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L'Ordine dei domenicani in Calabria
Con l'arrivo e dunque con la diffusione dei domenicani,
la
Calabria, ha senz'altro attraversato una fase di
radicale e
profonda trasformazione a livello sociale, culturale e
naturalmente
religioso. La più antica presenza dell'Ordine in terra
calabrese
risale al XIII secolo, ma si può affermare con un certo
grado di
certezza che solo nel secolo XVI esso abbia avuto
maggiore espansione
e maggiore peso “politico” ,
se solo pensiamo, a titolo di esempio, alla committenza
in ambito
prettamente artistico; committenza che a ben vedere è
stata appunto
maggiormente domenicana, come del resto avremo modo di
vedere più
avanti. Proprio grazie alla presenza potremmo dire
“capillare” di
questo Ordine, nel vasto e articolato territorio
calabrese si è così
potuto diffondere sempre più il culto, tra gli altri,
della
miracolosa immagine di San Domenico. Nella fattispecie,
tale culto si
è diffuso a Soriano Calabro (Vibo Valentia), però già
dal 1530,
sulla base di quello che le fonti a nostra disposizione
dicono ,
esso arriverà a toccare territori posti ben oltre i
confini
circoscritti e locali della Calabria stessa, per avere
respiro più
vasto in Europa. Una volta divenuto internazionale, il
culto
dell'immagine di San Domenico ha fatto diventare
inevitabilmente
Soriano Calabro un grande meta di pellegrinaggi. In
seguito, nel
secolo successivo, il XVII, viene realizzata a Taverna,
nella chiesa
annessa al convento dell'Ordine, una nutrita e
prestigiosa
produzione pittorica a opera di uno dei più
significativi artisti
calabresi: Mattia Preti. Questi episodi, sia la
diffusione a macchia
d'olio del culto dell'immagine miracolosa, ben oltre gli
orizzonti della terra d'origine, sia le opere magistrali
di Preti
sono esempi lampanti, a nostro modo di vedere, di come
in effetti
l'Ordine abbia voluto e saputo promuovere il culto del
suo
fondatore. E come, così facendo, esso sia poi riuscito a
penetrare
sempre più a fondo nel cuore e dunque nella vita
calabrese .
La devozione di san Domenico in Calabria si intreccia
pertanto agli
avvenimenti più importanti che hanno contrassegnato
l'arrivo e
quindi la diffusione sempre più radicale dell'Ordine dei
predicatori nella regione stessa. In particolare
nell'area che
comprende Vibo Valentia e Catanzaro .
All'inizio, i domenicani dovettero faticare per
espandersi nel
territorio. E questo a causa di molteplici fattori. La
Calabria tra
Duecento e Trecento non aveva a ben vedere grandi città
commerciali
né tanto in essa erano presenti università: era
fortemente
caratterizzata piuttosto da una realtà in gran parte
pastorale e
agricola, attorno a cui ruotava naturalmente tutta
l'economia della
regione. Ma a rendere problematico il piano di
espansione dell'Ordine
è stata con ogni evidenza la presenza in Calabria dei
bizantini e
una nutrita serie di monasteri greci, che costellavano
la regione
soprattutto a sud. L'egemonia dei bizantini comincia
però a
vacillare e perdere peso proprio intorno al Trecento,
periodo durante
il quale nuovi ordini religiosi hanno potuto più
liberamente
professare la propri fede, tra cui l'Ordine domenicano .
La diffusione – di più ampio respiro – nel Quattrocento
dell'Ordine coincide poi con la fondazione sistematica
di numerosi
monasteri e di molteplici chiese. Ciò non accade
soltanto nei pressi
dei centri di grande rilevanza ecclesiastica, ma tale
fenomeno si
verificò anche al loro stesso interno per avere – con
ogni
evidenza – più incisività nella vita della città.
Crotone,
Catanzaro, Santa Severina, Squillace, Cosenza,
Bisignano, Altomonte,
Tropea, Nicastro, furono le città che i domenicani
coinvolsero
maggiormente in questa operazione che andava
estendendosi a macchia
d'olio in lungo e in largo. Ma i domenicani, va
aggiunto, poterono
altresì espandersi grazie anche all'appoggio per nulla
indifferente dell'aristocrazia locale. Mentre sarà solo
nel secolo
successivo che l'Ordine si interesserà anche ai centri
minori ,
penetrando così ancora più dentro il cuore della
Calabria. La prima
fondazione domenicana si ha a Catanzaro: essa risale al
1401; mentre
al 1464 risale quella di Taverna – la città di Mattia
Preti, il
Cavalier Calabrese – e al 1510 poi la fondazione di
Soriano. Le
fondazioni domenicane a Taverna e a Soriano, in
particolare,
dipendono dall'azione dei predicatori di Catanzaro.
Nello
specifico, «la fondazione del monastero di Taverna fu
opera di frate
Paolo da Mileto nel 1464, come risulta dalla Bolla di
fondazione di
papa Paolo II, datata al 4 gennaio di
quell'anno».
Pertanto il convento di Taverna può essere considerato
«come una
delle prime fondazioni domenicane della Calabria. In
tale ambito
svolse un ruolo fondamentale frate Paolo da Mileto, uno
dei
principali promotori della riforma religiosa dei
conventi domenicani
nel Regno di Napoli. Per le sue virtù religiose e per il
grande
impegno profuso nella fondazione dei primi monasteri in
Calabria,
frate Paolo da Mileto fu presto nominato […] Vicario
generale della
Congregazione riformata, separata nel 1445 da quella di
Napoli, di
cui ne divenne provinciale» .
