Le
architetture in ferro e vetro occupano nel cuore dei parigini e nel loro
immaginario un ruolo di primaria importanza da quasi due secoli.
Negli anni Trenta dell’Ottocento, Charles Rohault de Fleury, nominato
architetto capo del Jardin des Plantes, vi realizza due magnifiche serre in
ghisa ricoperte da lamine di vetro, di dimensioni di gran lunga superiori a
tutte quelle già esistenti e destinate ad ospitare monumentali piante
tropicali. Vent’anni dopo, ispirandosi proprio allo stile di Fleury, Joseph
Paxton costruì il celeberrimo Crystal Palace per l’Esposizione universale di
Londra del 1851. Ma sarà comunque Parigi a custodire la stragrande maggioranza
di architetture di questo genere, che, a partire dalla seconda metà
dell’Ottocento, si diffusero grazie all’utilizzo massiccio di elementi
metallici prefabbricati.
Così vennero costruite Les Halles de Paris, snodo commerciale centrale della città e sede nell’Ottocento del mercato coperto con dieci grandi padiglioni di ferro e vetro. Les Halles si guadagnarono un posto di rilievo nella letteratura per essere state l’ambientazione del romanzo Il ventre di Parigi di Émile Zola, in cui furono descritte
come un micromondo rutilante e prosperoso dove bellezza faceva rima con cibo.
Secondo capolavoro in ferro e vetro che si impone nel paesaggio cittadino è il
Grand Palais, edificio lungo 240 metri e alto 46, costruito per l’Esposizione
universale del 1900 e dedicato «dalla
Repubblica francese alla gloria dell’arte francese», frase inscritta sul
frontone.
Fig. 1 - Grand Palais, Parigi (2013)
Foto di Thesupermat [CC BY-SA 3.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0] non modificata
Da
secoli quindi, questi edifici in ferro e vetro caratterizzano il tessuto urbano
parigino e dialogano con la città e i suoi abitanti. In ragione di questo
excursus storico, la Fondation Vuitton, progettata da Frank Gehry, può a buon
diritto essere inserita all’interno di questa lunga e fiorente tradizione
architettonica.
Un
ulteriore richiamo alla storia risulta necessario come premessa per inquadrare
il contesto in cui la Fondazione nasce e si sviluppa nel progetto
dell’archistar: la storia del Jardin d’Acclimatation.
Fig. 2 - Fondation Louis Vuitton, veduta dal Jardin d’Acclimatation, Parigi
Foto di Moktarama [CC BY 3.0 https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/deed.en] non modificata
Laghi,
cascate, stagni, giardini, boschi e serre animano ancora oggi il grande polmone
verde di Parigi, il Bois de Boulogne, situato ad ovest della città, nel XVI°
arrondissement. Quest’ultimo è da sempre uno dei quartieri più belli e costosi
della capitale, già zona residenziale per i borghesi che amavano passeggiare
nei lunghi viali alberati, ma anche luogo di incontri mondani dove il giovane
Marcel Proust incrocia la principessa Matilda. Così la descrive ne Alla
ricerca del tempo perduto:
«Swann mi prese in disparte mentre Mme Swann chiacchierava
del tempo e degli animali appena arrivati al Jardin d’Acclimatation con sua
Altezza. “E’ la principessa Mathilde – mi disse – sai l’amica di Flaubert, di
Sainte–Beuve, di Dumas. Pensa, è la nipote di Napoleone! La sua mano è stata
chiesta da Napoleone III e dall’Imperatore di Russia. Non è fantastico?»
Era
stato Napoleone III, affascinato dai racconti degli esploratori e dalla
scoperta di moltissime specie vegetali, a commissionare la realizzazione di un
parco per “acclimatare” (da qui il nome Acclimatation) animali e piante al
clima francese e di strutture in grado di accogliere un pubblico sempre più
curioso. Fra le strutture più belle, si ricordano il gigantesco palmarium in
ferro e vetro, l’acquario, la voliera, la piccionaia, una parete rocciosa che
ospitava i daini e il roseto di Bagatelle. Il Jardin nasce con una forte
vocazione scientifica grazie al lavoro di alcuni fra i più importanti
naturalisti dell’epoca, uno su tutti Isidore Geoffroy Sainte–Hilaire, unita ad
un desiderio di regalare alla città un luogo di svago e divertimento. Infatti,
si tratta di un giardino paesaggistico, della tipologia “all’inglese”, che
predilige l’aspetto pittoresco e selvatico della natura e, in contrapposizione
al giardino rigoroso all’italiana, si caratterizza per i percorsi sinuosi, la
presenza di grotte, anfratti e belvederi. La storia del Jardin si lega
indissolubilmente alle vicende del paese e segue le evoluzioni della moda e del
costume. Così, durante la Terza Repubblica, il Jardin ospitò compagnie che
mettevano in scena spettacoli etnografici e, col passare degli anni, fu sempre
più amato e frequentato dai bambini della Parigi borghese. Rimase più o meno
inalterato fino al 1952, anno in cui venne comprato dal magnate del tessile
Marcel Boussac che, nel 1995, lo rivendette al Gruppo LMHV, multinazionale
francese proprietaria di numerose aziende di alta moda, di alcolici e di
cosmesi.
