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Arte e Controriforma in Calabria  

Umberto Bruno Condemi
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 30 Gennaio 2024, n. 951
https://www.bta.it/txt/a0/09/bta00951.html
Articolo presentato il 15 Dicembre 2023, approvato il 27 Gennaio 2024 e pubblicato il 30 Gennaio 2024.
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  1. L'Ordine dei domenicani in Calabria

Con l'arrivo e dunque con la diffusione dei domenicani, la Calabria, ha senz'altro attraversato una fase di radicale e profonda trasformazione a livello sociale, culturale e naturalmente religioso. La più antica presenza dell'Ordine in terra calabrese risale al XIII secolo, ma si può affermare con un certo grado di certezza che solo nel secolo XVI esso abbia avuto maggiore espansione e maggiore peso “politico” 1, se solo pensiamo, a titolo di esempio, alla committenza in ambito prettamente artistico; committenza che a ben vedere è stata appunto maggiormente domenicana, come del resto avremo modo di vedere più avanti. Proprio grazie alla presenza potremmo dire “capillare” di questo Ordine, nel vasto e articolato territorio calabrese si è così potuto diffondere sempre più il culto, tra gli altri, della miracolosa immagine di San Domenico. Nella fattispecie, tale culto si è diffuso a Soriano Calabro (Vibo Valentia), però già dal 1530, sulla base di quello che le fonti a nostra disposizione dicono 2, esso arriverà a toccare territori posti ben oltre i confini circoscritti e locali della Calabria stessa, per avere respiro più vasto in Europa. Una volta divenuto internazionale, il culto dell'immagine di San Domenico ha fatto diventare inevitabilmente Soriano Calabro un grande meta di pellegrinaggi. In seguito, nel secolo successivo, il XVII, viene realizzata a Taverna, nella chiesa annessa al convento dell'Ordine, una nutrita e prestigiosa produzione pittorica a opera di uno dei più significativi artisti calabresi: Mattia Preti. Questi episodi, sia la diffusione a macchia d'olio del culto dell'immagine miracolosa, ben oltre gli orizzonti della terra d'origine, sia le opere magistrali di Preti sono esempi lampanti, a nostro modo di vedere, di come in effetti l'Ordine abbia voluto e saputo promuovere il culto del suo fondatore. E come, così facendo, esso sia poi riuscito a penetrare sempre più a fondo nel cuore e dunque nella vita calabrese 3.

La devozione di san Domenico in Calabria si intreccia pertanto agli avvenimenti più importanti che hanno contrassegnato l'arrivo e quindi la diffusione sempre più radicale dell'Ordine dei predicatori nella regione stessa. In particolare nell'area che comprende Vibo Valentia e Catanzaro 4. All'inizio, i domenicani dovettero faticare per espandersi nel territorio. E questo a causa di molteplici fattori. La Calabria tra Duecento e Trecento non aveva a ben vedere grandi città commerciali né tanto in essa erano presenti università: era fortemente caratterizzata piuttosto da una realtà in gran parte pastorale e agricola, attorno a cui ruotava naturalmente tutta l'economia della regione. Ma a rendere problematico il piano di espansione dell'Ordine è stata con ogni evidenza la presenza in Calabria dei bizantini e una nutrita serie di monasteri greci, che costellavano la regione soprattutto a sud. L'egemonia dei bizantini comincia però a vacillare e perdere peso proprio intorno al Trecento, periodo durante il quale nuovi ordini religiosi hanno potuto più liberamente professare la propri fede, tra cui l'Ordine domenicano 5. La diffusione – di più ampio respiro – nel Quattrocento dell'Ordine coincide poi con la fondazione sistematica di numerosi monasteri e di molteplici chiese. Ciò non accade soltanto nei pressi dei centri di grande rilevanza ecclesiastica, ma tale fenomeno si verificò anche al loro stesso interno per avere – con ogni evidenza – più incisività nella vita della città. Crotone, Catanzaro, Santa Severina, Squillace, Cosenza, Bisignano, Altomonte, Tropea, Nicastro, furono le città che i domenicani coinvolsero maggiormente in questa operazione che andava estendendosi a macchia d'olio in lungo e in largo. Ma i domenicani, va aggiunto, poterono altresì espandersi grazie anche all'appoggio per nulla indifferente dell'aristocrazia locale. Mentre sarà solo nel secolo successivo che l'Ordine si interesserà anche ai centri minori 6, penetrando così ancora più dentro il cuore della Calabria. La prima fondazione domenicana si ha a Catanzaro: essa risale al 1401; mentre al 1464 risale quella di Taverna – la città di Mattia Preti, il Cavalier Calabrese – e al 1510 poi la fondazione di Soriano. Le fondazioni domenicane a Taverna e a Soriano, in particolare, dipendono dall'azione dei predicatori di Catanzaro. Nello specifico, «la fondazione del monastero di Taverna fu opera di frate Paolo da Mileto nel 1464, come risulta dalla Bolla di fondazione di papa Paolo II, datata al 4 gennaio di quell'anno». Pertanto il convento di Taverna può essere considerato «come una delle prime fondazioni domenicane della Calabria. In tale ambito svolse un ruolo fondamentale frate Paolo da Mileto, uno dei principali promotori della riforma religiosa dei conventi domenicani nel Regno di Napoli. Per le sue virtù religiose e per il grande impegno profuso nella fondazione dei primi monasteri in Calabria, frate Paolo da Mileto fu presto nominato […] Vicario generale della Congregazione riformata, separata nel 1445 da quella di Napoli, di cui ne divenne provinciale» 7.