Se inizialmente i domenicani – come abbiamo detto – sono
intenzionati a diffondersi e ad espandersi, in un
secondo momento
subentra da parte loro l'esigenza sempre più forte
esprimere in
qualche modo il proprio Ordine e la propria fede. Essi
lo faranno
attraverso le immagini. Si assiste così nel Seicento a
una attenta
promozione delle arti ad ampio raggio, sia dal punto di
vista
architettonico sia dal punto di vista scultoreo e
pittorico. Si
assiste così già agli inizi del XVII secolo alla
promozione del
culto di san Domenico a Taverna e, contemporaneamente,
alla
diffusione della immagine miracolosa di Soriano. In
verità non
sappiamo molto sulla fondazione del monastero domenicano
di Soriano,
né tanto meno possiamo dire di conoscere bene le vicende
che lo
hanno coinvolto, eppure a questo luogo è legata la
storia di
un'immagine che ha avuto una certa fortuna. Una fortuna
non
soltanto legata alle vicende storiche, come prima si è
detto, visto
che il culto dell'immagine ha varcato i confini
calabresi, ma
intrecciata anche alla leggenda che intorno a essa si è
andata
creando nel corso del tempo. La tradizione vuole infatti
che
l'immagine avesse poteri particolari e dunque fosse
miracolosa. In
mancanza di notizie certe, come spesso accade, anche la
fondazione
del monastero di Soriano – come l'immagine di san
Domenico – si
ammanta di un certo mistero, e intorno a essa si è così
sviluppata
via via una leggenda popolare. Stando al racconto
popolare, infatti,
padre Vincenzo da Catanzaro, probabilmente discepolo del
già citato
padre Paolo da Mileto, «nel 1510 sogna san Domenico
che gli
ordina di costruire un monastero per Soriano. Stando
alla narrazione,
il frate attende altre tre visioni del santo patriarca
prima di
compiere il viaggio a Soriano. Da Catanzaro padre
Vincenzo si
incammina così per Soriano dove arriva dopo alcuni
giorni di
viaggio» .
Quando poi giunge nella città, «i maggiorenti del posto
da tempo
discutevano l'opportunità di fondare un convento di
religiosi.
Dapprima si rivolgono ai francescani, i quali possiedono
un convento
nella vicina Arena, ma i francescani rifiutano
l'offerta. L'arrivo
di padre Vincenzo viene pertanto considerato
provvidenziale dai
notabili di Soriano che decidono all'unanimità di
consentire nel
loro territorio la creazione di un convento di
domenicani» .
A padre Vincenzo, nell'attesa di costruire il convento e
la chiesa,
viene offerta «una piccola abitazione, attigua a una
piccola
cappella intitolata all'Annunziata» .
Così, in un lasso di tempo relativamente breve, gli
abitanti di
Soriano mettono a disposizione dei frati domenicani
un'ampia area
della loro città per la costruzione della chiesa e del
convento. E
in questo spiazzo viene così piantata una grossa croce a
indicare il
punto in cui sarebbe sorto il monastero stesso. Ma il
giorno
seguente, la croce viene ritrovata misteriosamente
vicino la cappella
dell'Annunziata e nonostante i numerosi tentativi di
riportarla nel
luogo originario, la croce viene sempre ritrovata nei
pressi
dell'Annunziata. Si comprende allora che è Dio a volere
la
fondazione del convento lì dove sorge già la piccola
cappella. Così
si procede in quel luogo alla costruzione dell'edificio.
Altrettanto misteriosa – e nello stesso tempo piena di
fascino –
è la curiosa vicenda che riguarda il ritrovamento del
quadro
miracoloso di san Domenico. La scoperta dell'immagine
sarebbe
avvenuta infatti nella notte tra il 14 e il 15 settembre
dell'anno
1530. Da qui comincerebbe l'avventura di questa immagine
la quale
però soltanto nel Seicento attraverserà una fase di
grande fortuna,
e ciò grazie alla mediazione di padre Agostino Galamini,
Maestro
Generale dei domenicani. C'è un episodio in particolare
che ha
permesso la diffusione del culto di tale immagine:
quello della
visita che lo stesso padre Galamini, con altri
rappresentanti
dell'Ordine, effettua a Soriano nel 1609. Si narra
che, davanti ai fatti miracolosi verificatisi in quella
città, «il
Maestro Generale ordina un'inchiesta ufficiale. Vengono
convocati
diversi testimoni, a quasi ottant'anni dagli eventi, e
in
particolare viene attentamente ascoltato don Natale
Sorbilli, nativo
di Pungadi, «il quale – come scrive padre Antonino
Lembo –
essendo stato terzino in Soriano alli servizi di quei
pochi Frati più
di dieci anni, si trovò allora presente al fatto»,
riferendo che
«gli apparve la notte seguente il Patriarca
S. Domenico, e lo
riprese, imponendogli che quanto prima fosse andato a
deporre quanto
di verità sapeva della sua Immagine» .
Sempre nel Seicento poi si diffonde un'importante
produzione a
stampa che permette una maggiore diffusione e conoscenza
del culto
legato al santo fondatore dell'Ordine. Durante questo
periodo, il
culto viene inoltre promosso anche dal potere laico, e
acquista così
maggiore importanza. Conseguentemente il culto di san
Domenico si
allarga sempre più toccando diverse città italiane e
europee .
Tutto questo poi crea le basi per una fiorente e
importante
committenza artistica, che intende mettere in luce la
storia
singolare del santo attraverso la rappresentazione degli
episodi più
rilevanti e più significativi della sua vita, quale
esempio mirabile
di fede profonda e autentica. Tale committenza risponde
anch'essa
ai dettami tridentini in fatto di immagini e sfrutta
così
l'esperienza esemplare del fondatore dell'Ordine per
invitare i
fedeli a seguire la strada edificante della fede. I temi
che più
frequentemente vengono richiesti agli artisti sono la
leggenda di
Soriano e diversi altri aspetti della tradizione legata
a san
Domenico .
Lo possiamo vedere proprio a Taverna in quelle opere di
cui prima si
è parlato, eseguite – non tutte, a dire il vero – dal
genio
indiscusso di Mattia Preti, il quale avrà, in questa
circostanza, un
ruolo da “regista”, affiancato nell'impresa da altri
artisti.
