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Perché l'arte mesopotamica non è arte  

Martina Procopio
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 21 Dicembre 2023, n. 948
https://www.bta.it/txt/a0/09/bta00948.html
Articolo presentato il 16 Novembre 2023, approvato il 16 Dicembre 2023 e pubblicato il 21 Dicembre 2023
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Area Archeologia

La possibilità di definizione dei manufatti mesopotamici come “arte” rimane un dibattito aperto negli studi vicino-orientali. Riferimenti alla questione si trovano più o meno esplicitamente nella letteratura scientifica, attraverso opinioni e prese di posizione largamente descrittive circa le caratteristiche formali e funzionali degli oggetti, mancando tuttavia tali affermazioni di diretti riferimenti alle teorie sull'arte e sul bello, ovvero di una solida base di dimostrazione concettuale storico-filosofica. Pertanto, obiettivo del presente articolo è sostenere la tesi secondo cui non sia ancora possibile parlare di oggetti d'arte in Mesopotamia – con particolare attenzione al periodo sumero-accadico – ponendosi come dimostrazione, supportata sia per mezzo dei risultati degli studi archeologici e filologici; sia delle teorie della branca filosofica nota come estetica, dalle sue radici aristoteliche fino alle riflessioni contemporanee di Umberto Eco, che risulteranno non essere applicabili al mondo mesopotamico per via delle sue specificità di ordine storico e sociale.

Lo scopo primario della ricerca è stato fornire ulteriori elementi in favore del riconoscimento della cultura mesopotamica innanzitutto come autonoma, punto di partenza fondamentale per poterla scoprire almeno in parte nella sua unicità, che l'applicazione di schemi già ampiamente noti potrebbe oscurare, rendendola di fatto un preludio sottosviluppato alle grandi civiltà assiali, con la terribile conseguenza di allontanare qualunque sentimento di stupore o meraviglia essenziale alla sua scoperta.


Per un'adeguata comprensione del documento archeologico mesopotamico

Gli scritti di archeologia orientale si riferiscono non di rado alle opere mesopotamiche come oggetti d'arte, dando per scontato la loro appartenenza a tale categoria. Se la definizione ha il merito di rendere più immediata la comprensione dell'argomento al lettore - poiché gli oggetti sono ricondotti a un concetto oggi universalmente noto - d'altro canto ignora totalmente la loro effettiva funzione e condizioni di esistenza, svuotandoli della loro storicità.

Per poter presentare un documento come artistico, bisogna disporre di un'adeguata documentazione letteraria e di un chiaro quadro etnografico 1, ossia di una conoscenza approfondita della cultura, storia, geografia e spiritualità dei popoli di provenienza 2. Una tale visione d'insieme è ancora mancante per la Mesopotamia, tanto che anche i sostenitori di una possibile compilazione di una storia dell'arte del vicino Oriente antico - come Irene J. Winter – sono pronti a riconoscere che alle ipotesi ricostruttive di cronologia, contenuto e stile mancano ancora gli strumenti analitici e un vocabolario propri della storia dell'arte, che potrà realizzarsi solo quando i reperti riusciranno a prendere spazio in una sequenza storica, ideologica e rappresentativa. Pertanto, anche i primi tentativi di considerazione delle opere mesopotamiche come arte, quali The Art and Architecture of Ancient Orient (1954) di Henry Frankfort e Art of Ancient Mesopotamia di Anton Moortgat (1967), sono piuttosto da considerarsi una “storia dell'oggetto” e non “dell'arte” 3.

Dunque, il primo ostacolo alla corretta comprensione dei manufatti mesopotamici consiste nell'applicazione degli strumenti critici e dei metodi della storia dell'arte provenienti dal mondo occidentale classico, che limita l'autonomia delle opere vicino-orientali e rischia di darne una lettura falsificata 4. Infatti, già dalle sue origini l'archeologia orientale è stata considerata un'appendice all'originale classica, ovvero una mera epoca di preludio alla civiltà occidentale, con l'unico vantaggio di essere stata riconosciuta fin da subito come scienza e non come curiosità 5. Significa che lo studio delle civiltà orientali è stato articolato su un continuo confronto con quelle classiche, arrivando talvolta a ignorare l'estraneità delle categorie mentali dell'Oriente attraverso una riconduzione forzata delle evidenze archeologiche orientali a categorie e a concetti emersi successivamente dal mondo classico, come è il caso dell'arte.

Il secondo ostacolo consiste nell'indefinitezza del concetto stesso di arte. Come Umberto Eco illustra nel saggio “Il problema della definizione generale dell'arte”, l'opera d'arte è anzitutto un prodotto storico: una qualunque definizione precisa e limitata del fenomeno andrebbe a discostarsi dalla sua proprietà essenziale di mutevolezza. Per ogni periodo storico è allora necessario operare un chiarimento del concetto generale di arte e del ruolo degli artisti, compito che spetterebbe all'estetica. Per descrivere l'evoluzione dell'arte, si è pensato di accostarvi il concetto di Auflosung 6, ossia la terminologia di cui si serve Hegel in Lezioni di Estetica (1835) per descrivere il fenomeno incessante di dissoluzione-risoluzione proprio della vitalità dell'arte, ovvero la morte dialettica per cui si sarebbe passati dall'arte simbolica a quella classica, dall'arte classica a quella romantica e dall'arte romantica a quella contemporanea. Brevemente, nei diversi momenti storici l'arte sarebbe continuamente morta e rinata assumendo nuove forme, riconoscibili perché caratterizzate dalle costanti strutturali del fenomeno artistico, che ha dunque bisogno di essere descritto mediante lo stabile utilizzo di termini secondo regole precise 7. L'estetica si occupa allora di definire una situazione assai complessa, che Eco descrive come ‹‹aperta››8. Pertanto, tentare di capire cosa rientri o meno nel concetto di arte può essere rischioso. Tuttavia, l'analisi del documento storico può aiutare a comprendere cosa una civiltà intendesse come arte, ossia quali oggetti venissero conservati ‹‹abitualmente come arte, usandoli cioè come stimolo concreto per considerazioni di ordine formale, compiacimenti immaginativi e – spesso – riflessione di ordine conoscitivo››, ossia quali suscitassero piacere estetico 9. Di conseguenza, unicamente l'attenta analisi del contesto storico delle opere mesopotamiche può chiarire quale ruolo ricoprissero e quali fossero i loro modi di produzione, ovvero se sia possibile parlare sia di arte che di artisti.


L'esperienza dell'uomo mesopotamico: estetica o del sublime?

Quando si parla dell'arte e delle sue forme, in generale si tende a considerarle manifestazioni innate nell'uomo, proprie della sua struttura spirituale e perciò permanenti 10. Invece, è proprio lo sviluppo incessante di nuovi modi di vedere la realtà a caratterizzare la natura umana, che è dunque in costante evoluzione. Significa che anche i concetti attualmente più scontati - come quello di forma e di tridimensionalità - non possono essere trattati come atemporali, in quanto sono tutti determinati da specifiche condizioni storiche locali e dai loro mutamenti 11.

Il concetto di forma è strettamente legato alla nascita del carattere estetico della realtà: come sostiene Dorner, la sua apparizione presso la civiltà greca accomuna la nascita delle attività artistiche e del pensiero razionale. Per la prima volta, infatti, la coscienza conoscitiva - λόγος - viene liberata da ogni connotazione figurativa e la coscienza artistica dai residui referenzialistici. Avviene dunque una separazione netta tra arte e pensiero, differenziati dal contatto o meno con il materiale, ma accomunati dalla ricerca delle strutture originarie dell'essere come forme qualitative, contemplabili e quindi godibili. Il carattere intrinsecamente estetico della realtà si colloca nella creazione di questi paradigmi ideali – il canone per l'arte e le idee per la filosofia – da cui si irradiano tutte le esperienze quotidiane e i suoi oggetti. Sebbene astratti, si tratta di modelli sempre percepibili, perciò contemplabili sia dalla filosofia che dall'arte. Τέχνη presuppone che si raccolga tutto “in norme rigide e strette”, escludendo la poesia, perché dipendente dalla μανία e non dal sapere 12. Allora, la conoscenza si identifica con la contemplazione estetica – θεωρέιν - in quanto godimento di cose autosufficienti, indipendenti e perfette. Con le idee in quanto modelli unici più reali della realtà, la rivoluzione platonica rappresenta il punto di partenza del processo che porterà alla nascita del linguaggio concettuale, ossia al ragionamento oltre gli oggetti concreti. La ricerca del modello essenziale, dalla forma armonica, proporzionata e simmetrica, determina la creazione di una struttura non solo idealizzata, ma anche logica, quindi unitaria. La realtà – visione che sarà anche la base di partenza nel Seicento per l'evoluzione del pensiero scientifico occidentale - è riconducibile a modelli stabili, che al mondo mutevole e indeterminato dell'uomo preistorico e protostorico mancano 13.

Non a caso, Matteo Andolfo definisce le culture egizia e mesopotamica del III millennio a.C. “verbocentriche”, ossia in cui l'essenza della realtà non è mediata da concetti, ma è manifestata direttamente attraverso la parola – che riproduce spesso suoni naturali - e i suoi segni, e in cui tutto ciò che non poteva essere scritto non esisteva 14. Come spiega Cesare Brandi, riprendendo le osservazioni della Montessori circa le illustrazioni infantili, presso i primitivi la parola diventava direttamente segno, ossia i loro disegni avevano funzione di scrittura, divenuti poi ideogrammi e infine illustrazioni di accompagnamento al testo scritto 15. Inoltre, Layton specifica che le scritture primitive - come i geroglifici - derivavano dalle raffigurazioni e indicavano uno specifico oggetto o suono (fonogrammi). Era possibile in questo modo modificare il messaggio, senza cambiare il significato del singolo carattere 16. Se dunque una concezione unitaria di organismo non esisteva, si può tuttavia parlare di un processo di concentrazione di segni efficaci, facendo risalire a queste epoche i primi tentativi di ordine degli elementi, attraverso il loro coordinamento e gerarchizzazione 17. Allora le immagini erano una somma di percezioni sensibili, che combinate tra loro offrivano una visione della realtà da punti di vista frontali e laterali insieme, senza un'unità interna 18, come la stele da Warka: (3000 a.C.) gli occhi e il busto del re-eroe sono frontali, mentre il resto è di profilo e nello spazio figurativo il contenuto ha il sopravvento sul principio formale, determinando anche il limite della scena 19 (fig. 1).

