È
opinione diffusa che il “Barocco leccese” sia il
frutto del
raccoglimento della società salentina attorno ai
valori edificanti
della propria terra, descritta nelle fonti come un
territorio «dal
quale si cava, e grano, e vino, e olio, e mandorle,
e limoni, e
aranci, e altri frutti in molta copia»,
che gode del «benefizio dell’aria», posto «sotto
cielo
benigno».
Come
ogni
periferia, Lecce è stata spesso associata allo
stigma del
ritardo nei confronti dei centri egemoni. Di
conseguenza, è stata
proposta la definizione di “architettura
controriformata” per
indicare quei modelli della chiesa post-tridentina
introdotti nel
Cinquecento dagli ordini regolari ai quali la
cultura locale fa
resistenza.
In
questa
sede, sulla via aperta dai più recenti studi
sull’argomento,
si intende porre l’accento su una diversa
prospettiva da cui
guardare il Barocco leccese, inteso come fenomeno inclusivo,
nato non per opporsi a un modello dominante ma per
elaborarlo
selettivamente.
In una prima fase controriformata, la carica
dirompente del nuovo
viene accolta “con riserva”, esasperando al contempo
alcune
modalità della tradizione locale. In una seconda
fase, la soluzione
del contrasto fra i modelli della Controriforma
e le resistenze tradizionaliste si deve al vescovo
Luigi Pappacoda,
che farà di Lecce una vera e propria città della Riforma
cattolica.
-
Tensione
ed equilibrio: la scelta di un modello
La
storiografia
si interroga ancora sulle ripercussioni avute in
tutto
il mondo cattolico dopo l’affissione delle tesi
luterane a
Wittenberg nel 1517, un fenomeno definito,
congiuntamente, con i
termini di Controriforma
e Riforma
cattolica.
Da un lato, evidente è l’impeto “reazionario” della
Chiesa che
affronta in campo aperto gli eretici protestanti;
tutta interiore è
invece la ferita che si apre in seno alle
istituzioni ecclesiastiche,
consapevoli della necessità di un profondo
rinnovamento dell’ideale
di vita cattolica. Il lungo e appassionato dibattito
ha proposto, più
che una opposizione, una vera e propria compresenza
dei due termini,
giungendo alla conclusione che le definizioni di
Controriforma e
Riforma cattolica focalizzano momenti distinti ma
concatenati l’un
l’altro, aiutando a identificare una maturazione
dottrinale
intrinseca al mondo cattolico dopo lo scisma
protestante.
La
nascente
civiltà barocca si nutre della profonda tensione
che, nella
seconda metà del Cinquecento, viene generata
dall’onda
controriformata. Il periodo immediatamente
successivo al Concilio di
Trento è espressione dell’interpretazione più rigida
del
dibattito riformatore cattolico. La Chiesa viene
colpita da una
rigorosa “ansia da normazione”, da un’esigenza di
dare ordine e
di imporre regole chiare alla liturgia e al culto.
Sempre più
evidente è inoltre la necessità di una ingente opera
di
rievangelizzazione al fine di dar vita a una nuova
compagine sociale
depurata e santificata. Si dovrà però aspettare la
precoce
santificazione di Carlo Borromeo (canonizzato nel
1610, dopo soli 26
anni dalla morte), affinché gli organi ecclesiastici
propongano la
più efficace manifestazione della spinta
rinnovatrice della
Controriforma.
Carlo Borromeo è elevato a modello universale
«d’ornamento alla
chiesa trionfante e utile alla militante»,
capace di esprimere quell’equilibrio tanto ricercato
in un momento
di grave tensione conciliando rigore e affettuosità.
Anche se la perfezione morale del nuovo santo pare
riunire sotto
un’unica immagine le necessità del mondo
post-tridentino, il
Borromeo riflette in sé tutte le contraddizioni
della sua epoca.
Basti pensare alla doppia veste che il santo assume
nel corso del
tempo. Nel periodo del suo episcopato milanese,
Carlo è visto come
il vescovo amorevole e zelante che applica i dettami
tridentini
sfruttando la sua capacità oratoria.
Dopo la morte, con lo svolgersi del processo di
santificazione, si
assiste a un ribollire di metafore e giochi
linguistici costruiti ad
personam
che
spazzano
via la purezza formale della dottrina carolina ed
evidenziano, sopra ogni cosa, la potenza
propagandistica della chiesa
controriformata.
