La
contestazione contro i musei tradizionali
Negli
anni Settanta del secolo scorso è nata in ambito ecomuseale la
contestazione contro i musei tradizionali gestiti da esperti estranei
alle comunità e contro le relative pratiche e teorie focalizzate
esclusivamente sulle collezioni non connesse alle comunità locali .
I
musei del XXI secolo hanno ampliato le funzioni di conservazione,
esposizione ed educazione al patrimonio e stanno diventando centri di
inclusione e di partecipazione sociale. Una nuova ampia riflessione
sulla funzione sociale dei musei nei vari contesti è infatti in atto
in Europa; il processo di decolonizzazione sta contribuendo
lentamente a riformare i musei che sembravano rappresentare
un'immagine consolidata del colonialismo .
Negli atenei del continente americano questo processo è stato
avviato da tempo, per ovvi motivi; invece nel vecchio continente ne
riscontriamo poche chiare tracce negli insegnamenti universitari di
Museologia (ambito disciplinare fortemente legato alla storia
dell'arte). Malgrado questa lacuna, un processo di decolonizzazione
è stato avviato presso strutture museali europee ed è fortemente
promosso da alcuni studiosi, ciascuno dei quali ha dato vita a
pratiche di decolonizzazione diverse nei musei in cui ha ricoperto la
funzione di curatore. Analizziamo l'apporto di alcune di queste
figure.
Dan
Hicks e «The Brutish Museums»
L'accademico
inglese Dan Hicks ha indagato la documentazione relativa all'arrivo
dei bronzi del Benin nel museo Pitt Rivers ,
di proprietà dell'Ateneo di Oxford. I bronzi arrivarono al Museo
per ripagare le spese affrontate a seguito di un'azione presentata
come punitiva dal governo inglese
e perpetrata da questo governo nel 1897 a Benin City. Dal palazzo
reale della città furono sottratti migliaia di oggetti di pregio
artistico e soprattutto di grande valore religioso, storico e
simbolico per la comunità beninese: zanne
d'avorio, sculture e oggetti in corallo, metallo e avorio. I soldati
e gli amministratori inglesi, dopo avere messo a ferro e fuoco la
città e avere dato luogo a un'occupazione sanguinosa e a
distruzioni gratuite, portarono questi oggetti in Gran Bretagna .
I musei, con le loro esposizioni, assunsero in quella fase la
funzione - più volte sottolineata da Hicks - di dispositivo
ideologico attraverso il quale gli inglesi potessero apparire
portatori di civiltà e cristianità a confronto con “l'inferiore
razza africana”.
Dall'analisi
condotta da Hicks, probabilmente influenzata anche dalle richieste
della restituzione da parte del governo nigeriano e dalle
manifestazioni di protesta del movimento Rhodes Must Fall avvenute a
Oxford nel 2015, scaturisce il desiderio dell'autore di rimpatriare
i bronzi del Benin oggi di proprietà del Pitt Rivers Museum. La
riflessione di Hicks, espressa in un testo dal titolo eloquente (The
Brutish Museums. The Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural
Restitution)
,
assurge a manifesto per un cambiamento istituzionale dei musei e
diviene una riflessione critica sulle azioni che i musei devono
intraprendere a stretto contatto con ciò che avviene al di fuori
delle loro mura: i musei devono acquisire un nuovo modo di operare
che li possa legittimare quali istituzioni del XXI secolo. Per questi
motivi Hicks auspica che i musei riconoscano pubblicamente le azioni
violente che determinarono le sottrazioni coloniali illegittime ed in
secondo luogo che non continuino a legittimare tale politica
coloniale continuando ad impiegare gli ordinamenti originari, anche
ricorrendo a descrizioni eufemistiche.
Secondo
l'autore fino a ora l'espropriazione (perpetrata oltre un secolo
fa) di oggetti appartenenti ad altre culture non è stata sottoposta
ad una corretta valutazione; il volume di Hicks quindi rappresenta
anche un richiamo all'etica del collezionismo e dell'esposizione
“anti coloniale” ,
fortemente lontana dai principi di inferiorità razziali e anche
dall'idea del “barbaro primitivo”.
