Le
idee
su cosa sia il display
e a cosa si riferisca il termine ad oggi variano. Relativamente
al
campo
dell’arte
è costantemente associato alla parola “esposizione” e
in generale al processo dell’esibire.
Il
libro
di Hans Neuburg pubblicato nel 1969 lo presenta
direttamente come una nuova categoria espositiva ,
mentre George Nelson nel suo testo pubblicato nel
1953, lo associa ad un comportamento e un’attività di
seduzione .
A
prescindere da quale possa essere la più valida
interpretazione del termine, il display
esercita
un potere su ruoli e funzioni dell’atto espositivo e
condiziona il mercato degli artisti, il significato e
la ricezione della loro stessa opera.
In
termini
di marketing
ha senza dubbio l’obiettivo di catturare l’attenzione
del pubblico sviluppando il desiderio per il prodotto
e incoraggiando all’acquisto.
Sempre
di
più marketing
e arte si supportano, si completano e quasi si
rinvigoriscono a vicenda facendo emergere la
componente artistica e rendendola più fruibile
soprattutto in questo momento storico in cui, nel
mondo dell’arte, la tendenza a spettacolarizzare e il
coinvolgimento fisico ed emotivo stanno scalzando il
razionalismo.
Il
visitatore
privilegia opere che offrono un’esperienza e
l’emozione che si vive nell’ambiente espositivo conta
quasi quanto il prodotto stesso. Dunque, anche
l’atmosfera ambientale dello spazio può essere
determinante ai fini del successo di un’artista e
della vendita delle sue opere - per via di impulsi e
stimoli trasmessi direttamente dal palcoscenico – e
insieme ad esse e al display,
costituisce il codice attraverso il quale si esprime o
si rafforza la sua identità .
Grazie
alla
miriade di possibilità applicative offerte dal marketing
e dalle nuove tecnologie in campo artistico - specie
quelle immersive - artisti, galleristi e curatori
stanno dando vita ad una realtà espositiva multiforme
e a display,
spazi e vetrine virtuali dal grande potenziale
comunicativo.
Lo
sviluppo
del display
e delle pratiche espositive nel tempo
Negli
anni
Trenta e Quaranta dell’Ottocento - epoca
in
cui accanto alle classi più elevate e nobili quella
borghese cominciò ad affacciarsi nel mercato dell’arte
- quando
Parigi
divenne
il più importante centro sul panorama artistico
internazionale e meta costante di artisti
d’avanguardia, mercanti e importanti collezionisti il
caotico e affollato stile espositivo del Salon
francese rappresentava il principale e universale
modello di riferimento. Si tratta di uno
stile
espositivo incentrato sulla quantità piuttosto che
sulla qualità, caratterizzato da uno schema di
dipinti accatastati su più file di una stessa parete
di un rosso intenso dal pavimento in su, come a
formare un mosaico di generi diversi in un horror
vacui
espositivo.
Benché
lo
spazio intermedio (all’altezza dell’osservatore
medio) venisse riservato alle tele ritenute migliori
dalla commissione, non veniva di certo garantita una
collocazione favorevole a tutte le opere e il valore
di alcuni capolavori poteva facilmente rimanere
inosservato; inoltre, al potenziale collezionista
non veniva fornita alcuna indicazione in merito alle
opere esposte (Fig. 1).
Fig. 1 - Pietro Antonio Martini, Exposition au Salon du Louvre en 1787, 1787 incisione, Acquaforte, Immagine: 10 7/8 x 19 1/8 in. (27.6 x 48.6 cm)
Foglio: 14 1/4 x 20 3/4 in. (36.2 x 52.7 cm), Metropolitan Museum of Art, New York
(Foto cortesia: www.metmuseum.org
© A. Hyatt Mayor Purchase Fund, Marjorie Phelps Starr Bequest, 2009).
Fu
proprio
la ricerca di qualità e informazioni a far nascere le
gallerie, le quali
si fecero strada verso gli anni Sessanta
dell’Ottocento proponendosi come alternativa alle
esposizioni ufficiali, dunque come luoghi più intimi
in grado di offrire sostegno e inedite modalità di
visione delle opere d’arte.
Molte
di
queste trovarono posto a Rue
Laffitte,
la
cosiddetta
“via dei quadri”, caratterizzata inizialmente da
vetrine composte da una selezione in continua
evoluzione di dipinti, finché si arrivò al “one solo
show”, ovvero alla presentazione di un solo quadro dapprima
posizionato
fino alla sua vendita, poi visibile solo per tre o
quattro giorni in modo da far arrivare al potenziale
acquirente il messaggio di cogliere il momento.
I
galleristi a mano a mano, iniziarono a pulire sempre
più le pareti ricorrendo alla selezione e limitando
il numero di pezzi esposti (questo, oltre ad aiutare
il pubblico a muoversi visivamente meglio,
costituiva una buona opportunità per i galleristi di
mettere in risalto ciò che si voleva vendere), dando
vita a quelle strategie espositive commerciali che,
adottate da importanti icone del mercato dell’arte,
sono diventate modello per la generazione
contemporanea e per lo stesso funzionamento di base
del mercato odierno .
All’epoca,
una
delle gallerie più famose di Parigi fu quella di
Adolphe Goupil, fondata nel 1829. La
Maison Goupil iniziò la sua attività trattando
esclusivamente incisioni e litografie di ogni tipo e
formato di grandi capolavori d’arte antica e di opere
contemporanee selezionate al Salon parigino;
attraverso queste fu in grado di raggiungere ogni
clientela (anche la più povera) proponendo un
prodotto di alta qualità a basso costo.
