La
possibilità
di definizione dei manufatti mesopotamici come
“arte”
rimane un dibattito aperto negli studi
vicino-orientali. Riferimenti
alla questione si trovano più o meno esplicitamente
nella
letteratura scientifica, attraverso opinioni e prese
di posizione
largamente descrittive circa le caratteristiche
formali e funzionali
degli oggetti, mancando tuttavia tali affermazioni
di diretti
riferimenti alle teorie sull'arte e sul bello,
ovvero di una solida
base di dimostrazione concettuale
storico-filosofica. Pertanto,
obiettivo del presente articolo è sostenere la tesi
secondo cui non
sia ancora possibile parlare di oggetti d'arte in
Mesopotamia –
con particolare attenzione al periodo
sumero-accadico – ponendosi
come dimostrazione, supportata sia per mezzo dei
risultati degli
studi archeologici e filologici; sia delle teorie
della branca
filosofica nota come estetica, dalle sue radici
aristoteliche fino
alle riflessioni contemporanee di Umberto Eco, che
risulteranno non
essere applicabili al mondo mesopotamico per via
delle sue
specificità di ordine storico e sociale.
Lo
scopo
primario della ricerca è stato fornire ulteriori
elementi in
favore del riconoscimento della cultura mesopotamica
innanzitutto
come autonoma, punto di partenza fondamentale per
poterla scoprire
almeno in parte nella sua unicità, che
l'applicazione di schemi
già ampiamente noti potrebbe oscurare, rendendola di
fatto un
preludio sottosviluppato alle grandi civiltà
assiali, con la
terribile conseguenza di allontanare qualunque
sentimento di stupore
o meraviglia essenziale alla sua scoperta.
Per
un'adeguata comprensione del documento archeologico
mesopotamico
Gli
scritti
di archeologia orientale si riferiscono non di rado
alle
opere mesopotamiche come oggetti d'arte, dando per
scontato la loro
appartenenza a tale categoria. Se la definizione ha il
merito di
rendere più immediata la comprensione dell'argomento
al lettore -
poiché gli oggetti sono ricondotti a un concetto oggi
universalmente
noto - d'altro canto ignora totalmente la loro
effettiva funzione e
condizioni di esistenza, svuotandoli della loro
storicità.
Per
poter
presentare un documento come artistico, bisogna
disporre di
un'adeguata documentazione letteraria e di un chiaro
quadro
etnografico ,
ossia di una conoscenza approfondita della cultura,
storia, geografia
e spiritualità dei popoli di provenienza .
Una tale visione d'insieme è ancora mancante per la
Mesopotamia,
tanto che anche i sostenitori di una possibile
compilazione di una
storia dell'arte del vicino Oriente antico - come
Irene J. Winter –
sono pronti a riconoscere che alle ipotesi
ricostruttive di
cronologia, contenuto e stile mancano ancora gli
strumenti analitici
e un vocabolario propri della storia dell'arte, che
potrà
realizzarsi solo quando i reperti riusciranno a
prendere spazio in
una sequenza storica, ideologica e rappresentativa.
Pertanto, anche i
primi tentativi di considerazione delle opere
mesopotamiche come
arte, quali The
Art
and Architecture of Ancient Orient
(1954) di Henry Frankfort e Art
of
Ancient Mesopotamia
di Anton Moortgat (1967), sono piuttosto da
considerarsi una “storia
dell'oggetto” e non “dell'arte” .
Dunque,
il
primo ostacolo alla corretta comprensione dei
manufatti
mesopotamici consiste nell'applicazione degli
strumenti critici e
dei metodi della storia dell'arte provenienti dal
mondo occidentale
classico, che limita l'autonomia delle opere
vicino-orientali e
rischia di darne una lettura falsificata .
Infatti, già dalle sue origini l'archeologia orientale
è stata
considerata un'appendice all'originale classica,
ovvero una mera
epoca di preludio alla civiltà occidentale, con
l'unico vantaggio
di essere stata riconosciuta fin da subito come
scienza e non come
curiosità .
Significa che lo studio delle civiltà orientali è
stato articolato
su un continuo confronto con quelle classiche,
arrivando talvolta a
ignorare l'estraneità delle categorie mentali
dell'Oriente
attraverso una riconduzione forzata delle evidenze
archeologiche
orientali a categorie e a concetti emersi
successivamente dal mondo
classico, come è il caso dell'arte.
Il
secondo
ostacolo consiste nell'indefinitezza del concetto
stesso di
arte.
Come Umberto Eco illustra nel saggio “Il
problema
della definizione generale dell'arte”,
l'opera
d'arte è anzitutto un prodotto storico: una qualunque
definizione precisa e limitata del fenomeno andrebbe a
discostarsi
dalla sua proprietà essenziale di mutevolezza. Per
ogni periodo
storico è allora necessario operare un chiarimento del
concetto
generale di arte e del ruolo degli artisti, compito
che spetterebbe
all'estetica. Per descrivere l'evoluzione dell'arte,
si è
pensato di accostarvi il concetto di Auflosung
,
ossia la terminologia di cui si serve Hegel in Lezioni
di
Estetica
(1835) per descrivere il fenomeno incessante di
dissoluzione-risoluzione proprio della vitalità
dell'arte, ovvero
la morte dialettica per cui si sarebbe passati
dall'arte simbolica
a quella classica, dall'arte classica a quella
romantica e
dall'arte romantica a quella contemporanea.
Brevemente, nei
diversi momenti storici l'arte sarebbe continuamente
morta e rinata
assumendo nuove forme, riconoscibili perché
caratterizzate dalle
costanti strutturali del fenomeno artistico, che ha
dunque bisogno di
essere descritto mediante lo stabile utilizzo di
termini secondo
regole precise .
L'estetica si occupa allora di definire una situazione
assai
complessa, che Eco descrive come ‹‹aperta››”
.
Pertanto, tentare di capire cosa rientri o meno nel
concetto di arte
può essere rischioso. Tuttavia, l'analisi del
documento storico
può aiutare a comprendere cosa una civiltà intendesse
come arte,
ossia quali oggetti venissero conservati ‹‹abitualmente
come
arte, usandoli cioè come stimolo concreto per
considerazioni di
ordine formale, compiacimenti immaginativi e – spesso
–
riflessione di ordine conoscitivo››,
ossia quali suscitassero piacere estetico .
Di conseguenza, unicamente l'attenta analisi del
contesto storico
delle opere mesopotamiche può chiarire quale ruolo
ricoprissero e
quali fossero i loro modi di produzione, ovvero se sia
possibile
parlare sia di arte che di artisti.
L'esperienza
dell'uomo
mesopotamico: estetica o del sublime?
Quando
si
parla dell'arte e delle sue forme, in generale si
tende a
considerarle manifestazioni innate nell'uomo, proprie
della sua
struttura spirituale e perciò permanenti .
Invece, è proprio lo sviluppo incessante di nuovi modi
di vedere la
realtà a caratterizzare la natura umana, che è dunque
in costante
evoluzione. Significa che anche i concetti attualmente
più scontati
- come quello di forma e di tridimensionalità - non
possono essere
trattati come atemporali, in quanto sono tutti
determinati da
specifiche condizioni storiche locali e dai loro
mutamenti .
Il concetto di forma è strettamente legato alla
nascita del
carattere estetico della realtà: come sostiene Dorner,
la sua
apparizione presso la civiltà greca accomuna la
nascita delle
attività artistiche e del pensiero razionale. Per la
prima volta,
infatti, la coscienza conoscitiva - λόγος
- viene liberata da ogni connotazione figurativa e la
coscienza
artistica dai residui referenzialistici. Avviene
dunque una
separazione netta tra arte e pensiero, differenziati
dal contatto o
meno con il materiale, ma accomunati dalla ricerca
delle strutture
originarie dell'essere come forme qualitative,
contemplabili e
quindi godibili. Il carattere intrinsecamente estetico
della realtà
si colloca nella creazione di questi paradigmi ideali
– il canone
per l'arte e le idee per la filosofia – da cui si
irradiano tutte
le esperienze quotidiane e i suoi oggetti. Sebbene
astratti, si
tratta di modelli sempre percepibili, perciò
contemplabili sia dalla
filosofia che dall'arte. Τέχνη
presuppone
che
si raccolga tutto “in norme rigide e strette”,
escludendo la
poesia, perché dipendente dalla μανία
e non dal sapere .
Allora, la conoscenza si identifica con la
contemplazione estetica –
θεωρέιν
- in quanto godimento di cose autosufficienti,
indipendenti e
perfette. Con le idee in quanto modelli unici più
reali della
realtà, la rivoluzione platonica rappresenta il punto
di partenza
del processo che porterà alla nascita del linguaggio
concettuale,
ossia al ragionamento oltre gli oggetti concreti. La
ricerca del
modello essenziale, dalla forma armonica,
proporzionata e simmetrica,
determina la creazione di una struttura non solo
idealizzata, ma
anche logica, quindi unitaria. La realtà – visione che
sarà anche
la base di partenza nel Seicento per l'evoluzione del
pensiero
scientifico occidentale - è riconducibile a modelli
stabili, che al
mondo mutevole e indeterminato dell'uomo preistorico e
protostorico
mancano .
