Quando
ci troviamo dinnanzi ad un'opera d'arte, molto spesso esordiamo
con espressioni di giudizio quali “è bella”, “è brutta”,
“non mi convince”, abbandonandoci ad un'impressione globale di
ciò che appare, senza comprendere i reali meccanismi che muovono
quelle prime sensazioni e che ragionevolmente conducono l'osservatore
ad avere quella determinata percezione.
«"Vedere"
è un atto creativo; e il giudizio visivo non è contributo
dell'intelletto successivo alla percezione ma ingrediente essenziale
dell'atto stesso del vedere. Quanti, tuttavia, sanno prendere
coscienza del giudizio visivo, e tradurlo e formularlo? Sapere quali
sono i principi psicologici che lo motivano e quali sono le
componenti del processo visivo che partecipa alla creazione come
alla contemplazione dell'opera, significa sapere "che cosa",
in realtà, vediamo 1».
“Arte”
e “percezione” sono due ambiti strettamente correlati: alla base
della comprensione estetica vi sono sempre delle leggi ben precise
che regolano il nostro sistema percettivo, anche di fronte ad un
dipinto. Pertanto, la visione di un quadro non rappresenta
un'esperienza immediata e casuale ma il percetto ─ compreso
l'oggetto artistico ─ risponde ad una serie di regole che
governano la conoscenza dell'arte e del mondo in generale. Una
strada in tal senso sembra essere stata aperta da Ernst H. Gombrich
(Vienna, 1909-2001), storico d'arte i cui scritti e il cui pensiero
saranno utilizzati come punto di riferimento costante per lo
svolgimento dell'elaborato in oggetto. In base alla sua fervida
curiosità e ad un bisogno di necessità critica, l'esperto
viennese ha approfondito l'interessante ed arricchente rapporto tra
l'ambito della psicologia e quello dell'arte, aprendo nuovi
scenari sul tema della percezione e della rappresentazione pittorica.
Centrale, infatti, in questa tipologia d'approccio sono le scoperte
psicologiche ─ in particolar modo, quelle afferenti alla Scuola
della Gestalt ─ che permettono di ripensare all'arte con uno
sguardo del tutto nuovo. «Col progredire della comprensione dei
processi di percezione e di apprendimento, abbiamo dovuto modificare
le concezioni sulla comunicazione pittorica; per converso, vari
quadri e disegni, attraverso le esplorazioni delle leggi di
raggruppamento compiute dai gestaltisti hanno avuto profonde
implicazioni per lo studio della percezione visiva» 2.
L'obiettivo
del presente lavoro è proprio quello di analizzare ─ muovendosi
nell'intricato e complesso terreno d'intersecazione tra i due
ambiti in questione ─ il “mistero” della percezione artistica,
adottando una metodologia che permetta di cogliere le “strutture
significanti” che entrano in gioco dinnanzi ad un'opera. Si
tratta di un'operazione che consiste nel creare una sorta di
“spaesamento” rispetto alla tradizionale modalità d'approcciarsi
all'arte, trovando un nuovo ordine compositivo tra gli elementi che
sia in grado di rimandare ad una relazione inedita tra le varie
caratteristiche (espressione del volto, gestualità, giochi di luce,
fattori socio-culturali) che costituiscono la scena del dipinto.
Questo tipo di modalità non intende sostituirsi, con alcuna
intenzione, alla libertà creativa ─ che vedremo, essere essenziale
nel processo di realizzazione artistica ─ ma, piuttosto, vuole più
semplicemente offrire un nuovo spunto d'indagine, che possa
condurre ad una maggiore consapevolezza ed arricchimento
dell'esperienza estetica. Questi i presupposti teorici da cui muove
la trattazione seguente la cui volontà, va precisato, non è quella
di abbandonare la teoresi come fine a sé stessa ma, piuttosto, di
mostrare come ─ calandosi nella vita e nelle opere in cui ci
s'imbatte quotidianamente ─ sia possibile osare di più che
fermarsi ad un semplice sguardo distratto e superficiale.