Grazie
all’apertura
della nuova sede a L’Aja e di altre a Berlino, Vienna
e Bruxelles tra il 1865 e il 1866 e all’avvio della
vendita di pezzi originali, la Maison
divenne un punto di riferimento per collezionisti e
mercanti. Goupil, particolarmente concentrato sulle
tendenze del momento e sul gusto della borghesia,
ha
saputo
farsi strada in un commercio ormai libero
adattandosi ai cambiamenti e sfruttando con grande
abilità la strategia oggi ampliamente utilizzata
dell’”edizione limitata”, grazie alla quale poteva
alzare il prezzo delle opere a suo piacimento
giocando su fattori quali la rarità.
Al
pari
del Salon, anche da Goupil si proponeva l’horror
vacui
espositivo,
tuttavia
veniva sfruttato dal gallerista a proprio vantaggio
per indirizzare come meglio voleva il cliente, che
difficilmente trovava logica nella disposizione e si
faceva guidare volentieri .
Tale
modello
espositivo, dunque, nonostante molti galleristi
stessero voltando pagina, resistette piuttosto a lungo
e si espanse oltre i confini europei.
Sappiamo
che
Thomas Walker, barone del Midwestern e imprenditore di
successo, protagonista dell’”età d’oro americana” (il
periodo di tempo che va dal 1870 al 1900 circa,
caratterizzato da una
rapida
crescita industriale ed economica e
da un
modello
comune di galleria d’arte),
all’interno
della sua casa-galleria aperta al pubblico e ai
prestiti, rese questo horror
vacui
all’apparenza casuale una vera e propria tattica di
presentazione che in realtà nascondeva una regia e dei
punti focali precisi.
In
America,
molti altri galleristi riproposero fedelmente - per
un primo momento - il consolidato stile di
visualizzazione francese.
Gli
americani,
in particolare coloro che appartenevano alla
categoria degli operatori di borsa di Brooklyn, i
maggiori acquirenti di arte francese accademica e
d'avanguardia di quel tempo, ebbero modo di
osservare la pratica espositiva e incoraggiare la
nascita del collezionismo nel loro paese già negli
anni Settanta, pur essendo clienti non esperti,
appassionati agli investimenti e alle scommesse.
Alle
soglie
del Novecento, con l’ingresso dei cataloghi e quindi
di una segnaletica, cambiò l’approccio
dell’osservatore nei confronti delle opere (meno
impegnato e più rapido) e ben
presto
molti misero da parte il “Salon style” per lanciarsi
verso ulteriori nuovi schemi, abbandonando l’idea di
molteplicità per l’unità e sperimentando dunque il
formalismo espositivo, vale a dire l’isolamento di un
dipinto per ogni parete. Questa rivoluzionaria,
inedita e audace modalità - la quale permetteva al
gallerista di impreziosire l’opera e al compratore di
concentrarsi sul singolo pezzo - fu particolarmente
vincente in America e si impose nel panorama
espositivo dove tutt’oggi domina, nonostante sia stato
recentemente aperto un dibattito su quale tra le due
modalità espositive (dunque strategie di marketing)
risulta più efficiente in
termini
di valorizzazione del prodotto.
Già
gli
Impressionisti in Francia, verso la fine
dell’Ottocento nelle loro mostre indipendenti, al
fine di facilitare
l’apprezzamento
e l’esaltazione dell’accostamento di colori, dei
dettagli e delle tecniche dei loro lavori,
ricorrevano alla selezione delle opere e per quanto
riguarda l’esibizione sostituirono le tradizionali
cornici
dorate con altre dai toni chiari o complementari preferendo
ambienti
divisi, più piccoli e semplici, come la galleria di
Paul Durand-Ruel
(Fig. 2).
Fig. 2 - Galerie Paul Durand-Ruel, esposizione opere di Renoir, 1920
16 rue Laffitte, Parigi; Archives Durand-Ruel
(Foto cortesia: Photo Archives Durand-Ruel © Durand-Ruel & Cie)
Bisogna
dire
però, che il
vero pioniere in quel momento delle modalità
espositive più intime e delle mostre organizzate in
ambienti ristretti e divisi da pareti colorate fu James
Abbott
McNeill Whistler, l’artista attivo nella Londra della
seconda metà dell’800 che boicottò gli eventi della
Royal
Academy
e riformò l’esposizione in modo del tutto originale
portando avanti il credo dall’“arte per l'arte” e il
concetto di Gesamkunstwerk
(opera
d’arte
totale) - nato nella metà del secolo - concependo
le
sue mostre indipendenti come opere d’arte in sé e
curando ogni elemento al minimo dettaglio in modo che
si connettesse al meglio con il resto. Egli fu
anticipatore
di
un certo gusto nella decorazione di interni nella
Londra del 1874 e dunque di quella tendenza a
valorizzare anche lo “sfondo” espositivo, nonché a
rendere più attivo l’osservatore.
Più
che
una mostra, un vero e proprio spettacolo fu
allestito in occasione dell’esposizione del 1883
alla London Fine Arts Society, dedicata alle sue
incisioni raffiguranti Venezia. Le silenziose sale
della galleria apparivano al pubblico trasfigurate
in una sinfonia di giallo e bianco, i due colori che
tingevano le pareti, le porte, i fiori e i vasi
negli angoli e persino gli abiti della servitù che
girava per la sala a consegnare i suoi cataloghi
(anch’essi in tinta) e i calzini indossati dallo
stesso Whistler (messi bene in mostra) e le cravatte
dei suoi assistenti. Lo spettacolo coinvolse anche
alcune importanti personalità venute in visita
indossando uno o più accessori in tono.
Già
vent’anni
prima, nel 1863, il concetto di Gesamkunstwerk
fu sfruttato per scopi commerciali e trasformato in
una vera e propria strategia di mercato grazie al
progetto di
Louis
Martinet.