-
Le
Instructiones
di
Carlo Borromeo e il binomio vescovo-architetto
È
stato il gesuita Achille Gagliardi (1537-1607), in
una relazione
inviata a Milano nel 1603, a mettere a fuoco
l’aspetto riformatore
intrinseco all’azione pastorale del Borromeo,
definito il Sapiens
Architectus.
Sulla base degli scritti carolini, il vescovo
controriformato deve
apparire come un architetto che ordina la Chiesa
secondo una
ramificata struttura di governo, dove i vescovi sono
i cardines
e i sacerdoti i voluti
nervi.
Il Buon Pastore non si deve occupare solo della
dottrina ma deve
porre attenzione anche allo spazio sacro, che con la
sua razionale e
ordinata struttura, crea le premesse per l’incontro
dell’uomo con
Dio. Su questa necessità si fonda il senso profondo
dell’idea di
architettura di Carlo Borromeo, che si traduce nelle
Instructionum
Fabricae
et Supellectilis ecclesiasticae
(1577), l’unico trattato che applica i princìpi
tridentini alla
disciplina architettonica.
Il testo si configura come una gigantesca opera di
scomposizione
dell’edificio sacro nelle sue parti, scendendo
progressivamente di
scala. In tale disamina si esprime la meticolosità
dell’autore
indirizzata verso una revisione della realtà fisica
della fabbrica:
la visibilità, la gerarchia degli elementi
architettonici, le misure
e le dimensioni delle parti, l’arredo fino alle
prescrizioni più
minute.
Unica preoccupazione del vescovo-legislatore è
quella di ridurre in
“norme” i vari aspetti della liturgia, assicurandosi
che ogni
elemento dello spazio sacro non vada a intralciare
lo svolgimento del
rito cristiano.
Nella
crisi
religiosa apertasi in seguito allo scisma
protestante, San
Carlo propone una nuova forma di devozione fatta di
un continuo
rinnovamento di fede, alla ricerca di un equilibrio
fra ragione e
sentimento. Lo stesso bilanciamento si riflette in
quel rapporto fra
vescovo e architetto da cui maturano le principali
“istruzioni”
per la costruzione dello spazio sacro. Al primo è
richiesto di
tenere ben presenti le finalità spirituali
dell’edificio, che non
vanno obliterate in nome della “ricerca formale”;
al secondo spetta il compito di creare nuove
soluzioni
architettoniche, favorendo una continua renovatio
in cui l’unica “unità di misura” da prendere in
considerazione
è il fedele nella sua condizione di fruitore.
«Dobbiamo
necessariamente
e continuamente vegliare sulla salute del nostro
gregge […] e soccorrerlo con ogni mezzo suggerito
dalla
sollecitudine paterna. […]. Come riteniamo
necessario fruire del
consiglio di esperti architetti, così proponiamo di
imitare l’antica
pietà e religione dei fedeli.»
Al
giudizio
del vescovo deve seguire il parere dell’architetto.
Questo
dualismo ritorna in maniera costante in tutti i
capitoli delle
Instructiones,
dove il vescovo conclude la trattazione affidandosi
«al di lui
parere».
L’architetto non appare dunque come un mero
esecutore tecnico ma
come una professionalità riconosciuta.
Egli condivide col vescovo le scelte più idonee per
fare in modo che
la fabbrica sacra risulti non solo un luogo da
esperire esteticamente
ma un vero e proprio «vivere creativo […] che sappia
far
fruttificare i talenti umani, di cui alla parabola
evangelica».
La compresenza
delle
due
figure garantisce la possibilità di trovare
soluzioni adatte
agli «infiniti modi in cui si manifesta la fragilità
dell’uomo,
per sorreggerlo e accompagnarlo con carità cristiana
nel percorso di
fede».
Il
dibattito
storiografico sull’intransigenza delle disposizioni
post-tridentine ha influenzato anche la modalità con
cui le
Instructiones
sono state analizzate nel corso del tempo.
Lo scostamento dell’opera dai tradizionali trattati
di architettura
cinquecenteschi (sia nella struttura testuale che
nel modo
d’intendere la disciplina) ha fatto sì che il testo
venisse
considerato un semplice manuale della
Controriforma,
con precetti pratici da seguire rigidamente.
Al contrario, le Instructiones
vanno lette come linee guida della Riforma
cattolica
sperimentate
con
successo nella diocesi milanese e proposte come
modello,
favorendo tacitamente grande libertà di azione
proprio a partire
dalle norme esposte nel trattato.