Se inizialmente i domenicani – come abbiamo detto – sono intenzionati a diffondersi e ad espandersi, in un secondo momento subentra da parte loro l'esigenza sempre più forte esprimere in qualche modo il proprio Ordine e la propria fede. Essi lo faranno attraverso le immagini. Si assiste così nel Seicento a una attenta promozione delle arti ad ampio raggio, sia dal punto di vista architettonico sia dal punto di vista scultoreo e pittorico. Si assiste così già agli inizi del XVII secolo alla promozione del culto di san Domenico a Taverna e, contemporaneamente, alla diffusione della immagine miracolosa di Soriano. In verità non sappiamo molto sulla fondazione del monastero domenicano di Soriano, né tanto meno possiamo dire di conoscere bene le vicende che lo hanno coinvolto, eppure a questo luogo è legata la storia di un'immagine che ha avuto una certa fortuna. Una fortuna non soltanto legata alle vicende storiche, come prima si è detto, visto che il culto dell'immagine ha varcato i confini calabresi, ma intrecciata anche alla leggenda che intorno a essa si è andata creando nel corso del tempo. La tradizione vuole infatti che l'immagine avesse poteri particolari e dunque fosse miracolosa. In mancanza di notizie certe, come spesso accade, anche la fondazione del monastero di Soriano – come l'immagine di san Domenico – si ammanta di un certo mistero, e intorno a essa si è così sviluppata via via una leggenda popolare. Stando al racconto popolare, infatti, padre Vincenzo da Catanzaro, probabilmente discepolo del già citato padre Paolo da Mileto, «nel 1510 sogna san Domenico che gli ordina di costruire un monastero per Soriano. Stando alla narrazione, il frate attende altre tre visioni del santo patriarca prima di compiere il viaggio a Soriano. Da Catanzaro padre Vincenzo si incammina così per Soriano dove arriva dopo alcuni giorni di viaggio» 8. Quando poi giunge nella città, «i maggiorenti del posto da tempo discutevano l'opportunità di fondare un convento di religiosi. Dapprima si rivolgono ai francescani, i quali possiedono un convento nella vicina Arena, ma i francescani rifiutano l'offerta. L'arrivo di padre Vincenzo viene pertanto considerato provvidenziale dai notabili di Soriano che decidono all'unanimità di consentire nel loro territorio la creazione di un convento di domenicani» 9. A padre Vincenzo, nell'attesa di costruire il convento e la chiesa, viene offerta «una piccola abitazione, attigua a una piccola cappella intitolata all'Annunziata» 10.

Così, in un lasso di tempo relativamente breve, gli abitanti di Soriano mettono a disposizione dei frati domenicani un'ampia area della loro città per la costruzione della chiesa e del convento. E in questo spiazzo viene così piantata una grossa croce a indicare il punto in cui sarebbe sorto il monastero stesso. Ma il giorno seguente, la croce viene ritrovata misteriosamente vicino la cappella dell'Annunziata e nonostante i numerosi tentativi di riportarla nel luogo originario, la croce viene sempre ritrovata nei pressi dell'Annunziata. Si comprende allora che è Dio a volere la fondazione del convento lì dove sorge già la piccola cappella. Così si procede in quel luogo alla costruzione dell'edificio.

Altrettanto misteriosa – e nello stesso tempo piena di fascino – è la curiosa vicenda che riguarda il ritrovamento del quadro miracoloso di san Domenico. La scoperta dell'immagine sarebbe avvenuta infatti nella notte tra il 14 e il 15 settembre dell'anno 1530. Da qui comincerebbe l'avventura di questa immagine la quale però soltanto nel Seicento attraverserà una fase di grande fortuna, e ciò grazie alla mediazione di padre Agostino Galamini, Maestro Generale dei domenicani. C'è un episodio in particolare che ha permesso la diffusione del culto di tale immagine: quello della visita che lo stesso padre Galamini, con altri rappresentanti dell'Ordine, effettua a Soriano nel 1609. Si narra 11 che, davanti ai fatti miracolosi verificatisi in quella città, «il Maestro Generale ordina un'inchiesta ufficiale. Vengono convocati diversi testimoni, a quasi ottant'anni dagli eventi, e in particolare viene attentamente ascoltato don Natale Sorbilli, nativo di Pungadi, «il quale – come scrive padre Antonino Lembo – essendo stato terzino in Soriano alli servizi di quei pochi Frati più di dieci anni, si trovò allora presente al fatto», riferendo che «gli apparve la notte seguente il Patriarca S. Domenico, e lo riprese, imponendogli che quanto prima fosse andato a deporre quanto di verità sapeva della sua Immagine» 12.

Sempre nel Seicento poi si diffonde un'importante produzione a stampa che permette una maggiore diffusione e conoscenza del culto legato al santo fondatore dell'Ordine. Durante questo periodo, il culto viene inoltre promosso anche dal potere laico, e acquista così maggiore importanza. Conseguentemente il culto di san Domenico si allarga sempre più toccando diverse città italiane e europee 13. Tutto questo poi crea le basi per una fiorente e importante committenza artistica, che intende mettere in luce la storia singolare del santo attraverso la rappresentazione degli episodi più rilevanti e più significativi della sua vita, quale esempio mirabile di fede profonda e autentica. Tale committenza risponde anch'essa ai dettami tridentini in fatto di immagini e sfrutta così l'esperienza esemplare del fondatore dell'Ordine per invitare i fedeli a seguire la strada edificante della fede. I temi che più frequentemente vengono richiesti agli artisti sono la leggenda di Soriano e diversi altri aspetti della tradizione legata a san Domenico 14. Lo possiamo vedere proprio a Taverna in quelle opere di cui prima si è parlato, eseguite – non tutte, a dire il vero – dal genio indiscusso di Mattia Preti, il quale avrà, in questa circostanza, un ruolo da “regista”, affiancato nell'impresa da altri artisti.

In questa città, la fondazione del monastero domenicano si fa risalire al 1464, ad opera di fra Paolo da Mileto. La prima chiesa viene costruita in tufo, e a causa del terremoto che coinvolse il centro nel 1662 essa subirà danni di una certa consistenza e lesioni altrettanto enormi. Così, quattro anni dopo il suddetto terremoto vengono finalmente avviati i lavori di ristrutturazione che si protraggono sino al 1680. È proprio dopo questa data che il Cavalier Calabrese, così come sarà chiamato Mattia Preti, porrà mano a quel progetto pittorico corale dedicato alla vita di san Domenico, per poi concluderlo nel 1693. Tra le opere di sua mano compare la pala d'altare con il Cristo fulminante o Visione di san Domenico (fig. 1).