Ma
la riflessione di Hicks assume particolare rilevanza perché investe
anche il ruolo del curatore del museo, che non dovrebbe
esclusivamente promuovere la conservazione degli oggetti, ma in
questo caso dovrebbe condividere nuove forme di conoscenza e processi
culturali con i colleghi africani. Assicurarsi della provenienza
degli oggetti e facilitarne la restituzione, ove richiesto, serve a
una riflessione critica anche del pubblico per una migliore
comprensione degli avvenimenti. Anche il campo e il metodo d'indagine
dell'Archeologia Contemporanea (la materia insegnata da Hicks)
rappresenta per il curatore inglese un esercizio per indagare
ulteriormente l'assetto ancora coloniale del museo e per ampliare
le possibilità di interazione fra l'Accademia e la società, con
una vocazione che potremmo definire analoga ai principi della «terza
missione» universitaria .
Il
Weltkulturen Museum di Francoforte e Clémentine Deliss
Il
processo di decolonizzazione si afferma in Europa anche attraverso
operazioni museologiche e museografiche del tutto innovative, come
quella realizzata da Clémentine Deliss: l'archivio e il deposito
del museo si prestano a una rilettura delle collezioni. La stessa
Clémentine Deliss ha fornito nuovi indirizzi di ricerca nell'ambito
delle pratiche curatoriali connesse al processo di decolonizzazione
dei patrimoni etnografici. La Deliss, dal 2012 al 2015 direttrice del
Weltkulturen Museum di Francoforte, ha suggerito nuove soluzioni per
esporre collezioni museali demo-etnoantropologiche. La studiosa ha
lavorato nel campo dell'arte contemporanea prima di arrivare al
Museo francofortese, dove si è servita di architetti, designer,
registi, scrittori e artisti per avvicinare il mondo etnologico a
quello artistico contemporaneo. Sulla scorta della concezione degli
anni Venti del museo inteso come struttura dinamica e vivente ,
formulata da Carl Einstein al Museo di etnologia di Berlino, la
Deliss ha reso il Museo di Francoforte una struttura museale
post-etnografica, in cui artisti d'arte contemporanea con una
spiccata sensibilità verso la cultura visiva hanno esplorato le
collezioni del museo scegliendo oggetti da assemblare fra loro per
sperimentare opere d'arte esposte in vetrine progettate ad hoc .
L'operazione
messa in campo dalla Deliss attraverso allestimenti innovativi
costituisce un tentativo di rendere leggibili, attraverso una lente
diversa ,
le collezioni nate dall'appropriazione coloniale, rinchiuse prima
dalle «classificazioni etnocentriche» della cultura occidentale e
ora libere, perché considerate oggetto di dialogo in uno spazio
laboratoriale e sperimentale di ampio scambio come il museo.
In
base a questa concezione sono le stesse relazioni umane a fornire
senso alle raccolte, magari in musei in cui negli anni Sessanta gli
allestimenti mostravano impostazioni museologiche e museografiche
poco inclusive. Nelle esposizioni curate dalla Deliss tavoli e sedute
incoraggiavano i visitatori a fermarsi più a lungo per intraprendere
discussioni sui temi individuati; sono stati organizzati laboratori
per discutere le delicate questioni legate alla provenienza da un
passato coloniale europeo.
Anche
se per vari problemi la Deliss è stata costretta a lasciare il Museo
di Francoforte, il lavoro che la studiosa ha svolto ha senz'altro
lasciato una traccia indelebile nel processo di mediazione dei musei
etnografici.
Il
Museo Preistorico Etnografico Luigi Pigorini attraverso la lente di
Vito Lattanzi
In
Italia Vito Lattanzi, antropologo del Ministero della Cultura, ha
avuto modo di sviluppare nuove riflessioni teoriche e pratiche
curatoriali prevalentemente presso il Museo Preistorico Etnografico
Luigi Pigorini (Roma). Lattanzi è conscio che la crisi del
postmoderno implica nei musei l'esigenza di nuove narrazioni per un
rapporto col pubblico diventato essenziale. Nel riscoprire il passato
rendendolo di una modernità straordinaria, l'antropologo romano
segue le teorie di storici e filosofi (specialmente Gianni Vattimo e
François Hartog) per cercare di comprendere come i temi della
condizione globale siano affrontati a livello locale e per analizzare
l'etnografia del contemporaneo .