Fin
da subito, Bernard Arnault, proprietario del Gruppo e grande mecenate della
cultura, immaginava di trasformare un angolo emblematico del Jardin in uno
spazio votato all’arte e alla creazione, progettato da Frank Gehry. Nel 2002,
si aprì la collaborazione tra LVMH, lo Stato francese (fondamentale fu
l’appoggio di Jack Lang, allora consigliere del Ministro della Cultura e
ideatore di iniziative come la “Cité de la Musique”) e l’architetto canadese.
Dopo aver istituito formalmente la Fondazione e stipulato un accordo con lo
Stato per occupare il suolo pubblico per 55 anni, Frank Gerhy realizzò dapprima
alcuni schizzi e poi decine di bozzetti in legno, cartone e plastica, tappe
fondamentale per il suo processo di creazione. Lo stesso architetto racconta
così la sua pratica, che sembrerebbe avvicinarsi a quella di un artigiano: «Mi
siedo, guardo e manipolo gli oggetti. Muovo un muro, un pezzo di carta, muovo
qualcosa e poi guardo e così le cose evolvono».
Osservando
i primi bozzetti, emerge subito la complessità del progetto: una grossa
struttura, chiamata iceberg, composta
da volumi bianchi dalle forme irregolari, è ricoperta da una moltitudine di vele di vetro (dodici in totale). Nel
disegnare, Frank Gehry doveva rispettare alcune limitazioni, in particolare per
l’altezza dell’edificio (era stato autorizzato un solo piano), e aveva
l’obbligo di tenere in considerazione l’estetica e il decoro del parco. Lo
stesso Gehry confermò che «La Fondazione non sarebbe mai stata costruita se non
circondata da un grande lucernario».
Un’opera architettonica molto innovativa che ha quindi saputo rispettare e, al
contempo, trasfigurare i dati di partenza e il contesto nel quale s’inseriva.
La complessità del progetto, tante volte ribadita, creò numerose difficoltà
tecniche durante il Digital Project e lunghi studi preliminari rallentarono
l’inizio dei lavori.
Un’architettura
che frammenta le masse e le riassembla in una composizione arbitraria e
all’apparenza caotica, un gusto per il collage e il colore, e la predilezione
per i volumi irregolari sono le cifre stilistiche più caratteristiche del
lavoro di Gerhy.
Per La Fondation, sceglie le potenzialità poetiche della metafora marittima e
si lascia suggestionare da esse. Egli immagina l’edificio come una gigantesca
caravella trasparente dalle vele rigonfie per il forte vento che gli conferisce
un grande dinamismo. L’intera struttura, da prua a poppa, per proseguire la
metafora marina, poggia poi su un bacino d’acqua artificiale e, grazie all’uso
massiccio del vetro, un gioco di riflessi tra acqua e cielo si materializza.
Frank Gehry voleva che la logica costruttiva dell’edificio fosse illeggibile
all’occhio esterno e, così, decise di confondere i riferimenti degli
spettatori. La Fondation stimola lo sguardo, moltiplicando i punti di vista.
Essa sembra ricalcare le categorie che Salvatore Rugino
attribuisce a questo genere di architetture composte da sequenze dinamiche di
volumi (ad esempio le categorie di “dinamico”, “distributivo”, “digitale”).
Fig. 3 - Fondation Louis Vuitton, veduta dal Jardin d'Acclimatation, Parigi
Foto di Moktarama [CC BY 3.0 https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/deed.it] non modificata
Il
nucleo centrale della Fondation Vuitton è costituito dal cosiddetto iceberg composto
a sua volta da tre blocchi architettonici che rispondono a logiche costruttive
differenti: al centro, il primo blocco che sovrasta la hall è retto da
monumentali bielle in acciaio, ad ovest da un sistema di travi e colonne e ad
est in calcestruzzo armato. Questo perché Gerhy voleva che sia la struttura
esterna che quella interna fossero diverse in ogni punto. Su questo nucleo
centrale si incastra un’ossatura di acciaio inossidabile che sposa le sinuosità
delle facciate e, all’interno delle quali, si inseriscono delle lastre di vetro
aggettanti. Queste ultime non poggiano a terra e sembrano galleggiare o
fluttuare tra cielo e mare.