Non a caso, Matteo Andolfo definisce le culture egizia
e mesopotamica
del III millennio a.C. “verbocentriche”, ossia in cui
l'essenza
della realtà non è mediata da concetti, ma è
manifestata
direttamente attraverso la parola – che riproduce
spesso suoni
naturali - e i suoi segni, e in cui tutto ciò che non
poteva essere
scritto non esisteva .
Come spiega Cesare Brandi, riprendendo le osservazioni
della
Montessori circa le illustrazioni infantili, presso i
primitivi la
parola diventava direttamente segno, ossia i loro
disegni avevano
funzione di scrittura, divenuti poi ideogrammi e
infine illustrazioni
di accompagnamento al testo scritto .
Inoltre, Layton specifica che le scritture primitive -
come i
geroglifici - derivavano dalle raffigurazioni e
indicavano uno
specifico oggetto o suono (fonogrammi). Era possibile
in questo modo
modificare il messaggio, senza cambiare il significato
del singolo
carattere .
Se dunque una concezione unitaria di organismo non
esisteva, si può
tuttavia parlare di un processo di concentrazione di
segni efficaci,
facendo risalire a queste epoche i primi tentativi di
ordine degli
elementi, attraverso il loro coordinamento e
gerarchizzazione .
Allora le immagini erano una somma di percezioni
sensibili, che
combinate tra loro offrivano una visione della realtà
da punti di
vista frontali e laterali insieme, senza un'unità
interna ,
come la stele da Warka: (3000 a.C.)
gli occhi
e il busto del
re-eroe sono frontali, mentre il resto è di profilo e
nello spazio
figurativo il contenuto ha il sopravvento sul
principio formale,
determinando anche il limite della scena (fig. 1).
Fig. 1 - Stele da Warka: ovvero la prima raffigurazione
del re-eroe e la prima stele nota della storia
In alto il sovrano che trafigge il leone con una lancia
in basso punta le fiere con arco e freccia
Periodo di Uruk (3000 a.C. circa), 78 cm.
Bagdad, Iraq Museum (© 1963 Max Hirmer, tav. 18)
(Foto cortesia Martina Procopio)
Finanche
Hegel,
discorrendo sullo sviluppo della scultura in Egitto –
che
sappiamo essere stata influenzata da quella
mesopotamica – la
colloca in un momento storico in cui la frattura tra
forma e
significato non era stata ancora sanata, ossia
portatrice del
significato universale della rappresentazione e non
mezzo attraverso
cui godere dell'intuizione artistica, in quanto gli
egiziani erano
ancora mancanti di una sensibilità spirituale
individuale e
consapevole .
Non
esistevano
differenze tra l'oggetto e la sua immagine, tra
l'evento
e la sua rappresentazione. Erano evocazioni di
esperienze sensibili,
che potevano essere riprodotte o anticipate e che si
inserivano nel
flusso degli avvenimenti: intervenivano sulla vita
pratica, agendo o
bloccando i suoi mutamenti .
La loro struttura non era forma, ma segni dal potere
simbolico.
Infatti, emerge anche dalle formule rituali come
l'uomo
mesopotamico identificasse sé stesso nelle qualità
degli elementi e
degli dèi nell'esatto istante in cui venivano evocate,
poiché il
loro mondo era il luogo della manifestazione del
divino, da cui tutto
ha avuto origine e per cui non esistono barriere tra
la divinità,
esseri viventi e l'universo .
Infatti,
a
livello cittadino la produzione di statue raffiguranti
la divinità
poliade era di primaria importanza, in quanto
manifestazione
tangibile della sua presenza e capacità di agire in
favore della
comunità, fintanto fosse stata adeguatamente curata.
Si credeva che
le statue godessero di una propria forza vitale ,
poiché la loro realizzazione andava a richiamare il
momento in cui
nel mito Enki
e
Ninmakh
il dio Ea/Enki aveva plasmato il genere umano
dall'argilla .
Come l'uomo, le statue mesopotamiche erano vive e
agenti nel loro
mondo, ovvero in grado di costruire una propria
narrazione. Il loro
aspetto formale non era inteso come una mera copia
della realtà, ma
come evocazione del momento culminante di un processo,
reso allo
stesso tempo ricorrente e ripetitivo come insieme di
azioni cicliche
.
Come spiega Nadali, quando nelle immagini
mesopotamiche lo stile non
è narrativo, ma descrittivo ed evocativo, bisogna
riconoscere la
loro esistenza su un piano meta-narrativo, quale è il
caso delle
statue regali e divine posizionate insieme in modo da
manifestare
l'incontro concreto tra il dio e il sovrano .
Conformemente al suo ruolo dominante e di ascolto, la
divinità era
rappresentata seduta, mentre i sovrani erano stanti e
nell'atto di
rendere omaggi e offerte .
Le due statue erano poste frontalmente, affinché
potessero
guardarsi negli occhi: non a caso le statue votive
mesopotamiche
erano caratterizzate da occhi molto grandi, poiché si
credeva che
fossero il veicolo di espressione dell'attenzione nei
confronti
della divinità, che a sua volta guardava negli occhi
la statua del
re e agiva così attraverso di lui .
In
virtù
di questo carattere partecipativo delle raffigurazioni
preistoriche e protostoriche, avvertite come cariche
di energia
vitale, non è possibile ancora individuare
un'attitudine
contemplativa e disinteressata, propria
dell'esperienza estetica.
Alle immagini sono riconducibili solo i caratteri di
narrativo,
propagandistico e rituale, poiché la loro visione
escludeva una
conoscenza che andasse oltre l'immediato fine pratico,
e di
conseguenza anche una risposta emotiva fuori
dall'ordinario e
un'esperienza estetica, che è propria – anche se non
esclusiva –
degli oggetti d'arte .
Ciò non implica che gli uomini mesopotamici e le altre
culture
pregreche non abbiano mai vissuto questo tipo di
esperienza, potendo
il piacere estetico essere suscitato anche dalla
natura – anzi,
secondo alcuni si tratterebbe di un'esperienza
radicata nella
natura umana, come suggerirebbero i primi tentativi di
decorazione a
scapito dell'utilità già presso l'Homo Sapiens .
Semplicemente, qualora l'esperienza fosse stata
causata da quei
loro manufatti che noi
definiamo
artistici,
mancherebbe comunque il nesso causale tra esperienza
estetica e oggetto d'arte.
Le
ricostruzioni
circa gli aspetti estetici dell'arte figurativa
mesopotamica sono il frutto di descrizioni
contemporanee, a loro
volta consapevoli dell'inesistenza di un concetto
corrispondente al
nostro di “bellezza”. Gli esperti hanno scelto di
incentrarsi
sulle reazioni di ammirazione e stupore – anche queste
non
traducibili - legate al piacere che deriverebbe
dall'osservare un
oggetto ben realizzato, ossia tecnicamente e
materialmente valido,
perché prezioso e simbolico .
Infatti, dalla documentazione letteraria non risultano
né trattati
di riflessione sulla poesia o sulla musica, né scritti
sulla
bellezza formale e canoni a cui rispondere. Emerge
invece come l'uomo
si sentisse piccolo e insignificante rispetto alle
grandi forze del
mondo: per questo Naram-Sin (2254-2218 a.C.) fu
rivoluzionario nel
cessare di rappresentare gli dèi sempre in posizioni
dominanti e di
dimensioni maggiori. L'uomo mesopotamico dimostrava
quotidianamente
la propria devozione guidato da un sentimento di paura
profondamente
radicato nel suo modo di vivere. Era allora che
costruiva i templi,
scolpiva le statue, offriva le libagioni e rispettava
i rituali.
Invece, nella cultura occidentale la paura è stata
considerata fin
dall'antichità anche come fonte di piacere. Aristotele
nella
Poetica
(IV sec. a.C.) descriveva la tragedia come imitazione
del verosimile
che genera
κάθαρσις,
ossia depurazione dalle passioni di pietà e paura. Una
differenza
fondamentale impedisce di applicare questo modello
anche alle
rappresentazioni mesopotamiche: il verosimile è
imitazione di ciò
che potrebbe accadere, non di ciò che è accaduto. Come
spiega
Aristotele, il poeta si distingue dallo storico per
aver raccontato
l'universale e non il particolare. Come questo
racconto avvenga –
se in versi o meno – poco importa: la storia rimane
storia e la
poesia rimane poesia .