In più occasioni il Borromeo evidenzia quanto sia
fondamentale
valorizzare le consuetudini e le tradizioni locali
che, se non appaiono in contrasto coi dettami della
Chiesa, sono una
garanzia di una continuità che rassicura il fedele.
In fondo, la
scelta di fare del vescovo milanese il simbolo della
pastoralità
tridentina è legata anche all’importanza assegnata,
nei suoi
scritti, alle chiese
particolari,
ossia a ogni chiesa locale che «verrà a servire
l’universale
coll’esempio delle sue attioni».
Il carattere inclusivo delle “Istruzioni” caroline
(ben lontano
dalla rigidità con cui solitamente sono intesi gli
scritti
tridentini) ha permesso all’opera di diffondersi
capillarmente al
di fuori del contesto milanese, soprattutto in quel
Meridione che
vive il picco della sua stagione controriformata nel
corso del
Seicento.
-
Lecce,
città della Controriforma
L’identità
di
Lecce è strettamente legata alla sua ubicazione
periferica che ha
fatto del capoluogo di Terra d’Otranto una
città-cerniera fra
Oriente e Occidente, nodo di scambio economico e
culturale con le
popolazioni mediterranee.
Fin dalle sue origini, Lecce è nata su un profondo
senso di
“sdoppiamento”. Le vicende dei due siti di Lupiae
e Rudiae
esprimono molto bene l’identità composita e “divisa”
del
territorio.
Lo stesso emblema civico è il risultato della
fusione della lupa
con il leccio (vedi il capitolo 1 di Marcello Fagiolo in CAZZATO, FAGIOLO 2013).
Descritta da Vincenzo Cazzato a forma di “nave”
sentinella fra
due mari, lo Ionio e l’Adriatico, Lecce ha vissuto
la rivalità con
Brindisi per imporsi quale «punto d’arrivo di un
sistema
rassicurante di relazioni, centrato sull’Urbe;
resistendo, così,
ad una propria insopportabile identità
indeterminata».
È proprio il perdurare nel tempo di questa
oscillante duplicità
culturale che ha fatto della città il terreno
perfetto per la
costruzione, nel XVI secolo, di una ideale città
sacra.
Le
vicende
costruttive che animano la Lecce cinquecentesca sono
il
perfetto rispecchiamento di quel processo di
assestamento della
Chiesa post-tridentina che affronta, subito dopo lo
scisma luterano,
la stagione della Controriforma.
L’accesa devozionalità che dà vita alla stagione
barocca fiorisce
a seguito di una duplice vittoria. Da un lato il
Concilio di Trento
(1563) aveva cercato di dare risposte a quella crisi
generata dallo
scisma protestante; dall’altro la battaglia di
Lepanto contro i
Turchi (1570) aveva permesso al mondo cristiano di
ottenere una
significativa vittoria contro l’infedele: due
occasioni di grande
slancio per la città salentina che, durante la
stagione del dominio
turco sui mari, si era andata progressivamente
isolando consapevole
di aver perso ogni alternativa di gravitazione
territoriale.
La sensazione che i nemici fossero stati allontanati
innesca nella
società un fervore costruttivo (materiale e
spirituale) di cui si
cibano le compagini religiose post-tridentine.
Gli
ordini
regolari che maggiormente incidono sulla trama
urbana sono i
Teatini e i Gesuiti, che si insediano a Lecce
rispettivamente nel
1574 e nel 1586. Giunti con l’obiettivo di
diffondere sul
territorio la rinnovata dottrina, si incrociano con
altre presenze
ben più radicate sul territorio, come i Celestini.
Questa tensione
(che è poi la linfa del dibattito controriformato)
si percepisce in
quegli anni nei cantieri del Gesù (1575-77) e di S.
Croce (la prima
fase dal 1549 al 1582).
La chiesa dei Gesuiti, firmata dal De Rosis,
presenta in facciata
tutto quel pedagogico irrigidimento di
un’architettura che ha
carattere enunciativo, con poche concessioni al
coinvolgimento
emotivo. La veste architettonica si adegua ad un
autorevole
stereotipo, realizzato nelle «centrali di
elaborazione ortodossa
dell’ordine: Roma e Napoli».
I Celestini, al contrario, impostano il cantiere di
S. Croce dando
peso alla tradizione locale, fatta di una
figuratività rigogliosa e
seducente a rappresentare il trionfo fiammeggiante
della fede. Questo contrasto fra i due edifici si
rispecchia nel contrasto
“intrinseco” alla chiesa di S. Irene, costruita dai
Teatini a
partire dal 1591.