Fig. 1 – Mattia Preti, Cristo fulminante - La visione di San Domenico, 1680 ca, Taverna, chiesa di San Domenico. (Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
Fig. 1 – Mattia Preti
  Cristo fulminante - La visione di San Domenico
1680 ca., Taverna, chiesa di San Domenico
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)

Quest'ultima fu realizzata dal pittore calabrese quando già era a La Valletta, a Malta, e da qui inviata al suo paese natale. L'opera dunque appartiene all'ultimo periodo del pittore, quando già aveva raggiunto una fama di respiro internazionale. Nella scena concepita dal Preti, possiamo riconoscere san Domenico in basso a destra, colto nel momento preciso in cui ha una visione: Cristo gli appare come Giove con in testa una corona e in mano un fulmine pronto per essere lanciato. San Domenico implora pietà per il mondo oramai corrotto dal peccato: un tema di chiaro stampo controriformistico. Nel rappresentare San Domenico il Preti si è attenuto all'iconografia tradizionale, corredando il santo con i suoi tipici attributi: il giglio, la regola dell'Ordine, e il cane con la fiaccola fra i denti.

Il ciclo di Taverna è «l'esito artistico di una devozione personale di un grande pittore barocco che, nutrito dall'amore e dalla nostalgia per la sua terra natia, dona gratuitamente al suo paese d'origine i frutti eccelsi della sua arte. Si tratta di una venerazione tutta interiore e personale e soprattutto di un lavoro legato non a una pietà religiosa popolare – pur richiamata probabilmente sul piano iconografico, come visto in particolare per il Cristo fulminante – ma a una devozione colta, legata agli ambienti aristocratici locali di Taverna» 15. Nella Calabria del XVII secolo, «troviamo perciò due esempi molto diversi di uso e produzione delle immagini sacre e abbiamo conferma di come la santità e il discorso agiografico possano esprimersi in maniera molto diversa, lungo traiettorie e orientamenti differenti, anche quando si usa lo stesso canale di comunicazione, nel nostro caso rappresentato dalla pittura» 16.



  1. Aspetti dell'arte controriformata in Calabria

Considerando la vasta e ancora non del tutto conosciuta produzione artistica calabrese tra Cinquecento e Seicento, si comprende come essa risenta fortemente dei dettami tridentini. Lo si nota molto bene nelle arti “maggiori”, dalla scultura alla pittura, arrivando all'architettura. Dal punto di vista scultoreo, la parte più considerevole delle opere realizzate a cavallo fra i due secoli è di ambito però messinese. Molti sono infatti gli scultori che dalla vicina Sicilia si sono trasferiti o hanno inviato le proprie opere in Calabria. Nonostante il fatto si siano conservate molte delle loro opere, non di tutti gli scultori abbiamo però una conoscenza adeguata. Molti di essi infatti sfuggono a uno studio critico accurato 17. Ad ogni modo, tra gli scultori che hanno operato in Calabria, divenendo addirittura parte integrante della produzione artistica locale, un ruolo da protagonista è giocato senza dubbio da Giovanni Battista Mazzolo, la cui figura è stata messa a punto da un lato da Di Marzo, che ne ha recuperato i documenti d'archivio, e dall'altro lato dalla Frangipane, che invece ha dato avvio a un'opera meticolosa e paziente di catalogazione dei beni artistici calabresi, aggiungendo pertanto al corpus delle opere del Mazzolo lavori che non compaiono neppure nei documenti ma che a lui possono essere ricondotte per ragioni prettamente stilistiche. Grazie al lavoro d'archivio condotto da Di Marzo è possibile riferire allo scultore opere come il gruppo con l'Annunciazione e Dio Padre – commissionato nel 1530 – nella chiesa parrocchiale di Brognaturo, vicino Catanzaro; la Madonna col Bambino (1532) della chiesa di San Procopio a Reggio Calabria; il San Basilio in trono (1532) della chiesa di Gesù e Maria di Bianco, presso Reggio Calabria; la Madonna col Bambino (1542) di Castellace, sempre presso Reggio; a Madonna col Bambino (1543) nella chiesa del Carmine a Filadelfia (Catanzaro). Del 1533 invece è l'altare della Madonna delle Grazie della chiesa del Ritiro di Cetraro, vicino Cosenza. A questo gruppo di opere devono senz'altro essere aggiunte anche l'Annunciazione della chiesa dell'Annunziata a Tropea (Vibo Valentia), molto prossimi stilisticamente ai gruppi realizzati dal maestro a Brognaturo, a Novara Sicilia (Messina), a Raccuia (Messina), vicina anche alla Madonna di Loreto nella chiesa dell'Assunta di Melicuccà (Reggio Calabria) 18.

Caratteristica del linguaggio del Mazzolo, come si evince anche da questo nutrito gruppo di opere, «è l'assetto quasi disarticolato e spigoloso delle figure, molto diverso dalla fluidità e dalla classica compostezza della scultura gaginesca» 19. Alcuni elementi del suo stile «conferiscono alle opere questo particolare andamento: in primis la tendenza alla scorrettezza anatomica, che appare notevole se osserviamo alcuni dettagli delle sculture come il ginocchio avanzato che risulta collocato troppo in basso e che quindi rende evidente la sproporzione fra la parte superiore e quella inferiore della gamba» 20.

Tra le opere meglio riuscite dal Mazzolo vi è probabilmente la Madonna del Soccorso conservata a Scido, nei pressi di Reggio Calabria, in cui lo sculture sembra concentrare e assommare tutti gli elementi distintivi del suo linguaggio artistico, facendo di quest'opera un vero e proprio compendio della sua poetica. In questo mirabile lavoro infatti è possibile notare la postura disarticolata della figura stessa, col braccio alzato e il ginocchio piegato in avanti, e l'incongruenza della veste rispetto alla stessa postura, considerando che il panneggio sembra assumere una conformazione autonoma, allargandosi verso il basso e generando così pieghe alquanto simmetriche.

Altri elementi tipici dello stile del Mazzolo riscontrabili in questa scultura sono per esempio la bocca sottile che sembra annunciare un lieve sorriso, i tratti del volto delicati, come è possibile d'altronde anche osservare nel gruppo dell'Annunciazione (figg. 2-3) a Tropea.

Fig. 2 – Giovanni Battista Mazzolo, Annunciazione, Angelo annunciante,1535 ca., chiesa dell'Annunziata, Tropea. (Foto cortesia Umberto Bruno Condemi) Fig. 3 – Giovanni Battista Mazzolo, Annunciazione, Vergine annunciata), 1535 ca., chiesa dell’Annunziata, Tropea. (Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
Fig. 2 – Giovanni Battista Mazzolo
Annunciazione, Angelo annunciante
1535 ca., Tropea, Chiesa dell'Annunziata
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
Fig. 3 – Giovanni Battista Mazzolo
Annunciazione, Vergine annunciata, 1535 ca.
Chiesa dell'Annunziata, Tropea
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)


Affine sul piano stilistico è anche la Santa Caterina della chiesa di San Martino a Terranova Sappo Minulio (Reggio Calabria), anche se la critica tende oggi a non riferirla alla mano del Mazzolo 21, nonostante l'esistenza di documenti che ne parlano riferendola chiaramente allo scultore. La Frangipane aveva già individuato la provenienza della scultura dal monastero di Santa Caterina – sempre a Terranova e ora non più esistente – ma riferendola addirittura a Benedetto da Maiano; mentre Valentino Martinelli la attribuiva a Pietro Bernini 22, padre del ben più celebre Gian Lorenzo.