Inoltre, le azioni umane mesopotamiche non erano
guidate dal piacere
che si ricava dal verosimile, ma dal timore delle
conseguenze,
qualora l'ordine non venisse rispettato. Se è vero che
gli uomini
mesopotamici abbiano rappresentato unicamente la realtà, le
loro opere
sono ancora oggi in grado di trasmetterci quel
sentimento di
insignificanza, piccolezza e inadeguatezza che
dovevano provare
rispetto al potere divino, di cui quello regale era
una conseguenza.
Gli edifici templari, i palazzi, le stele celebrative
e le statue
erano monumentali, qualità da sempre messa in rilievo
nelle opere
vicino-orientali. Le loro prime descrizioni risalgono
ai viaggi in
Egitto di Erodoto e Platone ,
che infatti esplicitano quel senso di meraviglia
suscitato dalla loro
grandezza smisurata e dalla conseguente idea di
immutabilità nel
tempo che trasmettono. Il primo sottolineò nei suoi
scritti la
monumentalità colossale delle espressioni artistiche;
il secondo
scrisse che si potevano letteralmente osservare
pitture e sculture
antiche di diecimila anni .
Stupore,
grandezza
e paura sono normalmente legati a un'altra esperienza,
diversa da quella del bello e di cui la teoria
aristotelica della
tragedia è un precedente diretto: il sublime.
Secondo
Kant,
la particolarità del sublime è essere distinto dal
bello e
suscitato dalla grandezza assoluta (o potenza
assoluta) nella natura.
Sublime non è la natura di per sé, ma il sentimento
che è in grado
di generare. Tra gli esempi kantiani spicca la
descrizione del
sublime matematico con la visione di un monte, che
suscita rispetto.
Lo stesso accadeva ai sumeri con le loro ziggurat -
che erano non
solo semplice imitazione della montagna, ma anche il
suo simbolo -
tanto che in sumerico erano designate come u6-nir,
letteralmente ‹‹Oh
signore,
wow››.
Sembrerebbe dunque essere in presenza di un giudizio
sul sublime
universalmente riconosciuto e comunicabile perché
radicato nel senso
morale di tutti :
secondo Matthiae l'elevatezza della loro struttura
corrisponderebbe
proprio alla sublimità morale .
Lo stupore è la prima passione causata dal sublime
secondo Burke e
Kant, seguita da riverenza e rispetto .
Per
applicare
il concetto di sublime alle opere mesopotamiche – che
trova corrispondenti nel sumerico mah
e negli accadici kabtu,
madu,
rabu,
siru
-
è necessario innanzitutto operare una distinzione tra
rappresentazione e supporto. Era il secondo a essere
monumentale,
quindi fonte di quella grandezza da cui deriva il
sublime, che per la
sua materialità di fango, pietra o metallo si potrebbe
ricondurre
direttamente alla natura. A sostegno della tesi, i
termini indicanti
luce e brillantezza associati agli oggetti e strutture
sacri (ku3,
ud, zalag, dadag, sherzi, me-lam2
in sumerico ed ellu,
ellish,
umu, namru, napardu, melammu
in accadico) erano innanzitutto descrittivi di
elementi naturali,
quali il fuoco, i corpi astrali, i riflessi dell'acqua
e dei
metalli. Il loro utilizzo non era volto a evidenziarne
tanto
l'opulenza materiale, quanto l'aura che gli oggetti
sacri erano
in grado di emanare, essendo sede di un'energia
vitale. La
collocazione delle statue era infatti scelta in modo
tale da essere
colpite dai raggi del sole o lunari, che riflettevano
sulle foglie di
oro o argento che ricoprivano le loro parti nude .
Melammu
esprimeva in accadico la radiosità sovrannaturale che
il dio
mesopotamico condivideva con gli dèi, generato dai
cosiddetti
‹‹spiriti
protettivi››,
che Oppenheim così definisce: ilu
era una sorta di dotazione spirituale, forse
l'elemento divino
nell'uomo; ishtaru
il destino dell'uomo; lamassu
le sue caratteristiche personali; shedu
il suo slancio vitale .
Il tempio era invece ricoperto di argento, oro e
lapislazzuli, questi
ultimi particolarmente legati all'assenza divina per
purezza e
brillantezza: rispecchiavano in questo modo le
residenze divine nei
cieli, esattamente come descritte dai testi .
L'irradiazione luminosa che emanavano era conseguenza
dell'investitura del sovrano da parte degli dèi
durante la
cerimonia dell'incoronazione .
L'attributo
fisico
della luminosità si estendeva allora anche alla
struttura
templare: come le qualità del palazzo corrispondevano
a quelle
possedute dal re, allo stesso modo gli attributi della
divinità si
riflettevano sul tempio in cui abitava. Talvolta
l'assimilazione
era resa evidente direttamente dal nome del santuario.
Pertanto, la
sede di Anu era la ‹‹Casa
del
cielo››”;
la
sede di Ea/Enki la ‹‹Casa
dell'Apsu››
o ‹‹delle
acque
dolci››;
la sede di Shamash la ‹‹Casa
splendente››,
ma anche ‹‹del
giudice
del paese››;
la sede di Inanna/Ishtar la ‹‹Casa
della
lussuria del cielo o del Paese››
o addirittura la ‹‹Casa
che
ispira terrore nel Paese››
come è denominato il tempio di Zabàlam nel sud
mesopotamico .
L'aderenza tra qualità riguarda anche le descrizioni,
per esempio
l'Eanna di Inanna è un ‹‹rigoglioso
frutto
fresco, meraviglioso, compiutamente maturo››
poiché era la dea della fertilità . Citando
Paolo
Matthiae: ‹‹i
santuari sono luoghi sacri che incutono timore,
provocano angoscia e
ispirano terrore soprattutto perché i templi sono le
sedi terrene di
quell'”irraggiamento” e di quello “splendore” che è
tipico
attributo divino, in quanto il luminoso è
impenetrabile e quindi
infonde spavento››
.
Il risultato è dunque uno sconvolgimento psicofisico
nei fedeli e il
loro accecamento, che soprattutto nei nemici provocano
smarrimento,
in quanto sede della giustizia divina e dell'ordine
sociale nel
Sumer. Al pari delle statue e degli esseri umani, si
credeva infatti
che anche il tempio avesse una propria forza vitale,
poiché nato
anch'esso dall'argilla al momento della creazione .
Templi e statue prendevano vita dall'esterno, come i
simboli
egiziani di cui parla Hegel ,
enfatizzando attraverso la loro “radiosità” – non
esistono
traduzioni esatte del concetto – la manifestazione del
potere
divino o regale, in grado di incutere nell'osservatore
soggezione,
timore e terrore .
Secondo Irene J. Winter questa gamma di risposte
emotive sarebbe
dimostrazione dell'esperienza estetica suscitata da
questi oggetti.
Riprendendo le teorie estetiche, sono invece una
conferma ulteriore
dell'esperienza del sublime. Gli aggettivi erano
infatti collegati
non solo alla purezza, ma anche alla forza del
soggetto, intesa come
prevaricazione e terrore necessari per vincere i
nemici, volti al
mantenimento del proprio potere. Pertanto, una loro
equivalenza con
il concetto di bello occidentale non è sostenibile .
La
rappresentazione,
invece, poteva o essere parimenti grande al
supporto – come nel caso delle statue raffiguranti il
sovrano –
oppure essere composita, come accade sulle stele
celebrative,
stendardi, placche e sigilli. Se si accoglie la
definizione hegeliana
di sublime, che lo riconduce ai simboli, in quanto ‹‹tentativo
di
esprimere l'infinito senza trovare nel regno dei
fenomeni un
oggetto che si mostri adeguato a questa
rappresentazione››
,
allora potremmo parlare di sublime addirittura anche
per i sigilli
del Protodinastico IIIA (2600-2450 a.C.), in cui
secondo Eva
Strommenger con poche linee la realtà è ridotta a
simbolo, con
uomini e animali che diventano allegorie .
I sigilli erano un'estensione del corpo fisico del
proprietario,
che sarebbe rimasta nel mondo terreno anche dopo la
sua morte. Non è
chiaro come venisse scelto il tema da incidere, ma
siccome si tratta
di immagini incluse in un sistema di valori condivisi
e non originali
e personali, il sigillo potrebbe essere anche una
proiezione più
ampia del corpo sociale della persona, che
spiegherebbe la replica
stereotipata delle scene. Secondo Schmandt-Besserat, i
sigilli
sarebbero un tipo di comunicazione visuale complessa
derivante
dall'organizzazione dei segni cuneiformi sulle
tavolette. Ogni
figura sarebbe dunque semantica, posizionata in base a
uno schema
organizzativo e distinta dalle altre grazie ai propri
attributi, che
svolgerebbero la stessa funzione dei determinativi
nella lingua
scritta .