Come nella chiesa del Gesù, il progetto è di un
“forestiero”,
Francesco Grimaldi, il massimo architetto
dell’Ordine che verrà
poi chiamato a dirigere i lavori romani di S. Andrea
della Valle.
Avverrà quindi che tutto il rigoroso impianto
grimaldiano sarà
eseguito di fatto da maestranze locali.
Per dirla con Manieri Elia, «ai caratteri denotativi
dell’opera ha
pensato con ortodossia religiosa il maestro di
cultura napoletana;
quelli ‘connotativi’ invece sono rimasti saldamente
nelle mani
laiche delle maestranze locali».
Da
queste
esperienze della seconda metà del Cinquecento,
appare chiaro
quanto l’architettura esprima il profondo senso di
sdoppiamento
dell’identità culturale della città controriformata,
in preda
alla contrapposizione fra rigore della norma e
resistenza ad esso.
Questo periodo, sovente identificato come Protobarocco,
è di grande importanza poiché costituisce il
tentativo di un
compromesso fra le due esigenze. Il linguaggio di
architetti come
Francesco Antonio Zimbalo (che proprio in quegli
anni lavora nei
cantieri di S. Irene e S. Croce) sarà fondamentale
per stimolare
fondamentali congiunture che sono alla base della
seicentesca
esplosione barocca.
-
Lecce,
città della Riforma
cattolica
La
disciplina
architettonica delineata nelle Instructiones,
che propone un continuo intrecciarsi fra vescovo e
architetto, fra
dottrina dell’anima ed edificio costruito, è il filo
conduttore
che guida Luigi Pappacoda nelle operazioni di
“edificazione”
morale e materiale della sua Lecce barocca. Il
vescovo fa il suo
ingresso trionfale in città nel 1639, inviato da
Urbano VIII per
concludere l’opera di tridentinizzazione del
territorio, portando
con sé tutto il bagaglio di aspirazioni della Riforma
cattolica
che
impone
agli uomini di chiesa di «vigilare e faticare in
tutto con
zelo apostolico» perché «la irreligiosità è una
malattia del
cuore prima d’essere una malattia del cervello».
Al suo arrivo, molti erano i problemi lasciati in
eredità
dall’episcopato di Scipione Spina; fra tutti, il più
urgente, la
crescente presenza nella società del clero regolare
(Teatini,
Gesuiti, Olivetani, Celestini, Domenicani,
Agostiniani). Di fronte al
protagonismo degli ordini religiosi, la
tridentinizzazione
pappacodiana si configura come un vero e proprio restauro
della funzione episcopale, messo in atto sfruttando
lo sventato
pericolo dell’epidemia di peste che colpisce il
Regno di Napoli nel
1656.
La
sua
prassi pastorale è tutta impostata sugli
insegnamenti carolini.
Giocando sul binomio amore-timore,
il Pappacoda intende aiutare il popolo a raggiungere
il giusto
equilibrio di fede conciliando devozione sincera e
rigore del culto.
La stessa alchimia si riflette in quel rapporto fra
vescovo e
architetto che è alla base della rifondazione urbana
di Lecce,
scenografico mezzo di propaganda politica (Fig. 01).
Fig. 1 - Veduta aerea della piazza del Duomo, Lecce
Foto: P. Bolognini. Cortesia di Francesco Del Sole
Profondo infatti
è il legame imbastito con Giuseppe Zimbalo, «persona
paesana e non
straniera»,
scelto come architetto di fiducia proprio in quanto
erede della
vivace tradizione locale che aveva animato le
vicende costruttive del
secondo Cinquecento. Ed è proprio allo Zingarello
che il vescovo affida il progetto della nuova
Cattedrale, una “chiesa
dalle due facciate”. L’idea è nella mente del
Pappacoda fin dal
1655, ma sarà solo nel 1658 che si opterà per una
sua completa
ricostruzione «poiché [la chiesa] più non bastava ad
accogliere le
popolazioni».
4.1
La
fabbrica del Duomo
4.1.1
“Dispositio”:
la facciata principale
Basterebbe
leggere
il paragrafo delle Instructiones
dedicato ai “muri esterni” per comprendere quanto,
in fase di
realizzazione del prospetto principale del Duomo, le
norme caroline
siano state seguite pressoché alla lettera (Fig.
2).
Fig. 2 - Facciata principale del Duomo, Lecce
Foto: P. Bolognini. Cortesia di Francesco Del Sole
Il clipeo col
busto del regnante spagnolo Filippo IV posto sopra
il finestrone
centrale testimonia la natura politica e
istituzionale dell’intera
facciata.