In questa città, la fondazione del monastero domenicano
si fa
risalire al 1464, ad opera di fra Paolo da Mileto. La
prima chiesa
viene costruita in tufo, e a causa del terremoto che
coinvolse il
centro nel 1662 essa subirà danni di una certa
consistenza e lesioni
altrettanto enormi. Così, quattro anni dopo il suddetto
terremoto
vengono finalmente avviati i lavori di ristrutturazione
che si
protraggono sino al 1680. È proprio dopo questa data che
il Cavalier
Calabrese, così come sarà chiamato Mattia Preti, porrà
mano a quel
progetto pittorico corale dedicato alla vita di san
Domenico, per poi
concluderlo nel 1693. Tra le opere di sua mano compare
la pala
d'altare con il Cristo fulminante o Visione
di
san Domenico (fig. 1).
Fig. 1 – Mattia Preti
Cristo fulminante - La visione di San Domenico
1680 ca., Taverna, chiesa di San Domenico
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
Quest'ultima fu
realizzata dal
pittore calabrese quando già era a La Valletta, a Malta,
e da qui
inviata al suo paese natale. L'opera dunque appartiene
all'ultimo
periodo del pittore, quando già aveva raggiunto una fama
di respiro
internazionale. Nella scena concepita dal Preti,
possiamo riconoscere
san Domenico in basso a destra, colto nel momento
preciso in cui ha
una visione: Cristo gli appare come Giove con in testa
una corona e
in mano un fulmine pronto per essere lanciato. San
Domenico implora
pietà per il mondo oramai corrotto dal peccato: un tema
di chiaro
stampo controriformistico. Nel rappresentare San
Domenico il Preti si
è attenuto all'iconografia tradizionale, corredando il
santo con i
suoi tipici attributi: il giglio, la regola dell'Ordine,
e il cane
con la fiaccola fra i denti.
Il ciclo di Taverna è «l'esito artistico di una
devozione
personale di un grande pittore barocco che, nutrito
dall'amore e
dalla nostalgia per la sua terra natia, dona
gratuitamente al suo
paese d'origine i frutti eccelsi della sua arte. Si
tratta di una
venerazione tutta interiore e personale e soprattutto di
un lavoro
legato non a una pietà religiosa popolare – pur
richiamata
probabilmente sul piano iconografico, come visto in
particolare per
il Cristo fulminante – ma a una
devozione colta,
legata agli ambienti aristocratici locali di Taverna» .
Nella Calabria del XVII secolo, «troviamo perciò due
esempi molto
diversi di uso e produzione delle immagini sacre e
abbiamo conferma
di come la santità e il discorso agiografico possano
esprimersi in
maniera molto diversa, lungo traiettorie e orientamenti
differenti,
anche quando si usa lo stesso canale di comunicazione,
nel nostro
caso rappresentato dalla pittura» .
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Aspetti dell'arte controriformata in Calabria
Considerando la vasta e ancora non del tutto conosciuta
produzione
artistica calabrese tra Cinquecento e Seicento, si
comprende come
essa risenta fortemente dei dettami tridentini. Lo si
nota molto bene
nelle arti “maggiori”, dalla scultura alla pittura,
arrivando
all'architettura. Dal punto di vista scultoreo, la parte
più
considerevole delle opere realizzate a cavallo fra i due
secoli è di
ambito però messinese. Molti sono infatti gli scultori
che dalla
vicina Sicilia si sono trasferiti o hanno inviato le
proprie opere in
Calabria. Nonostante il fatto si siano conservate molte
delle loro
opere, non di tutti gli scultori abbiamo però una
conoscenza
adeguata. Molti di essi infatti sfuggono a uno studio
critico
accurato .
Ad ogni modo, tra gli scultori che hanno operato in
Calabria,
divenendo addirittura parte integrante della produzione
artistica
locale, un ruolo da protagonista è giocato senza dubbio
da Giovanni
Battista Mazzolo, la cui figura è stata messa a punto da
un lato da
Di Marzo, che ne ha recuperato i documenti d'archivio, e
dall'altro
lato dalla Frangipane, che invece ha dato avvio a
un'opera
meticolosa e paziente di catalogazione dei beni
artistici calabresi,
aggiungendo pertanto al corpus delle opere del
Mazzolo lavori
che non compaiono neppure nei documenti ma che a lui
possono essere
ricondotte per ragioni prettamente stilistiche. Grazie
al lavoro
d'archivio condotto da Di Marzo è possibile riferire
allo scultore
opere come il gruppo con l'Annunciazione e Dio Padre
–
commissionato nel 1530 – nella chiesa parrocchiale di
Brognaturo,
vicino Catanzaro; la Madonna col Bambino (1532)
della chiesa
di San Procopio a Reggio Calabria; il San Basilio in
trono
(1532) della chiesa di Gesù e Maria di Bianco, presso
Reggio
Calabria; la Madonna col Bambino (1542) di
Castellace, sempre
presso Reggio; a Madonna col Bambino (1543)
nella chiesa del
Carmine a Filadelfia (Catanzaro). Del 1533 invece è
l'altare della
Madonna delle Grazie della chiesa del Ritiro di
Cetraro,
vicino Cosenza. A questo gruppo di opere devono
senz'altro essere
aggiunte anche l'Annunciazione della chiesa
dell'Annunziata
a Tropea (Vibo Valentia), molto prossimi stilisticamente
ai gruppi
realizzati dal maestro a Brognaturo, a Novara Sicilia
(Messina), a
Raccuia (Messina), vicina anche alla Madonna di
Loreto nella
chiesa dell'Assunta di Melicuccà (Reggio Calabria) .
Caratteristica del linguaggio del Mazzolo, come si
evince anche da
questo nutrito gruppo di opere, «è l'assetto quasi
disarticolato e
spigoloso delle figure, molto diverso dalla fluidità e
dalla
classica compostezza della scultura gaginesca» .