Non
bisogna
mai dimenticare che la monumentalità che caratterizza
la
civiltà mesopotamica era la rappresentazione del loro
mondo reale,
che influiva addirittura sulle qualità attribuibili al
sovrano,
innanzitutto riscontrabili con il suo palazzo e
regalità, non con la
sua individualità. Potremmo allora intravedervi un
riflesso del loro
punto di arrivo nella ricerca di ordine e di senso nel
mondo; di
interpretazione delle forze che lo governano e da cui
dipende la
sorte umana. Le loro opere sarebbero un'importante
esternazione
della loro visione e sentimenti come comunità rispetto
al mondo. In
questa condivisione della paura si potrebbe
individuare un tentativo
di catarsi, a cui ricondurre il sentimento del sublime
come
espressione collettiva della presa d'atto dei limiti
umani e dei
rischi ,
del pericolo e del terrore, da cui allo stesso tempo
la
partecipazione ai rituali e alla vita collettiva
tengono al sicuro.
Come gli oggetti del sublime, le opere mesopotamiche
richiamavano la
preoccupazione per il dolore e la morte, erano
espressione di potenza
superiore, di grandi dimensioni, in grado di
richiamare anche l'idea
di infinità e di fatica per realizzarle.
La
società
mesopotamica: artisti o artigiani?
Caratteristica
delle
civiltà arcaiche è l'assenza di un pensiero razionale
e di
personalità, che faranno la loro comparsa solo
nell'epoca definita
da Karl Jaspers come età Assiale. In questo periodo
compreso tra
l'800 e il 200 a.C. si assiste a un parallelo
risveglio dello
spirito in India, Cina, Persia e Occidente, per cui
l'uomo diventa
oggetto di riflessione storica. Si sviluppano così i
primi movimenti
guidati da capi lontani dalle istituzioni templari,
ossia i primi
filosofi e le religioni monoteiste. Nascono lo
zoroastrismo, il
buddismo, il confucianesimo, la filosofia greca e
l'ebraismo.
L'assenza di pensiero razionale, individuale e di
domande sulla
realtà permane nel Vicino Oriente antico, civiltà che
si sarebbe
esaurita proprio per non aver partecipato alla
rivoluzione assiale.
Nelle numerose testimonianze scritte l'ordinamento del
mondo è
fisso e dato per certo, mancano polemiche e confronti
da prospettive
differenti. Documenti che riportano il contrario sono
rarissime
eccezioni insufficienti ad apportare cambiamenti
storici .
La stessa descrizione dei singoli regni antidiluviani
come millenari,
suggerisce una visione astoricistica, ossia la
mancanza della
necessità di verosimiglianza tipica del mondo antico .
Eccetto
per
le lettere, dai testi non emergono informazioni o
opinioni
personali degli scribi. Compaiono invece specifici
argomenti e
modalità convenzionali di organizzazione del testo,
concorrenti alla
trasmissione del significato e riconducibili alla
specializzazione
dell'autore, che si autoidentificava genericamente
come un
tupsharru
– scriba – e rimaneva anonimo. Gli scribi non si
ponevano in
continuità con testi sacri o normativi facendo
riferimenti o
criticandoli ,
ma è grazie alle loro copie se gran parte del
patrimonio culturale
si è salvato dalle invasioni e dalle distruzioni.
Infatti, solo a
partire dal I millennio a.C. – lo stesso dell'età
Assiale –
gli inevitabili arricchimenti di questi testi iniziano
a presentare
riflessioni sulla condizione umana e sul male, dunque
un'esigenza
di razionalità, che non contrasta con il pensiero
magico, ma gli
attribuisce nuovi significati: ad esempio le pratiche
magiche erano
percepite come un mezzo di cui servirsi per proteggere
la propria
libertà. Tuttavia, non si tratta ancora di un pensiero
razionale,
astratto e speculativo: probabilmente è da ricondurre
alla rigida
subordinazione del sovrano il mancato sviluppo della
filosofia
razionale, mancando i presupposti per un dibattito
libero. Si
tratterebbe piuttosto di un nuovo modo di interagire
con i simboli e
i loro nessi nelle antiche credenze .
Pertanto, per questi popoli è possibile parlare di morale,
ossia dell'insieme di comportamenti e norme che
vengono in genere
considerate valide da un gruppo di persone, ma non di
etica
come “riflessione sul perché li consideriamo validi e
il paragone
con altre “morali” di altre persone”
.
Si
è
davanti a una mentalità e a una modalità di percezione
del mondo
che hanno trovato espressione anche nei canali
figurativi. Alla base
della concezione del mondo sumero c'erano caos
primordiale e ordine
– nun
e
mat
- mentre per quello Accadico (2350-2112 a.C.) la
perfezione: proprio
in questo periodo si diffonde il tema del sacello
alato sopra un toro
sorretto da divinità minori, che è stato interpretato
come la
conquista del tempio da parte degli dèi, ossia la
vittoria
dell'ordine sul caos .
Per i sumeri, l'ordine si era raggiunto grazie alla
regalità
discesa dal cielo, pertanto il tempio aveva
un'autorità indiscussa
e fondamentale per il corretto svolgimento della vita
umana. Non
significa che l'uomo mesopotamico vivesse del tutto
tranquillo: le
catastrofi, determinate dal volere degli dèi, erano
sempre
imprevedibili e suscitavano preoccupazione, insieme al
pensiero della
dolorosa vita ultraterrena, che avrebbe trasformato
l'uomo in uno
spirito maligno – gidim
– che avrebbe tormentato i viventi .
Chiaramente, se la vita umana dipendeva dal
mantenimento dell'ordine
divino, allora è su questo che si basava la
propaganda: curare i
rapporti con le divinità, restaurare e costruire nuovi
templi.
Inoltre, il sovrano aveva bisogno di affermare la
propria autorità e
superiorità rispetto agli altri uomini che avrebbero
voluto o potuto
ricoprire il suo ruolo. Infatti, talvolta partecipava
alle cerimonie
eseguite dagli specialisti del tempio, mentre la
presenza dei
cittadini era limitata alla loro conclusione e sembra
non
praticassero individualmente attività religiose,
perché credevano
che i loro benefici venissero irradiati dal centro
della comunità.
L'unico garante delle cerimonie, e conseguentemente
dell'ordine,
rimaneva il sovrano ,
dal cui palazzo venivano allora diffuse immagini che
convogliavano
messaggi diversi in base alla concezione di regalità
dell'epoca di
riferimento (il re-eroe, il re-costruttore, il
re-architetto, il
re-dio). Chiaramente, si trattava di immagini
preventivamente
approvate dal sovrano, che controllava in questo modo
non soltanto la
realtà, ma anche come venisse raffigurata. Era lui il
committente,
era lui a decidere le modalità. Sommando l'assenza di
pensiero
individuale a questa detenzione del controllo,
comprendiamo come
risulti anche difficile sostenere che dietro alle
immagini potesse
esserci un artista,
inteso come attuatore di un progetto figurativo in
grado di aprire le
porte alla comprensione della sua realtà temporale,
geografica e
sociale, dicendo allo stesso tempo qualcosa in più su
sé stesso .
La
separazione
tra mente pianificatrice ed esecutore assomiglia alle
dinamiche proprie dell'arte concettuale contemporanea,
da cui si
distingue completamente per l'assenza di
intenzionalità artistica.
Come è tipico delle società preistoriche, l'autore
condivide gli
stessi valori del suo pubblico e produce un'arte ‹‹altamente
socializzata››
,
ossia usata tutti i giorni .
Allora nelle immagini regali mancherebbero quel ‹‹plusvalore
che
si sovrappone alla perizia tecnica e al significato
oggettivo
delle regole tramandate››
, l'autonoma dignità intellettuale ,
la validità sovrastorica tipica dell'arte
e soprattutto l'intenzionalità dell'arte. La sua
mancanza nelle
evidenze testuali mesopotamiche: i termini più simili
- il sumerico
alam/n
e l'accadico
salmu
- suggeriscono condizioni di esistenza differenti per
le tipologie di
oggetti indicati attualmente come opere d'arte, poiché
il loro
significato di ‹‹immagine,
figura,
raffigurazione››
indica una categorizzazione più ampia, riferibile a
qualunque tipo
di rappresentazione – a tutto tondo, dipinta o in
rilievo – e
perciò inclusiva anche di oggetti simbolici e non
necessariamente
allo stesso tempo artistici. Una distinzione specifica
si osserva
piuttosto per la natura delle statue divine e regali,
associate in
entrambe le lingue a verbi rimandanti alla nascita in
paradiso – il
sumerico tud
e
l'accadico waladu
–
che le contraddistinguono come sede vitale parallela e
ulteriore del
soggetto raffigurato, rispetto alle altre immagini
accompagnate dal
verbo dim
.