Rifiutandosi
di
seguire il tradizionale modello commerciale,
Martinet trasformò il suo spazio espositivo di
Parigi - accessibile al pubblico sia dal 26 Boulevard
des Italiens che da rue Laffitte - in una sala di
incontri che, oltre ad accogliere mostre, ospitava
concerti; adottò quindi il principio dell’opera
d’arte totale dando origine ad una corrispondenza
tra musica e pittura, creando un’atmosfera ibrida,
unica e quasi poetica .
Il
suo
pubblico, infatti, poteva ascoltare e lasciarsi
trasportare ed emozionare dalla musica di Felix
Mendelssohn, mentre osservava le opere di Corot, che
a quel punto potevano facilmente mutare o prendere
vita nella mente del visitatore.
L’abbattimento
del
muro tra le arti “applicate” e “pure” e lo
sviluppo
dell’idea
di unione o sintesi delle arti, si
rafforzò
notevolmente
nel
corso del Novecento, quando, partendo dall’azione
delle avanguardie storiche, si arrivò sempre più alla
consapevolezza che l’opera potesse uscire dalla
cornice, dal quadro e dalla sua concezione materiale,
e agire direttamente sullo spazio diventando tutt’una
con esso.
Presero
dunque
vita i primi esempi di installazione e furono
ripensate l’opera, la parete e il luogo espositivo,
che, col passare del tempo, da contenitore sacro e
regolare - quale era considerato negli anni Cinquanta
quando nacque l’idea di white
cube
- divenne esso stesso parte dell’opera, spesso
concepita, manipolata e creata site-specific
.
Questa concezione in realtà era a suo modo viva anche fino alla prima metà dell’Ottocento, quando gli interventi degli artisti rispondevano a una determinata commissione o contesto, quindi le opere e le loro massicce cornici venivano situate o messe in relazione in un ambiente scelto di comune accordo tra il committente e l’artista stesso. Per un lungo periodo infatti l’arte, che non aspirava ancora a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si legava strettamente con il contesto. Il dialogo si spezzò quando nella metà del secolo, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si dovettero adeguare ad un mercato borghese più dinamico e caratterizzato da artefatti disponibili alla circolazione; è a quel punto che nacquero ambientazioni quali i Salons, in cui i lavori artistici da mettere in vendita venivano raccolti e appesi alle pareti nelle modalità già approfondite precedentemente.
Col tramontare del secolo poi, lo spuntare dei paesaggi impressionisti, i quali iniziarono ad occupare una notevole porzione di spazio sulle pareti, cominciò a dare istruzioni all’osservatore: qual è la distanza e il punto giusto da cui guardare un’opera, che atteggiamento assumere
.
Una volta scavallata la metà del Novecento avanzò quindi sempre più l'idea di spazio espositivo non solo come spazio rappresentativo ma di immersività e partecipazione. Gli artisti della Pop art – in particolare quelli appartenenti alla corrente britannica - rientrano tra coloro che intervennero in maniera significativa nella rivoluzione delle pratiche e dell’idea stessa di esposizione, sfruttando e rendendo protagonista lo spazio e lo spettatore. L’attività dell’Independence Group
, formatosi nel 1952 all’Istitute of Contemporary Art di Londra (ICA), fu rilevante in tal senso. Il gruppo sviluppò pratiche artistiche non concentrandosi esclusivamente sulla creazione della singola opera ma sul nuovo concetto di mostra partecipata, sperimentando un inedito e particolare approccio all’organizzazione dello spazio espositivo e dando ai visitatori la possibilità di investigarlo autonomamente. Un grande esempio di questo nuovo principio espositivo fu la mostra This is Tomorrow, inaugurata l’8 agosto del 1956 alla Whitechapel Gallery di Londra, a cui partecipò anche il gruppo acquisendo maggiore visibilità e mostrando il proprio interesse pionieristico nella cultura popolare e commerciale.
La mostra raccolse grande successo tra i critici e il pubblico accogliendo quasi mille visitatori al giorno e segnò la consacrazione definitiva della Pop art e del New Brutalism, movimenti che ebbero un’influenza decisiva su tutta la produzione artistica degli anni Sessanta
Fra le dodici sezioni individuali - gestite autonomamente da gruppi di artisti che decisero il tipo di allestimento e il poster che le pubblicizzava, mantenendo comunque lo scopo di ottenere un unico ambiente e risultato espositivo finale - spiccarono, oltre a opere celebrative del mondo del domani e i suoi possibili scenari, dettagli volti all’introduzione di una totale esperienza sensoriale del visitatore. Infatti, la sezione del Gruppo 2 capitanato da Richard Hamilton e John McHale situato proprio di fronte all’ingresso principale, includeva anche un pavimento in schiuma che rilasciava un profumo di fragola, capace di coinvolgere ancor più direttamente chiunque vi camminava sopra.
La classificazione delle arti era dunque sempre più in bilico ma si è dovuto attendere il clima del ’68 per assistere a un definitivo superamento di questa e al matrimonio vero e proprio fra lo scenario espositivo e il pubblico.
Ad
essere
rivalutato fu pian piano anche il rapporto tra artista, curatore
e pubblico, che sfociò nell’idea dell’opera-evento
consacrata in occasione di una delle rassegne più
celebri e importanti del secolo, passata alla storia
per l’approccio radicale e innovativo del curatore
alla pratica espositiva: When
attitudes
became form,
curata da Harald Szeemann e inaugurata il 22 marzo del
1969 alla Kunsthalle di Berna.
L’opera,
da
prodotto confezionato e fabbricato posizionato su un
piedistallo, venne presentata come processo in
situ
di “situazioni collettive” in cui lo spettatore non
stava più semplicemente a guardare, ma era più
coinvolto del creatore .