Adiacente al palazzo vescovile, è concepita «in
funzione della
struttura della chiesa e della grandezza
dell’edificio».
È suddivisa in due ordini della stessa larghezza
conclusi da un
timpano e scanditi da quattro paraste scanalate con
capitelli
zoomorfi. La parte centrale del prospetto
corrisponde alla navata
principale, mentre le specchiature ai lati, che
disegnano scomparti
rettangolari arricchiti agli angoli da punte
lanceolate,
corrispondono alle navate laterali e alle cappelle.
Tenendo
fede
alla dottrina di San Carlo secondo cui il decorum
deve consistere in elementi iconografici e
ornamentali, e non
struttivi, uniche componenti decorative sono le
statue di santi entro
nicchie. Le parti architettoniche, infatti, devono
«dare un’idea
di solidità, più che di decoro».
Nel
timpano
che sormonta il portale è un altorilievo con la
Vergine
Assunta, a cui la chiesa è dedicata.
«Si
provveda
affinché sulla facciata di ogni chiesa, in
particolar modo
se Parrocchiale, al di sopra del portale principale,
si dipinga o si
scolpisca […] l’effigie del Santo o della Santa a
cui è
intitolata la chiesa».
Le
nicchie
contengono le statue di San
Pietro,
San
Paolo
(ordine
inferiore),
San
Ludovico
da Tolosa
e San
Gennaro
(ordine superiore). Le quattro statue dei “grandi
padri” sono
scelte dallo stesso Pappacoda che fa di questa
facciata un monumentum
personale,
proponendo
santi lontani dalla tradizione locale. San Pietro è
espressione del fondamento giuridico del suo
investimento episcopale
nonché missionario che converte le genti e le
rafforza nella fede;
San Paolo, maestro di San Giusto, conferisce
l’episcopato a Oronzo
commissionandogli la costruzione della prima
Cattedrale leccese. Gli
altri due santi, San Ludovico e San Gennaro,
appaiono molto più
personalizzati, scelti per richiamare il nome del
vescovo e le sue
origini napoletane.
«Inoltre,
le
altre sculture o pitture o gli altri ornamenti
cospicui o modesti,
che rendono maestoso e solenne il frontespizio della
chiesa, saranno
stabiliti dal vescovo, dopo aver anche consultato
l’architetto».
4.1.2
“Elocutio”:
la
facciata laterale
Se
il
prospetto principale del Duomo è espressione
dell’adesione
rigorosa alle norme tridentine da parte di un
vescovo zelante, la
facciata laterale è una deroga alle Instructiones
da parte dello stesso Pappacoda che muta, corregge e
innova princìpi
e corollari del trattato (Figg. 3-5) (sull’argomento vedi FAGIOLO 2013).
Fig. 3 - Veduta in prospettiva della facciata laterale del Duomo, Lecce
Foto: P. Bolognini. Cortesia di Francesco Del Sole
Fig. 4 - Statua di sant'Oronzo nell'arco "traforato" della facciata laterale del Duomo di Lecce Foto: P. Bolognini. Cortesia di Francesco Del Sole
Fig. 5 - Elaborazione grafica del prospetto laterale del Duomo di Lecce e del palazzo vescovile adiacente alla fabbrica (elaborazione Gabriele Rossi). Foto cortesia Francesco Del Sole
Per questo si
affida ancora
all’abilità di Giuseppe Zimbalo, il quale fa in modo
che «nel
conformare la facciata allo stile e alla grandezza
della chiesa […]
nulla apparisca in essa di profano, riesca
splendida
più che è possibile e conveniente alla santità del
luogo».
«Le
porte
di aprano sulla facciata della chiesa […]. Sul retro
e sui
fianchi non si apra nessuna porta […]; Ciò per
evitare che possa
verificarsi una qualche situazione di ostacolo,
irriverenza o
disturbo ai sacri ministeri».
La
scelta
di non dare peso alla norma carolina che vieta di
aprire altri
ingressi oltre quelli della facciata principale fa
capire come il
Pappacoda applichi le Instructiones
vagliandole sulla concreta dimensione della
tradizione locale. Il
vescovo propone «quelle regole che […] si sono sorte
adatte a’
bisogni, ed universalmente necessarie non meno a
praticarsi che a
sapersi».
D’altronde, lo stesso Borromeo aveva dato alle
stampe il suo
trattato affermando che il vescovo, «secondo il suo
discernimento»,
possa scegliere e stabilire «quali siano le [norme]
più necessarie
e quelle da attuare per prime […] a seconda delle
esigenze delle
chiese e dell’opportunità».