«Il
gusto artistico è senz'altro qualcosa di assai più complesso del
gusto per i cibi e le bevande [...]. I grandi maestri hanno dato il
meglio di sé in queste opere, ne hanno sofferto, hanno sudato sangue
per crearle: il meno che possano chiederci è di cercare di
comprendere i loro intenti. Non si finisce mai di imparare in arte.
Ogni volta che ci poniamo dinanzi a esse, le grandi opere appaiono
diverse. Sembrano inesauribili e imprevedibili come veri e propri
esseri umani.
Formano
un mondo a sé, con le sue strane leggi e con i suoi eventi. Nessuno
deve presumerne di saperne tutto perché nessuno lo potrà mai» 3.
Pertanto,
queste riflessioni sull'arte hanno costituito una spinta
motivazionale per operare, in questa sede, un approfondimento che
ambisce ─ alla luce degli studi percettivi analizzati teoricamente
─ a svolgere un'analisi rispetto un campo d'indagine pratico,
circoscritto e ben delimitato. L'oggetto prescelto è la mostra
“Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630” (Fig. 1), un'esposizione tenutasi presso Palazzo Venezia nel
periodo compreso tra il 16 Novembre 2011 e il 5 Febbraio 2012, che
prende in esame il momento cruciale della
pittura vissuto nella Capitale all'inizio del XVII secolo,
periodo in cui sulla scena culturale ed artistica predominano
due “giganti” della storia dell'arte, Annibale Carracci e
Michelangelo Merisi, detto “Caravaggio”.
Fig. 1 – Locandina della Mostra
“Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630”
Foto cortesia di Ilenia Salzano
Attraverso la selezione
di una serie di opere ─ prese a campione esemplificativo ─
vedremo come sia possibile approcciarsi all'arte adottando la
poc'anzi citata “nuova ottica”. Il percorso segue un criterio
tematico, basato sulle principali “categorie percettive” emerse
grazie al sostrato teorico: l'espressività facciale, la gestualità
e il movimento nello spazio, il decorum, l'ambiguità e
l'interpretazione dell'osservatore e l'essenza dell'epoca.
Per ogni categoria percettiva, verranno ripresi i dipinti
maggiormente in grado di erigersi a “portavoce” dei concetti
enunciati, mostrando concretamente ─ mediante un equilibrato
connubio tra teoria e prassi ─ come l'opera, di volta in volta
selezionata, possa essere compresa attraverso la categoria percettiva
prescelta.
1.
L'espressività facciale
L'espressione
del volto rappresenta ciò che più incarna, in un'opera d'arte,
l'espressività del quadro in generale, ciò a cui l'osservatore
si rifà per cogliere l'essenza della raffigurazione pittorica. Si
tratta di una globalità che, da un lato, rimanda a caratteri stabili
a cui gli artisti s'attengono per raggiungere il perfezionamento
della loro creazione e, dall'altro, riconduce ad una soggettività
di cui solo il genio creatore del dipinto è l'unico artefice. A
tal proposito, l'epoca barocca rappresenta un importante campo
d'indagine, in quanto, per la prima volta nella storia dell'arte,
viene rappresentato il sentimento vivido sull'espressione dei
soggetti raffigurati. A risaltare è una sorta di compromesso tra la
“ragione” ─ che si esprime nell'idealizzazione e, in
particolar modo, nel carattere della simmetria ─ e il
“sentimentalismo” ─ dove la passione si fa spazio all'interno
di opere perfettamente misurate. «È vero che l'atteggiamento
psicologico delle figure nell'arte barocca è meno integrale delle
figure dell'arte rinascimentale [...] Il sentire dell'uomo
barocco è del tutto sincero, solo che non occupa per intero l'anima.
Il soggetto non solo sente, ma è anche consapevole di quello che
sente» 4.