Fig. 1 - Stele da Warka: ovvero la prima raffigurazione del re-eroe e la prima stele nota della storia. In alto il sovrano che trafigge il leone con una lancia; in basso punta le fiere con arco e freccia. Periodo di Uruk (3000 a.C. circa), 78 cm., Bagdad, Iraq Museum (© 1963 Max Hirmer, tav. 18). (Foto cortesia Martina Procopio)
Fig. 1 - Stele da Warka: ovvero la prima raffigurazione
del re-eroe e la prima stele nota della storia
In alto il sovrano che trafigge il leone con una lancia
in basso punta le fiere con arco e freccia

Periodo di Uruk (3000 a.C. circa), 78 cm.
Bagdad, Iraq Museum (© 1963 Max Hirmer, tav. 18)
(Foto cortesia Martina Procopio)

Finanche Hegel, discorrendo sullo sviluppo della scultura in Egitto – che sappiamo essere stata influenzata da quella mesopotamica – la colloca in un momento storico in cui la frattura tra forma e significato non era stata ancora sanata, ossia portatrice del significato universale della rappresentazione e non mezzo attraverso cui godere dell'intuizione artistica, in quanto gli egiziani erano ancora mancanti di una sensibilità spirituale individuale e consapevole 20.

Non esistevano differenze tra l'oggetto e la sua immagine, tra l'evento e la sua rappresentazione. Erano evocazioni di esperienze sensibili, che potevano essere riprodotte o anticipate e che si inserivano nel flusso degli avvenimenti: intervenivano sulla vita pratica, agendo o bloccando i suoi mutamenti 21. La loro struttura non era forma, ma segni dal potere simbolico. Infatti, emerge anche dalle formule rituali come l'uomo mesopotamico identificasse sé stesso nelle qualità degli elementi e degli dèi nell'esatto istante in cui venivano evocate, poiché il loro mondo era il luogo della manifestazione del divino, da cui tutto ha avuto origine e per cui non esistono barriere tra la divinità, esseri viventi e l'universo 22.

Infatti, a livello cittadino la produzione di statue raffiguranti la divinità poliade era di primaria importanza, in quanto manifestazione tangibile della sua presenza e capacità di agire in favore della comunità, fintanto fosse stata adeguatamente curata. Si credeva che le statue godessero di una propria forza vitale 23, poiché la loro realizzazione andava a richiamare il momento in cui nel mito Enki e Ninmakh il dio Ea/Enki aveva plasmato il genere umano dall'argilla 24. Come l'uomo, le statue mesopotamiche erano vive e agenti nel loro mondo, ovvero in grado di costruire una propria narrazione. Il loro aspetto formale non era inteso come una mera copia della realtà, ma come evocazione del momento culminante di un processo, reso allo stesso tempo ricorrente e ripetitivo come insieme di azioni cicliche 25. Come spiega Nadali, quando nelle immagini mesopotamiche lo stile non è narrativo, ma descrittivo ed evocativo, bisogna riconoscere la loro esistenza su un piano meta-narrativo, quale è il caso delle statue regali e divine posizionate insieme in modo da manifestare l'incontro concreto tra il dio e il sovrano 26. Conformemente al suo ruolo dominante e di ascolto, la divinità era rappresentata seduta, mentre i sovrani erano stanti e nell'atto di rendere omaggi e offerte 27. Le due statue erano poste frontalmente, affinché potessero guardarsi negli occhi: non a caso le statue votive mesopotamiche erano caratterizzate da occhi molto grandi, poiché si credeva che fossero il veicolo di espressione dell'attenzione nei confronti della divinità, che a sua volta guardava negli occhi la statua del re e agiva così attraverso di lui 28.

In virtù di questo carattere partecipativo delle raffigurazioni preistoriche e protostoriche, avvertite come cariche di energia vitale, non è possibile ancora individuare un'attitudine contemplativa e disinteressata, propria dell'esperienza estetica. Alle immagini sono riconducibili solo i caratteri di narrativo, propagandistico e rituale, poiché la loro visione escludeva una conoscenza che andasse oltre l'immediato fine pratico, e di conseguenza anche una risposta emotiva fuori dall'ordinario e un'esperienza estetica, che è propria – anche se non esclusiva – degli oggetti d'arte 29. Ciò non implica che gli uomini mesopotamici e le altre culture pregreche non abbiano mai vissuto questo tipo di esperienza, potendo il piacere estetico essere suscitato anche dalla natura – anzi, secondo alcuni si tratterebbe di un'esperienza radicata nella natura umana, come suggerirebbero i primi tentativi di decorazione a scapito dell'utilità già presso l'Homo Sapiens 30. Semplicemente, qualora l'esperienza fosse stata causata da quei loro manufatti che noi definiamo artistici, mancherebbe comunque il nesso causale tra esperienza estetica e oggetto d'arte.

Le ricostruzioni circa gli aspetti estetici dell'arte figurativa mesopotamica sono il frutto di descrizioni contemporanee, a loro volta consapevoli dell'inesistenza di un concetto corrispondente al nostro di “bellezza”. Gli esperti hanno scelto di incentrarsi sulle reazioni di ammirazione e stupore – anche queste non traducibili - legate al piacere che deriverebbe dall'osservare un oggetto ben realizzato, ossia tecnicamente e materialmente valido, perché prezioso e simbolico 31. Infatti, dalla documentazione letteraria non risultano né trattati di riflessione sulla poesia o sulla musica, né scritti sulla bellezza formale e canoni a cui rispondere. Emerge invece come l'uomo si sentisse piccolo e insignificante rispetto alle grandi forze del mondo: per questo Naram-Sin (2254-2218 a.C.) fu rivoluzionario nel cessare di rappresentare gli dèi sempre in posizioni dominanti e di dimensioni maggiori. L'uomo mesopotamico dimostrava quotidianamente la propria devozione guidato da un sentimento di paura profondamente radicato nel suo modo di vivere. Era allora che costruiva i templi, scolpiva le statue, offriva le libagioni e rispettava i rituali. Invece, nella cultura occidentale la paura è stata considerata fin dall'antichità anche come fonte di piacere. Aristotele nella Poetica (IV sec. a.C.) descriveva la tragedia come imitazione del verosimile che genera κάθαρσις, ossia depurazione dalle passioni di pietà e paura. Una differenza fondamentale impedisce di applicare questo modello anche alle rappresentazioni mesopotamiche: il verosimile è imitazione di ciò che potrebbe accadere, non di ciò che è accaduto. Come spiega Aristotele, il poeta si distingue dallo storico per aver raccontato l'universale e non il particolare. Come questo racconto avvenga – se in versi o meno – poco importa: la storia rimane storia e la poesia rimane poesia 32. Inoltre, le azioni umane mesopotamiche non erano guidate dal piacere che si ricava dal verosimile, ma dal timore delle conseguenze, qualora l'ordine non venisse rispettato. Se è vero che gli uomini mesopotamici abbiano rappresentato unicamente la realtà, le loro opere sono ancora oggi in grado di trasmetterci quel sentimento di insignificanza, piccolezza e inadeguatezza che dovevano provare rispetto al potere divino, di cui quello regale era una conseguenza. Gli edifici templari, i palazzi, le stele celebrative e le statue erano monumentali, qualità da sempre messa in rilievo nelle opere vicino-orientali. Le loro prime descrizioni risalgono ai viaggi in Egitto di Erodoto e Platone 33, che infatti esplicitano quel senso di meraviglia suscitato dalla loro grandezza smisurata e dalla conseguente idea di immutabilità nel tempo che trasmettono. Il primo sottolineò nei suoi scritti la monumentalità colossale delle espressioni artistiche; il secondo scrisse che si potevano letteralmente osservare pitture e sculture antiche di diecimila anni 34.

Stupore, grandezza e paura sono normalmente legati a un'altra esperienza, diversa da quella del bello e di cui la teoria aristotelica della tragedia è un precedente diretto: il sublime. Secondo Kant, la particolarità del sublime è essere distinto dal bello e suscitato dalla grandezza assoluta (o potenza assoluta) nella natura. Sublime non è la natura di per sé, ma il sentimento che è in grado di generare. Tra gli esempi kantiani spicca la descrizione del sublime matematico con la visione di un monte, che suscita rispetto. Lo stesso accadeva ai sumeri con le loro ziggurat - che erano non solo semplice imitazione della montagna, ma anche il suo simbolo - tanto che in sumerico erano designate come u6-nir, letteralmente ‹‹Oh signore, wow››. Sembrerebbe dunque essere in presenza di un giudizio sul sublime universalmente riconosciuto e comunicabile perché radicato nel senso morale di tutti 35: secondo Matthiae l'elevatezza della loro struttura corrisponderebbe proprio alla sublimità morale 36. Lo stupore è la prima passione causata dal sublime secondo Burke e Kant, seguita da riverenza e rispetto 37.