Le
opere
mesopotamiche sono decisamente più vicine
all'artigianato di
quanto non lo siano all'arte. Childe ha definito gli
artigiani
mesopotamici ‹‹proletari››
poiché il loro sostentamento e rifornimento di materie
prime
dipendevano solo ed interamente dallo stato: il
progresso statale
aveva avuto come ripercussione negativa la rigida
divisione delle
classi sociali, che limitò artefici e artigiani,
relegati alla
classe più bassa. La mancanza di responsabilità e di
richieste da
parte di una clientela interessata e in grado di
pagare fece perdere
loro gli stimoli alla ricerca, creatività e
invenzione. Esemplare la
forma rimasta invariata per oltre due millenni di
strumenti quali il
coltello, l'ascia e il pugnale, modificati leggermente
in alcuni
particolari, che non possono essere definiti
innovazioni. Le
conoscenze artigianali venivano trasmesse
esclusivamente in forma
orale e mancava lo spazio per scambi che potessero
portare
all'innovazione tecnica. In breve, le eccessive
rigidità e
sicurezza di sostentamento sarebbero state le cause
della repressione
di qualunque prospettiva di miglioramento personale .
Mancando evidenti motivazioni e stimoli, gli artigiani
non
inventavano le regole produttive e nuovi modi di
codificare mentre
producevano. Le loro opere risultavano così altamente
standardizzate
e in tale qualità risiede la distinzione tra opere
d'arte e
artigianato. In semiotica esiste infatti la nozione di
‹‹doppio››,
secondo cui è impossibile giungere alla perfezione di
replica di
un'opera d'arte, poiché i mezzi e le tecniche
personali
dell'artista rimangono sconosciuti. Per l'artigianato
vale
l'opposto: poiché le regole di riproduzione sono
interamente note,
è possibile parlare di doppi assoluti, inclusi i
prodotti di civiltà
in cui le regole di creazione della rappresentazione
sono
omogeneizzate, come quella egizia riportata come
esempio da Umberto
Eco .
Riprendendo
la
nota teoria di Mario Liverani, il bisogno di
organizzazione
lavorativa dei campi lunghi avrebbe richiesto fin da
subito di essere
coordinata da una gestione centralizzata e avrebbe
condotto alla
nascita della città. A differenza del potentato, che
prevede un
prelievo delle eccedenze ai produttori da destinare al
capo e
all'aumento dei consumi familiari, il prelievo delle
eccedenze in
Mesopotamia sarebbe stato destinato a scopi sociali
(quali l'edilizia
templare e poi palaziale) e avrebbe riguardato
innanzitutto il
prelievo del lavoro. Ossia, le eccedenze – in
particolare orzo e
lana – non venivano prodotte nelle proprietà personali
dei
lavoratori, ma presso delle aziende templari o
palatine proprietà
del tempio o del palazzo. Significa che nelle aziende
templari il
lavoro dei produttori di cibo era stagionale e
destinato interamente
alle istituzioni, che lo avrebbero pagato con razioni
alimentari e
nei periodi di disoccupazione avrebbero lavorato come
privati nei
propri possedimenti; mentre nel tempio e nel palazzo
lavoravano gli
specialisti non produttori di cibo e la loro posizione
era permanente
e retribuita con la concessione i temporanea di lotti
di terra. Nel
tempio risiedeva dunque una classe dirigente anonima
plenipotenziaria
del dio, costituita da sacerdoti-amministratori
specialisti e dalla
gerarchia con in alto i dirigenti, seguiti dai
sorveglianti e infine
dagli addetti lavorativi. La struttura sociale era
dunque tripolare:
tempio/palazzo; aziende templari/palatine; comunità
locali. Tra i
non produttori di cibo assunti a tempo pieno dal
tempio/palazzo
rientravano anche gli artigiani, che si occupavano
della lavorazione
di metallo, legno, pietre dure, fibre vegetali e
cuoio. Due furono i
fattori di accentramento: il rifornimento regolare di
materie prime e
combustibili reso possibile dal commercio amministrato
dalle agenzie
templari e palatine; e l'aumento di domanda della
committenza
pubblica, che poteva essere soddisfatto dalla maggiore
produttività
e tecnologie efficienti. Rendeva inoltre possibile
l'accentramento
fisico di alcuni tipi di lavorazioni esclusive, per
cui le
istituzioni cittadine potevano controllare
direttamente come
venissero lavorati i materiali più preziosi. Nel tempo
che avanzava
l'artigiano poteva dedicarsi anche alle committenze
private,
normalmente in ceramica, dato che i metalli e il
combustibile
provenivano da territori lontani e il commercio era
normalmente
gestito dalle agenzie centrali .
L'artigiano
eseguiva
la statua sotto la direzione del suo speculare
artigiano
divino, oppure era direttamente ipostasi del dio Ea,
che era sia dio
dell'acqua, sia della creazione di statue, avendo lui
per primo
plasmato l'uomo dall'argilla .
Pertanto, non è possibile parlare né artista né di
genio, ma di
botteghe e artigiani che eseguivano gli incarichi
divini e le
commissioni regali: il significato dell'opera era
sempre più
importante del suo valore estetico, tanto che le
iscrizioni potevano
anche coprirne i rilievi .
Infatti, i sovrani talvolta ne reclamavano il merito,
essendo stati
ispirati dalla divinità, che gli permetteva di
immaginare,
progettare e realizzare analogamente al dio Ea ;
oppure davano credito ai loro artigiani, che
rimanevano comunque
anonimi ed eventualmente indicati come – ummanu
-
‹‹esperti››
o con la loro specifica categoria di appartenenza .
In questo caso, venivano usati aggettivi che ne
esaltavano le
capacità tecniche, costituendo queste parte del valore
dell'oggetto
.
Tuttavia, riconoscere che un artefatto sia stato
eseguito abilmente o
magistralmente, non significa che si tratti di arte,
ma fare la
descrizione di un oggetto. Certamente si tratta di
oggetti che grazie
al loro stile sono riconducibili – almeno a grandi
linee - a una
certa epoca e luogo, ma non a specifiche personalità
artistiche.
Infatti, lo stile può caratterizzare anche manufatti
non artistici
e, per le motivazioni precedenti, non possiamo
comunque considerarlo
come manifestazione individuale del modo di
interpretare la realtà.
Era in primis espressione della propaganda regale,
come poi accadrà
anche in epoche successive, basti pensare
all'architettura littoria
fascista.
Evoluzione
stilistica:
arte o simboli del potere?
Lo
stile
regale mesopotamico comprendeva tratti, posizioni,
proporzioni
e addirittura materiale appositamente scelti per la
loro valenza
ideologica. Si consideri inoltre che il risultato
finale dipendeva
non solo dai desideri del sovrano e dalla bravura
della bottega, ma
anche dalla durezza, compattezza e difficoltà di
lavorazione del
materiale. Bisogna allora fare attenzione a parlare di
evoluzione
dello stile in fasi naturalistiche, specialmente
quando la
documentazione delle opere e la loro cronologia è
incerta. Infatti,
per l'arte figurativa di Mesopotamia un'analisi
completa
dell'evoluzione stilistica non è realizzabile, sebbene
a partire
dalla metà del XX secolo sia stata sorpassata la loro
considerazione
limitata ai soli aspetti tipologici e iconografici .
Henry
Frankfort
colloca il principio del passaggio dalla forma
utilitaria a
quella artistica all'architettura preistorica
nord-mesopotamica del
periodo di Al'Ubaid (4000 a.C. o prima), in cui si
inizia a
ricercare varietà nella struttura, tuttavia ancora
senza un puro
intento decorativo. Invece, le ceramiche erano
decorate con motivi
geometrici e animali dall'andamento rotante, ossia
trasposizioni
della natura in schemi geometrici, che tuttavia non
sembrano avere un
intento artistico. Mancando evidenze di un loro
rapporto di
continuità con la cultura del Sumer, queste ceramiche
potrebbero non
dover essere incluse nella storia dell'arte sumerica.
Partendo
direttamente dal periodo di Uruk (3500-3100 a.C.), la
statuaria
riflette lo stretto legame tra uomo e natura, da cui
dipendeva il
sostentamento del primo. La statuetta di donna da
Khafaje (3000 a.C., fig. 2) e i rilievi del vaso da Warka (3000 a.C., fig. 3)
|
|
Fig. 2 - Statuetta di donna da Khafaje
Periodo di Uruk (3000 a.C. circa), 10 cm.
Baghdad, Iraq Museum
(© 1977 Henry Frankfort, fig. 21)
(Foto cortesia Martina Procopio)
|
Fig. 3 - Vaso dal santuario di
Eanna a Warka in alabastro
Periodo di Uruk (3000 a.C. circa), 92 cm.
Baghdad, Iraq Museum
(© 1963 Max Hirmer, tav. 19)
(Foto cortesia Martina Procopio)
|
mostrano
uno stile naturalistico, in cui i personaggi sono
caratterizzati e
non parte di un semplice schema decorativo .