Un altro importante scultore probabilmente presente in Calabria, accanto al Mazzolo, è Giovanni Angelo Montorsoli. Su tutto il territorio calabrese abbiamo di questo maestro però soltanto un'opera nota alla critica: la Madonna del Popolo (fig. 4) nel duomo di Tropea,

Fig. 4 – Angelo Montorsoli, Madonna del Popolo, 1555, ca., Tropea, Duomo. (Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
Fig. 4 – Angelo Montorsoli
Madonna del Popolo, 1555, ca., Tropea, Duomo
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)

commissionata al Montorsoli da Antonio Terranova, nobile locale, a metà del secolo (1555). Facendo uno studio stilistico su quest'ultima opera, risulta però abbastanza difficile affiancarla alla produzione di questo scultore. Basterebbe in tal senso fare un rapido confronto con i lavori che egli ha lasciato in Sicilia e in Toscana, la sua terra d'origine. Al di là però dei dubbi circa l'effettiva paternità, quest'opera risulta essere di grande importanza in Calabria, perché accanto alla Sant'Agata di Castroreale, essa spiana inequivocabilmente la strada a un cliché iconografico che avrà in seguito molta fortuna nella regione. Di dubbia attribuzione risulta anche l'Adorazione dei Magi della chiesa di San Michele a Seminara, vicino Reggio Calabria. Essa infatti è riferita genericamente già dalla Natoli all'“ambito montorsoliano”, mentre Francesca Paolino 23 la riconduce al Montorsoli stesso, e Negri Arnoldi 24 l'accosta a Giovanni da Nola. Dunque aleggia intorno a questa scultura un mistero ancora da sciogliere.

Più documentate e più certe invece sono le opere di Rinaldo Bonanno: «al 1582 risale una delle più intense creazioni dell'artista firmata e datata alla base La Madonna del Soccorso (fig. 5) della chiesa dell'Immacolata a Taurianova (Reggio Calabria)

Fig. 5 – Rinaldo Bonanno, Madonna del Soccorso, 1582, Taurianova, chiesa dell'Immacolata. (Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
Fig. 5 – Rinaldo Bonanno, Madonna del Soccorso
1582, Taurianova, chiesa dell'Immacolata
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)

che nel ritmo spiraliforme della figura e nell'espandersi dei piani verso direzioni divergenti, raggiunge esiti addirittura prebarocchi. Più classicamente composte sono invece la Madonna della Montagna, firmata e datata alla base 1587, della chiesa parrocchiale di Vito Inferiore (Reggio Calabria) e la Madonna del Bosco nella chiesa Madre di Podargoni (Reggio Calabria) commissionata all'artista nel 1587» 25. All'artista è inoltre attribuita la Madonna di Isodia della cattadrale di Bova, del 1584. Come una scultura antica, essa presenta una certa staticità, risultando però «di notevole modernità nella raffinata sensibilità pittorica» 26. Firmata è poi la Maddalena della chiesa madre di Seminara, nei pressi di Reggio, che riesce a coniugare i due punti di riferimento imprescindibili per l'artista, e cioè Giovanni Angelo Montorsoli e Antonello Gagini.

Accanto alla produzione scultorea, importante risulta essere anche quella architettonica, sempre a cavallo fra XVI e XVII secolo. Al di là della già ricordata attività dei domenicani, che nella regione hanno fondato diverse chiese e numerosi monasteri, esiste anche una attività in tal senso anche da parte dei frati cappuccini. Purtroppo gran parte del patrimonio architettonico francescano è andato perduto, ma ne abbiamo pur sempre testimonianze significative. La graduale scomparsa di edifici dei cappuccini è dovuta in buona parte ai numerosi terremoti o ai diversi disastri ambientali che si sono verificati in Calabria nel corso dei secoli 27. L'architettura francescana che si diffonde in regione è caratterizzata da forme che con ogni evidenza richiamano l'ideale di vita di san Francesco, fondatore dell'Ordine. Tali edifici infatti sono caratterizzati da forme ed elementi semplici, inoltre risultano quasi del tutto privi di particolari ornamenti: un chiaro rimando all'ideale di povertà concepito dal frate di Assisi. Il pauperismo dei frati francescani del Cinquecento si caratterizza proprio per una radicalizzazione delle scelte orientate a richiamare la Regola, ma anche a perseguire l'ideale di vita proprio di Francesco. E tutto questo poi si riflette molto bene nella variegata produzione artistica strettamente legata all'Ordine. Francesco d'Assisi viene dunque considerato come un vero e proprio esempio da seguire in toto, cosa che implica il graduale abbandono della vita secolare, la mendicità, la povertà, l'umiltà, la fraternità. E tuttavia, i francescani – pur adottando questo nuovo “abito” – non sono mai stati distaccati dal mondo. Ad un certo punto però si diffonde una nuova realtà monastica, che radicalizza quei principii al punto da far nascere un nuovo tipo di eremitismo 28. Possiamo comunque dire che i più antichi edifici dei frati francescani sono databili tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo. Le scelte pauperistiche di base, in esse presenti, «pur rientrando nelle indicazioni post conciliari circa le nuove architetture ecclesiastiche, si concretizzano talmente che il trattato di San Carlo Borromeo, le Istructiones fabricae et suppellectilis ecclesiasticae, diventa il punto riferimento del codificatore dell'architettura cappuccina, il friulano padre Antonio da Pordenone». Quest'ultimo già nel 1603 dà alle stampe un'opera come il Memoriale su come fabricare un nostro picciol e ordinato monasterio. Un trattato che non vuole essere un manuale contenente le linee-guida per la costruzione di nuovi edifici minoritici, ma intende semmai normalizzare tendenze architettoniche già in atto all'interno dello stesso Ordine francescano, al fine di “costruire” la povertà, mediante la «riproposizione della tipologia borromeiana delle “piccole chiese” e degli oratori» 29.