Per applicare il concetto di sublime alle opere mesopotamiche – che trova corrispondenti nel sumerico mah e negli accadici kabtu, madu, rabu, siru 38 - è necessario innanzitutto operare una distinzione tra rappresentazione e supporto. Era il secondo a essere monumentale, quindi fonte di quella grandezza da cui deriva il sublime, che per la sua materialità di fango, pietra o metallo si potrebbe ricondurre direttamente alla natura. A sostegno della tesi, i termini indicanti luce e brillantezza associati agli oggetti e strutture sacri (ku3, ud, zalag, dadag, sherzi, me-lam2 in sumerico ed ellu, ellish, umu, namru, napardu, melammu in accadico) erano innanzitutto descrittivi di elementi naturali, quali il fuoco, i corpi astrali, i riflessi dell'acqua e dei metalli. Il loro utilizzo non era volto a evidenziarne tanto l'opulenza materiale, quanto l'aura che gli oggetti sacri erano in grado di emanare, essendo sede di un'energia vitale. La collocazione delle statue era infatti scelta in modo tale da essere colpite dai raggi del sole o lunari, che riflettevano sulle foglie di oro o argento che ricoprivano le loro parti nude 39. Melammu esprimeva in accadico la radiosità sovrannaturale che il dio mesopotamico condivideva con gli dèi, generato dai cosiddetti ‹‹spiriti protettivi››, che Oppenheim così definisce: ilu era una sorta di dotazione spirituale, forse l'elemento divino nell'uomo; ishtaru il destino dell'uomo; lamassu le sue caratteristiche personali; shedu il suo slancio vitale 40. Il tempio era invece ricoperto di argento, oro e lapislazzuli, questi ultimi particolarmente legati all'assenza divina per purezza e brillantezza: rispecchiavano in questo modo le residenze divine nei cieli, esattamente come descritte dai testi 41. L'irradiazione luminosa che emanavano era conseguenza dell'investitura del sovrano da parte degli dèi durante la cerimonia dell'incoronazione 42. L'attributo fisico della luminosità si estendeva allora anche alla struttura templare: come le qualità del palazzo corrispondevano a quelle possedute dal re, allo stesso modo gli attributi della divinità si riflettevano sul tempio in cui abitava. Talvolta l'assimilazione era resa evidente direttamente dal nome del santuario. Pertanto, la sede di Anu era la ‹‹Casa del cielo››”; la sede di Ea/Enki la ‹‹Casa dell'Apsu›› o ‹‹delle acque dolci››; la sede di Shamash la ‹‹Casa splendente››, ma anche ‹‹del giudice del paese››; la sede di Inanna/Ishtar la ‹‹Casa della lussuria del cielo o del Paese›› o addirittura la ‹‹Casa che ispira terrore nel Paese›› come è denominato il tempio di Zabàlam nel sud mesopotamico 43. L'aderenza tra qualità riguarda anche le descrizioni, per esempio l'Eanna di Inanna è un ‹‹rigoglioso frutto fresco, meraviglioso, compiutamente maturo›› poiché era la dea della fertilità 44. Citando Paolo Matthiae: ‹‹i santuari sono luoghi sacri che incutono timore, provocano angoscia e ispirano terrore soprattutto perché i templi sono le sedi terrene di quell'”irraggiamento” e di quello “splendore” che è tipico attributo divino, in quanto il luminoso è impenetrabile e quindi infonde spavento›› 45. Il risultato è dunque uno sconvolgimento psicofisico nei fedeli e il loro accecamento, che soprattutto nei nemici provocano smarrimento, in quanto sede della giustizia divina e dell'ordine sociale nel Sumer. Al pari delle statue e degli esseri umani, si credeva infatti che anche il tempio avesse una propria forza vitale, poiché nato anch'esso dall'argilla al momento della creazione 46. Templi e statue prendevano vita dall'esterno, come i simboli egiziani di cui parla Hegel 47, enfatizzando attraverso la loro “radiosità” – non esistono traduzioni esatte del concetto – la manifestazione del potere divino o regale, in grado di incutere nell'osservatore soggezione, timore e terrore 48. Secondo Irene J. Winter questa gamma di risposte emotive sarebbe dimostrazione dell'esperienza estetica suscitata da questi oggetti. Riprendendo le teorie estetiche, sono invece una conferma ulteriore dell'esperienza del sublime. Gli aggettivi erano infatti collegati non solo alla purezza, ma anche alla forza del soggetto, intesa come prevaricazione e terrore necessari per vincere i nemici, volti al mantenimento del proprio potere. Pertanto, una loro equivalenza con il concetto di bello occidentale non è sostenibile 49.

La rappresentazione, invece, poteva o essere parimenti grande al supporto – come nel caso delle statue raffiguranti il sovrano – oppure essere composita, come accade sulle stele celebrative, stendardi, placche e sigilli. Se si accoglie la definizione hegeliana di sublime, che lo riconduce ai simboli, in quanto ‹‹tentativo di esprimere l'infinito senza trovare nel regno dei fenomeni un oggetto che si mostri adeguato a questa rappresentazione›› 50, allora potremmo parlare di sublime addirittura anche per i sigilli del Protodinastico IIIA (2600-2450 a.C.), in cui secondo Eva Strommenger con poche linee la realtà è ridotta a simbolo, con uomini e animali che diventano allegorie 51. I sigilli erano un'estensione del corpo fisico del proprietario, che sarebbe rimasta nel mondo terreno anche dopo la sua morte. Non è chiaro come venisse scelto il tema da incidere, ma siccome si tratta di immagini incluse in un sistema di valori condivisi e non originali e personali, il sigillo potrebbe essere anche una proiezione più ampia del corpo sociale della persona, che spiegherebbe la replica stereotipata delle scene. Secondo Schmandt-Besserat, i sigilli sarebbero un tipo di comunicazione visuale complessa derivante dall'organizzazione dei segni cuneiformi sulle tavolette. Ogni figura sarebbe dunque semantica, posizionata in base a uno schema organizzativo e distinta dalle altre grazie ai propri attributi, che svolgerebbero la stessa funzione dei determinativi nella lingua scritta 52.

Non bisogna mai dimenticare che la monumentalità che caratterizza la civiltà mesopotamica era la rappresentazione del loro mondo reale, che influiva addirittura sulle qualità attribuibili al sovrano, innanzitutto riscontrabili con il suo palazzo e regalità, non con la sua individualità. Potremmo allora intravedervi un riflesso del loro punto di arrivo nella ricerca di ordine e di senso nel mondo; di interpretazione delle forze che lo governano e da cui dipende la sorte umana. Le loro opere sarebbero un'importante esternazione della loro visione e sentimenti come comunità rispetto al mondo. In questa condivisione della paura si potrebbe individuare un tentativo di catarsi, a cui ricondurre il sentimento del sublime come espressione collettiva della presa d'atto dei limiti umani e dei rischi 53, del pericolo e del terrore, da cui allo stesso tempo la partecipazione ai rituali e alla vita collettiva tengono al sicuro. Come gli oggetti del sublime, le opere mesopotamiche richiamavano la preoccupazione per il dolore e la morte, erano espressione di potenza superiore, di grandi dimensioni, in grado di richiamare anche l'idea di infinità e di fatica per realizzarle.


La società mesopotamica: artisti o artigiani?

Caratteristica delle civiltà arcaiche è l'assenza di un pensiero razionale e di personalità, che faranno la loro comparsa solo nell'epoca definita da Karl Jaspers come età Assiale. In questo periodo compreso tra l'800 e il 200 a.C. si assiste a un parallelo risveglio dello spirito in India, Cina, Persia e Occidente, per cui l'uomo diventa oggetto di riflessione storica. Si sviluppano così i primi movimenti guidati da capi lontani dalle istituzioni templari, ossia i primi filosofi e le religioni monoteiste. Nascono lo zoroastrismo, il buddismo, il confucianesimo, la filosofia greca e l'ebraismo. L'assenza di pensiero razionale, individuale e di domande sulla realtà permane nel Vicino Oriente antico, civiltà che si sarebbe esaurita proprio per non aver partecipato alla rivoluzione assiale. Nelle numerose testimonianze scritte l'ordinamento del mondo è fisso e dato per certo, mancano polemiche e confronti da prospettive differenti. Documenti che riportano il contrario sono rarissime eccezioni insufficienti ad apportare cambiamenti storici 54. La stessa descrizione dei singoli regni antidiluviani come millenari, suggerisce una visione astoricistica, ossia la mancanza della necessità di verosimiglianza tipica del mondo antico 55.

Eccetto per le lettere, dai testi non emergono informazioni o opinioni personali degli scribi. Compaiono invece specifici argomenti e modalità convenzionali di organizzazione del testo, concorrenti alla trasmissione del significato e riconducibili alla specializzazione dell'autore, che si autoidentificava genericamente come un tupsharru – scriba – e rimaneva anonimo. Gli scribi non si ponevano in continuità con testi sacri o normativi facendo riferimenti o criticandoli 56, ma è grazie alle loro copie se gran parte del patrimonio culturale si è salvato dalle invasioni e dalle distruzioni. Infatti, solo a partire dal I millennio a.C. – lo stesso dell'età Assiale – gli inevitabili arricchimenti di questi testi iniziano a presentare riflessioni sulla condizione umana e sul male, dunque un'esigenza di razionalità, che non contrasta con il pensiero magico, ma gli attribuisce nuovi significati: ad esempio le pratiche magiche erano percepite come un mezzo di cui servirsi per proteggere la propria libertà. Tuttavia, non si tratta ancora di un pensiero razionale, astratto e speculativo: probabilmente è da ricondurre alla rigida subordinazione del sovrano il mancato sviluppo della filosofia razionale, mancando i presupposti per un dibattito libero. Si tratterebbe piuttosto di un nuovo modo di interagire con i simboli e i loro nessi nelle antiche credenze 57. Pertanto, per questi popoli è possibile parlare di morale, ossia dell'insieme di comportamenti e norme che vengono in genere considerate valide da un gruppo di persone, ma non di etica come “riflessione sul perché li consideriamo validi e il paragone con altre “morali” di altre persone” 58 .