Infatti, la scelta della rappresentazione del
matrimonio divino su
una struttura di tali dimensioni secondo Henriette
Groenewegen-
Frankfort sarebbe stata dettata non solo dal vaso in
quanto oggetto
culturale, ma anche dal vaso in quanto struttura
circolare, che
avrebbe consentito di rappresentare al meglio un
evento che accadeva
ciclicamente. Non avrebbe dunque avuto lo scopo di
rappresentare una
scena di offerta per sottolineare il ruolo di primo
piano di un
individuo specifico, come accedeva in Egitto .
È detta ‹‹narrazione
performativa››,
poiché oltre a rappresentare l'evento, l'immagine
produce anche
il risultato sperato. Per la prima volta un rito
religioso viene
rappresentato narrativamente e si tratta anche della
prima opera
figurativa che integra segni scritti: il profilo delle
ciotole
portate dal re-sacerdote compone il segno cuneiforme en,
mentre le due canne con la cima ad anello e il festone
richiamano la
sequenza grafica base che componeva il nome della dea
Inanna .
Amiet ritiene che il copricapo della dea Inanna con
due protuberanze
a forma di corna (fig. 4)
Fig. 4 - Particolare della fascia superiore
del vaso dal santuario di Eanna a Warka
con la dea Inanna (o forse una sacerdotessa)
che indossa il copricapo con due
protuberanze a forma di corna
Periodo di Uruk (3000 a.C. circa), 92 cm.
Baghdad, Iraq Museum (© 1963 Max Hirmer, tav. 20)
(Foto cortesia Martina Procopio)
potrebbe essere il prototipo
diretto o una
variante di quello sul rilievo arcaico da Tello.
Secondo Spycket
nella scrittura pittografica corrisponderebbe alla
forma più antica
del segno šur,
kuš
- il gunu
di sag,
testa – ovvero il segno dell'amplificazione che
precede il segno
testa .
Nel
periodo
di Jemdet Nasr (3100-2900 a.C.) le capacità artistiche
della
statuaria sono più modeste, mancando il naturalismo e
le forme
squadrate del periodo di Uruk .
La grande novità è la decorazione geometrica stile
“Jemdet Nasr”
per la glittica, da cui deriva lo stile broccato del
periodo
Protodinastico I (2900-2750 a.C.) ,
consistente in soggetti arricchiti da decorazioni
intricate e
spaziate tra loro come i ricami, ripreso anche nei
rilievi dei vasi
in steatite verde del Protodinastico II (2750-2600
a.C.).
Nella
statuaria
del Protodinastico II le forme reali vengono
approssimate a
forme astratte, ossia l'unità ricercata non è
organica, ma
geometrica e particolarmente enfatica, che riduce le
masse a solidi
tondeggianti, prevalentemente cilindri e coni. Invece,
a partire dal
Protodinastico III lo stile astratto viene abbandonato
per recuperare
il plasticismo del periodo di Uruk. Come il periodo
Protoletterario,
anche il Protodinastico si conclude con un cambiamento
di stile che
farà da nuovo punto di partenza per l'epoca successiva
.
La
ripresa
dei tratti naturalistici in età Accadica, sebbene le
statue
continuassero a presentare nella fisionomia
caratteristiche di
astrazione, ha permesso secondo Paolo Matthiae il
passaggio da
naturalismo analitico al naturalismo sintetico, ossia
che non si
concentra unicamente sulle singole caratteristiche, ma
anche sulla
loro coerenza. I risultati sono una vitalità,
realismo, plasticismo
e caratterizzazione dei volti e dei corpi inediti .
Riferendosi ai rapporti spaziali tra figure e vuoti,
Nadali e
Verderame li hanno etichettati come ‹‹bello
stile››,
ovvero a partire dall'Accadico maturo l'organizzazione
spaziale
si evolve in una composizione più essenziale,
narrativa ed
equilibrata, descritta normalmente come “bella”.
Pertanto, il
riconoscimento dell'appartenenza delle opere a questo
periodo muove
spesso dalla valutazione estetica comparata. Tuttavia,
l'evoluzione
stilistica sembrerebbe essere stata determinata dai
cambiamenti
politici, tanto da far ipotizzare delle riforme
burocratiche sotto il
regno di Naram-Sin (2254-2218 a.C.) .
Sotto
Gudea
(2150-2120 a.C.) la monumentalità, durezza e
precisione delle
forme accadiche viene ripresa, ma la composizione
enfatizza la forma
cilindrica, rimanendo comunque plastica.
Infine, la
scultura del
periodo Neosumerico è molto frammentaria e non abbiamo
criteri per
distinguerla da quella del periodo successivo di
Isin-Larsa
(2000-1750 a.C.), ma sembrerebbe riprendere più l'arte
sotto Gudea
(2150-2120 a.C.) che quella accadica .
Sebbene la ricostruzione sia in alcune parti
approssimativa,
l'evoluzione stilistica sembrerebbe consistere in un
alternarsi di
geometrismo e naturalismo.
Secondo
Silvio
Ferri, gli archeologi formulano una descrizione di
questo tipo
quando non dispongono di sufficienti fonti
documentarie. Cercano
allora le risposte direttamente nella natura umana e
nei suoi schemi
logici, ricorrendo talvolta anche agli studi
sull'evoluzione
psicologica. Per l'arte è molto comune parlare di
passaggio dal
geometrismo al naturalismo e dal naturalismo al
geometrismo come
degenerazione dovuta a conseguenze psicologiche,
sebbene possa invece
trattarsi di un modo di comunicare ritenuto più
efficace. Inoltre,
al di là del processo evolutivo, esiste ciò che
provoca interesse
nell'artista, che lo guida nella scelta tra i suoi
ricordi di cosa
rappresentare. Pensare di potersi avvalere di un'unica
regola di
fronte a così poca documentazione riduce le forme
stilistiche a
semplici presupposti, a un processo evolutivo uguale
per tutti al di
là della propria storia e cultura. Bisogna sempre
porsi il problema
degli stili mediante cui la personalità culturale si è
espressa,
perché al momento le informazioni non sono sufficienti
per
risolverlo .
Secondo Ferri esisterebbero invece un naturalismo
visto
geometricamente e un geometrismo naturalistico, come
ad esempio nella
Testa di Ninive (2350-2250 a.C., fig. 5)
Fig. 5 - Veduta frontale della
Testa da Ninive in rame/bronzo
Periodo Accadico (2350-2250 a.C. circa), 36.6 cm.
Bagdad, Iraq Museum
(© 1963 Max Hirmer, tav. XXIII)
(Foto cortesia Martina Procopio)
Non si
tratterebbe di un
esempio di organicità – come vuole il naturalismo
sintetico del
periodo Accadico (2350-2112 a.C.) – ma di astrazione
della
regalità, ossia dell'idea di re secondo gli accadi .
Pertanto, la mancanza di un'approfondita conoscenza
sull'evoluzione
stilistica e delle sue cause non rende ancora
possibile inserire
l'arte figurativa mesopotamica in una prospettiva
storiografica,
come richiederebbe la compilazione di una storia
dell'arte
mesopotamica.
Considerando
le
variazioni di stile della statuaria regale, dipendono
certamente
dal modo in cui si usava rappresentare in generale le
figure nel dato
momento; dagli attributi conferiti di epoca in epoca
ai sovrani; dal
modo in cui dovevano mostrarsi coerentemente alla loro
ideologia; dal
tipo di materiale scelto. Normalmente di quest'ultima
questione si
tende a considerare il solo valore ideologico della
materia,
sottovalutando il suo processo di lavorazione.
Prendendo ad esempio
le statue di Gudea (2150-2120 a.C.), le forme erano
particolarmente
compatte non solo per trasmettere un'aura di santità e
trascendenza, ma anche perché realizzate in diorite,
pietra scelta
per l'integrità durevole, associata già durante il
periodo
Accadico (2350-2112 a.C.) alla vita eterna, e dal
forte valore
simbolico perché proveniente da Magan (Oman) .
A proposito, Agnès Spycket afferma che l'effetto di
uniformità
che emerge dalla visione delle statue di Gudea
(2150-2120 a.C., fig.
6)
Fig. 6 - Statua in diorite di Gudea seduto (statua P) da Tello
Periodo Neosumerico (2150-2120 a.C. circa), 45 cm.
Parigi, Louvre (© 1963 Max Hirmer, tav. 136)
(Foto cortesia Martina Procopio)
è dovuto a una visione superficiale, perché non è
frutto
dell'apparente ripresa del medesimo modello, ma della
diorite
stessa .
Infatti, confrontandole con altre statue in pietra
dura del periodo
Accadico – come quelle di Manishtusu (2269-2255 a.C.)
– si nota
che la durezza delle forme permane, nonostante fossero
assolutamente
diversi l'ideologia regale e il conseguente messaggio
da
trasmettere. Le affinità tra le due botteghe reali
sono state
giustificate con l'ipotetico trasferimento a Lagash
delle
maestranze regali accadiche, sebbene manchino evidenze
testuali e
archeologiche dei loro laboratori .