Vari progetti elaborati al Museo Pigorini sono frutto dell'interesse
di Lattanzi per l'etnografia del contemporaneo e per il museo
partecipativo ;
tale forma di museo è caratterizzato da teorie e buone pratiche,
focalizzate sempre più sull'inclusione dei pubblici. E nel caso
dei musei etnografici una straordinaria opportunità su cui lavorare
è offerta dal pubblico potenziale, rappresentato dalle seconde
generazioni di immigrati che spesso conoscono poco o nulla il proprio
paese di provenienza e relativi usi, costumi e tradizioni. «Da
questo punto di vista, soprattutto le associazioni più radicate nel
paese di immigrazione intravedono nel museo lo spazio ideale per
costruire processi identitari più consapevoli e strategie
politico-culturali condivise.» .
Allestimenti e rappresentazioni in tali musei devono essere
rispettosi dei traumi storici del colonialismo, che spesso invece
sono sottaciuti e rimangono sottotraccia .
Se così concepito, il museo etnologico può rappresentare nelle
parole di Lattanzi «[...] un mezzo di comprensione del nostro modo
di riconoscere la diversità, un utile antidoto contro le monologiche
dell'eurocentrismo e – se si riesce a valorizzarne appieno il
ruolo sociale – un potente dispositivo di riduzione del conflitto
interculturale» .
Secondo Lattanzi – così come altri autori citati in questa sede –
il museo non prevede più il monopolio delle collezioni da parte
dell'antropologo, ma diventa invece un formidabile dispositivo per
la mediazione con la società civile, per la costruzione di identità
culturali relazionali, per il coinvolgimento delle associazioni
presenti nel territorio, che a loro volta potranno esporre le istanze
delle relative comunità di riferimento in un'ottica inclusiva,
polifonica e assolutamente fluida, in un'Europa ormai
multiculturale.
Musei
decolonizzati (e non) come dispositivi per un futuro cambiamento
Attraverso
gli esempi del lavoro svolto da Hicks, Deliss, Lattanzi e altri, la
decolonialità appare non solo come una riflessione sull'opportunità
di esporre manufatti storici relativi a una certa fase, ma anche come
un approccio alla conoscenza da attuare in istituzioni culturali
connesse al territorio. Secondo questa visione, le comunità locali
sono da considerarsi partner di un museo che deve essere inclusivo
esprimendo la pluralità di voci emergenti dal territorio. Il
patrimonio culturale/le collezioni rappresentano un'occasione di
sviluppo di tali comunità, non solo per un'azione di affermazione
dei propri diritti di fruirne, ma anche in termini di incremento di
attori locali che costituiscono una cittadinanza consapevole e attiva
(comunità di eredità della convenzione di Faro) .
Questi attori locali e i pubblici consapevoli sono ormai dotati di
diversi strumenti per entrare in contatto con altre culture del
pianeta e ciò comporta una ulteriore e profonda trasformazione delle
condizioni socioculturali in cui i musei coloniali erano stati
istituiti.
I
musei decolonizzati diventano oggi uno spazio della mediazione, un
dispositivo per proporre con forza interpretazioni polivocali delle
collezioni, anche attraverso nuove competenze altamente richiamate
dalle museologie insorgenti .
In questo senso il museo rappresenta un processo in divenire, frutto
di società in continua metamorfosi ed evoluzione, la cui forma è
maggiormente riconoscibile in America Latina dove la Museologia è
considerata una disciplina afferente al campo della sociologia (non
della storia dell'arte). In quella parte del globo la Museologia è
quindi intesa come disciplina altamente legata al presente e
attinente alle relazioni fra le persone e gli oggetti .
I
musei stanno quindi cambiando, ma ancora la forma del museo coloniale
non è stata di certo ovunque modificata; essa continua e continuerà
a esistere almeno finché nelle accademie non si consentirà alla
museologia indigena di far parte a pieno titolo delle pratiche
contemplate dagli studi museologici .
NOTE
BIBLIOGRAFIA
Deliss 2013 Clémentine
Deliss, Manifesto
for the Post-Ethnographic Museum,
Frankfurt/New York 2013.
Varine
2017 Hugues
de Varine, L'ecomusée
singulier et pluriel. Un témoignage
sur cinquante ans de muséologie communautaire dans le monde,
Paris 2017, ed. cons. L'ecomuseo singolare e
plurale. Una testimonianza sui cinquant'anni di museologia
comunitaria nel mondo, a cura di M.
Tondolo, Gemona del Fiuli, Utopie Concrete, 2021.
Sitografia
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