La somma della superficie di tutte le vele raggiunge 13.500 metri quadri;
addirittura la più grande, ad est, ricopre da sola circa 3.000 metri quadri. I
pannelli di vetro, 3.600 pezzi, sono
stati costruiti separatamente e poi montati in un anno e mezzo, dopo essere
stati sottoposti ad un trattamento serigrafico. Difatti, sono ricoperti da una
trama di puntini bianchi regolari, non più grandi di due millimetri, che
conferisce loro un delicato color latte e aumenta la rifrazione solare. Grazie
a questi espedienti, il lucernario assume l’aspetto di un’autentica vela a tre
alberi che brilla in mezzo al mare.
Per
creare un raccordo tra l’iceberg e le
vele è stata posizionata una struttura in acciaio e legno, composta da 179
colonne con orientamenti diversi, la cui lunghezza varia dai 3 ai 25
metri.
Numerosi
calcoli di resistenza meccanica al calore e al vento sono stati effettuati per
garantire la sicurezza dell’impianto, così come delle analisi differenziate per
ciascun materiale impiegato sono state necessarie. Con il materiale raccolto
dai test, è stato quindi possibile calibrare con precisione ogni singolo
elemento. I lavori hanno richiesto tempistiche molto lunghe e durante il
cantiere si sono alternate figure professionali fra le più disparate e
competenti in diversi settori. Alcune di loro sono state formate proprio per
questo progetto, come degli speciali “montatori specializzati in lavori in
quota su funi”. Come spesso accade nei lavori di Frank Gerhy, differenti
settori si sono confrontati con le esigenze della realizzazione di una
struttura così eterogenea: l’architettura è opera collettiva.
Un
approfondimento sul materiale con cui è stato costruito il nucleo centrale
della Fondation Vuitton è importante perché davvero innovativo. L’iceberg, vero
cuore del museo, presenta una superficie irregolare di cemento bianco ed è
costituito da quasi ventimila pannelli uguali nelle dimensioni ma con curvature
diverse a seconda del luogo dove sono posizionati. Tutti i pannelli,
incastonati in una struttura di alluminio, sono stati montati seguendo il motivo
dell’earthquake.
Data l’impossibilità di creare uno stampo per ciascun pannello, per ovvi
motivi economici, Frank Gerhy ha scelto di usare il Ductal®, cemento
contenente un mix di granulato finissimo, acqua e poliestere. Questo materiale
garantisce un’eccezionale resistenza meccanica, anche in assenza di una
struttura portante, ed è estremamente duttile, potendosi adattare a tutti gli
stampi. Il colore bianco e la texture liscia dell’iceberg sono stati
ottenuti aggiungendo al composto dell’ossido di titanio.
La
Fondation Vuitton necessitava di spazi molto ampi per accogliere un vasto
pubblico all’interno dei diversi luoghi espositivi ma non poteva svilupparsi in
altezza per via dei vincoli paesaggistici. L’architetto ha allora progettato un
seminterrato che si affaccia su uno specchio d’acqua, visibile dalle sale del
seminterrato, tutte aggettanti rispetto al perimetro centrale. Esse hanno lo
scopo di moltiplicare gli spazi espositivi disponibili, contribuendo anche a
rendere più dinamico l’insieme della struttura. Inoltre, da queste sale
“sospese”, vere e proprie terrazze, il pubblico può godere del panorama sul
bosco e sulla città e osservare da vicino i dettagli della struttura della
Fondation.
L’importanza
del tema del mare e della vela è, come sopra accennato, ulteriormente
rafforzata dalla presenza fisica dell’acqua, un bacino lungo 200 metri, 7 metri
sotto il livello del terreno. La vasca è alimentata da una cascata con scalini
che scorre dal livello della strada e attutisce i rumori circostanti.
Delimitato da un parapetto di pietre, il bacino è attraversato da vialetti che
collegano le varie terrazze. Isolato rispetto al Jardin d’Acclimatation,
l’edificio sembra galleggiare su uno specchio d’acqua.
Per
lo spostamento da un piano all’altro dell’edificio, Frank Gehry progetta una
serie di scale concepite come dei nastri metallici sospesi, vera dimostrazione di
virtuosismo per l’inesauribile capacità di sorprendere il pubblico. Le scale
sono percorsi diagonali, pensati come scenografie geometriche inondate dalla
luce.
La
meraviglia e lo stupore sono fra le prime sensazioni che prova chi si accinge a
visitare la Fondation. Immediatamente, si è investiti da una serie di stimoli
che coinvolgono tutti i sensi. Questa è la poetica architettonica di Frank
Gehry. Fra le critiche più ricorrenti vi è quella che sostiene la sostanziale
inadeguatezza di strutture così “invadenti” (per la loro bellezza e
complessità) ad ospitare opere d’arte, essendo esse stesse opere d’arte.