Si è davanti a una mentalità e a una modalità di percezione del mondo che hanno trovato espressione anche nei canali figurativi. Alla base della concezione del mondo sumero c'erano caos primordiale e ordine – nun e mat - mentre per quello Accadico (2350-2112 a.C.) la perfezione: proprio in questo periodo si diffonde il tema del sacello alato sopra un toro sorretto da divinità minori, che è stato interpretato come la conquista del tempio da parte degli dèi, ossia la vittoria dell'ordine sul caos 59. Per i sumeri, l'ordine si era raggiunto grazie alla regalità discesa dal cielo, pertanto il tempio aveva un'autorità indiscussa e fondamentale per il corretto svolgimento della vita umana. Non significa che l'uomo mesopotamico vivesse del tutto tranquillo: le catastrofi, determinate dal volere degli dèi, erano sempre imprevedibili e suscitavano preoccupazione, insieme al pensiero della dolorosa vita ultraterrena, che avrebbe trasformato l'uomo in uno spirito maligno – gidim – che avrebbe tormentato i viventi 60. Chiaramente, se la vita umana dipendeva dal mantenimento dell'ordine divino, allora è su questo che si basava la propaganda: curare i rapporti con le divinità, restaurare e costruire nuovi templi. Inoltre, il sovrano aveva bisogno di affermare la propria autorità e superiorità rispetto agli altri uomini che avrebbero voluto o potuto ricoprire il suo ruolo. Infatti, talvolta partecipava alle cerimonie eseguite dagli specialisti del tempio, mentre la presenza dei cittadini era limitata alla loro conclusione e sembra non praticassero individualmente attività religiose, perché credevano che i loro benefici venissero irradiati dal centro della comunità. L'unico garante delle cerimonie, e conseguentemente dell'ordine, rimaneva il sovrano 61, dal cui palazzo venivano allora diffuse immagini che convogliavano messaggi diversi in base alla concezione di regalità dell'epoca di riferimento (il re-eroe, il re-costruttore, il re-architetto, il re-dio). Chiaramente, si trattava di immagini preventivamente approvate dal sovrano, che controllava in questo modo non soltanto la realtà, ma anche come venisse raffigurata. Era lui il committente, era lui a decidere le modalità. Sommando l'assenza di pensiero individuale a questa detenzione del controllo, comprendiamo come risulti anche difficile sostenere che dietro alle immagini potesse esserci un artista, inteso come attuatore di un progetto figurativo in grado di aprire le porte alla comprensione della sua realtà temporale, geografica e sociale, dicendo allo stesso tempo qualcosa in più su sé stesso 62.

La separazione tra mente pianificatrice ed esecutore assomiglia alle dinamiche proprie dell'arte concettuale contemporanea, da cui si distingue completamente per l'assenza di intenzionalità artistica. Come è tipico delle società preistoriche, l'autore condivide gli stessi valori del suo pubblico e produce un'arte ‹‹altamente socializzata›› 63, ossia usata tutti i giorni 64. Allora nelle immagini regali mancherebbero quel ‹‹plusvalore che si sovrappone alla perizia tecnica e al significato oggettivo delle regole tramandate›› 65 , l'autonoma dignità intellettuale 66, la validità sovrastorica tipica dell'arte 67 e soprattutto l'intenzionalità dell'arte. La sua mancanza nelle evidenze testuali mesopotamiche: i termini più simili - il sumerico alam/n e l'accadico salmu - suggeriscono condizioni di esistenza differenti per le tipologie di oggetti indicati attualmente come opere d'arte, poiché il loro significato di ‹‹immagine, figura, raffigurazione›› indica una categorizzazione più ampia, riferibile a qualunque tipo di rappresentazione – a tutto tondo, dipinta o in rilievo – e perciò inclusiva anche di oggetti simbolici e non necessariamente allo stesso tempo artistici. Una distinzione specifica si osserva piuttosto per la natura delle statue divine e regali, associate in entrambe le lingue a verbi rimandanti alla nascita in paradiso – il sumerico tud e l'accadico waladu – che le contraddistinguono come sede vitale parallela e ulteriore del soggetto raffigurato, rispetto alle altre immagini accompagnate dal verbo dim 68.

Le opere mesopotamiche sono decisamente più vicine all'artigianato di quanto non lo siano all'arte. Childe ha definito gli artigiani mesopotamici ‹‹proletari›› poiché il loro sostentamento e rifornimento di materie prime dipendevano solo ed interamente dallo stato: il progresso statale aveva avuto come ripercussione negativa la rigida divisione delle classi sociali, che limitò artefici e artigiani, relegati alla classe più bassa. La mancanza di responsabilità e di richieste da parte di una clientela interessata e in grado di pagare fece perdere loro gli stimoli alla ricerca, creatività e invenzione. Esemplare la forma rimasta invariata per oltre due millenni di strumenti quali il coltello, l'ascia e il pugnale, modificati leggermente in alcuni particolari, che non possono essere definiti innovazioni. Le conoscenze artigianali venivano trasmesse esclusivamente in forma orale e mancava lo spazio per scambi che potessero portare all'innovazione tecnica. In breve, le eccessive rigidità e sicurezza di sostentamento sarebbero state le cause della repressione di qualunque prospettiva di miglioramento personale 69. Mancando evidenti motivazioni e stimoli, gli artigiani non inventavano le regole produttive e nuovi modi di codificare mentre producevano. Le loro opere risultavano così altamente standardizzate e in tale qualità risiede la distinzione tra opere d'arte e artigianato. In semiotica esiste infatti la nozione di ‹‹doppio››, secondo cui è impossibile giungere alla perfezione di replica di un'opera d'arte, poiché i mezzi e le tecniche personali dell'artista rimangono sconosciuti. Per l'artigianato vale l'opposto: poiché le regole di riproduzione sono interamente note, è possibile parlare di doppi assoluti, inclusi i prodotti di civiltà in cui le regole di creazione della rappresentazione sono omogeneizzate, come quella egizia riportata come esempio da Umberto Eco 70.

Riprendendo la nota teoria di Mario Liverani, il bisogno di organizzazione lavorativa dei campi lunghi avrebbe richiesto fin da subito di essere coordinata da una gestione centralizzata e avrebbe condotto alla nascita della città. A differenza del potentato, che prevede un prelievo delle eccedenze ai produttori da destinare al capo e all'aumento dei consumi familiari, il prelievo delle eccedenze in Mesopotamia sarebbe stato destinato a scopi sociali (quali l'edilizia templare e poi palaziale) e avrebbe riguardato innanzitutto il prelievo del lavoro. Ossia, le eccedenze – in particolare orzo e lana – non venivano prodotte nelle proprietà personali dei lavoratori, ma presso delle aziende templari o palatine proprietà del tempio o del palazzo. Significa che nelle aziende templari il lavoro dei produttori di cibo era stagionale e destinato interamente alle istituzioni, che lo avrebbero pagato con razioni alimentari e nei periodi di disoccupazione avrebbero lavorato come privati nei propri possedimenti; mentre nel tempio e nel palazzo lavoravano gli specialisti non produttori di cibo e la loro posizione era permanente e retribuita con la concessione i temporanea di lotti di terra. Nel tempio risiedeva dunque una classe dirigente anonima plenipotenziaria del dio, costituita da sacerdoti-amministratori specialisti e dalla gerarchia con in alto i dirigenti, seguiti dai sorveglianti e infine dagli addetti lavorativi. La struttura sociale era dunque tripolare: tempio/palazzo; aziende templari/palatine; comunità locali. Tra i non produttori di cibo assunti a tempo pieno dal tempio/palazzo rientravano anche gli artigiani, che si occupavano della lavorazione di metallo, legno, pietre dure, fibre vegetali e cuoio. Due furono i fattori di accentramento: il rifornimento regolare di materie prime e combustibili reso possibile dal commercio amministrato dalle agenzie templari e palatine; e l'aumento di domanda della committenza pubblica, che poteva essere soddisfatto dalla maggiore produttività e tecnologie efficienti. Rendeva inoltre possibile l'accentramento fisico di alcuni tipi di lavorazioni esclusive, per cui le istituzioni cittadine potevano controllare direttamente come venissero lavorati i materiali più preziosi. Nel tempo che avanzava l'artigiano poteva dedicarsi anche alle committenze private, normalmente in ceramica, dato che i metalli e il combustibile provenivano da territori lontani e il commercio era normalmente gestito dalle agenzie centrali 71.

L'artigiano eseguiva la statua sotto la direzione del suo speculare artigiano divino, oppure era direttamente ipostasi del dio Ea, che era sia dio dell'acqua, sia della creazione di statue, avendo lui per primo plasmato l'uomo dall'argilla 72. Pertanto, non è possibile parlare né artista né di genio, ma di botteghe e artigiani che eseguivano gli incarichi divini e le commissioni regali: il significato dell'opera era sempre più importante del suo valore estetico, tanto che le iscrizioni potevano anche coprirne i rilievi 73. Infatti, i sovrani talvolta ne reclamavano il merito, essendo stati ispirati dalla divinità, che gli permetteva di immaginare, progettare e realizzare analogamente al dio Ea 74; oppure davano credito ai loro artigiani, che rimanevano comunque anonimi ed eventualmente indicati come – ummanu - ‹‹esperti›› 75 o con la loro specifica categoria di appartenenza 76. In questo caso, venivano usati aggettivi che ne esaltavano le capacità tecniche, costituendo queste parte del valore dell'oggetto 77. Tuttavia, riconoscere che un artefatto sia stato eseguito abilmente o magistralmente, non significa che si tratti di arte, ma fare la descrizione di un oggetto. Certamente si tratta di oggetti che grazie al loro stile sono riconducibili – almeno a grandi linee - a una certa epoca e luogo, ma non a specifiche personalità artistiche. Infatti, lo stile può caratterizzare anche manufatti non artistici 78 e, per le motivazioni precedenti, non possiamo comunque considerarlo come manifestazione individuale del modo di interpretare la realtà. Era in primis espressione della propaganda regale, come poi accadrà anche in epoche successive, basti pensare all'architettura littoria fascista.