Nella
Sibilla
Cumana 5
di
Domenichino (Fig. 2)
Fig. 2 – Domenico Zampieri detto il Domenichino
Sibilla Cumana, 1617
Roma, Galleria Borghese
Foto cortesia di Ilenia Salzano
si può notare come il volto della protagonista sia idealizzato
secondo i dettami del classicismo, convogliando nel risultato di
espressioni dai toni freddi e perfettamente armoniosi. Le fattezze
del viso della Sibilla
Cumana ─
la giovane ed elegante sacerdotessa di Apollo, così definita in
quanto residente nella città di Cuma in Campania ─ non è
manifesto di un'irruenta emozione ma, al contrario, rappresenta
perfettamente lo stato estatico della protagonista mitologica. Questo
dipinto viene commissionato a Domenichino dal Cardinale Scipione
Borghese, ma quest'artista dipingerà più Sibille che
rappresentano, tutte, raffinate figure femminili somiglianti tra loro
e dai tratti ben noti: volto rotondo, occhi grandi e sgranati rivolti
verso l'alto, naso piccolo e bocca semiaperta. La fisionomia
facciale della protagonista non è il risultato di grotteschi
accostamenti ma i singoli elementi del volto della sacerdotessa si
sposano in una perfetta armonia d'insieme. Le singole
caratteristiche facciali sono parti essenziali della comunicazione
percettiva ma da sole non appaiono sufficienti a conferire un certo
“tono” dell'espressione: fondamentali sono i legami che si
vengono a costituire tra di essi che costituiscono la cosiddetta
“struttura compositiva”, non visibile ma percepibile.
Inoltre,
la Sibilla,
proprio nei tratti del viso ─ secondo alcuni storici d'arte ─
ricorderebbe la Santa
Cecilia
di Raffaello, modello frequentemente utilizzato negli stessi anni da
Reni e altri artisti per la rielaborazione del medesimo soggetto.
Questi elementi confermerebbero che Domenichino abbia seguito uno
schematismo e delle regole ben precise nella rappresentazione dei
lineamenti espressivi di questa figura. Analogamente, anche in Venere
nella fucina di Vulcano 6
di Albani ─ seppur raffigurante un ritratto di gruppo e non un
unico soggetto in primo piano come nel caso di Sibilla
Cumana ─
è possibile scorgere una moltitudine di volti idealizzati, frutto di
un attento studio della simmetria e dell'armonia degli elementi che
compongono la faccia di tutti i personaggi. Venere, il marito, Diana
e gli stessi putti intenti nei loro atti giocosi presentano
espressioni perfettamente studiate e che si prestano al tema narrato
di base: l'amore. Non a caso «Herrmann Fiore ha posto in evidenza
le strette relazioni che legano la Sibilla Cumana [...] ai tondi di
Albani» 7,
entrambe opere realizzate per lo stesso committente, il Cardinale
Scipione.
Tuttavia
─ come già affermato ─, sebbene la fisiognomica sia una pratica
incentrata su una buona conoscenza di precise regole anatomiche, è
proprio nel Seicento che quest'attività inizia ad assumere anche
una connotazione differente, d'aspetto più psicologico. «La
stessa fisionomia dei personaggi riflette l'evoluzione che porta
dal classicismo rinascimentale al manierismo, e da questo al barocco;
e questo mutamento fisionomico è forse il sintomo più rivelatore
del processo psicologico che sta alla base dei fenomeni stilistici» 8.