La
facciata
laterale è ripartita nella parte inferiore in cinque
zone
da paraste e colonne scanalate; ai lati del portale
sono due nicchie
con le statue di San
Giusto
e di San
Fortunato.
A separare l’ordine inferiore da quello superiore è
una balaustra
che alterna colonnine e pilastrini, oltre la quale,
al centro, si
innalza un vero e proprio arco di trionfo
“traforato” con la
statua di Sant’Oronzo
che vola sulle nubi sovrastata dal leone
pappacodiano. Sant’Irene
e Santa
Venera
sono invece in posizione marginale, sulle volute di
raccordo. La
posizione dei tre nuovi protettori maschili dà vita
a un ideale
triangolo che rispecchia «l’ordine nuovo del
pantheon dei patroni
leccesi».
Lo stesso sistema gerarchico si ritrova all’interno
del Duomo
nell’altare dedicato a Sant’Oronzo, frutto della
collaborazione
fra lo Zimbalo e Giovanni Andrea Larducci (1671-74).
Figura centrale
è ancora il protovescovo leccese, protagonista della
tela di
Giovanni Andrea Coppola (1656) ai cui lati sono le
nicchie con le
statue di Giusto e Fortunato mentre le sante
femminili sono relegate
in alto; lungo l’asse mediano si dispongono poi la
targa epigrafica
della municipalità e gli emblemi civici della lupa e
del leccio.
Il
trionfo
di sant’Oronzo è insomma il trionfo del Pappacoda
che,
attraverso una lucida iniziativa politica, sancisce
il consolidamento
della Lecce barocca. Se il prospetto principale
accoglie “santi
forestieri” legati intimamente alla figura del
vescovo, la facciata
laterale è il tripudio festoso di una chiesa
particolare
che trova la propria identità stringendosi attorno
al santo martire
locale.
-
Conclusioni
In
un’iscrizione
che ricorda la posa della pietra “fondamentale”
che dà l’avvio ai lavori di ricostruzione del Duomo
a
fundamentis,
Luigi Pappacoda è definito Lupiensium
Pontifex.
Per
la
sua significativa posizione aggettante in
corrispondenza dello
spigolo in cui convergono le due facciate,
l’iscrizione riflette
emblematicamente l’idea che la società leccese aveva
del “gran
Luigi”, arbitro della città.
L’equilibrio politico e devozionale costruito con
rigore nel corso
degli anni fa dimenticare i contrasti
controriformati che animano la
Lecce cinquecentesca. Ciò consente al presule di
affermare che
finalmente, in questa Provincia, «summa quies,
summaque securitas
florebat».
In
questo
contesto, l’architettura del Duomo è un vero e
proprio
specchio della politica pappacodiana, tutta
incentrata sullo sforzo
di conciliare l’edificazione morale dei decreti
tridentini con la
tradizione locale. I due prospetti si spartiscono i
ruoli: da un lato
la facciata principale è simbolo dell’affermazione
pedagogica e
normativa; dall’altro quella secondaria, rivolta
verso la città -
e pertanto principale sotto l’aspetto urbanistico -
è simbolo di
un festoso richiamo all’identità tradizionale.
L’obiettivo è
quello di fare in modo che il fedele si identifichi
con la casa di
Dio divenendo egli stesso «chiesa di pietre vive».
Il Pappacoda, seguendo scrupolosamente le Instructiones,
non combatte l’ossimoro che lega ordine e ornamentum
ma lo gestisce sapientemente, divenendone l’ago
della bilancia.
Come suo architetto di fiducia, Giuseppe Zimbalo
dimostra infine che
l’architettura barocca leccese altro non è che
sostanza semantica
del compromesso raggiunto nell’epoca pappacodiana.
Il principio di
questo Barocco di provincia va ritrovato pertanto
nel delicato
equilibrio raggiunto tra dispositio
ed elocutio,
tra “ordine” e “ornato”, tra cura dell’anima (di
competenza
del vescovo) e cura dello spazio sacro (di
competenza
dell’architetto) che fa di Lecce, in pieno Seicento,
una vibrante
città della Riforma
cattolica.
*Questo
saggio è frutto di una ricerca finanziata coi fondi
dell’Unione Europea - Fondo Europeo di sviluppo
regionale - PON Aim - Ricerca e Innovazione -
International and Attraction Mobility (2014-2020).
NOTE
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