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Decolonizzare il museo nel continente europeo, alcuni attori del cambiamento  
Federica Maria Chiara Santagati
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 26 Maggio 2024, n. 957
https://www.bta.it/txt/a0/09/bta00957.html
Articolo presentato il 7 Maggio 2024, accettato il 14 Maggio 2024 e pubblicato il 26 Maggio 2024
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Area Musei

La contestazione contro i musei tradizionali

Negli anni Settanta del secolo scorso è nata in ambito ecomuseale la contestazione contro i musei tradizionali gestiti da esperti estranei alle comunità e contro le relative pratiche e teorie focalizzate esclusivamente sulle collezioni non connesse alle comunità locali 1.

I musei del XXI secolo hanno ampliato le funzioni di conservazione, esposizione ed educazione al patrimonio e stanno diventando centri di inclusione e di partecipazione sociale. Una nuova ampia riflessione sulla funzione sociale dei musei nei vari contesti è infatti in atto in Europa; il processo di decolonizzazione sta contribuendo lentamente a riformare i musei che sembravano rappresentare un'immagine consolidata del colonialismo 2. Negli atenei del continente americano questo processo è stato avviato da tempo, per ovvi motivi; invece nel vecchio continente ne riscontriamo poche chiare tracce negli insegnamenti universitari di Museologia (ambito disciplinare fortemente legato alla storia dell'arte). Malgrado questa lacuna, un processo di decolonizzazione è stato avviato presso strutture museali europee ed è fortemente promosso da alcuni studiosi, ciascuno dei quali ha dato vita a pratiche di decolonizzazione diverse nei musei in cui ha ricoperto la funzione di curatore. Analizziamo l'apporto di alcune di queste figure.


Dan Hicks e «The Brutish Museums»

L'accademico inglese Dan Hicks ha indagato la documentazione relativa all'arrivo dei bronzi del Benin nel museo Pitt Rivers 3, di proprietà dell'Ateneo di Oxford. I bronzi arrivarono al Museo per ripagare le spese affrontate a seguito di un'azione presentata come punitiva dal governo inglese 4 e perpetrata da questo governo nel 1897 a Benin City. Dal palazzo reale della città furono sottratti migliaia di oggetti di pregio artistico e soprattutto di grande valore religioso, storico e simbolico per la comunità beninese: zanne d'avorio, sculture e oggetti in corallo, metallo e avorio. I soldati e gli amministratori inglesi, dopo avere messo a ferro e fuoco la città e avere dato luogo a un'occupazione sanguinosa e a distruzioni gratuite, portarono questi oggetti in Gran Bretagna 5. I musei, con le loro esposizioni, assunsero in quella fase la funzione - più volte sottolineata da Hicks - di dispositivo ideologico attraverso il quale gli inglesi potessero apparire portatori di civiltà e cristianità a confronto con “l'inferiore razza africana”.

Dall'analisi condotta da Hicks, probabilmente influenzata anche dalle richieste della restituzione da parte del governo nigeriano e dalle manifestazioni di protesta del movimento Rhodes Must Fall avvenute a Oxford nel 2015, scaturisce il desiderio dell'autore di rimpatriare i bronzi del Benin oggi di proprietà del Pitt Rivers Museum. La riflessione di Hicks, espressa in un testo dal titolo eloquente (The Brutish Museums. The Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural Restitution) 6, assurge a manifesto per un cambiamento istituzionale dei musei e diviene una riflessione critica sulle azioni che i musei devono intraprendere a stretto contatto con ciò che avviene al di fuori delle loro mura: i musei devono acquisire un nuovo modo di operare che li possa legittimare quali istituzioni del XXI secolo. Per questi motivi Hicks auspica che i musei riconoscano pubblicamente le azioni violente che determinarono le sottrazioni coloniali illegittime ed in secondo luogo che non continuino a legittimare tale politica coloniale continuando ad impiegare gli ordinamenti originari, anche ricorrendo a descrizioni eufemistiche.

Secondo l'autore fino a ora l'espropriazione (perpetrata oltre un secolo fa) di oggetti appartenenti ad altre culture non è stata sottoposta ad una corretta valutazione; il volume di Hicks quindi rappresenta anche un richiamo all'etica del collezionismo e dell'esposizione “anti coloniale” 7, fortemente lontana dai principi di inferiorità razziali e anche dall'idea del “barbaro primitivo”.