L'architettura e, in generale, l'arte dei frati francescani, al di là di quelle che possono essere le definizioni tipologiche, appare mossa sempre dal bisogno di manifestare e esaltare la presenza di Gesù nell'Eucarestia. Da questo punto di vista, l'altare maggiore acquista una notevole importanza. Così come sono importanti i materiali adottati: materiali prevalentemente “poveri”. Il frutto di queste indicazioni è racchiuso nella costruzione di edifici o chiese che spesso presentano un'aula rettangolare, coperte da tetti con capriate lignee o con volte a botte. I monasteri, dal canto loro, hanno quasi sempre celle molto piccole e disadorne, perché devono essere luoghi in cui il frate deve poter vivere col minimo indispensabile, seguendo dunque il principio dell'existens minimum. Naturalmente, in questi edifici ciò che più conta è la funzionalità, che va a discapito dell'aspetto estetico. Troppi decori, troppe immagini potrebbero infatti distogliere il frate dall'attività primaria: quella della preghiera nella totale solitudine.

Padre Antonio da Pordenone codifica dunque le norme cui gli architetti e gli artisti devono attenersi nella realizzazione delle strutture architettoniche. Egli non trascura nessun particolare, e cerca di definire ogni aspetto, compreso quello decorativo. Le celle devono avere una precisa planimetria e una determinata forma; le chiese devono essere fatte seguendo un certo canone, e gli arredi devono essere disposti in una particolare maniera. E il frutto della volontà di padre Antonio si possono vedere per esempio in alcuni edifici calabresi presenti a Gerace, a Lamezia Terme, Castiglione, Morano, Rombiolo, Cosentino, Vibo Valentia. In questi edifici è possibile osservare una struttura ad aula con una sola navata con copertura a botte semplice e a capriate lignee. Gli edifici quasi sempre sono preceduti da un portico che introduce il fedele alla navata, alla fine della quale si può trovare un arcone che dà accesso al presbiterio a pianta quadrata e poi al coro retrostante. Lo spazio così semplice e lineare, grazie anche a una serie di piccoli elementi decorativi, diventa uno spazio non solo di raccoglimento ma anche uno spazio dinamico per esaltare, ben visibile sull'altare maggiore, quale punto di fuga dell'intera navata, il corpo di Cristo 30.

Le chiese francescane del XVI e del XVII secolo, rispetto a quelle edificate in epoca medievale e rispetto alle quali presentano delle evidenti somiglianze, sono caratterizzate da una certa frammentazione dello spazio che ospita i fedeli, grazie all'apertura di una serie di cappelle che corrono lungo una delle pareti dell'edificio. La chiesa dunque deve essere la trasposizione in pietra delle parole del poverello di Assisi e quindi manifestare il suo magistero con forme che richiamino il principio fondamentale della povertà. Ma a riassumere al meglio questo esemplare di vita è la parte dell'edificio che si frappone tra il dentro e il fuori, tra il chiuso e l'aperto; simbolicamente tra il mondo della Regola e il mondo secolare: la facciata. In quest'ultima, la scelta pauperistica «si esprime in maniera estremamente significante attraverso una semplificazione della decorazione architettonica, rinunciando a qualsivoglia elemento imponente, come torri o campanili, ridotti a semplici vele al colmo del frontone» 31. Da questo punto di vista, risulta essere esemplare la facciata della chiesa di Morano, che «che presenta un andamento frontale “a salienti”, con l'apertura di due porte, di cui quella della chiesa più alta e ampia di quella laterale che immette nella navatella formata dalle capelle laterali, i cui muri divisori […] sono stati sfondati» 32.

La produzione scultorea così come quella architettonica si intreccia poi con quella pittorica, creando una rete molto fitta di rimandi e relazioni. I pittori guardano gli scultori e riproducono nelle proprie opere figure dalle pose che rievocano la scultura per esempio di un Gagini o di un Mazzolo; e, di contro, gli scultori osservano le pale d'altare e da esse mutuano soluzioni iconografiche utili per le loro sculture. In tutto questo un ruolo di primo piano è giocato dall'architettura, che è fatta appositamente per contenere scultura e pittura in un accordo perfetto delle forme, in ottemperanza ai dettami tridentini.



  1. Pittori calabresi tra Cinquecento e Seicento

La pittura che si afferma in Calabria a cavallo fra i due secoli che stiamo prendendo in considerazione – il Cinquecento e il Seicento – vede senz'altro protagonisti autori come Pietro Negroni e Marco Cardisco, ma anche Giovanni Battista Collimodio e naturalmente Mattia Preti. Accanto a questi senz'altro andrebbe collocata un'altra figura di primo livello: quella di Francesco Cozza, solo che quest'ultimo – pur essendo calabrese, essendo nato a Stilo nel 1605 – fu attivo prevalentemente a Napoli e soprattutto a Roma, dove ebbe maggiore fortuna. Anche Pietro Negroni 33 (fig. 6)

Fig. 6 – Pietro Negroni, Sacra Famiglia con san Giovannino, 1557, Cosenza, Galleria nazionale. (Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
Fig. 6 – Pietro Negroni, Sacra Famiglia con san Giovannino
1557, Cosenza, Galleria nazionale
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)

fu attivo fuori dalla Calabria, però egli non tagliò mai i legami con la sua terra d'origine. In effetti anche quando era a Napoli, la capitale del viceregno spagnolo, riuscì a inviare in Calabria alcune delle sue opere. È il caso per esempio della Madonna tra i santi. Luca e Paolo, commissionata al Negroni per la chiesa di San Francesco di Paola a Cosenza nel 1551 da Francesco Gualtieri; ma è anche il caso della Madonna tra i santi Barbara e Lorenzo (dello stesso anno) presso la chiesa di Santa Maria di Castello a Castrovillari, luogo che nel 1560 ospiterà anche la pala del Negroni con l'Assunzione di Maria; è il caso inoltre del polittico, oramai smembrato, della chiesa della Riforma di San Marco Argentano risalente al 1553. A queste si devono poi aggiungere altre opere significative, come per esempio l'Immacolata conservata presso la chiesa delle Cappuccinelle di Cosenza, riconducibile al 1558 34. A questo gruppo significativo di opere deve essere aggiunto un San Giovanni Evangelista, che però l'occhio di Federico Zeri, nella sua fototeca, lo attribuiva a un più generico anonimo siciliano 35.