La pittura inizia a direzionarsi verso una realtà esteriore e
psicologica al cui centro c'è la capacità di saper esprimere con
maestria i “moti” e le “passioni” dell'animo che trovano
massima espressione sul volto dei soggetti. Proprio di questo
movimento, sarà pioniere Caravaggio e i suoi seguaci che, senza
timore, ma, al contrario, con grande arguzia e coraggio, tenteranno
di raffigurare tramite l'espressione facciale i sentimenti umani
più disparati, da quelli più elevati ─ come la felicità, la
gioia, la tenerezza ─ a quelli più bassi e struggenti ─ come il
dolore, l'angoscia e la sofferenza. Come affermerà anche Panofsky
«l'essenza e la novità del barocco consistono proprio in questa
duplice riconciliazione di forze: un travolgente senso di eccitazione
soggettiva e la consapevolezza di questo sentire. L'uomo del ‘600
ha il cuore palpitante di emozione [...]» 9,
un'emozione che avverte la necessità di emergere anche in campo
artistico. La mostra “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630”
conferma proprio questo concetto presentando una moltitudine di opere
in cui le passioni dei soggetti raffigurati ─ al di là degli
aspetti stilistici e della tecnica ─ emergono con irruento impeto,
quasi a voler uscire dalla tela.
La
Madonna
con Bambino 10
(Fig. 3)
è stata realizzata da Artemisia Gentileschi, una delle artiste di
questo periodo più in grado di riportare su tela con estrema
vividezza i sentimenti umani. Ad emergere in quest'opera è,
infatti, il viscerale e tenero legame tra madre e figlio fatto di
dolci sguardi e tenere carezze: «il bambino staccatosi dalla
mammella, sta regalando una carezza dalla intuitiva simbologia
consolatoria. Maria sembra già entrare in uno stato di torpore di
inedita dolcezza» 11.
Fig. 3 – Artemisia Gentileschi,
Madonna con Bambino, 1610
Roma, Galleria Spada Foto cortesia di Ilenia Salzano
Il più classico dei soggetti devozionali viene rappresentato in
un'originale scena intima dove il protagonista principale appare un
incondizionato rapporto d'amore, come fedele specchio dei rapporti
umani reali. Questo amore è palpabile proprio mediante le
espressioni dei due protagonisti che ─ grazie alla sapiente
maestria di Artemisia ─ sembrano colti, con i loro reciproci
sguardi e fattezze, in un dialogo a due, estraneo al contesto
circostante. Se dovessimo rifarci al registro linguistico di
Gombrich, attraverso la fisionomia dei lineamenti del viso dei due
soggetti e, in particolar modo della Madonna, ad emergere è la
“soggettività”, il “carattere”, l'“anima” del dipinto
che ─ al di là della brillante resa di colori e di qualsivoglia
tecnicismo ─ cattura lo sguardo esterno, guadagnando fama ed
ammirazione. Quest'opera si distingue, per certi versi, dall'altra
Madonna
con Bambino 12
esposta in mostra e dipinta, proprio, dal padre di Artemisia, Orazio
Gentileschi. Si tratta di un quadro realizzato da quest'ultimo
qualche anno prima rispetto a quello della figlia Artemisia, e che ha
condotto ad altrettanta attenzione e riflessione da parte degli
storici dell'arte. Anche in questa tela, la Madonna
e il Bambino
non
rivolgono lo sguardo allo spettatore ma il momento appare sugellato
in uno scambio di sguardi reciproci tra i due soggetti pittorici.
Ciononostante, Orazio fa parte di quella schiera di pittori che
tendono a riprodurre con un'importante dose di idealizzazione ─
propria della corrente classicista ─ le proprie opere, motivo per
cui, questo dipinto appare molto più mite e composto rispetto quello
di Artemisia, dove a colpire è una maggiore carica di pathos,
una passione travolgente espressa attraverso la stessa fisiognomica
delle figure. La pittrice è in grado di rappresentare perfettamente
sul volto della Madre e di suo figlio la tematica dell'“amore
materno”, quelle emozioni coinvolgenti ed eterne tipiche del
sentire femminile.
La
soggettività in mostra, però, non emerge solo tramite emozioni
positive ma ad attirare particolarmente l'attenzione sono alcuni
dipinti dove le passioni umane più dolorose ─ che connotano,
assieme a quelle più felici, la stessa esistenza umana ─
coinvolgono lo spettatore con estremo realismo, quasi a renderlo
partecipe dell'emozione vissuta da colui che è raffigurato
nell'opera. Alcuni degli esempi più lampanti appartengono a
rappresentazioni di natura sacra che hanno come protagonista Cristo ─
non a caso soggetto con cui si esprime la sofferenza assoluta ─.