Ma la riflessione di Hicks assume particolare rilevanza perché investe anche il ruolo del curatore del museo, che non dovrebbe esclusivamente promuovere la conservazione degli oggetti, ma in questo caso dovrebbe condividere nuove forme di conoscenza e processi culturali con i colleghi africani. Assicurarsi della provenienza degli oggetti e facilitarne la restituzione, ove richiesto, serve a una riflessione critica anche del pubblico per una migliore comprensione degli avvenimenti. Anche il campo e il metodo d'indagine dell'Archeologia Contemporanea (la materia insegnata da Hicks) rappresenta per il curatore inglese un esercizio per indagare ulteriormente l'assetto ancora coloniale del museo e per ampliare le possibilità di interazione fra l'Accademia e la società, con una vocazione che potremmo definire analoga ai principi della «terza missione» universitaria 8.


Il Weltkulturen Museum di Francoforte e Clémentine Deliss

Il processo di decolonizzazione si afferma in Europa anche attraverso operazioni museologiche e museografiche del tutto innovative, come quella realizzata da Clémentine Deliss: l'archivio e il deposito del museo si prestano a una rilettura delle collezioni. La stessa Clémentine Deliss ha fornito nuovi indirizzi di ricerca nell'ambito delle pratiche curatoriali connesse al processo di decolonizzazione dei patrimoni etnografici. La Deliss, dal 2012 al 2015 direttrice del Weltkulturen Museum di Francoforte, ha suggerito nuove soluzioni per esporre collezioni museali demo-etnoantropologiche. La studiosa ha lavorato nel campo dell'arte contemporanea prima di arrivare al Museo francofortese, dove si è servita di architetti, designer, registi, scrittori e artisti per avvicinare il mondo etnologico a quello artistico contemporaneo. Sulla scorta della concezione degli anni Venti del museo inteso come struttura dinamica e vivente 9, formulata da Carl Einstein al Museo di etnologia di Berlino, la Deliss ha reso il Museo di Francoforte una struttura museale post-etnografica, in cui artisti d'arte contemporanea con una spiccata sensibilità verso la cultura visiva hanno esplorato le collezioni del museo scegliendo oggetti da assemblare fra loro per sperimentare opere d'arte esposte in vetrine progettate ad hoc 10.

L'operazione messa in campo dalla Deliss attraverso allestimenti innovativi costituisce un tentativo di rendere leggibili, attraverso una lente diversa 11, le collezioni nate dall'appropriazione coloniale, rinchiuse prima dalle «classificazioni etnocentriche» della cultura occidentale e ora libere, perché considerate oggetto di dialogo in uno spazio laboratoriale e sperimentale di ampio scambio come il museo.

In base a questa concezione sono le stesse relazioni umane a fornire senso alle raccolte, magari in musei in cui negli anni Sessanta gli allestimenti mostravano impostazioni museologiche e museografiche poco inclusive. Nelle esposizioni curate dalla Deliss tavoli e sedute incoraggiavano i visitatori a fermarsi più a lungo per intraprendere discussioni sui temi individuati; sono stati organizzati laboratori per discutere le delicate questioni legate alla provenienza da un passato coloniale europeo.

Anche se per vari problemi la Deliss è stata costretta a lasciare il Museo di Francoforte, il lavoro che la studiosa ha svolto ha senz'altro lasciato una traccia indelebile nel processo di mediazione dei musei etnografici.


Il Museo Preistorico Etnografico Luigi Pigorini attraverso la lente di Vito Lattanzi