Alcuni elementi del suo stile «conferiscono alle opere
questo
particolare andamento: in primis la
tendenza alla
scorrettezza anatomica, che appare notevole se
osserviamo alcuni
dettagli delle sculture come il ginocchio avanzato che
risulta
collocato troppo in basso e che quindi rende evidente la
sproporzione
fra la parte superiore e quella inferiore della gamba» .
Tra le opere meglio riuscite dal Mazzolo vi è
probabilmente la
Madonna del Soccorso conservata a Scido, nei
pressi di Reggio
Calabria, in cui lo sculture sembra concentrare e
assommare tutti gli
elementi distintivi del suo linguaggio artistico,
facendo di
quest'opera un vero e proprio compendio della sua
poetica. In
questo mirabile lavoro infatti è possibile notare la
postura
disarticolata della figura stessa, col braccio alzato e
il ginocchio
piegato in avanti, e l'incongruenza della veste rispetto
alla
stessa postura, considerando che il panneggio sembra
assumere una
conformazione autonoma, allargandosi verso il basso e
generando così
pieghe alquanto simmetriche.
Altri elementi tipici dello stile del Mazzolo
riscontrabili in questa
scultura sono per esempio la bocca sottile che sembra
annunciare un
lieve sorriso, i tratti del volto delicati, come è
possibile
d'altronde anche osservare nel gruppo dell'Annunciazione
(figg. 2-3) a Tropea.
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Fig. 2 – Giovanni Battista Mazzolo
Annunciazione, Angelo annunciante
1535 ca., Tropea, Chiesa dell'Annunziata
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
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Fig. 3 – Giovanni Battista Mazzolo
Annunciazione, Vergine annunciata, 1535 ca.
Chiesa dell'Annunziata, Tropea
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
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Affine sul piano stilistico è
anche la
Santa
Caterina della chiesa di San Martino a Terranova
Sappo Minulio
(Reggio Calabria), anche se la critica tende oggi a non
riferirla
alla mano del Mazzolo ,
nonostante l'esistenza di documenti che ne parlano
riferendola
chiaramente allo scultore. La Frangipane aveva già
individuato la
provenienza della scultura dal monastero di Santa
Caterina – sempre
a Terranova e ora non più esistente – ma riferendola
addirittura a
Benedetto da Maiano; mentre Valentino Martinelli la
attribuiva a
Pietro Bernini ,
padre del ben più celebre Gian Lorenzo.
Un altro importante scultore probabilmente presente in
Calabria,
accanto al Mazzolo, è Giovanni Angelo Montorsoli. Su
tutto il
territorio calabrese abbiamo di questo maestro però
soltanto
un'opera nota alla critica: la Madonna del Popolo
(fig. 4)
nel duomo di Tropea,
Fig. 4 – Angelo Montorsoli
Madonna del Popolo, 1555, ca., Tropea, Duomo
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
commissionata al Montorsoli da
Antonio
Terranova, nobile locale, a metà del secolo (1555).
Facendo uno
studio stilistico su quest'ultima opera, risulta però
abbastanza
difficile affiancarla alla produzione di questo
scultore. Basterebbe
in tal senso fare un rapido confronto con i lavori che
egli ha
lasciato in Sicilia e in Toscana, la sua terra
d'origine. Al di là
però dei dubbi circa l'effettiva paternità, quest'opera
risulta
essere di grande importanza in Calabria, perché accanto
alla
Sant'Agata di Castroreale, essa spiana
inequivocabilmente la
strada a un cliché iconografico che avrà in
seguito molta
fortuna nella regione. Di dubbia attribuzione risulta
anche
l'Adorazione dei Magi della chiesa di San Michele
a
Seminara, vicino Reggio Calabria. Essa infatti è
riferita
genericamente già dalla Natoli all'“ambito
montorsoliano”,
mentre Francesca Paolino
la riconduce al Montorsoli stesso, e Negri Arnoldi
l'accosta a Giovanni da Nola. Dunque aleggia intorno a
questa
scultura un mistero ancora da sciogliere.
Più documentate e più certe invece sono le opere di
Rinaldo
Bonanno: «al 1582 risale una delle più intense creazioni
dell'artista firmata e datata alla base La Madonna
del Soccorso
(fig. 5) della chiesa dell'Immacolata a Taurianova
(Reggio
Calabria)
Fig. 5 – Rinaldo Bonanno, Madonna del Soccorso
1582, Taurianova, chiesa dell'Immacolata
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
che nel ritmo spiraliforme della figura e
nell'espandersi
dei piani verso direzioni divergenti, raggiunge esiti
addirittura
prebarocchi. Più classicamente composte sono invece la Madonna
della
Montagna, firmata e datata alla base 1587, della
chiesa
parrocchiale di Vito Inferiore (Reggio Calabria) e la Madonna
del
Bosco nella chiesa Madre di Podargoni (Reggio
Calabria)
commissionata all'artista nel 1587» .
All'artista è inoltre attribuita la Madonna di Isodia
della
cattadrale di Bova, del 1584. Come una scultura antica,
essa presenta
una certa staticità, risultando però «di notevole modernità
nella
raffinata sensibilità pittorica» .
Firmata è poi la Maddalena della chiesa madre di
Seminara,
nei pressi di Reggio, che riesce a coniugare i due punti
di
riferimento imprescindibili per l'artista, e cioè
Giovanni Angelo
Montorsoli e Antonello Gagini.
Accanto alla produzione scultorea, importante risulta
essere anche
quella architettonica, sempre a cavallo fra XVI e XVII
secolo. Al di
là della già ricordata attività dei domenicani, che
nella regione
hanno fondato diverse chiese e numerosi monasteri,
esiste anche una
attività in tal senso anche da parte dei frati
cappuccini. Purtroppo
gran parte del patrimonio architettonico francescano è
andato
perduto, ma ne abbiamo pur sempre testimonianze
significative. La
graduale scomparsa di edifici dei cappuccini è dovuta in
buona parte
ai numerosi terremoti o ai diversi disastri ambientali
che si sono
verificati in Calabria nel corso dei secoli .