Le
cose
che fino ad allora non erano state considerate arte lo
divennero e da quel momento - dall’unione fra arte e
vita - presero il via diverse e molteplici attitudini
curatoriali e compositive, in grado di creare forti
legami fra autore e pubblico, definendo al contempo
nuovi e complessi meccanismi pubblicitari, strategici
e comunicativi dell’arte contemporanea.
Dagli
spazi
espositivi reali a quelli virtuali: giocare con
gli allestimenti e generare strategie di marketing
Proiettandoci
ai
giorni d’oggi, scavando ancora più a fondo nel
legame dell’artista e della sua opera con l’ambiente
circostante e la sua interazione con il pubblico e
con il mercato, scopriamo che molto spesso
l’artista nell’azione creativa punta allo
sfruttamento deciso e diretto dello spazio
espositivo, ricorrendo talvolta ad una vera e
propria manipolazione e trasfigurazione di esso. In
tal modo è in grado di creare un qualcosa capace di
catturare e stupire il pubblico e innescare un forte
ritorno di immagine.
Tali
azioni
non solo valgono
come
strategie promozionali e contribuiscono, insieme a
quelle messe in atto dai galleristi che li
rappresentano, ad accrescere la notorietà e alzare le
quotazioni di mercato, ma sono diventati
dei
veri marchi di fabbrica per alcuni artisti. È il
caso del duo scandinavo di successo formato da
Michael Elmgreen e Ingar Dragset.
Sin
dalla
loro più
nota
“Powerless
structure”
(struttura impotente)
Prada Marfa, realizzata
nel
2005,
la
relazione
fra arte, architettura e design
è alla base delle loro sperimentazioni, così come lo è
la ricerca di un umorismo sovversivo e l’analisi di
tematiche socioculturali di grande rilievo nella
contemporaneità; gli ambienti da loro progettati
oscillano fra realtà e finzione e sono concepiti come
teatrali spazi dalle capacità performative, o anche
come sculture iperrealiste che invitano il pubblico ad
attraversare situazioni alienanti .
Nel
2009
fecero scalpore alla 53ma Biennale di Venezia, in
occasione della quale, unendo il Padiglione della
Danimarca e dei Paesi Nordici, misero in scena The
Collectors,
una mostra narrativa che analizzava il rapporto tra
i nostri desideri e i mondi materiali che costruiamo
intorno agli stessi. Il percorso espositivo invitava
i visitatori dentro la casa del misterioso
collezionista Mr. B per coinvolgerli e lasciarli
investigare nelle pieghe dell’arredamento e
allestimento, su come il proprietario fosse finito
annegato nella piscina .
Overheated
è la mostra che ha avuto luogo dal 26 marzo al 4
maggio 2019 nella sede di Hong Kong della galleria
Massimo De Carlo. Per
l’occasione tubi
industriali
di varie dimensioni color pastello (intenti a
rievocare il passato della città, un tempo importante
centro di produzione di beni e prodotti, oggi centro
del mercato dell’arte) si incrociavano nello spazio e
animavano il terzo piano della galleria
trasformandolo in una “boiler
room”
(locale caldaia) abbandonata.
I
visitatori intenti a perlustrare ed a interrogarsi
sull’ambiguità dell’ambiente e degli oggetti dislocati
all’interno – i quali alludevano a tracce di attività
umane in un ambiente dismesso - erano costretti a
scavalcare, piegarsi o aggirare le installazioni per
muoversi all’interno, sorpresi di tanto in tanto dal
vapore emesso a intervalli dai tubi fittizi (Fig. 3).
Fig. 3 - Michael Elmgreen e Ingar Dragset, Boiler room
installazione composta da tubi industriali di varie dimensioni
color pastello, sculture e oggetti comuni dislocati nella stanza per
Overheated, 2019, MASSIMODECARLO Hong Kong, Pedder Building
(Foto cortesia: © MASSIMODECARLO and the artist).
La
coppia,
in vent’anni di attività ha congegnato un sistema
personalissimo di espressione sospeso tra arte
concettuale e racconto e quella di modificare gli
spazi espositivi in set immersivi è diventata ormai
una loro caratteristica molto apprezzata dal pubblico,
pronto a seguire la loro attività e a lasciarsi
coinvolgere ogni volta.
Una
dimensione
completamente ipnotica e affascinante appartiene alle
installazioni immersive della famosa artista
giapponese Yayoi Kusama conosciute come Infinity
Mirror
Rooms.
Passando
dallo spazio bidimensionale delle tele ad un ambiente
senza fine (sensazione dovuta all’effetto
caleidoscopico delle superfici specchianti),
l’artista, con il suo apprezzatissimo repertorio fatto
di universi micro e macroscopici ripetuti
all’infinito, di colori sgargianti e psichedelici,
diventato ormai iconico, esplora il concetto di
infinito e approfondisce il suo interesse per le
pratiche installative ed esperienziali e per gli spazi
virtuali.
Nel
corso
della sua carriera, l'artista - attiva già dagli anni
Sessanta, ma guardata con molta attenzione solo nei
primi anni 2000 e che, con un fatturato di 552,9
milioni di dollari
è
attualmente l’artista donna più popolare e ricca al
mondo
- ha prodotto più di venti distinte Infinity
Mirror
Rooms
e tutte hanno attratto l’attenzione di un gran numero
di musei, galleristi, collezionisti e spettatori,
tanto che è stata protagonista di blockbuster
exhibitions
(mostre campioni di incassi) come quella al Seattle
Art Museum nel 2017: Yayoi
Kusama:
Infinity Mirrors,
tenutasi nello stesso anno in cui è sorto nel
quartiere di Shinjuku lo Yayoi Kusama Museum di Tokyo,
oggi tra i più visitati al mondo.