Tuttavia, anche nel periodo Accadico stesso mancano
ulteriori
evidenze del realismo particolareggiato e raffinato
per cui la Testa
di Ninive (2350-2250 a.C.) si contraddistingue.
Probabilmente in
futuro saranno rinvenute altre teste regali simili, ma
non può
essere un caso che il volto più naturalistico
rinvenuto – al di là
che si tratti davvero di un ritratto di Sargon
(2235-2279 a.C.) o
meno - sia in rame. Essendo un metallo, implica che la
sua
lavorazione sia diametralmente opposta alle pietre
dure: riprendendo
l'efficace descrizione di Michelangelo, è ‹‹per
via
di porre››
e
non ‹‹per
forza
di levare››.
Inoltre, il rame gode di diverse proprietà, quali
duttilità e
malleabilità, che ne rendono la lavorazione flessibile
.
A sostegno di questa tesi possiamo prendere l'ipotesi
di Eva
Strommenger, per cui l'organicità delle statue in
metallo
protodinastica avrebbe come precedenti delle sculture
in legno, non
in pietra e che gli scultori adesso avevano a
disposizione anche il
coltello a intaglio, oltre che lo scalpello, mentre
nel
Protodinastico IIIB (2450-2350 a.C.) la plasticità
delle figure
dipenderebbe dall'utilizzo del trapano a sfera ;
l'osservazione piena di sorpresa di Frankfort, che non
riusciva a
spiegarsi come durante il Protodinastico II la
diffusione della
lavorazione in metallo - in particolare rame e oro –
non avesse
influenzato la scultura e viceversa. Invece,
successivamente, secondo
lui, i lavori in metallo avrebbero preso il
sopravvento e così
influenzato quelli in pietra .
Poiché il legno non si è conservato e i metalli
venivano
normalmente rifusi, le prove a sostegno delle due
teorie sono
insufficienti. Infatti, confrontando uno degli esempi
di realismo più
riuscito del Protodinastico III, ossia le teste di
mucche barbute in
metallo (fig. 7)
Fig. 7 - Testa di toro barbuto (detta anche di mucca)
in oro dal cimitero reale di Ur,
come esempio di realismo per le opere in metallo
Periodo Protodinastico (2500-2350 a.C. circa)
Baghdad, Iraq Museum (© 1963 Max Hirmer, tav. XII)
(Foto cortesia Martina Procopio)
che decoravano le casse d'arpa con le
opere in
pietra del medesimo periodo, a eccezione della Stele
degli Avvoltoi
(fig. 8), le altre - come la Placca votiva di
Ur-Nanshe (2500-2120 a.C., fig. 9)
- hanno delle forme ancora molto
geometrizzanti e
spigolose. Inoltre, molti oggetti in oro, rame e altri
metalli
preziosi provengono dalle tombe reali di Ur, forse per
il valore
simbolico nei riti naturisti o funerari di questi
materiali affidati
dai funzionari regali alle officine .
|
|
Fig. 8 - Stele di Eannatum o degli Avvoltoi
in pietra calcarea da Tello.
Lato anteriore con il dio Ningirsu o l'ensi Eannatum
che trattiene i prigionieri in una rete
Periodo Protodinastico (2450-2350 a.C. circa), 180 cm.
Parigi, Louvre (© 1963 Max Hirmer, tav. 67)
(Foto cortesia Martina Procopio)
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Fig. 9 - Placca votiva di Ur-Nanshe
con figure dalla forma geometrizzante e spigolose
Periodo Protodinastico (2550-2450 a.C. circa), 40 cm.
Parigi, Louvre (© 1963 Max Hirmer, tav. 73)
(Foto cortesia Martina Procopio)
|
Si
potrebbe
inoltre ipotizzare un parallelismo tra la diffusione
del
realismo e l'avvento della dinastia accadica, ossia
della mentalità
semitica nel Sumer: i sovrani accadici avevano una
concezione di sé
stessi più centrale nel mantenimento dell'ordine
cosmico, erano
dei protagonisti. Tutti diventavano dèi, chi in vita,
chi in morte –
incluso Sargon (2235-2279 a.C.). Realismo, aderenza
alla realtà,
significa anche diffusione della propria immagine,
rendersi
riconoscibili dai sudditi e posteri, distinguersi
dagli altri uomini
ordinari. Se l'immagine regale era identificata con il
regno già
presso i primi palazzi, adesso è identificata anche
con un'immagine
di sovrano che non ha più quel grado di
stereotipizzazione del
Protodinastico. Secondo alcuni studiosi, infatti, la
nascita del
ritratto sarebbe da collocare in epoca Accadica o per
lo meno presso
Gudea (2150-2120 a.C.), dove si ipotizza anche che si
siano
trasferiti gli artisti della bottega reale accadica.
Tuttavia, se
possa definirsi ritratto o meno è un dibattito ancora
aperto, poiché
dipende da cosa si consideri essere un ritratto.
Nella
concezione
corrente, il ritratto è realistico e naturalistico,
soprattutto nel volto. Invece le immagini regali del
Vicino Oriente
antico non offrono una rappresentazione fedele alla
realtà, ma
piuttosto una verosimiglianza. Ossia, attraverso dei
piccoli dettagli
sono in grado di indurre il ‹‹likeness
effect››,
che rende il soggetto riconoscibile più dal punto di
vista cognitivo
che visivo. Prendendo l'esempio più famoso ed
evidente, Gudea
(2150-2120 a.C.), alcuni ritengono che il suo mento
schiacciato possa
essere un chiaro ‹‹signature
trait››
e addirittura un tratto fisiognomico che gli sarebbe
realmente
appartenuto, essendo unico nel suo genere .
Allora, le immagini di Gudea (2150-2120 a.C.)
sembrerebbero
soddisfare i requisiti del ritratto: lo rendono
identificabile e ne
conservano la memoria. Eppure, nonostante le numerose
evidenze
statuarie, quale fosse il vero aspetto di Gudea
(2150-2120 a.C.) –
tranne apparentemente per il mento – non è dato
saperlo, come
rimane sconosciuta anche l'evoluzione del suo corpo
biologico nel
tempo, che grazie alla sua immutabilità culturale e
politica viene
proiettato in una dimensione eterna di ricordo e
azione .
Infatti, ciò che viene concretizzato non è Gudea
(2150-2120 a.C.)
in quanto persona, ma Gudea (2150-2120 a.C.) in quanto
sovrano, ossia
Gudea (2150-2120 a.C.) come ideologia. Allora, i
tratti non sono
fisiognomici e né determinati dallo stile, ma elementi
iconografici
significativi, che riflettono l'ideale del sovrano
sumerico: dal
petto ampio, perché pieno di vita; dalle braccia
muscolose, perché
forte; dalle grandi orecchie, perché ascoltatore e
saggio. Ossia, un
individuo dalle caratteristiche ritenute adatte a
regnare a
governare, in breve a mantenere l'ordine cosmico,
avendo un buon
rapporto con la divinità e il controllo dei territori
e delle
materie prime. Dunque, non si tratta di un semplice
intento
ritrattistico, ma dell'inserimento di tratti peculiari
del sovrano
in un sistema di segni ben codificato. Il risultato è
un'immagine
complessa e triplice: del sovrano in quanto
personaggio storico e
vitale; del sovrano in quanto archetipo detentore
degli attributi
regali; del sovrano come immagine cultuale .
In breve, non rappresentano il sovrano, ma la
sovranità. Allora,
per Gudea (2150-2120 a.C.) si può parlare non di
ritratto mimetico,
ma semiotico, ossia dell'idea di re che rispecchiava .
Tanto che – come fa notare Irene J. Winter - in Iraq
fino agli
anni Sessanta i capi della comunità avevano ancora un
viso molto
largo e tondo, proprio come Gudea (2150-2120 a.C.).
Pertanto, qualora
si sia dell'idea o meno che le sculture di Gudea
(2150-2120 a.C.) e
accadiche possano essere considerate ritratti, rimane
un evidente
aspetto simbolico e propagandistico che ha sempre la
precedenza.
Infatti, se anche nel mondo greco arcaico
l'identificabilità non
dipendeva inizialmente dalla caratterizzazione
fisiognomica, ma dalle
incisioni sulla statua o sulla sua base -in cui
talvolta parlavano in
prima persona come le statue vicino-orientali -
tuttavia queste
statue rientravano anche nel dominio di quella che era
ritenuta
essere sia la bellezza e perfezione estetica, sia
etica. Infatti, le
deviazioni da questa norma erano riservate ai soli
ritratti di
personaggi che non rispecchiavano il cittadino ideale,
erano
stranieri o ai margini della società. Un ideale simile
a questo
della
καλοκάγαθία
mi sembra che manchi alle rappresentazioni regali
mesopotamiche - le
cui descrizioni erano riflesso dell'ideologia regale e
del palazzo,
non dell'individuo - come anche nella documentazione
scritta, in
cui non appaiono descrizioni riconducibili a quel ‹‹non
so
che››
dell'Anonimo del Sublime .