Evoluzione stilistica: arte o simboli del potere?

Lo stile regale mesopotamico comprendeva tratti, posizioni, proporzioni e addirittura materiale appositamente scelti per la loro valenza ideologica. Si consideri inoltre che il risultato finale dipendeva non solo dai desideri del sovrano e dalla bravura della bottega, ma anche dalla durezza, compattezza e difficoltà di lavorazione del materiale. Bisogna allora fare attenzione a parlare di evoluzione dello stile in fasi naturalistiche, specialmente quando la documentazione delle opere e la loro cronologia è incerta. Infatti, per l'arte figurativa di Mesopotamia un'analisi completa dell'evoluzione stilistica non è realizzabile, sebbene a partire dalla metà del XX secolo sia stata sorpassata la loro considerazione limitata ai soli aspetti tipologici e iconografici 79.

Henry Frankfort colloca il principio del passaggio dalla forma utilitaria a quella artistica all'architettura preistorica nord-mesopotamica del periodo di Al'Ubaid (4000 a.C. o prima), in cui si inizia a ricercare varietà nella struttura, tuttavia ancora senza un puro intento decorativo. Invece, le ceramiche erano decorate con motivi geometrici e animali dall'andamento rotante, ossia trasposizioni della natura in schemi geometrici, che tuttavia non sembrano avere un intento artistico. Mancando evidenze di un loro rapporto di continuità con la cultura del Sumer, queste ceramiche potrebbero non dover essere incluse nella storia dell'arte sumerica. Partendo direttamente dal periodo di Uruk (3500-3100 a.C.), la statuaria riflette lo stretto legame tra uomo e natura, da cui dipendeva il sostentamento del primo. La statuetta di donna da Khafaje (3000 a.C., fig. 2) e i rilievi del vaso da Warka (3000 a.C., fig. 3)

Fig. 2 - Statuetta di donna da Khafaje. Periodo di Uruk (3000 a.C. circa), 10 cm.,  Baghdad, Iraq Museum (© 1977 Henry Frankfort, fig. 21). (Foto cortesia Martina Procopio) Fig. 3 - Vaso dal santuario di Eanna a Warka in alabastro. Periodo di Uruk (3000 a.C. circa), 92 cm., Baghdad, Iraq Museum (© 1963 Max Hirmer, tav. 19). (Foto cortesia Martina Procopio)
Fig. 2 - Statuetta di donna da Khafaje
Periodo di Uruk (3000 a.C. circa), 10 cm.
Baghdad, Iraq Museum
(© 1977 Henry Frankfort, fig. 21)
(Foto cortesia Martina Procopio)
Fig. 3 - Vaso dal santuario di
Eanna a Warka
in alabastro
Periodo di Uruk (3000 a.C. circa), 92 cm.
Baghdad, Iraq Museum
(© 1963 Max Hirmer, tav. 19)
(Foto cortesia Martina Procopio)


mostrano uno stile naturalistico, in cui i personaggi sono caratterizzati e non parte di un semplice schema decorativo 80. Infatti, la scelta della rappresentazione del matrimonio divino su una struttura di tali dimensioni secondo Henriette Groenewegen- Frankfort sarebbe stata dettata non solo dal vaso in quanto oggetto culturale, ma anche dal vaso in quanto struttura circolare, che avrebbe consentito di rappresentare al meglio un evento che accadeva ciclicamente. Non avrebbe dunque avuto lo scopo di rappresentare una scena di offerta per sottolineare il ruolo di primo piano di un individuo specifico, come accedeva in Egitto 81. È detta ‹‹narrazione performativa››, poiché oltre a rappresentare l'evento, l'immagine produce anche il risultato sperato. Per la prima volta un rito religioso viene rappresentato narrativamente e si tratta anche della prima opera figurativa che integra segni scritti: il profilo delle ciotole portate dal re-sacerdote compone il segno cuneiforme en, mentre le due canne con la cima ad anello e il festone richiamano la sequenza grafica base che componeva il nome della dea Inanna 82. Amiet ritiene che il copricapo della dea Inanna con due protuberanze a forma di corna (fig. 4)

Fig. 4 - Particolare della fascia superiore del vaso dal santuario di Eanna a Warka con la dea Inanna (o forse una sacerdotessa) che indossa il copricapo con due protuberanze a forma di corna. Periodo di Uruk (3000 a.C. circa), 92 cm., Baghdad, Iraq Museum (© 1963 Max Hirmer, tav. 20). (Foto cortesia Martina Procopio)
Fig. 4 - Particolare della fascia superiore
del vaso dal santuario di Eanna a Warka
con la dea Inanna (o forse una sacerdotessa)
che indossa il copricapo con due
protuberanze a forma di corna

Periodo di Uruk (3000 a.C. circa), 92 cm.
Baghdad, Iraq Museum (© 1963 Max Hirmer, tav. 20)
(Foto cortesia Martina Procopio)

potrebbe essere il prototipo diretto o una variante di quello sul rilievo arcaico da Tello. Secondo Spycket nella scrittura pittografica corrisponderebbe alla forma più antica del segno šur, kuš - il gunu di sag, testa – ovvero il segno dell'amplificazione che precede il segno testa 83.

Nel periodo di Jemdet Nasr (3100-2900 a.C.) le capacità artistiche della statuaria sono più modeste, mancando il naturalismo e le forme squadrate del periodo di Uruk 84. La grande novità è la decorazione geometrica stile “Jemdet Nasr” per la glittica, da cui deriva lo stile broccato del periodo Protodinastico I (2900-2750 a.C.) 85, consistente in soggetti arricchiti da decorazioni intricate e spaziate tra loro come i ricami, ripreso anche nei rilievi dei vasi in steatite verde del Protodinastico II (2750-2600 a.C.).

Nella statuaria del Protodinastico II le forme reali vengono approssimate a forme astratte, ossia l'unità ricercata non è organica, ma geometrica e particolarmente enfatica, che riduce le masse a solidi tondeggianti, prevalentemente cilindri e coni. Invece, a partire dal Protodinastico III lo stile astratto viene abbandonato per recuperare il plasticismo del periodo di Uruk. Come il periodo Protoletterario, anche il Protodinastico si conclude con un cambiamento di stile che farà da nuovo punto di partenza per l'epoca successiva 86.

La ripresa dei tratti naturalistici in età Accadica, sebbene le statue continuassero a presentare nella fisionomia caratteristiche di astrazione, ha permesso secondo Paolo Matthiae il passaggio da naturalismo analitico al naturalismo sintetico, ossia che non si concentra unicamente sulle singole caratteristiche, ma anche sulla loro coerenza. I risultati sono una vitalità, realismo, plasticismo e caratterizzazione dei volti e dei corpi inediti 87. Riferendosi ai rapporti spaziali tra figure e vuoti, Nadali e Verderame li hanno etichettati come ‹‹bello stile››, ovvero a partire dall'Accadico maturo l'organizzazione spaziale si evolve in una composizione più essenziale, narrativa ed equilibrata, descritta normalmente come “bella”. Pertanto, il riconoscimento dell'appartenenza delle opere a questo periodo muove spesso dalla valutazione estetica comparata. Tuttavia, l'evoluzione stilistica sembrerebbe essere stata determinata dai cambiamenti politici, tanto da far ipotizzare delle riforme burocratiche sotto il regno di Naram-Sin (2254-2218 a.C.) 88.

Sotto Gudea (2150-2120 a.C.) la monumentalità, durezza e precisione delle forme accadiche viene ripresa, ma la composizione enfatizza la forma cilindrica, rimanendo comunque plastica.

Infine, la scultura del periodo Neosumerico è molto frammentaria e non abbiamo criteri per distinguerla da quella del periodo successivo di Isin-Larsa (2000-1750 a.C.), ma sembrerebbe riprendere più l'arte sotto Gudea (2150-2120 a.C.) che quella accadica 89.

Sebbene la ricostruzione sia in alcune parti approssimativa, l'evoluzione stilistica sembrerebbe consistere in un alternarsi di geometrismo e naturalismo. Secondo Silvio Ferri, gli archeologi formulano una descrizione di questo tipo quando non dispongono di sufficienti fonti documentarie. Cercano allora le risposte direttamente nella natura umana e nei suoi schemi logici, ricorrendo talvolta anche agli studi sull'evoluzione psicologica. Per l'arte è molto comune parlare di passaggio dal geometrismo al naturalismo e dal naturalismo al geometrismo come degenerazione dovuta a conseguenze psicologiche, sebbene possa invece trattarsi di un modo di comunicare ritenuto più efficace. Inoltre, al di là del processo evolutivo, esiste ciò che provoca interesse nell'artista, che lo guida nella scelta tra i suoi ricordi di cosa rappresentare. Pensare di potersi avvalere di un'unica regola di fronte a così poca documentazione riduce le forme stilistiche a semplici presupposti, a un processo evolutivo uguale per tutti al di là della propria storia e cultura. Bisogna sempre porsi il problema degli stili mediante cui la personalità culturale si è espressa, perché al momento le informazioni non sono sufficienti per risolverlo 90. Secondo Ferri esisterebbero invece un naturalismo visto geometricamente e un geometrismo naturalistico, come ad esempio nella Testa di Ninive (2350-2250 a.C., fig. 5)

Fig. 5 - Veduta frontale della Testa da Ninive in rame/bronzo. Periodo Accadico (2350-2250 a.C. circa), 36.6 cm., Bagdad, Iraq Museum (© 1963 Max Hirmer, tav. XXIII). (Foto cortesia Martina Procopio)
Fig. 5 - Veduta frontale della
Testa da Ninive in rame/bronzo

Periodo Accadico (2350-2250 a.C. circa), 36.6 cm.
Bagdad, Iraq Museum
(© 1963 Max Hirmer, tav. XXIII)
(Foto cortesia Martina Procopio)

Non si tratterebbe di un esempio di organicità – come vuole il naturalismo sintetico del periodo Accadico (2350-2112 a.C.) – ma di astrazione della regalità, ossia dell'idea di re secondo gli accadi 91. Pertanto, la mancanza di un'approfondita conoscenza sull'evoluzione stilistica e delle sue cause non rende ancora possibile inserire l'arte figurativa mesopotamica in una prospettiva storiografica, come richiederebbe la compilazione di una storia dell'arte mesopotamica.