L'architettura francescana che si diffonde in regione è
caratterizzata da forme che con ogni evidenza richiamano
l'ideale
di vita di san Francesco, fondatore dell'Ordine. Tali
edifici
infatti sono caratterizzati da forme ed elementi
semplici, inoltre
risultano quasi del tutto privi di particolari
ornamenti: un chiaro
rimando all'ideale di povertà concepito dal frate di
Assisi. Il
pauperismo dei frati francescani del Cinquecento si
caratterizza
proprio per una radicalizzazione delle scelte orientate
a richiamare
la Regola, ma anche a perseguire l'ideale di vita
proprio di
Francesco. E tutto questo poi si riflette molto bene
nella variegata
produzione artistica strettamente legata all'Ordine.
Francesco
d'Assisi viene dunque considerato come un vero e proprio
esempio da
seguire in toto, cosa che implica il graduale
abbandono della
vita secolare, la mendicità, la povertà, l'umiltà, la
fraternità. E tuttavia, i francescani – pur adottando
questo nuovo
“abito” – non sono mai stati distaccati dal mondo. Ad un
certo
punto però si diffonde una nuova realtà monastica, che
radicalizza
quei principii al punto da far nascere un nuovo tipo di
eremitismo .
Possiamo comunque dire che i più antichi edifici dei
frati
francescani sono databili tra la fine del XVI e gli
inizi del XVII
secolo. Le scelte pauperistiche di base, in esse
presenti, «pur
rientrando nelle indicazioni post conciliari
circa le nuove
architetture ecclesiastiche, si concretizzano talmente
che il
trattato di San Carlo Borromeo, le Istructiones
fabricae et
suppellectilis ecclesiasticae, diventa il punto
riferimento del
codificatore dell'architettura cappuccina, il friulano
padre
Antonio da Pordenone». Quest'ultimo già nel 1603 dà alle
stampe
un'opera come il Memoriale su come fabricare un
nostro picciol e
ordinato monasterio. Un trattato che non vuole
essere un manuale
contenente le linee-guida per la costruzione di nuovi
edifici
minoritici, ma intende semmai normalizzare tendenze
architettoniche
già in atto all'interno dello stesso Ordine francescano,
al fine
di “costruire” la povertà, mediante la «riproposizione
della
tipologia borromeiana delle “piccole chiese” e degli
oratori» .
L'architettura e, in generale, l'arte dei frati
francescani, al
di là di quelle che possono essere le definizioni
tipologiche,
appare mossa sempre dal bisogno di manifestare e
esaltare la presenza
di Gesù nell'Eucarestia. Da questo punto di vista,
l'altare
maggiore acquista una notevole importanza. Così come
sono importanti
i materiali adottati: materiali prevalentemente
“poveri”. Il
frutto di queste indicazioni è racchiuso nella
costruzione di
edifici o chiese che spesso presentano un'aula
rettangolare,
coperte da tetti con capriate lignee o con volte a
botte. I
monasteri, dal canto loro, hanno quasi sempre celle
molto piccole e
disadorne, perché devono essere luoghi in cui il frate
deve poter
vivere col minimo indispensabile, seguendo dunque il
principio
dell'existens minimum. Naturalmente, in questi
edifici ciò
che più conta è la funzionalità, che va a discapito
dell'aspetto
estetico. Troppi decori, troppe immagini potrebbero
infatti
distogliere il frate dall'attività primaria: quella
della
preghiera nella totale solitudine.
Padre Antonio da Pordenone codifica dunque le norme cui
gli
architetti e gli artisti devono attenersi nella
realizzazione delle
strutture architettoniche. Egli non trascura nessun
particolare, e
cerca di definire ogni aspetto, compreso quello
decorativo. Le celle
devono avere una precisa planimetria e una determinata
forma; le
chiese devono essere fatte seguendo un certo canone, e
gli arredi
devono essere disposti in una particolare maniera. E il
frutto della
volontà di padre Antonio si possono vedere per esempio
in alcuni
edifici calabresi presenti a Gerace, a Lamezia Terme,
Castiglione,
Morano, Rombiolo, Cosentino, Vibo Valentia. In questi
edifici è
possibile osservare una struttura ad aula con una sola
navata con
copertura a botte semplice e a capriate lignee. Gli
edifici quasi
sempre sono preceduti da un portico che introduce il
fedele alla
navata, alla fine della quale si può trovare un arcone
che dà
accesso al presbiterio a pianta quadrata e poi al coro
retrostante.
Lo spazio così semplice e lineare, grazie anche a una
serie di
piccoli elementi decorativi, diventa uno spazio non solo
di
raccoglimento ma anche uno spazio dinamico per esaltare,
ben visibile
sull'altare maggiore, quale punto di fuga dell'intera
navata, il
corpo di Cristo .
Le chiese francescane del XVI e del XVII secolo,
rispetto a quelle
edificate in epoca medievale e rispetto alle quali
presentano delle
evidenti somiglianze, sono caratterizzate da una certa
frammentazione
dello spazio che ospita i fedeli, grazie all'apertura di
una serie
di cappelle che corrono lungo una delle pareti
dell'edificio. La
chiesa dunque deve essere la trasposizione in pietra
delle parole del
poverello di Assisi e quindi manifestare il suo
magistero con forme
che richiamino il principio fondamentale della povertà.
Ma a
riassumere al meglio questo esemplare di vita è la parte
dell'edificio che si frappone tra il dentro e il fuori,
tra il
chiuso e l'aperto; simbolicamente tra il mondo della
Regola e il
mondo secolare: la facciata. In quest'ultima, la scelta
pauperistica «si esprime in maniera estremamente
significante
attraverso una semplificazione della decorazione
architettonica,
rinunciando a qualsivoglia elemento imponente, come
torri o
campanili, ridotti a semplici vele al colmo del
frontone» .
Da questo punto di vista, risulta essere esemplare la
facciata della
chiesa di Morano, che «che presenta un andamento
frontale “a
salienti”, con l'apertura di due porte, di cui quella
della
chiesa più alta e ampia di quella laterale che immette
nella
navatella formata dalle capelle laterali, i cui muri
divisori […]
sono stati sfondati» .