In Italia Vito Lattanzi, antropologo del Ministero della Cultura, ha avuto modo di sviluppare nuove riflessioni teoriche e pratiche curatoriali prevalentemente presso il Museo Preistorico Etnografico Luigi Pigorini (Roma). Lattanzi è conscio che la crisi del postmoderno implica nei musei l'esigenza di nuove narrazioni per un rapporto col pubblico diventato essenziale. Nel riscoprire il passato rendendolo di una modernità straordinaria, l'antropologo romano segue le teorie di storici e filosofi (specialmente Gianni Vattimo e François Hartog) per cercare di comprendere come i temi della condizione globale siano affrontati a livello locale e per analizzare l'etnografia del contemporaneo 12. Vari progetti elaborati al Museo Pigorini sono frutto dell'interesse di Lattanzi per l'etnografia del contemporaneo e per il museo partecipativo 13; tale forma di museo è caratterizzato da teorie e buone pratiche, focalizzate sempre più sull'inclusione dei pubblici. E nel caso dei musei etnografici una straordinaria opportunità su cui lavorare è offerta dal pubblico potenziale, rappresentato dalle seconde generazioni di immigrati che spesso conoscono poco o nulla il proprio paese di provenienza e relativi usi, costumi e tradizioni. «Da questo punto di vista, soprattutto le associazioni più radicate nel paese di immigrazione intravedono nel museo lo spazio ideale per costruire processi identitari più consapevoli e strategie politico-culturali condivise.» 14. Allestimenti e rappresentazioni in tali musei devono essere rispettosi dei traumi storici del colonialismo, che spesso invece sono sottaciuti e rimangono sottotraccia 15. Se così concepito, il museo etnologico può rappresentare nelle parole di Lattanzi «[...] un mezzo di comprensione del nostro modo di riconoscere la diversità, un utile antidoto contro le monologiche dell'eurocentrismo e – se si riesce a valorizzarne appieno il ruolo sociale – un potente dispositivo di riduzione del conflitto interculturale» 16. Secondo Lattanzi – così come altri autori citati in questa sede – il museo non prevede più il monopolio delle collezioni da parte dell'antropologo, ma diventa invece un formidabile dispositivo per la mediazione con la società civile, per la costruzione di identità culturali relazionali, per il coinvolgimento delle associazioni presenti nel territorio, che a loro volta potranno esporre le istanze delle relative comunità di riferimento in un'ottica inclusiva, polifonica e assolutamente fluida, in un'Europa ormai multiculturale.


Musei decolonizzati (e non) come dispositivi per un futuro cambiamento

Attraverso gli esempi del lavoro svolto da Hicks, Deliss, Lattanzi e altri, la decolonialità appare non solo come una riflessione sull'opportunità di esporre manufatti storici relativi a una certa fase, ma anche come un approccio alla conoscenza da attuare in istituzioni culturali connesse al territorio. Secondo questa visione, le comunità locali sono da considerarsi partner di un museo che deve essere inclusivo esprimendo la pluralità di voci emergenti dal territorio. Il patrimonio culturale/le collezioni rappresentano un'occasione di sviluppo di tali comunità, non solo per un'azione di affermazione dei propri diritti di fruirne, ma anche in termini di incremento di attori locali che costituiscono una cittadinanza consapevole e attiva (comunità di eredità della convenzione di Faro) 17. Questi attori locali e i pubblici consapevoli sono ormai dotati di diversi strumenti per entrare in contatto con altre culture del pianeta e ciò comporta una ulteriore e profonda trasformazione delle condizioni socioculturali in cui i musei coloniali erano stati istituiti.

I musei decolonizzati diventano oggi uno spazio della mediazione, un dispositivo per proporre con forza interpretazioni polivocali delle collezioni, anche attraverso nuove competenze altamente richiamate dalle museologie insorgenti 18. In questo senso il museo rappresenta un processo in divenire, frutto di società in continua metamorfosi ed evoluzione, la cui forma è maggiormente riconoscibile in America Latina dove la Museologia è considerata una disciplina afferente al campo della sociologia (non della storia dell'arte). In quella parte del globo la Museologia è quindi intesa come disciplina altamente legata al presente e attinente alle relazioni fra le persone e gli oggetti 19.

I musei stanno quindi cambiando, ma ancora la forma del museo coloniale non è stata di certo ovunque modificata; essa continua e continuerà a esistere almeno finché nelle accademie non si consentirà alla museologia indigena di far parte a pieno titolo delle pratiche contemplate dagli studi museologici 20.

            
            
            
            

NOTE

1 Cfr. VARINE 2017.

2 In Europa una spinta verso la decolonizzazione dei musei è stata fornita dal lavoro richiesto dal presidente della Repubblica Francese, Emmanuel Macron; cfr. SARR, SAVOY 2018.

3 Il Museo fu fondato nel 1884 e nacque dall'interesse di un militare, Augustus Henry Lane Fox, appassionato di armi, beni archeologici e antropologici. L'interpretazione di Hicks è che il Pitt Rivers Museum, nel quale lui identifica la matrice razzista, sia nato da creatori bianchi. Cfr. HICKS 2020.

4 Tale azione giustificata come punitiva dopo un'aggressione ai danni di alcuni inglesi, in realtà, faceva parte di un piano espansionistico finalizzato al dominio del continente africano, vittima del confronto delle nazioni europee. Una guerra mondiale ante litteram (definita con un neologismo da Hicks world war zero) protratta per tre decenni (dalla conferenza di Berlino del 1884 al 1914).