Il linguaggio evidentemente polidoresco del Negroni è stato spiegato grazie a un possibile alunnato presso Polidoro da Caravaggio, a Messina nel 1530 36. Ma alcuni sostengono, sulla scia di quanto già riportato da De Dominici, che il Negroni fosse allievo del Cardisco 37. Una tesi non del tutto infondata se si tiene conto che Negroni si sarebbe formato a Napoli presso la bottega proprio di Marco Cardisco agli inizi degli anni Trenta del Cinquecento e dove può, con buona probabilità, aver visto opere dello stesso Polidoro 38.

Durante gli anni Cinquanta del secolo, comunque, Negroni sembra attraversare una fase di rinnovamento stilistico. Le opere inviate in Calabria in quel giro di anni ne sono in effetti la prova. Il pittore sembra attraversare un momento in cui la sua cultura appare arricchita di “un'enfasi monumentale” 39 – in linea con i dettami controriformistici – che ha tutta l'aria di essere il frutto di nuove amicizie romane, vicine all'entourage di Daniele da Volterra (il Braghettone), Pellegrino Tibaldi e Francesco Salviati. L'Andata al Calvario, oggi conservata presso la Banca Toscana di Firenze, ne è un chiaro esempio.

Il maestro di Negroni, Marco Cardisco, nacque in Calabria intorno al 1486 ma fu attivo prevalentemente a Napoli: lo riferisce Giorgio Vasari nella sue Vite, e lì visse dal 1508 al 1542, l'anno della sua morte 40. La fisionomia di questo pittore è stata puntualmente ricostruita da Ferdinando Bologna e poi in seguito da Abbate negli anni Settanta 41, i quali hanno potuto ricondurre alla mano del pittore calabrese un gruppo di opere cui fanno parte un'Adorazione dei Magi (Napoli, Museo di San Martino), una Madonna in gloria (Napoli, Museo di Capodimonte; depositi), un'Immacolata presso la parrocchiale di Grumo Nevano e con ogni probabilità anche un'altra Madonna in gloria conservata nella napoletana chiesa dei Santi Marcellino e Festo 42. Tutte opere ascrivibili al secondo decennio del Cinquecento.

Il Seicento pittorico calabrese si apre invece con la figura monumentale di Mattia Preti, nato – come prima abbiamo detto – a Taverna nel 1613 da una famiglia appartenente alla piccola nobiltà locale. Già nel 1630 Mattia Preti si trasferisce a Roma per studiare e formarsi presso la bottega del fratello Gregorio, altrettanto importante pittore calabrese, ma di risonanza più ristretta rispetto a Mattia. A Roma i due Preti rimarranno molto affascinati dalle novità della pittura caravaggesca, guardando con ammirazione il lavoro e l'opera di Bartolomeo Manfredi, l'ideatore della cosiddetta “Manfrediana methodus” 43, una specie di “grammatica” cui i pittori romani (e non solo) si dovevano attenere per realizzare opere “caravaggesche” mediante l'inserimento in esse di figure o scene che in qualche modo richiamavano i quadri del Merisi. Spesso i soggetti prediletti erano i bevitori, i giocatori di carte, i soldati, o i musici. I primi lavori di Mattia Preti, realizzati a quattro mani col fratello Gregorio, non a caso presentano scene conviviali dove sovente vediamo un gruppo di persone giocare a carte intorno a un tavolo 44. Nel frattempo Mattia Preti compie viaggi in Italia settentrionale, dove ha modo di approfondire la pittura bolognese ma anche quella veneta, arricchendo così sempre più la sua cultura artistica. Nel 1640 fa ritorno nell'Urbe e due anni più tardi diventa Cavaliere di Malta – onorificenza grazie alla quale sarà anche noto appunto come “Cavalier Calabrese” – per poi andare a Genova nel 1645 lavorando per alcune nobili famiglie. Del periodo genovese sono la Clorinda libera Sofronia e Olindo dal rogo e poi la Resurrezione di Lazzaro.

Nel 1650 riceve, a seguito della scomparsa di Giovanni Lanfranco, avvenuta tre anni prima, la commissione di affrescare il coro di Sant'Andrea della Valle a Roma. La commessa gli arriva dal cardinale Francesco Peretti. Pur consultandosi con Pietro da Cortona, il protagonista indiscusso della pittura barocca romana – ma pur sempre di respiro internazionale – Mattia Preti farà un lavoro del tutto originale, introducendo così nella Roma del Seicento una variante di gusto. E tuttavia traspare in questa impressa la lezione del Cortona. A distanza di tre anni dagli affreschi di Sant'Andrea della Valle, Preti si trasferisce a Napoli. Del periodo napoletano è il Ritorno del figliol prodigo (Museo di Capodimonte). Nel 1661 sarà nuovamente a Roma, per poi proseguire il suo viaggio verso Malta, diventando così pittore ufficiale dell'Ordine dei Cavalieri di Malta. È in questo stesso anno che inizia l'altra sua grandiosa impresa: quella della decorazione della volta della cattedrale di San Giovanni Battista a La Valletta; impresa portata a termine soltanto nel 1666. Mattia Preti, nonostante i suoi successi internazionali, non ha mai dimenticato la Calabria. In effetti, egli ha sempre avuto modo di restare legato alle proprie radici e questo legame si misura anche, se non soprattutto, con l'opera pittorica, inviando egli – nonostante i numerosi lavori – opere nella sua terra. Dal 1672 in poi, sostanzialmente sino alla morte avvenuta nel 1699, si intensifica questo rapporto, contribuendo a impreziosire le chiese calabresi di opere di notevole valore (figg. 7-8).