Conclusioni
Sebbene
sia
possibile ricondurre alcuni aspetti delle
manifestazioni umane
arcaiche a strutture mentali posteriori, scegliere di
isolare questi
caratteri specifici - in quanto i soli riconducibili
alla nostra
struttura di riferimento – significa operare una
distorsione della
loro lettura e ignorare le loro condizioni storiche di
origine e le
loro mutazioni. Accade, ad esempio, quando per
indicare i periodi
preistorici orientali si usano convenzioni come la
suddivisione per
fasi di progresso metallurgico osservate solo in
Europa. Parimenti, è
impensabile parlare di Paradiso per le civiltà
orientali
preistoriche, in quanto tema originale della
tradizione biblica .
Il discorso è valido anche per la proiezione del
concetto di arte
sul mondo mesopotamico: si tratta di una scelta che
offre certamente
una comprensione più immediata nel lettore, sebbene
inesatta.
Ciascuna cultura è caratterizzata da specifici schemi
di
organizzazione della propria esperienza, da cui
dipende anche la
scelta dello stile, che avrà sempre uno scopo
contraddistinto da
quello di altre culture formalmente simili .
Se – riprendendo i precedenti paragrafi - le
raffigurazioni non
erano distinte dagli eventi, i ragionamenti
concettuale e razionale
ancora non esistevano, come neanche il pensiero
individuale e quindi
la personalità artistica, allora è lecito affermare
che mancasse
anche una consapevole rielaborazione delle esperienze
su un altro
piano, distinto da quello pratico .
Essendo contemporaneamente immagine e conoscenza della
realtà,
secondo Cesare Brandi non è possibile attribuire alle
opere
preistoriche e arcaiche valore o intenzionalità
dell'arte ,
mentre Nougier le indica piuttosto come “atti
creativi”, non
avendo una destinazione contemplativa .
La
concentrazione
di segni efficaci nel veicolare un certo contenuto di
conoscenza - perché noto a tutti -
implica che l'uomo mesopotamico non interpretasse le
immagini, ma
le riconoscesse. Henriette Groenewegen-Frankfort
afferma che, se i
limiti tra analisi formale e interpretazione culturale
non sono
netti, nell'arte pre-greca significato e scelte
formali appaiono
strettamente correlate quando analizzate nel loro
contesto
spazio-temporale .
Infatti, le rappresentazioni del Vicino Oriente antico
sono allusive,
ossia ci si serviva di un'unica immagine culminante
per fare
riferimento all'intera storia ,
oppure potevano direttamente incarnare un concetto
astratto –
essere un simbolo .
Unica eccezione a questo modo di rappresentare
allusivo sono le scene
di battaglia, che offrono una narrazione storica
esplicita talvolta
in più episodi, perché riguardanti eventi specifici e
perciò sono
anche accompagnate da iscrizioni o collegati a testi
letterari, da
cui comunque non dipende la loro comprensione. Il
repertorio
iconografico non è illustrazione diretta del proprio
patrimonio
letterario, come avviene per i Greci e i Romani: è
nato prima della
scrittura, quando il pensiero sottostante non era
stato ancora messo
per iscritto .
Anche gli stessi segni cuneiformi sono raffigurazione
stilizzata
della realtà da essi significata, una proiezione
visiva della sua
essenza .
Come le immagini, erano comprensibili perché resi
convenzionali
dalla definizione del loro senso, similmente a quanto
accadeva nel
medioevo: lo scopo non era creare ambiguità attraverso
suggestioni
multiple, ma definire un significato figurale e
concettuale esatto.
Mentre per il medioevo si parla più di teologia che di
estetica ,
per le raffigurazioni regali possiamo parlare di
ideologia e,
volendo, anche di teologia in senso lato, con tutte le
specificità
che la tradizione mesopotamica comporta.
Se
le
immagini erano capaci di produrre significati esatti
ed
inconfondibili per lo spettatore, allora all'assenza
di
intenzionalità artistica delle opere mesopotamiche
bisogna
aggiungere la mancanza di interpretazione. Come dice
Umberto Eco,
l'opera d'arte non è un ‹‹fatto
comunicativo››,
ma un ‹‹fatto
comunicativo
che chiede di essere interpretato››
.
L'opera d'arte presuppone l'esistenza di un artista e
di un
fruitore: il risultato dell'interpretazione sarà dato
dalla somma
dell'opera in sé e dalla personalità del fruitore, che
attraverso
il filtro della propria esperienza rivelerà anche
parte di se
stesso, come opinioni, gusti e desideri .
In virtù di queste infinite possibili interpretazioni
l'arte
continua a produrre storia, senza mai giungere a una
soluzione
definitiva ed esclusiva .
Bisogna allora fare attenzione a distinguere le opere
che sono solo
descrittive della storia da quelle che dicono sempre
qualcosa in più.
Vale soprattutto per le opere arcaiche, poiché
mancanti di autonomia
artistica .
Nel
linguaggio
corrente la natura delle immagini mesopotamiche trova
maggiore aderenza alla nozione di artigianato,
piuttosto che di arte.
L'artigianato presuppone infatti la conoscenza e la
ripetizione
degli stessi procedimenti per un numero di oggetti
potenzialmente
illimitato, che esclude la realtà sovrastorica
dell'artista come
individuo. Pertanto, la generica definizione nei testi
di
archeologia vicino-orientale dei produttori di opere
mesopotamiche
come artigiani è assolutamente accettabile, tuttavia
il processo di
pianificazione dell'opera da parte dei detentori del
potere
sembrerebbe essere stato più complesso dello schema
commissione-artigiano: alla creazione dell'opera
partecipavano
l'ideologia regale e templare, il loro rapporto con la
divinità, i
presagi e le cerimonie. I risultati rientrano nella
categoria
semiotica di ‹‹doppi››,
poiché sebbene la perfetta aderenza formale sia
impossibile, la loro
visione sortisce il medesimo effetto nello spettatore
e ha scopi
pratici uguali. Nel caso specifico, le opere
mesopotamiche erano
rappresentative dei sentimenti di terrore e
sopraffazione della
natura, divenendo fonte di sublime, piuttosto che di
quel sentimento
del bello strettamente connesso all'arte.
Sacralità,
radiosità
e imponenza degli oggetti e delle strutture
architettoniche sarebbero state potenza assoluta e
avrebbero sortito
come effetto il sentimento del sublime nell'uomo
mesopotamico;
mentre negli uomini provenienti da culture distanti
(come Erodoto e
Platone, ma anche visitatori attuali) continuerebbe a
essere
provocato almeno dalle grandi architetture delle
ziggurat nel
deserto, poiché ormai il significato della statuaria
appartiene solo
al passato. Le cause sono da ricondurre anche agli
atti negativi di
restauro preventivo. Come direbbe Cesare Brandi, è
fondamentale
assicurare ‹‹le
condizioni
necessarie a che la spazialità dell'opera non sia
ostacolata al suo affermarsi entro lo spazio fisico
dell'esistenza››
,
che lo smontaggio e rimontaggio delle architetture in
luoghi altri
impediscono, come è appunto accaduto per gran parte
delle opere
monumentali mesopotamiche .
In
conclusione,
l'utilizzo del termine “arte” come definizione per
i manufatti mesopotamici è inadeguato, poiché mancante
delle
fondamentali corrispondenze concettuali e limitante
alla comprensione
della loro ampia portata di significato. Tuttavia,
anche la loro
descrizione come “artigianato” è riduttiva, se
applicata al di
là dell'azione pratica di assemblaggio e lavorazione,
ovvero di
tecnica. Ogni singola componente era portatrice di un
profondo
significato retorico, ideologico e talvolta
propagandistico, permeato
da una sacralità oggi definita magica e spiritualmente
incomprensibile per la nostra razionalità scientifica.
La soluzione
più adeguata consisterebbe allora nell'utilizzo
diretto del
sumerico alam/n
e dell'accadico salmu,
nonché della loro traduzione nel linguaggio corrente
come
‹‹immagine››,
poiché evocanti la dimensione creativa e visiva dei
manufatti e
insieme suggestivi di condizioni di esistenza
differenti rispetto
agli oggetti attualmente indicati come opere d'arte,
lasciando in
tal modo la riflessione circa la loro natura ancora
aperta. Le
produzioni regali sono un esempio di cultura
straordinario: sebbene
il loro utilizzo come mezzo di diffusione ideologico e
propagandistico regale abbia goduto di una lunga
prosecuzione anche
presso popolazioni lontane nello spazio e nel tempo,
basta volgere lo
sguardo ai processi di produzione per scoprire
significati ulteriori
e ben più radicati nell'esistenza e nelle credenze in
Mesopotamia,
dalla vitalità che supera le presentazioni formali.
NOTE
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