Considerando le variazioni di stile della statuaria regale, dipendono certamente dal modo in cui si usava rappresentare in generale le figure nel dato momento; dagli attributi conferiti di epoca in epoca ai sovrani; dal modo in cui dovevano mostrarsi coerentemente alla loro ideologia; dal tipo di materiale scelto. Normalmente di quest'ultima questione si tende a considerare il solo valore ideologico della materia, sottovalutando il suo processo di lavorazione. Prendendo ad esempio le statue di Gudea (2150-2120 a.C.), le forme erano particolarmente compatte non solo per trasmettere un'aura di santità e trascendenza, ma anche perché realizzate in diorite, pietra scelta per l'integrità durevole, associata già durante il periodo Accadico (2350-2112 a.C.) alla vita eterna, e dal forte valore simbolico perché proveniente da Magan (Oman) 92. A proposito, Agnès Spycket afferma che l'effetto di uniformità che emerge dalla visione delle statue di Gudea (2150-2120 a.C., fig. 6)

Fig. 6 - Statua in diorite di Gudea seduto (statua P) da Tello. Periodo Neosumerico (2150-2120 a.C. circa), 45 cm., Parigi, Louvre (© 1963 Max Hirmer, tav. 136). (Foto cortesia Martina Procopio)
Fig. 6 - Statua in diorite di Gudea seduto (statua P) da Tello
Periodo Neosumerico (2150-2120 a.C. circa), 45 cm.
Parigi, Louvre (© 1963 Max Hirmer, tav. 136)
(Foto cortesia Martina Procopio)

è dovuto a una visione superficiale, perché non è frutto dell'apparente ripresa del medesimo modello, ma della diorite stessa 93. Infatti, confrontandole con altre statue in pietra dura del periodo Accadico – come quelle di Manishtusu (2269-2255 a.C.) – si nota che la durezza delle forme permane, nonostante fossero assolutamente diversi l'ideologia regale e il conseguente messaggio da trasmettere. Le affinità tra le due botteghe reali sono state giustificate con l'ipotetico trasferimento a Lagash delle maestranze regali accadiche, sebbene manchino evidenze testuali e archeologiche dei loro laboratori 94. Tuttavia, anche nel periodo Accadico stesso mancano ulteriori evidenze del realismo particolareggiato e raffinato per cui la Testa di Ninive (2350-2250 a.C.) si contraddistingue. Probabilmente in futuro saranno rinvenute altre teste regali simili, ma non può essere un caso che il volto più naturalistico rinvenuto – al di là che si tratti davvero di un ritratto di Sargon (2235-2279 a.C.) o meno - sia in rame. Essendo un metallo, implica che la sua lavorazione sia diametralmente opposta alle pietre dure: riprendendo l'efficace descrizione di Michelangelo, è ‹‹per via di porre›› e non ‹‹per forza di levare››. Inoltre, il rame gode di diverse proprietà, quali duttilità e malleabilità, che ne rendono la lavorazione flessibile 95. A sostegno di questa tesi possiamo prendere l'ipotesi di Eva Strommenger, per cui l'organicità delle statue in metallo protodinastica avrebbe come precedenti delle sculture in legno, non in pietra e che gli scultori adesso avevano a disposizione anche il coltello a intaglio, oltre che lo scalpello, mentre nel Protodinastico IIIB (2450-2350 a.C.) la plasticità delle figure dipenderebbe dall'utilizzo del trapano a sfera 96; l'osservazione piena di sorpresa di Frankfort, che non riusciva a spiegarsi come durante il Protodinastico II la diffusione della lavorazione in metallo - in particolare rame e oro – non avesse influenzato la scultura e viceversa. Invece, successivamente, secondo lui, i lavori in metallo avrebbero preso il sopravvento e così influenzato quelli in pietra 97. Poiché il legno non si è conservato e i metalli venivano normalmente rifusi, le prove a sostegno delle due teorie sono insufficienti. Infatti, confrontando uno degli esempi di realismo più riuscito del Protodinastico III, ossia le teste di mucche barbute in metallo (fig. 7)

Fig. 7 - Testa di toro barbuto (detta anche di mucca) in oro dal cimitero reale di Ur, come esempio di realismo per le opere in metallo. Periodo Protodinastico (2500-2350 a.C. circa), Baghdad, Iraq Museum (© 1963 Max Hirmer, tav. XII). (Foto cortesia Martina Procopio)
Fig. 7 - Testa di toro barbuto (detta anche di mucca)
in oro dal cimitero reale di Ur,
come esempio di realismo per le opere in metallo

Periodo Protodinastico (2500-2350 a.C. circa)
Baghdad, Iraq Museum (© 1963 Max Hirmer, tav. XII)
(Foto cortesia Martina Procopio)

che decoravano le casse d'arpa con le opere in pietra del medesimo periodo, a eccezione della Stele degli Avvoltoi (fig. 8), le altre - come la Placca votiva di Ur-Nanshe (2500-2120 a.C., fig. 9) - hanno delle forme ancora molto geometrizzanti e spigolose. Inoltre, molti oggetti in oro, rame e altri metalli preziosi provengono dalle tombe reali di Ur, forse per il valore simbolico nei riti naturisti o funerari di questi materiali affidati dai funzionari regali alle officine 98.



Fig. 8 - Stele di Eannatum o degli Avvoltoi in pietra calcarea da Tello. Lato anteriore con il dio Ningirsu o l’ensi Eannatum che trattiene i prigionieri in una rete. Periodo Protodinastico (2450-2350 a.C. circa), 180 cm, Parigi, Louvre (© 1963 Max Hirmer, tav. 67). (Foto cortesia Martina Procopio) Fig. 9 - Placca votiva di Ur-Nanshe con figure dalla forma geometrizzante e spigolose. Periodo Protodinastico (2550-2450 a.C. circa), 40 cm., Parigi, Louvre (© 1963 Max Hirmer, tav. 73). (Foto cortesia Martina Procopio)
Fig. 8 - Stele di Eannatum o degli Avvoltoi
in pietra calcarea da Tello.
Lato anteriore con il dio Ningirsu o l'ensi Eannatum
che trattiene i prigionieri in una rete

Periodo Protodinastico (2450-2350 a.C. circa), 180 cm.
Parigi, Louvre (© 1963 Max Hirmer, tav. 67)
(Foto cortesia Martina Procopio)

Fig. 9 - Placca votiva di Ur-Nanshe
con figure dalla forma geometrizzante e spigolose

Periodo Protodinastico (2550-2450 a.C. circa), 40 cm.
Parigi, Louvre (© 1963 Max Hirmer, tav. 73)
(Foto cortesia Martina Procopio)

Si potrebbe inoltre ipotizzare un parallelismo tra la diffusione del realismo e l'avvento della dinastia accadica, ossia della mentalità semitica nel Sumer: i sovrani accadici avevano una concezione di sé stessi più centrale nel mantenimento dell'ordine cosmico, erano dei protagonisti. Tutti diventavano dèi, chi in vita, chi in morte – incluso Sargon (2235-2279 a.C.). Realismo, aderenza alla realtà, significa anche diffusione della propria immagine, rendersi riconoscibili dai sudditi e posteri, distinguersi dagli altri uomini ordinari. Se l'immagine regale era identificata con il regno già presso i primi palazzi, adesso è identificata anche con un'immagine di sovrano che non ha più quel grado di stereotipizzazione del Protodinastico. Secondo alcuni studiosi, infatti, la nascita del ritratto sarebbe da collocare in epoca Accadica o per lo meno presso Gudea (2150-2120 a.C.), dove si ipotizza anche che si siano trasferiti gli artisti della bottega reale accadica. Tuttavia, se possa definirsi ritratto o meno è un dibattito ancora aperto, poiché dipende da cosa si consideri essere un ritratto.