Parlando
proprio
di Kusama, è opportuno esaminare l’importanza e il
potere dei social network, i quali stanno contribuendo
notevolmente a dare più visibilità agli artisti
influenzando il loro successo e quello delle loro
esposizioni: nel 2017 ben
75.000
persone hanno segnalato su Instagram di aver
visitato la mostra dell’artista giapponese a New
York da
Zwirner, facendo scattare una “Kusama-mania” ;
mentre una sua grande “zucca” comparsa
a
Parigi in Place Vendôme, in occasione di FIAC – Fiera internazionale d'arte contemporanea 2019, è
stata apprezzatissima e “postatissima”
su tutti i Social Media.
A
parlarne è stata la stessa curatrice capo dell’ICA Eva
Respini, che in occasione della recente acquisizione e
presentazione di una Infinity
Mirror
Rooms
di Kusama, LOVE
IS
CALLING
del 2019, ha dichiarato l’importanza di coinvolgere il
nuovo pubblico digitale: «Ho
sentito
che se avessimo intenzione di convincere le persone a
cercare quell'esperienza o quel momento su Instagram,
questa era un'opportunità per dare loro un contesto ».
Nonostante
i
molti anni di attività, è tra il 2004 e il 2014 che le
vendite totali delle sue opere sono aumentate di oltre
il 262%, da $ 931.446 nel 2004 a $ 35.455.059 nel 2014
.
A portarla al successo
(agevolando
la
vendita di tutta la sua produzione) e a renderla nota
in tutto il mondo sono state proprio le sue stanze
immersive.
Il
suo
mercato è stato rinvigorito notevolmente nell'anno
precedente alla sua retrospettiva al Whitney Museum di
New York nel 2012, che ha anche coinciso con il suo
periodo di collaborazione con Louis Vuitton,
uno
degli incontri più felici tra arte e moda. Una scelta
fortemente voluta dal direttore creativo della maison
Marc Jacobs, non indifferente al fascino delle sue
opere, che riportò i famosi pois dell’artista -
ripetuti fino all’ossessione - su borse e accessori di
pelletteria, dando vita a una collezione che passerà
alla storia.
La
produzione
di Yayoi Kusama, chiaramente di stampo commerciale e
di fascino globale, è d’esempio per molti altri
artisti e dimostra non solo che l’arte è anche
intrattenimento - quello che accadde in Australia dal
19 novembre 2011 all'11 marzo 2012, alla Queensland
Gallery of Modern Art, che, in occasione della mostra
Look
Now,
See Forever,
è stata trattata come una gigantesca tela bianca su
cui visitatori di ogni età erano invitati ad attaccare
dei punti adesivi colorati, contribuendo alla
creazione della sua Obliteration
room,
è puro divertimento e coinvolgimento - ma che a volte
il marketing non si basa necessariamente sulle cose
che fai, ma sulle storie che racconti (Fig. 4).
Fig. 4 - Riproduzione della Obliteration Room di Yayoi Kusama installazione/stanza composta da elementi di arredo decorati
con bollini adesivi colorati applicati dai visitatori, dicembre 2019
Christmas Wonderland Roma, spazi dell'ex Deposito Atac in Viale Angelico 52, Roma
(Foto cortesia: © Arianna Palmieri).
Una
delle
tante storie raccontata dal noto artista Christo
Vladimirov Javacheff nel giustificare una delle sue
ultime “magie” autofinanziate (costata all’incirca 18
milioni di euro), ovvero il The
Floating
Piers,
la passerella galleggiante sul Lago di Iseo che dal 18
giugno al 3 luglio del 2016 a detta dello stesso
artista ha permesso ad oltre 40.000 visitatori al
giorno (per un totale di oltre 1,2 milioni di
spettatori) di “provare l’emozione di camminare sulle
acque” del Lago di Iseo dal paesino di Sulzano a
Monte Isola, ha contribuito a garantire all’opera e
all’artista quel grande successo ottenuto (Fig. 5).
Fig. 5 - Christo e Jeanne-Claude, The Floating Piers, 2014-16
4,5 km × 16m × 50 cm, installazione temporanea composta da una rete di pontili galleggianti
(circa 220.000 cubi di polietilene ad alta densità) e ricoperta da 100.000 metri quadrati
di tessuto giallo brillante, Lago Iseo, tra Sulzano e Monte Isola
(Foto cortesia: Wolfgang Volz © 2016 Estate of Christo V. Javacheff).
La
passerella,
infatti, ha smesso di essere
un
ponte o un’opera d’arte nella mente del pubblico
diventando il simbolo dell’amore - un messaggio alla
portata di tutti - nel momento in cui Christo ha
specificato che sua moglie Jeanne-Claude, prima di
morire, gli ha confidato il desiderio di costruire un
ponte sulle acque per poter arrivare a piedi alla più
grande isola lacustre d’Europa. Vera o no, questa
storia ha colpito nel profondo molte persone.
The
Floating
Piers
con il suo carattere maestoso e provvisorio (altro
punto forte dell’opera da non sottovalutare poiché,
quando una risorsa è scarsa o limitata nel tempo,
assume molto più valore e appeal di una cosa
definitiva), direttamente o indirettamente, ha
generato un diverso appeal
e
un grande “Effetto Gazzetta” attorno a sé e
all’artista ed ha riscosso un grande successo
riuscendo a toccare i punti giusti. Questo è il Marketing
.
L’opera
–
evento, anche se non insolita, è stata descritta come
l’eccellente esempio di marketing territoriale che ha
mitizzato un luogo, triplicato il volume di affari
delle attività che si trovavano in prossimità e
rilanciato la zona del Sebino a livello planetario
battendo per affluenza i numeri del poco precedente
evento mondiale “Expo”.