L'opera
Ecce
Homo 13
rappresenta,
forse, il dipinto più noto del Cigoli, un capolavoro realizzato
sotto commissione del nobile romano Massimo Massimi che, si narra,
aver richiesto lo stesso compito anche al Passignano e al Caravaggio,
i quali, tuttavia, non raggiungeranno gli stessi risultati di Cigoli.
Si tratta di una “competizione artistica” che Massimi indice
sulla tematica cristologica e, in particolar modo, sull'“Ecce
Homo”, ossia il momento della Passione di Cristo, in cui Gesù,
dopo essere stato flagellato, viene presentato al popolo in segno
dell'avvenuto sacrificio. Vincitore di questa gara è proprio il
Cigoli, probabilmente, per il crudo realismo con cui riesce a
riportare nel suo dipinto la drammaticità della scena. Sul volto di
Cristo si leggono chiaramente i sentimenti tipici dell'arte
barocca, dove il bello della composizione si fonde con il sentimento
della sofferenza dell'anima. «Non è una tensione che cova
sotterranea [...]: qui i conflitti e i contrasti [...] cominciano a
fondersi in una nuova sfera di emozioni altamente soggettive, che si
manifestano in valori ben precisi come l'espressività dolcemente
soffusa dei volti» 14.
Il dolore, l'angoscia, la sofferenza non rappresentano più
sentimenti che devono essere mitigati all'insegna del “bello
ideale” ma costituiscono un elemento fondamentale che deve trovare
piena espressione nell'opera.
Sulla
stessa scia anche la Sepoltura
di Cristo 15
di Van Baburen, dove, più che sul volto di Cristo (in penombra),
emozioni toccanti sono lette sulle espressioni dei partecipanti alla
scena, e l'Incoronazione
di spine 16
di
Salini, dove l'aria di rassegnazione di Cristo è resa in maniera
ancor più lampante da un arguto gioco chiaroscurale.
Un
altro esempio di differente genere ma che non può mancare rispetto
alla tematica della “percezione fisiognomica” è sicuramente il
David
con la testa di Golia 17
(Fig. 4):
in mostra vengono riportate
ben
quattro opere raffigurante questo soggetto ma, per comodità di
narrazione, si è scelto di analizzare il David
di
Nicolas Régnier, che può essere considerato esemplificativo di
alcune caratteristiche comuni anche agli altri dipinti raffiguranti
la medesima scena.
Fig. 4 – Nicolas Régnier
David con la testa di Golia, 1615-1620
Roma, Galleria Spada
Foto cortesia di Ilenia Salzano
In questo quadro, i protagonisti sono due volti
dai tratti ben marcati, quello di Davide, eroe trionfante che col
braccio destro sorregge il capo appena reciso con la spada, e il
volto di Golia che, seppur ormai spirato in seguito all'avvenuta
decapitazione, appare segnato da un naturalismo che lo fa percepire
agli occhi di chi osserva quasi ancora vivente. Ciò che colpisce
dell'opera è la sofferta espressione del viso del protagonista
che, guardando direttamente lo spettatore, sembra rivolgergli quasi
una richiesta di partecipazione. «Il nostro Davide guarda lo
spettatore compiaciuto e amareggiato insieme, assorto, nei propri
pensieri, nella consapevolezza di avere avanti a sé ancora un lungo
percorso da compiere» 18.