Fig. 7 – Mattia Preti, San Sebastiano, 1687 ca., Taverna, chiesa di San Sebastiano. (Foto cortesia Umberto Bruno Condemi) (Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
Fig. 7 – Mattia Preti, San Sebastiano
1687 ca., Taverna, chiesa di San Sebastiano
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)



Fig. 8 – Mattia Preti, Madonna del Rosario tra i santi Domenico e Caterina da Siena, 1690 ca., Taverna, chiesa di San Domenico. (Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
Fig. 8 – Mattia Preti
Madonna del Rosario tra i santi Domenico e Caterina da Siena
1690 ca., Taverna, chiesa di San Domenico
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)

Un altro protagonista della pittura calabrese, ma meno noto rispetto a Mattia Preti, è Giovanni Battista Colimodio. Egli si forma presso la bottega del padre e respira il clima tardomanierista e controriformato della Calabria del tempo, animato da tutti quei pittori operosi a Napoli tra XVI e XVII secolo ma che, direttamente o indirettamente, avevano modo di influire sulle vicende locali. Lo abbiamo infatti visto con Cardisco o con Negroni. Ma non erano solo i napoletani a caratterizzare l'atmosfera della Calabria controriformata. Ad essi si devono aggiungere anche i fiamminghi, molto presenti a dire il vero nella regione. Ne possiamo ricordare alcuni: Pedro Torres, Cesare Smet, Teodoro D'Errico 45. Collimodio, comunque, ha rivestito un ruolo di primo piano, inserendosi pienamente nel vivo delle vicende artistiche del tempo. Ciò spiega come addirittura Artemisia Gentileschi scriva una missiva ad Antonio Ruffo, principe della Scaletta 46, per ricevere notizie sul pittore calabrese 47. Al Colimodio (fig. 9)

Fig. 9 – Giovanni Battista Colimodio, affreschi della volta, 1663 ca. Orsomarso, chiesa di San Giovanni Battista. (Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
Fig. 9 – Giovanni Battista Colimodio
affreschi della volta, 1663 ca.
Orsomarso, Chiesa di San Giovanni Battista
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)

si devono attribuire due cicli d'affresco di grande importanza per la storia locale: quello del presbiterio del Santuario della Madonna della Catena di Cassano all'Ionio e il ciclo della chiesa del Santissimo Salvatore di Cosenza. Nel corso del tempo, però, questi affreschi hanno subito numerosi rifacimenti e manomissioni, tanto che oggi non è possibile leggere completamente lo stile del Colimodio. Tuttavia, lo spirito che li anima ci permette di comprendere la realtà artistica che il maestro ha assorbito e che traspare comunque da questi cicli.


  1. Presenze straniere in Calabria

In questo lasso temporale, la pittura in Calabria si arricchisce anche di numerose presenze straniere. A Stilo e a Catanzaro per esempio è presente il napoletano Battistello Caracciolo, a Vibo Valentia Luca Giordano; e poi sono presenti opere di Andrea Vaccaro, Pacecco de Rosa, Francesco Guarino. Accanto a questi si muovono poi artisti come il già citato pittore fiammingo Dirck Hendricksz detto Teodoro d'Errico, il senese Marco Pino, il siciliano Giovanni Bernardo Azzolino, l'umbro Ippolito Borghese, i napoletani Giovan Angelo d'Amato e Fabrizio Santafede, i fiorentini Giovanni Balducci, Agostino Ciampelli, Bernardino Poccetti.

Oltre a Cornelis Smet e Teodoro d'Errico, tra i fiamminghi compare anche Pietro Torres, presente a Morano nell'abside della chiesa collegiata di Santa Maddalena con due portelle d'organo, e poi ancora con opere come La Vergine del Carmelo fra i santi Lucia e Francesco di Paola del 1594 (chiesa del Carmine) e come una Madonna fra i santi Lucia e Caterina d'Alessandria del 1598 (chiesa di San Nicola). Da aggiungersi inoltre un'Annunciazione, in origine nel duomo di Paola 48.

Mentre del più attivo Teodoro d'Errico si deve ricordare una Madonna del Rosario e Misteri (in verità a lui attribuita), che «è collocata entro un ricco dossale marmoreo – datato 1615 – posto sulla testata sinistra del transetto della chiesa dei Domenicani, oggi più conosciuta con il titolo della Madonna del Rosario e comprendente anche la cappella omonima destinata alla confraternita» 49. La data della costruzione del solo dossale che accoglie la tavola del D'Errico, e cioè il 1615 sembra sia stata «fuorviante per la cronologia dell'opera pittorica, poiché alcuni studiosi l'hanno traslata pedissequamente al dipinto, altri – pur riconoscendovi la “mano” del fiammingo – lasciano indeterminata la questione»50. All'altezza di quella data, però, il pittore era già ritornato in patria 51.

Giovanni Battista Azzolino non ebbe, invece, molte commissioni pubbliche. E non soltanto in Calabria, ma anche nelle altre regioni dove operò, dalla Puglia alla Lucania e alla Sardegna 52. Tra le poche opere pubbliche realizzate dal pittore siciliano abbiamo una Madonna del Carmine col Bambino e i santi Nicola di Bari e Carlo Borromeo, collocata proprio dietro l'altare maggiore della chiesa di San Nicola in Plateis a Scalea, in Calabria. Mentre a Cetraro è conservata un'ancona lignea risalente al 1635 e conservata nella chiesa dei Cappuccini che contiene un'altra opera dell'Azzolino: una Madonna col Bambino. Il pittore è presente in regione anche con un grande polittico costituito da otto pannelli, conservato presso la chiesa dei Cappuccini di Paola, con al centro – nel pannello principale – una Madonna Immacolata. Una Madonna col Bambino con le sante Cecilia e Caterina d'Alessandria è poi conservata nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Taverna; nella chiesa di San Leoluca a Vibo Valentia si conserva una tavola con Santa Caterina da Siena 53.

Ugualmente importante è stata inoltre la presenza in Calabria di Giovanni Balducci 54. Giovanni Balducci nacque a Firenze nel 1560 e fu allievo del Naldini e come quest'ultimo, seguì la tendenza manierista facente capo a Giorgio Vasari e al gusto tardomanierista dei fiorentini della seconda metà del Cinquecento, senza trascurare Pontormo, Andrea del Sarto, Bronzino, o addirittura Raffaello. Rispetto al gusto del Naldini, che è chiaro e penetrante, quello della pittura di Balducci – stando al Voss – sembra debole e privo di invenzione; inoltre «il suo raccontare procede stancamente, pur senza esagerate leziosità manieristiche; la sua opera tarda è talora, secondo il Venturi, addirittura “volgare e enfatica”. In ogni caso, il Balducci si manifesta miglior pittore negli affreschi che non nella pittura di cavalletto» 55.