La produzione scultorea così come quella architettonica
si intreccia
poi con quella pittorica, creando una rete molto fitta
di rimandi e
relazioni. I pittori guardano gli scultori e riproducono
nelle
proprie opere figure dalle pose che rievocano la
scultura per esempio
di un Gagini o di un Mazzolo; e, di contro, gli scultori
osservano le
pale d'altare e da esse mutuano soluzioni iconografiche
utili per
le loro sculture. In tutto questo un ruolo di primo
piano è giocato
dall'architettura, che è fatta appositamente per
contenere
scultura e pittura in un accordo perfetto delle forme,
in
ottemperanza ai dettami tridentini.
-
Pittori calabresi tra Cinquecento e Seicento
La pittura che si afferma in Calabria a cavallo fra i
due secoli che
stiamo prendendo in considerazione – il Cinquecento e il
Seicento –
vede senz'altro protagonisti autori come Pietro Negroni
e Marco
Cardisco, ma anche Giovanni Battista Collimodio e
naturalmente Mattia
Preti. Accanto a questi senz'altro andrebbe collocata
un'altra
figura di primo livello: quella di Francesco Cozza, solo
che
quest'ultimo – pur essendo calabrese, essendo nato a
Stilo nel
1605 – fu attivo prevalentemente a Napoli e soprattutto
a Roma,
dove ebbe maggiore fortuna. Anche Pietro Negroni
(fig. 6)
Fig. 6 – Pietro Negroni, Sacra Famiglia con san Giovannino
1557, Cosenza, Galleria nazionale
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
fu attivo fuori dalla Calabria, però egli non
tagliò mai i
legami con la sua terra d'origine. In effetti anche
quando era a
Napoli, la capitale del viceregno spagnolo, riuscì a
inviare in
Calabria alcune delle sue opere. È il caso per esempio
della Madonna
tra i santi. Luca e Paolo, commissionata al
Negroni per la chiesa
di San Francesco di Paola a Cosenza nel 1551 da
Francesco Gualtieri;
ma è anche il caso della Madonna tra i santi Barbara
e
Lorenzo (dello stesso anno) presso la chiesa
di Santa Maria
di Castello a Castrovillari, luogo che nel 1560 ospiterà
anche la
pala del Negroni con l'Assunzione di Maria; è il
caso
inoltre del polittico, oramai smembrato, della chiesa
della Riforma
di San Marco Argentano risalente al 1553. A queste si
devono poi
aggiungere altre opere significative, come per esempio
l'Immacolata conservata presso la chiesa
delle
Cappuccinelle di Cosenza, riconducibile al 1558 .
A questo gruppo significativo di opere deve essere
aggiunto un San
Giovanni Evangelista, che però l'occhio di
Federico Zeri,
nella sua fototeca, lo attribuiva a un più generico
anonimo
siciliano .
Il linguaggio evidentemente polidoresco del Negroni è
stato spiegato
grazie a un possibile alunnato presso Polidoro da
Caravaggio, a
Messina nel 1530 .
Ma alcuni sostengono, sulla scia di quanto già riportato
da De
Dominici, che il Negroni fosse allievo del Cardisco .
Una tesi non del tutto infondata se si tiene conto che
Negroni si
sarebbe formato a Napoli presso la bottega proprio di
Marco Cardisco
agli inizi degli anni Trenta del Cinquecento e dove può,
con buona
probabilità, aver visto opere dello stesso Polidoro .
Durante gli anni Cinquanta del secolo, comunque, Negroni
sembra
attraversare una fase di rinnovamento stilistico. Le
opere inviate in
Calabria in quel giro di anni ne sono in effetti la
prova. Il pittore
sembra attraversare un momento in cui la sua cultura
appare
arricchita di “un'enfasi monumentale”
– in linea con i dettami controriformistici – che ha
tutta l'aria
di essere il frutto di nuove amicizie romane, vicine
all'entourage
di Daniele da Volterra (il Braghettone), Pellegrino
Tibaldi e
Francesco Salviati. L'Andata al Calvario, oggi
conservata
presso la Banca Toscana di Firenze, ne è un chiaro
esempio.
Il maestro di Negroni, Marco Cardisco, nacque in
Calabria intorno al
1486 ma fu attivo prevalentemente a Napoli: lo riferisce
Giorgio
Vasari nella sue Vite, e lì visse dal 1508 al
1542, l'anno
della sua morte .
La fisionomia di questo pittore è stata puntualmente
ricostruita da
Ferdinando Bologna e poi in seguito da Abbate negli anni
Settanta ,
i quali hanno potuto ricondurre alla mano del pittore
calabrese un
gruppo di opere cui fanno parte un'Adorazione dei
Magi
(Napoli, Museo di San Martino), una Madonna in
gloria (Napoli,
Museo di Capodimonte; depositi), un'Immacolata
presso la
parrocchiale di Grumo Nevano e con ogni probabilità
anche un'altra
Madonna in gloria conservata nella napoletana
chiesa dei Santi
Marcellino e Festo .
Tutte opere ascrivibili al secondo decennio del
Cinquecento.
Il Seicento pittorico calabrese si apre invece con la
figura
monumentale di Mattia Preti, nato – come prima abbiamo
detto – a
Taverna nel 1613 da una famiglia appartenente alla
piccola nobiltà
locale. Già nel 1630 Mattia Preti si trasferisce a Roma
per studiare
e formarsi presso la bottega del fratello Gregorio,
altrettanto
importante pittore calabrese, ma di risonanza più
ristretta rispetto
a Mattia. A Roma i due Preti rimarranno molto
affascinati dalle
novità della pittura caravaggesca, guardando con
ammirazione il
lavoro e l'opera di Bartolomeo Manfredi, l'ideatore
della
cosiddetta “Manfrediana methodus” ,
una specie di “grammatica” cui i pittori romani (e non
solo) si
dovevano attenere per realizzare opere “caravaggesche”
mediante
l'inserimento in esse di figure o scene che in qualche
modo
richiamavano i quadri del Merisi. Spesso i soggetti
prediletti erano
i bevitori, i giocatori di carte, i soldati, o i musici.