Attraverso
la
manipolazione, trasfigurazione o adattamento al luogo
espositivo, artisti come quelli appena citati, oltre
ad esprimere indubbiamente i loro messaggi e ideali
artistici, cercano continuamente di proporre
un’immagine e un visual
sempre nuovi e competitivi in grado di stimolare i
sensi e le emozioni del pubblico, coinvolgendolo in
modo diretto e dirigendosi così alla conquista del
mercato attraverso l’adozione di un marketing non
convenzionale, esperienziale, emozionale o relazionale
.
Creare
una
personale atmosfera nello spazio espositivo e
costruire quindi un ambiente in cui il messaggio
dell’artista sia forte ed evidente, in grado di
trasformare lo stesso in un brand/marchio,
così
come anche la collaborazione con altre industrie quali
quella della moda, può rivelarsi dunque una buona
strategia di promozione e di vendita della propria
produzione e un buon metodo per raggiungere un
pubblico ancora più ampio e variegato.
Insomma,
in
una società consumistica ed effimera il valore di un
bene dev’essere sapientemente costruito.
Il
sistema
dell’arte non è quindi isolato, al contrario
interagisce fortemente con l’ambiente circostante e ne
è influenzato.
Attualmente
sempre
più artisti e galleristi collaborano anche con il
mondo della tecnologia, arricchendo il proprio
linguaggio e le proprie possibilità di vendita e
visualizzazione attraverso l’utilizzo del web
2.0 e lo sfruttamento dei social
network,
o dando vita a opere, mostre, scenari e vetrine
virtuali dal grande potenziale comunicativo ed
esperienziale. Si stanno dunque facendo largo tra le
nuove opportunità testando il nuovo mercato dell’arte
online, in continua ascesa.
È
ciò che hanno fatto alcuni famosi artisti come Marina
Abramovic, Jeff Koons o Kaws in collaborazione con Acute
Art,
la nuova piattaforma d’arte e di intrattenimento
digitale che, sin dal 2019, per mezzo della realtà
virtuale, si propone di produrre e distribuire opere
d'arte .
Oppure
galleristi
del calibro di David Zwirner, Perrotin o Massimo De
Carlo, che a partire dalla scorsa primavera, anche per
far fronte all’attuale emergenza sanitaria, hanno
inaugurato la propria serie di mostre virtuali o
addirittura dato vita a sedi e spazi espositivi
virtuali come il “V Space” di De Carlo (Fig. 6),
Fig. 6 - “The Rob Pruitt and John Armleder Show”, 14 aprile 2020
galleria Massimo De Carlo, VSpace
(Foto cortesia: © MASSIMODECARLO and the artist).
all’interno del quale gli artisti hanno la possibilità
di interagire e giocare con l’architettura con una
libertà senza precedenti, i galleristi di attuare un
accostamento e un ricambio più veloce di mostre e
opere anche “born digital” (nate in ambiente
digitale), mentre il pubblico ha l’opportunità di
sperimentare l’arte da casa come mai prima d’ora.
D’altronde,
nell’odierna
epoca caratterizzata da un’abbondante e variegata
offerta la competizione fra gli artisti è viva e in
crescita; per ognuno di loro è dunque fondamentale
“rimanere sul pezzo” e ricorrere a continue strategie
e soluzioni innovative e comunicative in grado di
sorprendere il pubblico, per ottenere la sua fedeltà e
coltivare il suo successo.
Nel
cuore
delle fiere internazionali d’arte contemporanea
È
nel mondo e nello scenario espositivo delle fiere
d’arte contemporanea, il cuore del mercato artistico,
che tutto ciò che è stato trattato finora si manifesta
acutizzandosi e trovando ancor più libero sfogo.
Le
fiere
d’arte internazionali rappresentano un vero e proprio
campo di battaglia per i vari attori del sistema i
quali, dopo una lunga preparazione, si incontrano in
occasione dell’imperdibile evento artistico - col
tempo diventato anche mondano - sfoderando i migliori
assi che hanno nella manica, specie nella fase del Vernissage
.
Oltre
a
incidere sulle dinamiche del mercato dell’arte e a
offrire grandi opportunità di commercio e di sviluppo
economico diventando dei potenti strumenti di
marketing, le fiere dedicate all’arte contemporanea
costituiscono le
principali
vetrine
di promozione per artisti e galleristi, i quali sono
in un certo senso obbligati a partecipare
– attuando una strategia selettiva - per mantenere una
buona posizione pubblica e
di farlo al meglio per non rischiare di cadere
nell’anonimato o peggio ancora di non riuscire a
vendere opere.
Per
certi
versi, possono essere associate alle mostre in
galleria ma di una durata minore e con un pubblico,
una mole
di
affari, una
scelta
ed un’offerta di opere decisamente maggiore e più
concentrata.
In virtù di ciò, le modalità espositive e il display
assumono nuovamente un valore strategico anche in
tale circostanza.
Negli
ultimi
anni le fiere sono
state
oggetto di rinnovamento e reinterpretazione da un
punto di vista espositivo e curatoriale, in un’ottica
di
coinvolgimento del fruitore e di narrazione del
percorso espositivo che interessa anche gli spazi
esterni e travolge e movimenta la stessa città che
ospita l’evento.
Spingendoci
oltre
il perimetro dei singoli stand
- la cui posizione e dimensione risultano fattori
altamente strategici e significativi al fine di
dimostrare il prestigio della galleria e di consentire
la realizzazione di varie forme o tematiche espositive
identificative –installazioni su larga scala trovano
spazio in settori dedicati fungendo da specchietti
per le allodole e catturando dunque l’attenzione di un
pubblico sempre più aperto al dialogo e alle novità.
L’obiettivo
è
quello di rafforzare l’identità e massimizzare il
ritorno sia in termini di vendite che di immagine,
visibilità e notorietà di marchio, compiendo un
investimento ponderato e mirato, considerati gli
elevati costi che girano intorno all’evento
fieristico.