Il volto espressivo del David, la mano chiusa a pugno che tiene la
terribile testa mozzata di Golia, l'elegante corpetto che lascia
intravedere il collo e parte del torace e la scena tutta in primo
piano rendono la composizione incredibilmente attraente. Ma è,
soprattutto, sul volto del protagonista ─ studiato con minuziosità
di dettaglio ─ che l'artista riesce ad imprimere il messaggio
globale dell'opera, rendendolo così comunicativo. Anche in questo
caso, un attento studio fisiognomico e un sapiente uso di luce ─
che si staglia sul lato destro di entrambe le figure ─ contribuisce
a rendere Régnier sapiente interprete dell'animo umano.
2.
La
gestualità e il movimento nello spazio
L'idea
che il vero sia più commovente di qualsiasi altra invenzione
raggiunge chiaramente livelli assoluti nell'epoca barocca, periodo
in cui la necessità di realizzare una rappresentazione più
realistica possibile diventa uno degli obiettivi principali dei
pittori naturalisti e committenti del Seicento, soprattutto per
quanto riguarda dipinti devozionali o pale destinate ad oratori. A
contribuire al raggiungimento di tale scopo, fondamentale diventa la
capacità dell'artista di creare la sensazione di “dinamicità”
e “movimento” nell'opera, riuscendo a riprodurre scene ad
“immagine e somiglianza” degli episodi reali. Questo è ben
visibile nel San
Michele arcangelo e il diavolo 19
di Orazio Gentileschi (Fig. 5).
Fig. 5 – Orazio Gentileschi
San Michele arcangelo e il diavolo, 1608
Farnese, Chiesa del Santissimo Salvatore
Foto cortesia di Ilenia Salzano
La
scena del dipinto riprende, in maniera particolarmente suggestiva ed
intensa, il momento in cui San Michele arcangelo scaccia il diavolo
all'inferno. Si tratta di un momento di lotta tra due forze
antagoniste ─ che si può affermare incarnino rispettivamente la
personificazione del “bene”, l'arcangelo, e del “male”, il
diavolo ─ dove centrale diventa mettere in luce l'anatomia e il
dinamismo dei corpi. Le linee oblique che seguono l'andamento delle
due figure, ─ che appaiono come allungate, suggerendo all'occhio
dello spettatore la direzione da seguire ─, donano una sensazione
di squilibrio che suggerisce l'idea di movimento in atto, così
come la piegatura delle ali di entrambi i personaggi rimanda all'atto
del “battito”. Il senso di dinamicità, in questo caso, è
rimandato dalla stessa posizione dei soggetti che appare “decentrata”
(quasi fuori campo) rispetto alla centralità dell'immagine e dalle
linee di forza che accompagnano i loro corpi e seguono il criterio
dell'obliquità. «L'orientamento obliquo è probabilmente il
mezzo più elementare ed efficace per ottenere una tensione guidata»
20.
Inoltre, a questa percezione di dinamismo contribuisce sicuramente
l'uso della luce ─ file rouge che lega la maggior parte delle
opere presenti in mostra ─: riproducendo il rapporto chiaroscurale,
Gentileschi, dona più volume e strutturazione ai corpi impegnati
nella lotta che si staglia su uno sfondo scuro e profondo. Il gioco
di contrasti crea un sapiente equilibrio tra parti in ombra e parti
in luce facendo risaltare in modo ottimale l'anatomia delle figure,
anche se grazie ad un vivace uso del colore viene maggiormente
esaltato il personaggio di San Michele. Questi strumenti rendono più
realistico il movimento che, in tal modo, dà la percezione di
compiersi.
Un'altra
opera interessante dal punto di vista del movimento è quella di
Giusto Fiammingo, La
fuga del giovane nudo 21
(Fig. 6),
che narra l'episodio del Vangelo nel momento in cui Cristo è stato
arrestato, e un giovane nudo, con al seguito una schiera di soldati,
fugge facendo cadere il panno di lino in cui si trova avvolto. In
quest'opera, innanzitutto, ciò che emerge, a primo impatto, è la
presenza di due nuclei distinti: secondo la cosiddetta legge della
vicinanza, le figure a sinistra appaiono come costitutive di un unico
gruppo, quello dei soldati, isolando la figura maschile a destra,
rappresentata, per l'appunto, dal giovane nudo.