Nella concezione corrente, il ritratto è realistico e naturalistico, soprattutto nel volto. Invece le immagini regali del Vicino Oriente antico non offrono una rappresentazione fedele alla realtà, ma piuttosto una verosimiglianza. Ossia, attraverso dei piccoli dettagli sono in grado di indurre il ‹‹likeness effect››, che rende il soggetto riconoscibile più dal punto di vista cognitivo che visivo. Prendendo l'esempio più famoso ed evidente, Gudea (2150-2120 a.C.), alcuni ritengono che il suo mento schiacciato possa essere un chiaro ‹‹signature trait›› e addirittura un tratto fisiognomico che gli sarebbe realmente appartenuto, essendo unico nel suo genere 99. Allora, le immagini di Gudea (2150-2120 a.C.) sembrerebbero soddisfare i requisiti del ritratto: lo rendono identificabile e ne conservano la memoria. Eppure, nonostante le numerose evidenze statuarie, quale fosse il vero aspetto di Gudea (2150-2120 a.C.) – tranne apparentemente per il mento – non è dato saperlo, come rimane sconosciuta anche l'evoluzione del suo corpo biologico nel tempo, che grazie alla sua immutabilità culturale e politica viene proiettato in una dimensione eterna di ricordo e azione 100. Infatti, ciò che viene concretizzato non è Gudea (2150-2120 a.C.) in quanto persona, ma Gudea (2150-2120 a.C.) in quanto sovrano, ossia Gudea (2150-2120 a.C.) come ideologia. Allora, i tratti non sono fisiognomici e né determinati dallo stile, ma elementi iconografici significativi, che riflettono l'ideale del sovrano sumerico: dal petto ampio, perché pieno di vita; dalle braccia muscolose, perché forte; dalle grandi orecchie, perché ascoltatore e saggio. Ossia, un individuo dalle caratteristiche ritenute adatte a regnare a governare, in breve a mantenere l'ordine cosmico, avendo un buon rapporto con la divinità e il controllo dei territori e delle materie prime. Dunque, non si tratta di un semplice intento ritrattistico, ma dell'inserimento di tratti peculiari del sovrano in un sistema di segni ben codificato. Il risultato è un'immagine complessa e triplice: del sovrano in quanto personaggio storico e vitale; del sovrano in quanto archetipo detentore degli attributi regali; del sovrano come immagine cultuale 101. In breve, non rappresentano il sovrano, ma la sovranità. Allora, per Gudea (2150-2120 a.C.) si può parlare non di ritratto mimetico, ma semiotico, ossia dell'idea di re che rispecchiava 102. Tanto che – come fa notare Irene J. Winter - in Iraq fino agli anni Sessanta i capi della comunità avevano ancora un viso molto largo e tondo, proprio come Gudea (2150-2120 a.C.). Pertanto, qualora si sia dell'idea o meno che le sculture di Gudea (2150-2120 a.C.) e accadiche possano essere considerate ritratti, rimane un evidente aspetto simbolico e propagandistico che ha sempre la precedenza. Infatti, se anche nel mondo greco arcaico l'identificabilità non dipendeva inizialmente dalla caratterizzazione fisiognomica, ma dalle incisioni sulla statua o sulla sua base -in cui talvolta parlavano in prima persona come le statue vicino-orientali - tuttavia queste statue rientravano anche nel dominio di quella che era ritenuta essere sia la bellezza e perfezione estetica, sia etica. Infatti, le deviazioni da questa norma erano riservate ai soli ritratti di personaggi che non rispecchiavano il cittadino ideale, erano stranieri o ai margini della società. Un ideale simile a questo della καλοκάγαθία 103 mi sembra che manchi alle rappresentazioni regali mesopotamiche - le cui descrizioni erano riflesso dell'ideologia regale e del palazzo, non dell'individuo - come anche nella documentazione scritta, in cui non appaiono descrizioni riconducibili a quel ‹‹non so che›› dell'Anonimo del Sublime 104.


Conclusioni

Sebbene sia possibile ricondurre alcuni aspetti delle manifestazioni umane arcaiche a strutture mentali posteriori, scegliere di isolare questi caratteri specifici - in quanto i soli riconducibili alla nostra struttura di riferimento – significa operare una distorsione della loro lettura e ignorare le loro condizioni storiche di origine e le loro mutazioni. Accade, ad esempio, quando per indicare i periodi preistorici orientali si usano convenzioni come la suddivisione per fasi di progresso metallurgico osservate solo in Europa. Parimenti, è impensabile parlare di Paradiso per le civiltà orientali preistoriche, in quanto tema originale della tradizione biblica 105. Il discorso è valido anche per la proiezione del concetto di arte sul mondo mesopotamico: si tratta di una scelta che offre certamente una comprensione più immediata nel lettore, sebbene inesatta. Ciascuna cultura è caratterizzata da specifici schemi di organizzazione della propria esperienza, da cui dipende anche la scelta dello stile, che avrà sempre uno scopo contraddistinto da quello di altre culture formalmente simili 106. Se – riprendendo i precedenti paragrafi - le raffigurazioni non erano distinte dagli eventi, i ragionamenti concettuale e razionale ancora non esistevano, come neanche il pensiero individuale e quindi la personalità artistica, allora è lecito affermare che mancasse anche una consapevole rielaborazione delle esperienze su un altro piano, distinto da quello pratico 107. Essendo contemporaneamente immagine e conoscenza della realtà, secondo Cesare Brandi non è possibile attribuire alle opere preistoriche e arcaiche valore o intenzionalità dell'arte 108, mentre Nougier le indica piuttosto come “atti creativi”, non avendo una destinazione contemplativa 109.

La concentrazione di segni efficaci nel veicolare un certo contenuto di conoscenza - perché noto a tutti 110- implica che l'uomo mesopotamico non interpretasse le immagini, ma le riconoscesse. Henriette Groenewegen-Frankfort afferma che, se i limiti tra analisi formale e interpretazione culturale non sono netti, nell'arte pre-greca significato e scelte formali appaiono strettamente correlate quando analizzate nel loro contesto spazio-temporale 111. Infatti, le rappresentazioni del Vicino Oriente antico sono allusive, ossia ci si serviva di un'unica immagine culminante per fare riferimento all'intera storia 112, oppure potevano direttamente incarnare un concetto astratto – essere un simbolo 113. Unica eccezione a questo modo di rappresentare allusivo sono le scene di battaglia, che offrono una narrazione storica esplicita talvolta in più episodi, perché riguardanti eventi specifici e perciò sono anche accompagnate da iscrizioni o collegati a testi letterari, da cui comunque non dipende la loro comprensione. Il repertorio iconografico non è illustrazione diretta del proprio patrimonio letterario, come avviene per i Greci e i Romani: è nato prima della scrittura, quando il pensiero sottostante non era stato ancora messo per iscritto 114. Anche gli stessi segni cuneiformi sono raffigurazione stilizzata della realtà da essi significata, una proiezione visiva della sua essenza 115. Come le immagini, erano comprensibili perché resi convenzionali dalla definizione del loro senso, similmente a quanto accadeva nel medioevo: lo scopo non era creare ambiguità attraverso suggestioni multiple, ma definire un significato figurale e concettuale esatto. Mentre per il medioevo si parla più di teologia che di estetica 116, per le raffigurazioni regali possiamo parlare di ideologia e, volendo, anche di teologia in senso lato, con tutte le specificità che la tradizione mesopotamica comporta.

Se le immagini erano capaci di produrre significati esatti ed inconfondibili per lo spettatore, allora all'assenza di intenzionalità artistica delle opere mesopotamiche bisogna aggiungere la mancanza di interpretazione. Come dice Umberto Eco, l'opera d'arte non è un ‹‹fatto comunicativo››, ma un ‹‹fatto comunicativo che chiede di essere interpretato›› 117. L'opera d'arte presuppone l'esistenza di un artista e di un fruitore: il risultato dell'interpretazione sarà dato dalla somma dell'opera in sé e dalla personalità del fruitore, che attraverso il filtro della propria esperienza rivelerà anche parte di se stesso, come opinioni, gusti e desideri 118. In virtù di queste infinite possibili interpretazioni l'arte continua a produrre storia, senza mai giungere a una soluzione definitiva ed esclusiva 119. Bisogna allora fare attenzione a distinguere le opere che sono solo descrittive della storia da quelle che dicono sempre qualcosa in più. Vale soprattutto per le opere arcaiche, poiché mancanti di autonomia artistica 120.

Nel linguaggio corrente la natura delle immagini mesopotamiche trova maggiore aderenza alla nozione di artigianato, piuttosto che di arte. L'artigianato presuppone infatti la conoscenza e la ripetizione degli stessi procedimenti per un numero di oggetti potenzialmente illimitato, che esclude la realtà sovrastorica dell'artista come individuo. Pertanto, la generica definizione nei testi di archeologia vicino-orientale dei produttori di opere mesopotamiche come artigiani è assolutamente accettabile, tuttavia il processo di pianificazione dell'opera da parte dei detentori del potere sembrerebbe essere stato più complesso dello schema commissione-artigiano: alla creazione dell'opera partecipavano l'ideologia regale e templare, il loro rapporto con la divinità, i presagi e le cerimonie. I risultati rientrano nella categoria semiotica di ‹‹doppi››, poiché sebbene la perfetta aderenza formale sia impossibile, la loro visione sortisce il medesimo effetto nello spettatore e ha scopi pratici uguali. Nel caso specifico, le opere mesopotamiche erano rappresentative dei sentimenti di terrore e sopraffazione della natura, divenendo fonte di sublime, piuttosto che di quel sentimento del bello strettamente connesso all'arte.

Sacralità, radiosità e imponenza degli oggetti e delle strutture architettoniche sarebbero state potenza assoluta e avrebbero sortito come effetto il sentimento del sublime nell'uomo mesopotamico; mentre negli uomini provenienti da culture distanti (come Erodoto e Platone, ma anche visitatori attuali) continuerebbe a essere provocato almeno dalle grandi architetture delle ziggurat nel deserto, poiché ormai il significato della statuaria appartiene solo al passato. Le cause sono da ricondurre anche agli atti negativi di restauro preventivo. Come direbbe Cesare Brandi, è fondamentale assicurare ‹‹le condizioni necessarie a che la spazialità dell'opera non sia ostacolata al suo affermarsi entro lo spazio fisico dell'esistenza›› 121, che lo smontaggio e rimontaggio delle architetture in luoghi altri impediscono, come è appunto accaduto per gran parte delle opere monumentali mesopotamiche .