Tuttavia, la Fondation Louis Vuitton nasce con la precisa volontà di essere un
museo d’arte contemporanea a tutti gli effetti. Difatti, Bernard Arnault,
committente e proprietario dell’opera, di comune accordo con lo Stato francese,
voleva creare uno spazio che potesse essere un punto di riferimento culturale. «La
mission del museo»,
racconta la sua direttrice Sophie Durreleman, «è di accogliere e accompagnare
il pubblico, desideroso di scoprire l’arte esposta nell’edificio di Frank
Gerhy, suscitare domande e risposte, emozioni».
Inutile negare l’attrattiva internazionale che inevitabilmente il lavoro di
Gerhy riesce a catalizzare, si pensi a questo proposito a “l’effetto Bilbao”.
La Fondation punta a proporre un calendario ricco di mostre ed eventi di
qualità. Essa, infatti, cerca di favorire la mediazione tra pubblico e arte
attraverso gli strumenti dell’emozione, la scoperta e la meraviglia e offrendo
anche contenuti culturali e didattici. L’architettura degli interni risponde
quindi a questa molteplicità di esigenze.
La
hall d’ingresso della Fondation Vuitton si caratterizza per la presenza di
ampie vetrate che rendono lo spazio molto luminoso e permettono di vedere il
parco alberato del Jardin d’Acclimatation, abbattendo il tradizionale confine
interno/esterno. Gehry privilegia grandi pareti a vetrata e conferma la sua
predilezione per una “poetica della trasparenza”. Il museo conta undici
gallerie dedicate all’esposizione di opere della collezione permanente, di
mostre temporanee e al lavoro degli artisti. L’illuminazione naturale delle
sale ortogonali, più classiche, è garantita dalla presenza di aperture
monumentali dette skylights nel
soffitto; mentre, in altre sale, le finestre hanno forme più complesse e creano
dei giochi di luce e ombra suggestivi.
Fiore
all’occhiello della Fondation è l’auditorium, che accoglie fino a mille
persone. Situato al piano terra, questo spazio è luminosissimo perché
interamente vetrato (si affaccia sulla cascata a gradini e sul bacino d’acqua)
ma, all’occorrenza, può essere buio grazie a dei pesanti tendaggi. Esso, infatti,
si caratterizza per la sua versatilità: auditorium corretto acusticamente per
gli eventi del museo convertibile in galleria espositiva per implementare gli
spazi delle mostre. Una volta entrati, lo sguardo si rivolge immediatamente al
sipario–arcobalen
realizzato dall’artista Ellsworth Kelly.
Tappa
obbligata della visita al museo sono le tre terrazze poste sopra l’iceberg. Due
di queste sono al chiuso, al riparo sotto le vele, e l’altra è invece
all’aperto. La vista sul Bois de Boulogne e sui tetti di Parigi è spettacolare
e la passeggiata su queste terrazze si arricchisce della presenza di un giardino pensile. Felci
arborescenti australiane, querce asiatiche con foglie di bambù (quercus
myrisinfolia) e gunnere cilene abbelliscono le terrazze e rievocano
l’antico palmarium esotico del Jardin d’Acclimatation.
«La
trasparenza e la qualità di un colore proiettato grazie ad un filtro colorato
è, ai miei occhi, molto più vivo di un colore dipinto che ricopre una
superficie».
Queste le parole di Daniel Buren per descrivere il lavoro L’Observatoire de
la lumière realizzato nel 2016 per la Fondation Vuitton. L’intervento
temporaneo ha interessato lo straordinario lucernario. Le dodici iconiche vele
sono state ricoperte da numerosi filtri
colorati, disposti a quinconce.
Buren ha scelto tredici colori (che spaziano tra le nuances del rosso, del
verde e del blu) per dare vita ad un mosaico variopinto e caleidoscopico,
variabile a seconda delle condizioni meteorologiche e capace di modificare
l’illuminazione interna del museo. Un’opera di forte impatto visivo ed emotivo
che si à integrata perfettamente con la visionaria architettura di Frank Gehry.
La
Fondation Vuitton, realizzata da uno dei più grandi architetti della nostra
epoca, si configura quindi come una nuova emblematica icona della città di
Parigi e del suo patrimonio monumentale, un’icona votata alla rappresentazione
dei nostri tempi liquidi.
NOTE
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gennaio 2015) Parigi, Edition du Centre Pompidou, 2014.
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originale 1913–1927).
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Salvatore
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Bruno
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SITOGRAFIA
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Ductal,
<https://www.ductal.com/en> visitata il 26/03/2020.
JARDIN D’ACCLIMATATION
Le Jardin d’Acclimatation, <http://jardindacclimatation.fr/> visitata il 25/02/2020.
LVMH
LVMH,
<https://www.lvmh.it/le-maison/altre-attivita/jardin-dacclimatation/> visitata
il 25/03/2020.
Vedi anche nel BTA:
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