5 Alcuni oggetti furono donati alla Regina Vittoria, altri rimasero in possesso di ufficiali britannici, o venduti a mercanti d'arte privati, o andarono all'asta. La piattaforma Digital Benin (https://digitalbenin.org/) consente di risalire alla proprietà di migliaia di questi oggetti, oggi sparsi in più continenti. Solo una piccola parte di questi oggetti oggi è stata riportata in Nigeria, fra cui venti bronzi restituiti dal governo tedesco nel dicembre del 2022, cfr. Restituzione bronzi Benin dalla Germania.

6 HICKS 2020.

7 Hicks preferisce l'espressione processo “anti coloniale” nei musei, nelle raccolte e nelle esposizioni, invece che decolonizzazione.

8 La stessa Clémentine Deliss, nel Manifesto for the Post-Ethnographic Museum (Frankfurt/New York 2013) concepisce il museo universitario come dispositivo atto a introdurre «external impulses»; cfr. DELISS 2013.

9 Non a caso il titolo per il suo volume è Metabolic Museum, una creatura in cui assistiamo quasi a un processo osmotico fra manufatti delle raccolte del museo e lavoro degli artisti; cfr. DELISS 2020.

10 Questa operazione museologica appare chiaramente in una mostra temporanea, cfr. Object Atlas 2012.

11 La Deliss si rifà a Bruno Latour, che delinea nuove interpretazioni dei manufatti attraverso allestimenti creativi e innovativi; cfr. Deliss 2020, p. 64 note 51-52, p. 106 nota 104.

12 Cfr. LATTANZI 2021, p. 105.

13 Si rifanno a questi concetti molti dei progetti su cui Lattanzi ha lavorato, ad esempio la mostra – laboratorio Saperci fare. Educazione e comunicazione interculturale al Museo (2008) legata ai concetti di scambio, intercultura, diaspora; cfr. LATTANZI 2021, pp. 114-120. Sulle diaspore in rapporto alle collezioni coloniali sono stati avviati momenti di confronto fra musei etnologici europei, per ampliare rapporti fra culture e istituzioni differenti fra loro. Quest'ultimo lavoro ha dato vita al progetto READ – ME (2007), di cui capofila era il Musée Royal de l'Afrique centrale di Tervuren di Bruxelles; presso tale Museo si era costituito il comitato consultivo delle associazioni africane, rappresentate da membri residenti in Belgio e da persone scelte tra le comunità afro-belghe e lo staff museale (cfr. LATTANZI 2021, p. 124). A tale progetto hanno aderito il Musée du Quai Branly di Parigi, l'Etnografiska Museet di Stoccolma e il Museo Nazionale Luigi Pigorini, con l'obiettivo di rendere le diaspore occasioni di dialogo promosso dai musei. Un altro progetto, il RIME (2008), è stato creato per esplorare il rapporto tra museo etnografico e modernità e ha visto il coinvolgimento di un numero maggiore di strutture museali. Su tali progetti si veda LATTANZI 2021, pp. 122-127.

14 LATTANZI 2021, p. 125.

15 Sul sottacere legato a contesti e scelte decisionali a vari livelli della struttura museale, cfr. CIMOLI, CIACCHERI (2019).

16 LATTANZI 2021, p. 119.

17 Su questi temi si veda la recente pubblicazione Museo necessario 2023.

18 «Insorgenti» è il termine che Manuelina Duarte Cândido ha usato per stimolare nuove riflessioni e nuove pratiche dei musei, pur nel solco tracciato dalla Nuova Museologia, con un portato di carattere epistemologico rinnovato alla luce delle esperienze avvenute negli ultimi decenni prevalentemente nel continente latino-americano e in Europa. Museologie insorgenti, al plurale, per evidenziare la pluralità di iniziative, tendenze, origini geografiche di queste pratiche museologiche votate, in un'ottica decoloniale, comunque allo sviluppo locale. Sulle museologie insorgenti cfr. DUARTE CÂNDIDO 2020.

19 Interessanti le riflessioni sulle relazioni persone-oggetti espresse da sociologi, antropologi, archeologi, e a cui è legato il concetto di Museologia del continente americano. Cfr. ad esempio Life of things 1986; MURPHY, RATHJE 1992; HUMES 2013; INGOLD 2013; DEBARY 2019.

20 L'ingresso della museologia indigena si coniuga alla politica di restituzione, cfr. RASSOOL 2015 Re-storing; RASSOOL 2015 Human; RASSOOL 2018; HAKIWAI, MCCARTHY 2014; KAINE 2021; MCCARTHY 2023.

            
            
            

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Sitografia

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