In conclusione, l'utilizzo del termine “arte” come definizione per i manufatti mesopotamici è inadeguato, poiché mancante delle fondamentali corrispondenze concettuali e limitante alla comprensione della loro ampia portata di significato. Tuttavia, anche la loro descrizione come “artigianato” è riduttiva, se applicata al di là dell'azione pratica di assemblaggio e lavorazione, ovvero di tecnica. Ogni singola componente era portatrice di un profondo significato retorico, ideologico e talvolta propagandistico, permeato da una sacralità oggi definita magica e spiritualmente incomprensibile per la nostra razionalità scientifica. La soluzione più adeguata consisterebbe allora nell'utilizzo diretto del sumerico alam/n e dell'accadico salmu, nonché della loro traduzione nel linguaggio corrente come ‹‹immagine››, poiché evocanti la dimensione creativa e visiva dei manufatti e insieme suggestivi di condizioni di esistenza differenti rispetto agli oggetti attualmente indicati come opere d'arte, lasciando in tal modo la riflessione circa la loro natura ancora aperta. Le produzioni regali sono un esempio di cultura straordinario: sebbene il loro utilizzo come mezzo di diffusione ideologico e propagandistico regale abbia goduto di una lunga prosecuzione anche presso popolazioni lontane nello spazio e nel tempo, basta volgere lo sguardo ai processi di produzione per scoprire significati ulteriori e ben più radicati nell'esistenza e nelle credenze in Mesopotamia, dalla vitalità che supera le presentazioni formali.

                    
                    
                    

NOTE

1 Ferri 1962, p. 69.

2 Frankfort 1977, pp. 11-12.

3 Winter 1985, p. 3.

4 Matthiae 2020, pp. XIX-XX.

5 Ferri 1962, p. 69.

6 Terminologia usata da Hegel nel sottoparagrafo Die Auflosung der romantischen Kunstform, in Lezioni di Estetica, che Formaggio spiega essere propria della vitalità dell'arte: poiché va sempre verso la propria verità, non cessa di rinnovarsi (Formaggio 1962, pp. 87-88).

7 Eco 1985, pp. 131, 143-146, 148-149.

8 Eco 1985, p. 12.

9 Eco 1985, p. 234.

10 Marolda 1996, p. 20.

11 Dorner 1964, pp. 17-18.

12 Carchia, D'Angelo 2005, p. 17.

13 Marolda 1996, pp. 33-34, 36-39, 44, 59, 62, 71.

14 Andolfo 2018, pp. 40, 47.

15 Brandi 1960, pp. 27-28.

16 Layton 1991, pp. 135-136.

17 Marolda 1996, p. 27.

18 Dorner 1964, p. 97.

A tal proposito è curiosa la descrizione di Amiet circa gli ossari in terracotta delle civiltà protourbane del Levante come “forme di animali cubiste” (Amiet 2021, p. 50). Il cubismo, infatti, prende il nome dall'unione di diverse prospettive, che non trovano e non prevedono la tradizionale sintesi imitativa.

19 Strommenger, Hirmer 1963, p. 23.

20 Hegel 1963, pp. 1030-1031.

21 Marolda 1996, pp. 22-23,28-29.

22 Garelli 1975, p. 51.

23 Frankfort 1977, p. 45.

24 Ceravolo, Pacelli 2021, pp. 212-213.

Enki creò una “matrice” da riempire con l'argilla del fiume primordiale Apsu per creare uomini, in modo tale da sollevare gli dèi dall'ardua impresa di procacciamento del cibo. L'essere umano era allora la somma dell'argilla (materia), della matrice (progettualità) e del destino (finalità) per lui fissato dalla dea Ninmakh (Matthiae 1994, pp. 7-8).

25 Nadali 2019, pp. 64-65.

26 Nadali 2019, p. 69, nota 24.

27 Winter 1992, p. 25.

28 Winter 1989, p. 581.

29 D'Angelo 2011, pp. 65-69, 74.

30 D'Angelo 2011, pp. 92, 98, 100.

31 Selz 2019, pp. 361, 364-368, 374.

32 Aristotele 1987, par. 9.

33 Platone 1990, pp. 37-38, 53.

34 Matthiae 2020, pp. XVII-XVIII.

35 D'Angelo 2019, pp. 153-154.

36 Matthiae 1994, p. 12.

37 Burke 1985, p.85.

38 Selz 2019, p. 368.

39 Nadali, Verderame, 2023, pp. 70, 75.

40 Oppenheim 1964, p. 206.

41 Matthiae 1994, pp. 9, 15, 34.

42 Garelli 1990, p. 176.

43 Matthiae 1994, pp. 17-18, 26-27, 32, 34 e George, 1993, pp. 90, 98-99, 107, 111.

44 Matthiae 1994, p. 16 e Sjöberg, Bergmann p. 32.

45 Matthiae 1994, p.16.

46 Matthiae 1994, pp. 17-18.

47 Hegel 1963, p. 473.

48 Winter 1994, pp. 123-129.

49 Winter 1994, pp. 123-129.

50 Hegel 1963, p. 479.

51 Strommenger, Hirmer 1963, pp. 27-28.

52 Di Paolo 2022, p. 49.

53 ‹‹Il sublime è un'idea riguardante la preservazione di se stessi, che è quindi una di quelle [cause] che ci commuovono maggiormente, che la sua più forte emozione è un'emozione di angoscia e che non contiene alcun piacere derivato da una causa positiva›› (Burke 1985, p. 109).

54 Jaspers 2014, pp. 19-25.

55 Pettinato 2022, p. 83.

56 Oppenheim 1975, pp. 38-41, 43.

57 Garelli 1975, p. 50.

58 Savater 2020, p. 29.

59 Ascalone 2011, p. 48.

60 Ascalone 2005, p. 267.

61 Garelli 1975, p. 53.

62 Eco 1985, p. 13.

63 Firth 1951, p. 71.

64 Layton 1991, p. 42.

65 Carchia, D'Angelo 2005, p. 26.

66 Carchia e D'Angelo 2005, p. 274.

67 Carchia, D'Angelo 2005, p. 283.

68 Winter 1992, pp. 21-22.

69 Childe 1958, pp. 129, 132-133.

70 Eco 2016, pp. 289-290, 301.

71 Liverani 2022, pp. 21, 25-36, 42-43, 45, 67-69.

72 Ceravolo, Pacelli 2021, p. 210.

73 Strommenger, Hirmer 1963, p. 31.

74 Matthiae 1994, p. 165.

75 Ceravolo, Pacelli 2021, pp. 213, 220.

76 Selz 2019, p. 373.

77 Mi trovo qui in disaccordo con il tentativo di Winter di applicare il pensiero di Franz Boas circa l'arte non occidentale - ovvero che la perfezione formale raggiunta ‹‹must be an intimate relation between technique and a feeling for beauty›› (Boas, 1955, p.11) - ai manufatti mesopotamici. Circa la teoria kantiana sul giudizio estetico puro, l'autrice sostiene infatti che la separazione tra bellezza e perfezione – che presuppone utilità- non abbia senso per l'arte non-occidentale, e più specificatamente per l'arte Mesopotamica, poiché : ‹‹the claims of Mesopotamian rulers that they were responsible for the production of elaborately embellished, skilled or masterful works is directly linked to the descriprion of the various attributes of such works, which then occasioned an aesthetic response. What is remarkable is precisely the fact that, as we have seen, Sumerian rulers thought it necessary to stress the process of making and the attributes of skilled production as part of the larger picture of aesthetic and cultural value›› (Winter, 2003, pp. 407-408, 416).

78 Carchia, D'Angelo 2005, p. 270.

79 Matthiae 2020, pp. XVII, 63.

80 Frankfort 1977, pp 17-19, 24-25, 33.

81 Groenewegen-Frankfort 1951, pp. 151-152.

82 Bahrani 2022, pp. 60-61.

83 Amiet 1961, pp. 93-94.

84 Matthiae 2020, p. 58.

85 Liverani 2021, p. 132.

86 Frankfort 1977, pp. 39, 49-36, 82.

87 Matthiae 2020, pp. 87-88.

88 Verderame, Nadali 2008, pp. 309-311, 317-318.

89 Frankfort 1977, pp. 96-97, 101.

90 Amiet 2021, p. 23.

91 Ferri 1962, pp. 60-73.

92 Ascalone 2005, p. 34.

93 Spycket 1981, p. 190.

94 Eppihimer 2010, p. 369.

95 Le Scienze 2006, p. 155.

96 Strommenger, Hirmer 1963, pp. 29-30.

97 Frankfort 1977, p. 54.

98 Amiet, Balsan 1965, p. 10.

99 Winter 1984, pp. 107-108.

100 Dolce 2022, pp. 29, 35.

101Winter 1989, p. 583.

102 Winter 2009, pp. 254-269.

103 Riccomini 2019, pp. 13-16.

104 Eco 1985, pp. 171-174.

105 Amiet 2021, p. 6.

106 Layton 1991, pp. 171-172.

107 Marolda 1996, p. 28.

108 Brandi 1960, p. 18.

109 Marolda 1996, p. 30.

110 Brandi 1960, p.18.

111 Groenewegen-Frankfort 1951, p. XXIII.

112 Un'analogia contemporanea è la Crocifissione (Perkins 1957, p. 55).

113 Winter 1985, pp. 11-12.

114 Amiet 2021, p. 23.

115 Andolfo 2018, p. 40.

116 Eco 1985, p. 114.

117 Eco 1985, p. 48.

118 Eco 1985, p. 163.

119 Eco 1985, pp. 29-30.

120 Eco 1985, p. 234.

121 Brandi 2020, p. 51.

                      
                      
                      

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