Il pittore fiorentino si trasferisce a Napoli, da Roma, intorno al 1600 (la sua presenza effettiva è documentata almeno sino al 1612) ed entra nelle grazie del cardinale Alfonso Gesualdo. A Napoli però Balducci c'era già stato qualche anno prima per realizzare alcuni dipinti nel palazzo del duca di Maddaloni. Nella città partenopea, comunque, nel suo secondo soggiorno, Balducci lascia nella chiesa del Carmine Maggiore delle Storie di Elia ed Eliseo, e poi in San Giovanni Battista delle Monache una Sacra famiglia, in Santa Maria della Sanità un San Pietro martire e poi alcuni affreschi nel refettorio. Nel duomo avrebbe lasciato altre opere, riportate dalle fonti 56 e di cui però ignoriamo l'attuale ubicazione. È soltanto durante l'ultimo periodo della sua vita che Balducci avrà modo di realizzare opere per la Calabria, dove la sua presenza è testimoniata da almeno due lavori: un'Immacolata Concezione (fig. 10)

Fig. 10 – Giovanni Balducci, Immacolata Concezione, 1604 – 1614 ca., Taverna, Santa Maria Maggiore. (Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
Fig. 10 – Giovanni Balducci, Immacolata Concezione
1604 – 1614 ca., Taverna, Santa Maria Maggiore
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)

e una Madonna del Carmine, quest'ultimo firmato e datato al 1614, e conservato presso la chiesa di Santa Maria Maggiore a Taverna.

Altri ancora sono i pittori calabresi che hanno lavorato in regione muovendosi in aree più circoscritte e lasciando opere non sempre di alta qualità, ma comunque importanti per la comprensione dello sviluppo dell'arte in Calabria a cavallo fra i due secoli. E importanti per capire come, in regione, sia stata declinata la maniera dei maestri più grandi e, conseguentemente, come sia stata recepita la Controriforma. Tra i pittori cosiddetti “minori”, dunque, è possibile almeno ricordare Giuseppe Bisignano, Giovanni Battista Campitelli, Giovanni del Prete, Giovanni de Simone, Girolamo Piraina, Ignazio Schiavello, Agostino Cannata, Tommaso de Florio e Giuseppe Perri, con il quale si chiude un secolo ma se ne apre un altro, essendo egli morto proprio nell'anno 1700 57.

                      
                      
                      

NOTE

1 BIDOTTI 2021.

2 Ibidem.

3 Si veda: BARILLARO 1969, pp. 15-17; BIDOTTI 2021; FRANGIPANE 1621.

4 LONGO 1992, p. 243.

5 BIDOTTI 2021, p. 5.

6 ACCETTA 2000, pp. 223-259.

7 BIDOTTI 2021, p. 4.

8 Ibidem.

9 Ibidem.

10 Ibidem.

11 Si veda BARILLARO 1969, pp. 15-17.

12 BIDOTTI 2021, p. 5.

13 ČAPETA RAKIĆ 2013, pp. 199-212.

14 NOVI CHAVARRIA 2009, pp. 537 545.

15 BIDOTTI 2021.

16 Ibidem.

17 MIGLIORATO 2000, p. 27.

18 Ibidem.

19 Ivi, p. 38

20 Ibidem.

21 Ivi, p. 17.

22 MARTINELLI 1953, pp. 133-154.

23 PAOLINO 1996, pp.106-111.

24 NEGRI ARNOLDI 1997, p. 185.

25 MIGLIORATO 2000, p. 60.

26 Ibidem.

27 SPANÒ 2009, p. 647.

28 Ibidem.

29 Ibidem.

30 Ivi, p. 348.

31 Ibidem.

32 Ivi, p. 349.

33 Per una messa a fuoco della pittura di Pietro Negroni e della sua vicenda umana, si veda: DE DOMINICI 1742; DI DARIO GUIDA 1978, pp. 103-108; SAVONA 1990.

35 Si veda, Scheda 30414, Fototeca, Fondazione Zeri, Università degli Studi di Bologna.

36 BOLOGNA 1959, p. 25.

37 «Pietro Negrone , da alcuni vien detto nativo della Città di Cosenza, ed altri lo fanno della Città di Cotrone, della Provincia di Catanzaro, e tutti convengono, che fu Calabrese; ne vi è certezza in qual scuola apprendesse costui l'arte della Pittura, argomentando solamente alcuni Professori, che da Gio:Antonio d'Amato il Vecchio, avesse avuto i precetti, per molte cose fatte da Pietro in sua giovanezza, che tutta quella maniera somigliano, non mancando però chi lo creda discepolo di Marco Calabrese [Marco Cardisco, n.d.r.], e forse con miglior fondamento, perciochè ia maniera di Pietro più tosto a quella può somigliarsi che ad alcun altro di que' Maestri, che vivevano allora», DE DOMINICI 1742, p. 129.

38 LEONE DE CASTRIS 1996.

39 Ibidem.

41 Ibidem.

42 Ibidem.

43 PARLATO 2007, in https://www.treccani.it/enciclopedia/bartolomeo-manfredi_(Dizionario-Biografico)/ (ultima consultazione: 20/01/2024).

44 Sui primi anni di Mattia Preti, si veda: SGARBI 2013. Su Mattia Preti e su tutta la sua produzione artistica, dagli esordi agli ultimi anni, fondamentale è: MITIDIERI 1913; PELAGGI 1972; SPIKE 1989; SPINOSA 1999; SCIBERRAS 2020,

45 PAOLINO 2021, p. 12.

46 Su Antonio Ruffo è utile un testo come: PRIMICERIO 2021.

47 Si veda la pagina web https://orsomarsoblues.it/2021/09/giovanni-battista-colimodio-pittore-di-orsomarso/ (ultima consultazione: 16/08/2023).

48 PAOLINO 2021, p. 13.

49 Ivi, p. 36.

50 Ibidem.

51 Ivi, p. 37.

52 Su Bernardo Azzolino, si veda: LEONE DE CASTRIS 1991.

53 Sulle opere di Azzolino presenti in Calabria, è possibile anche consultare la pagina web https://www.fotostorichecefalu.it/giovanni-bernardino-azzolino/ (ultima consultazione: 16/08/2023).

54 FONTANA 2019, pp. 32-43.

56 Ibidem.

57 Alcuni pittori calabresi sono citati, con le loro rispettive opere, nella pagina web, cui rimandiamo: https://www.cetraroinrete.it/pittori-rari-del-600-calabrese-2/ (ultima consultazione: 16/08/2023).

                        
                        
                        
                        

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