Nel
contesto
di Art Basel (attualmente il formato di fiera di maggior
successo) il
solo
costo per l’acquisto di uno spazio nel settore Art
Unlimited
- dedicato
ad
opere su larga scala - si aggira intorno ai 19.000
franchi svizzeri.
Art
Unlimited
(per la fiera di Basilea) ed Encounters
(per la fiera gemella di Hong Kong) sintetizzano le
proposte
intorno
a
cui il mercato è o sarà più attivo nell’anno e si
riservano di creare un’interazione con il pubblico,
trasformando la fiera in un luogo dove acquistare e
vivere arte .
Basta
dare uno sguardo alle divertenti opere di Castern
Höller e di Takashi Murakami,
ai curiosi e colorati orsi di Paola Pivi o al già
citato caso della galleria italiana Massimo De Carlo,
che in occasione della 7a edizione di Art Basel Hong
Kong del marzo 2019, insieme alla Perrotin e Kukje
Gallery, è stata protagonista nella sezione Encounters
con la suggestiva installazione City
in
the sky
(Fig. 7)
Fig. 7 - Michael Elmgreen e Ingar Dragset, City in the Sky, 2019, 400.0 x 500.0 x 220.0 (cm)
157.5 x 196.9 x 86.6 installazione in acciaio inossidabile, acciaio
vetro acrilico in alluminio e luci a LED, Art Basel Hong Kong, settore “Encounters”
Massimo De Carlo, Milano, London, Hong Kong
Perrotin, Paris, New York, Tokyo, Seoul, Hong Kong, Shanghai; Kukje Gallery, Seoul;
2019, Hong Kong. (Foto cortesia: © MASSIMODECARLO and the artist).
realizzata dal duo Elmgreen & Dragset, a
cui non solo ha riservato posto nel suo stand
ottenendo un gran successo dal punto di vista delle
vendite, ma a cui ha dedicato proprio nello stesso
momento anche il “solo
show”
Overheated
nello
spazio
in H Queen.
Nel
caso
di Art Basel Hong Kong, ricco è infine il programma di
mostre e di eventi collaterali – in cui talvolta sono
esposti artisti e opere presenti in fiera – al di
fuori della manifestazione (ma parallele ad essa)
nelle numerose gallerie anche occidentali che hanno
trovato posto nella città, attratte dalla sua
atmosfera creativa e nei luoghi pubblici. Ciò segna
un’ulteriore trasformazione del concetto stesso di
esposizione.
L’artista
Kaws
ad esempio, si è fatto protagonista dell’art week di
Hong Kong 2019 con un gonfiabile di circa 37 metri che
galleggiava vicino le rive del porto Victoria Harbour,
esattamente di fronte a dove si svolgeva la fiera Art
Central. La giocosa installazione pubblica, fra selfie
e commenti, ha reso così in qualche modo accessibile
ad un più ampio pubblico l’art week che ha invaso la
città in quei giorni .
A
dare un notevole contributo in questo scenario, il
progresso tecnologico e la trasformazione digitale,
i quali, come già detto, hanno investito in pieno
anche il mondo dell’arte portando allo sviluppo
dello straordinario recente fenomeno che, specie nel
difficile e delicato frangente storico che stiamo
attraversando - dovuto principalmente allo scoppio
della pandemia di Covid-19 – sta
permettendo agli operatori dell‘arte di continuare
la loro attività: le
Online
Viewing Rooms.
Si
tratta
di stanze (o meglio vetrine) virtuali che ricreano
ambienti esistenti o inediti attraverso semplici
layout e con l’ausilio della tecnologia 3D e della
realtà aumentata, in grado di favorire la fruizione
digitale delle opere e la visita online in occasione
di fiere, mostre o grandi esposizioni, senza limiti
spaziali o temporali.
Art
Basel
Hong Kong, prima fiera ad essere annullata per
via dell’attuale pandemia, a fine marzo 2020 ha
inaugurato la sua edizione digitale grazie alle Online
Viewing Rooms con la partecipazione di 233
espositori.
I
risultati sono stati importanti in termini di vendite
e di visitatori virtuali: Art Basel ha attirato oltre
250.000 visitatori (la precedente edizione della
fiera dal vivo aveva registrato circa 88.000
visitatori) che hanno potuto visionare via sito web o
app oltre 2.000 opere d’arte, per un valore
complessivo di circa 253 milioni di dollari .
Anche la realtà fieristica italiana ha cercato di puntare in maniera forse poco uniforme sul digitale. Un nuovo e interessante progetto virtuale è stato sviluppato e lanciato in piena pandemia dalla fiera torinese Artissima con l’intento di rinnovare le modalità di scambio tra gallerie e collezionisti e avvicinare anche un bacino più giovane di acquirenti. Il progetto Fondamenta è stato online per un mese, dal 5 giugno al 5 luglio 2020, sul sito www.artissima.art rappresentando un’opportunità per i galleristi in un momento in cui la gran parte dell’attenzione dell’arte internazionale si è spostata su mostre online e virtual tour .
Più che di una fiera digitale, si è trattato di una ricognizione sulle ricerche artistiche contemporanee, mirata a offrire gratuitamente alle gallerie della fiera nuove opportunità di visibilità, vendita e contatto con il pubblico dell’arte.
Le opere degli espositori aderenti sono state presentate attraverso un’interfaccia semplice e intuitiva su pagine virtuali immaginate come ideali muri portanti e ad accomunarle è stato il prezzo, non superiore ai 15 mila euro (un limite stabilito di modo da renderle più accessibili rispetto agli standard presentati nell’evento torinese e costruire una proposta utile anche ad avvicinare un pubblico nuovo, giovane, senza però rinunciare alla qualità firmata Artissima) .