I primi
lavori di Mattia Preti, realizzati a quattro mani col
fratello
Gregorio, non a caso presentano scene conviviali dove
sovente vediamo
un gruppo di persone giocare a carte intorno a un tavolo
.
Nel frattempo Mattia Preti compie viaggi in Italia
settentrionale,
dove ha modo di approfondire la pittura bolognese ma
anche quella
veneta, arricchendo così sempre più la sua cultura
artistica. Nel
1640 fa ritorno nell'Urbe e due anni più tardi diventa
Cavaliere
di Malta – onorificenza grazie alla quale sarà anche
noto appunto
come “Cavalier Calabrese” – per poi andare a Genova nel
1645
lavorando per alcune nobili famiglie. Del periodo
genovese sono la
Clorinda libera Sofronia e Olindo dal rogo e
poi
la Resurrezione di Lazzaro.
Nel 1650 riceve, a seguito della scomparsa di Giovanni
Lanfranco,
avvenuta tre anni prima, la commissione di affrescare il
coro di
Sant'Andrea della Valle a Roma. La commessa gli arriva
dal
cardinale Francesco Peretti. Pur consultandosi con
Pietro da Cortona,
il protagonista indiscusso della pittura barocca romana
– ma pur
sempre di respiro internazionale – Mattia Preti farà un
lavoro del
tutto originale, introducendo così nella Roma del
Seicento una
variante di gusto. E tuttavia traspare in questa
impressa la lezione
del Cortona. A distanza di tre anni dagli affreschi di
Sant'Andrea
della Valle, Preti si trasferisce a Napoli. Del periodo
napoletano è
il Ritorno del figliol prodigo (Museo di
Capodimonte). Nel
1661 sarà nuovamente a Roma, per poi proseguire il suo
viaggio verso
Malta, diventando così pittore ufficiale dell'Ordine dei
Cavalieri
di Malta. È in questo stesso anno che inizia l'altra sua
grandiosa
impresa: quella della decorazione della volta della
cattedrale di San
Giovanni Battista a La Valletta; impresa portata a
termine soltanto
nel 1666. Mattia Preti, nonostante i suoi successi
internazionali,
non ha mai dimenticato la Calabria. In effetti, egli ha
sempre avuto
modo di restare legato alle proprie radici e questo
legame si misura
anche, se non soprattutto, con l'opera pittorica,
inviando egli –
nonostante i numerosi lavori – opere nella sua terra.
Dal 1672 in
poi, sostanzialmente sino alla morte avvenuta nel 1699,
si
intensifica questo rapporto, contribuendo a impreziosire
le chiese
calabresi di opere di notevole valore (figg. 7-8).
Fig. 7 – Mattia Preti, San Sebastiano
1687 ca., Taverna, chiesa di San Sebastiano
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
Fig. 8 – Mattia Preti
Madonna del Rosario tra i santi Domenico e Caterina da Siena
1690 ca., Taverna, chiesa di San Domenico
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
Un altro protagonista della pittura calabrese, ma meno
noto rispetto
a Mattia Preti, è Giovanni Battista Colimodio. Egli si
forma presso
la bottega del padre e respira il clima tardomanierista
e
controriformato della Calabria del tempo, animato da
tutti quei
pittori operosi a Napoli tra XVI e XVII secolo ma che,
direttamente o
indirettamente, avevano modo di influire sulle vicende
locali. Lo
abbiamo infatti visto con Cardisco o con Negroni. Ma non
erano solo i
napoletani a caratterizzare l'atmosfera della Calabria
controriformata. Ad essi si devono aggiungere anche i
fiamminghi,
molto presenti a dire il vero nella regione. Ne possiamo
ricordare
alcuni: Pedro Torres, Cesare Smet, Teodoro D'Errico .
Collimodio, comunque, ha rivestito un ruolo di primo
piano,
inserendosi pienamente nel vivo delle vicende artistiche
del tempo.
Ciò spiega come addirittura Artemisia Gentileschi scriva
una missiva
ad Antonio Ruffo, principe della Scaletta ,
per ricevere notizie sul pittore calabrese .
Al Colimodio (fig. 9)
Fig. 9 – Giovanni Battista Colimodio
affreschi della volta, 1663 ca.
Orsomarso, Chiesa di San Giovanni Battista
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
si devono attribuire due cicli
d'affresco di
grande importanza per la storia locale: quello del
presbiterio del
Santuario della Madonna della Catena di Cassano
all'Ionio e il
ciclo della chiesa del Santissimo Salvatore di Cosenza.
Nel corso del
tempo, però, questi affreschi hanno subito numerosi
rifacimenti e
manomissioni, tanto che oggi non è possibile leggere
completamente
lo stile del Colimodio. Tuttavia, lo spirito che li
anima ci permette
di comprendere la realtà artistica che il maestro ha
assorbito e che
traspare comunque da questi cicli.
-
Presenze straniere in Calabria
In questo lasso temporale, la pittura in Calabria si
arricchisce
anche di numerose presenze straniere. A Stilo e a
Catanzaro per
esempio è presente il napoletano Battistello Caracciolo,
a Vibo
Valentia Luca Giordano; e poi sono presenti opere di
Andrea Vaccaro,
Pacecco de Rosa, Francesco Guarino. Accanto a questi si
muovono poi
artisti come il già citato pittore fiammingo Dirck
Hendricksz detto
Teodoro d'Errico, il senese Marco Pino, il siciliano
Giovanni
Bernardo Azzolino, l'umbro Ippolito Borghese, i
napoletani Giovan
Angelo d'Amato e Fabrizio Santafede, i fiorentini
Giovanni
Balducci, Agostino Ciampelli, Bernardino Poccetti.
