratteristica principale: la sua, per quanto creativa, non
esistenza.
NOTE
La mostra avrebbe avuto luogo dal 5 marzo al 2
giugno alle Scuderie del Quirinale: https://www.scuderiequirinale.it/mostra/raffaello-000.
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VIDEOGRAFIA
L’ICA
ripropone una retrospettiva su “Cybernetic Serendipity” dopo anni
dalla sua inaugurazione, 2014:
https://archive.ica.art/whats-on/cybernetic-serendipity-documentation.
Le
riflessioni di Jasia Reichardt a proposito di Cybernetic
Serendipity”, 2014: https://www.youtube.com/watch?v=oSwovB28B34.
"5
Times Artist Nam June Paik Predicted the Future”:
https://youtu.be/yMUJB5aFvdo.
DÉPLIANT
AA.VV.,
Voce Galerie
Clarissa,
in “Compart. Center of excellence digital art”:
http://dada.compart-bremen.de/item/institution/326.
AA.VV.,
Voce Computerkunst
- On the Eve of Tomorrow,
in “Compart. Center of excellence digital art”: http://dada.compart-bremen.de/item/exhibition/255.
Art
Basel Hong Kong 2020, Resoconto delle Online Viewing Room:
https://www.artbasel.com/stories/online-viewing-rooms-roundup.
Il
“Manifesto del Movimento Spaziale per la Televisione”:
https://i.pinimg.com/originals/2a/15/fa/2a15fab9cf65405eb8a08474fd54c1bd.jpg.
Guida
online della mostra “Nam June Paik”, Tate Modern, Londra, 2019:
https://www.tate.org.uk/whats-on/tate-modern/exhibition/nam-june-paik/exhibition-guide.
Testo
stampa della mostra “Die Virtualität des Bildes. Frühe
Computerkunst der Sammlung Clarissa” (2010) allo Sprengel Museum di
Hannover:
http://www.archiv.monopol-magazin.de/kalender/termin/20103185/sprengel-museum-hannover/Die-Virtualitaet-des-Bildes-Fruehe-Computerkunst-der-Sammlung-Clarissa.html.
Scheda
digitale della serie di Frieder Nake in collezione della Tate Modern:
https://www.tate.org.uk/art/artworks/nake-no-title-p80806.
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