Sulla stessa linea si è sviluppato il progetto PLAYLIST di Arte Fiera Bologna, l’iniziativa digitale gratuita e fruibile dal 21 al 24 gennaio 2021.
Sorprende tuttavia il disinteresse verso la soluzione digitale dovuta al semplice annullamento delle edizioni primaverili e all’attaccamento al contesto fisico di Art Parma Fair, uno dei più importanti appuntamenti italiani dell’anno per i collezionisti sia in termini di mostra mercato ma anche come un evento culturale, mentre Mercanteinfiera, la più grande fiera dell’antiquariato d’Europa che conta decine di migliaia di visitatori provenienti da tutta Italia e dall’estero, ha avviato un progetto online nella primavera 2020 che ha richiamato una platea di oltre 700 mila visitatori, tornata però dal vivo già ad ottobre 2020 al polo fieristico di Parma.
Al contrario di TEFAF – The European Fine Art Foundation di Maastricht, il grandissimo e imperdibile evento annuale per ogni appassionato d’arte o anche semplice visitatore curioso che, pur in un momento di generale ripresa di manifestazioni e eventi in presenza - dato il procedere della campagna vaccinale in tutti i Paesi - ha deciso di restare online – migliorando perfino le prestazioni digitali già sperimentate - anche per la prossima edizione di settembre 2021 che tenterà di abbracciare e promuovere i sette mila anni di storia dell’arte che la fiera rappresenta. Per raggiungere questo obiettivo l’edizione online ha messo a disposizioni diversi tipi di navigazione: si potranno visitare gli spazi virtuali dei singoli espositori oppure accedere alle TEFAF Collection Pages, una grande catalogazione di lavori disposti in ordine cronologico che potranno essere consultati per periodo, sezione e tecnica, attraverso gli appositi filtri di ricerca.
Quanto al ritorno all’edizione in presenza, il presidente Hidde van Seggelen ha rimandato l’appuntamento a Maastricht al prossimo marzo, per il 35º anniversario della fiera .
Questi
“show”,
dunque, nelle loro grandi potenzialità, continuano ad
aprire la strada a nuovi approcci e tattiche di
vendita in cui risulta essere di nuovo determinante
lo spazio (sia reale che virtuale) e il display
espositivo, capace di catturare l’attenzione del
pubblico ponendosi come mezzo interpretativo delle
idee della contemporaneità e come strumento di marketing.
Il
futuro
del mercato dell’arte
Il
mercato
dell’arte ormai da diversi anni sta sviluppando
modalità di fruizione sempre più staccate
dall’esperienza fisica (a cui è storicamente legato) e
inarrestabile sta affrontando la nuova sfida virtuale.
Un
numero
crescente di gallerie in tutto il mondo si sta
servendo di tecnologie avanzate all’insegna
dell’innovazione per dare vita a rivoluzionari
luoghi d’esposizione e inaugurare quindi nuove e
personali vetrine e mostre in realtà aumentata,
confrontandosi in questo modo col fresco e ancora
sperimentale mercato online di oggi e del domani.
Dunque,
che
ne sarà delle esposizioni dal vivo e dell’esperienza
di vendita e di acquisto reale?
Ultimamente
si
è parlato molto di “fine delle fiere”, ma per il
momento è più giusto affermare che tecnologie come
le Online Viewing Rooms rappresentano la nuova
frontiera dell'arte destinata a dettare le regole
del mercato ma ad ogni modo non eliminano il
bisogno quasi imprescindibile di un terreno reale,
bensì lo accompagnano dando più corpo all’esperienza
d’acquisto. È certo però che diventerà sempre più
difficile, anzi, è quasi da escludere, giudicare il
successo di una fiera dalle vendite che vi si
chiudono all’interno del contesto fisico.
Stando
ai
dati del report
di Art Basel del 2020
i risultati
ottenuti dalle vendite online anche se
significativi e in crescita, non hanno ancora
superato quelli legati al contesto reale. C’è da
tenere presente però che i collezionisti che hanno
osato compiere il fatidico “click” per acquistare
un’opera, rientrano per lo più nella categoria dei “Millennials”,
ovvero i giovani collezionisti del futuro.
C’è,
dunque,
molta strada da fare e il dubbio che assilla gli
intermediari finanziari è che il pubblico non sembra
ancora pronto per scollegarsi del tutto dalla realtà e
lanciarsi con spavalderia nel mercato online, così
come non è preparato a lasciare l’oggetto per
l’esperienza e tuffarsi in quel mercato delle opere
virtuali, ancora decisamente di nicchia.
La
valutazione
di un’opera in realtà aumentata infatti, pone al
momento molti collezionisti di fronte ad una grossa
sfida: se non la posso appendere in salotto, a cosa mi
serve quest’opera? L’Apparizione
di Christian Lemmerz del 2017 – opera virtuale
riprodotta in cinque copie, ognuna al prezzo di circa
100,000$,
tra le più “chiacchierate” alla Biennale di Venezia di
quell’anno - può
essere
paragonata alla sua scultura in bronzo del 2013 Jesus?
Non
è
poi da sottovalutare il fatto che l’arte digitale può
essere facilmente soggetta alla falsificazione e alla
libera diffusione attraverso file digitali craccati .
A
prescindere da ciò che riserverà il futuro all’arte,
il display
espositivo e il marketing
giocheranno sempre un ruolo fondamentale
nell’ottimizzazione del processo di valorizzazione
dei prodotti artistici. E se negli anni passati
numerosi esperti del settore hanno ritenuto di dover
escludere i prodotti artistici dagli ambiti
applicativi del marketing,
risulta ora estremamente chiara la necessità di
un’opportuna riconsiderazione.
NOTE
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