Oltre a Cornelis Smet e Teodoro d'Errico, tra i
fiamminghi compare
anche Pietro Torres, presente a Morano nell'abside della
chiesa
collegiata di Santa Maddalena con due portelle d'organo,
e poi
ancora con opere come La Vergine del Carmelo fra i
santi Lucia e
Francesco di Paola del 1594 (chiesa del Carmine)
e come una
Madonna fra i santi Lucia e Caterina d'Alessandria del
1598
(chiesa di San Nicola). Da aggiungersi inoltre un'Annunciazione,
in origine nel duomo di Paola .
Mentre del più attivo Teodoro d'Errico si deve ricordare
una
Madonna del Rosario e Misteri (in verità a lui
attribuita),
che «è collocata entro un ricco dossale marmoreo –
datato 1615 –
posto sulla testata sinistra del transetto della chiesa
dei
Domenicani, oggi più conosciuta con il titolo della
Madonna del
Rosario e comprendente anche la cappella omonima
destinata alla
confraternita» .
La data della costruzione del solo dossale che accoglie
la tavola del
D'Errico, e cioè il 1615 sembra sia stata «fuorviante
per la
cronologia dell'opera pittorica, poiché alcuni studiosi
l'hanno
traslata pedissequamente al dipinto, altri – pur
riconoscendovi la
“mano” del fiammingo – lasciano indeterminata la
questione».
All'altezza di quella data, però, il pittore era già
ritornato in
patria .
Giovanni Battista Azzolino non ebbe, invece, molte
commissioni
pubbliche. E non soltanto in Calabria, ma anche nelle
altre regioni
dove operò, dalla Puglia alla Lucania e alla Sardegna .
Tra le poche opere pubbliche realizzate dal pittore
siciliano abbiamo
una Madonna del Carmine col Bambino e i santi Nicola
di Bari e
Carlo Borromeo, collocata proprio dietro l'altare
maggiore
della chiesa di San Nicola in Plateis a Scalea, in
Calabria. Mentre a
Cetraro è conservata un'ancona lignea risalente al 1635
e
conservata nella chiesa dei Cappuccini che contiene
un'altra opera
dell'Azzolino: una Madonna col Bambino. Il
pittore è
presente in regione anche con un grande polittico
costituito da otto
pannelli, conservato presso la chiesa dei Cappuccini di
Paola, con al
centro – nel pannello principale – una Madonna
Immacolata.
Una Madonna col Bambino con le sante Cecilia e
Caterina
d'Alessandria è poi conservata nella chiesa di
Santa Maria
Maggiore di Taverna; nella chiesa di San Leoluca a Vibo
Valentia si
conserva una tavola con Santa Caterina da Siena .
Ugualmente importante è stata inoltre la presenza in
Calabria di
Giovanni Balducci .
Giovanni Balducci nacque a Firenze nel 1560 e fu allievo
del Naldini
e come quest'ultimo, seguì la tendenza manierista
facente capo a
Giorgio Vasari e al gusto tardomanierista dei fiorentini
della
seconda metà del Cinquecento, senza trascurare Pontormo,
Andrea del
Sarto, Bronzino, o addirittura Raffaello. Rispetto al
gusto del
Naldini, che è chiaro e penetrante, quello della pittura
di Balducci
– stando al Voss – sembra debole e privo di invenzione;
inoltre
«il suo raccontare procede stancamente, pur senza
esagerate
leziosità manieristiche; la sua opera tarda è talora,
secondo il
Venturi, addirittura “volgare e enfatica”. In ogni caso,
il
Balducci si manifesta miglior pittore negli affreschi
che non nella
pittura di cavalletto» .
Il pittore fiorentino si trasferisce a Napoli, da Roma,
intorno al
1600 (la sua presenza effettiva è documentata almeno
sino al 1612)
ed entra nelle grazie del cardinale Alfonso Gesualdo. A
Napoli però
Balducci c'era già stato qualche anno prima per
realizzare alcuni
dipinti nel palazzo del duca di Maddaloni. Nella città
partenopea,
comunque, nel suo secondo soggiorno, Balducci lascia
nella chiesa del
Carmine Maggiore delle Storie di Elia ed Eliseo,
e poi in San
Giovanni Battista delle Monache una Sacra famiglia,
in Santa
Maria della Sanità un San Pietro martire e
poi alcuni
affreschi nel refettorio. Nel duomo avrebbe lasciato
altre opere,
riportate dalle fonti
e di cui però ignoriamo l'attuale ubicazione. È soltanto
durante
l'ultimo periodo della sua vita che Balducci avrà modo
di
realizzare opere per la Calabria, dove la sua presenza è
testimoniata da almeno due lavori: un'Immacolata
Concezione (fig. 10)
Fig. 10 – Giovanni Balducci, Immacolata Concezione
1604 – 1614 ca., Taverna, Santa Maria Maggiore
(Foto cortesia Umberto Bruno Condemi)
e una Madonna
del Carmine,
quest'ultimo firmato e datato al 1614, e conservato
presso la
chiesa di Santa Maria Maggiore a Taverna.
Altri ancora sono i pittori calabresi che hanno lavorato
in regione
muovendosi in aree più circoscritte e lasciando opere
non sempre di
alta qualità, ma comunque importanti per la comprensione
dello
sviluppo dell'arte in Calabria a cavallo fra i due
secoli. E
importanti per capire come, in regione, sia stata
declinata la
maniera dei maestri più grandi e, conseguentemente, come
sia stata
recepita la Controriforma. Tra i pittori cosiddetti
“minori”,
dunque, è possibile almeno ricordare Giuseppe Bisignano,
Giovanni
Battista Campitelli, Giovanni del Prete, Giovanni de
Simone, Girolamo
Piraina, Ignazio Schiavello, Agostino Cannata, Tommaso
de Florio e
Giuseppe Perri, con il quale si chiude un secolo ma se
ne apre un
altro, essendo egli morto proprio nell'anno 1700 .
NOTE