Fig. 6 – Giusto Fiammingo
La fuga del giovane nudo dopo la cattura di Cristo, 1615-1625
Roma, Collezione Vincenzo Giustiniani
Foto cortesia di Ilenia Salzano
Il dipinto incarna
una scena estremamente dinamica in quanto deve rappresentare il
momento della “corsa” e per farlo il pittore si serve di una
serie di espedienti. Anche in questo caso, sicuramente la sensazione
di “movimento” è generata dalla quantità di linee oblique su
cui sono state realizzate l'interezza del corpo del protagonista,
le braccia alzate e le gambe dei soldati; d'aiuto è anche la
raffigurazione studiata dei muscoli, com'è ben visibile rispetto
il braccio sinistro del soldato in primo piano, che attraverso un
sapiente gioco di luci, rimanda alla “forza” e alla “tensione”
implicita nel gesto dell'uomo di fermare il giovane fuggitivo. Ma
ciò che più è in grado di evocare il carattere dinamico dell'opera
è proprio il panno di lino al centro della scena: la sua lunghezza e
le numerose pieghe che lo contraddistinguono rimandano alla distanza
e, al contempo, al legame intercorrente tra i due nuclei prima
accennati, i soldati e il giovane, e alla velocità tipica del
movimento in atto. Tutte le principali direttrici, dal braccio teso
del soldato a quello del giovane nudo che cerca di tirare la tela,
alle lance e alle braccia alzate dei soldati, ai loro sguardi e alla
testa del protagonista inclinata e rivolta all'indietro guidano
l'occhio dell'osservatore verso il punto d'equilibrio
dell'episodio, che sembra coincidere proprio con il mantello.
Ovviamente,
la comprensione del movimento dipende anche dalla chiarezza del suo
significato. Alla presa di consapevolezza finale di un'opera
d'arte, oltre alle indiscusse capacità percettive, concorre sempre
l'abilità di saper leggere la sua storia mediante il cosiddetto
registro simbolico e i segni convenzionali. Questo accade perché
linee, forme, colori e movimenti non possono essere spogliati della
loro veste simbolica senza cui la percezione dell'osservatore non
potrebbe definirsi altrettanto chiara. È importante evidenziare che
quello della gestualità è un tema ampiamente affrontato in arte non
solo da Gombrich ma anche da altri noti esperti che si sono occupati
della centralità della comunicazione non verbale, quali Chastel
(2000), Dalli Regoli (2000), Chastel (2002), Ferraro (2002) ed infine
La Porta (2006) 22.
La maggior parte dei dipinti del XVII secolo sono commissioni
pubbliche raffiguranti soggetti religiosi e, pertanto, necessitano di
un linguaggio che permetta di comprendere il momento immortalato
nell'opera. Per esempio, nel quadro che abbiamo poc'anzi
analizzato di Gentileschi è raffigurata una scena precisa della
storia: l'attimo in cui l'arcangelo San Michele affronta il
diavolo. Ma se lo spettatore non fosse a conoscenza della storia di
San Michele e, più in particolare, del suo specifico ruolo di angelo
deputato a difendere i cieli contro le orde di Satana, probabilmente
sarebbe difficile distinguere cosa sta accadendo nel quadro di
Orazio. Pertanto, oltre all'indiscussa conoscenza della storia, la
gestualità e alcuni simboli concorrono a permettere una più chiara
attribuzione di significato da parte dello spettatore. San Michele,
dipinto con ali bianche ─ tipiche della figura angelica ─ è
colto nell'atteggiamento di chi, con la sua spada, è pronto a
scagliare il colpo finale mentre il diavolo ─ raffigurato con le
ali da pipistrello e la coda da satiro ─ porta al proprio volto il
braccio sinistro in segno di difesa. Si tratta del classico
atteggiamento di “trionfo” del vittorioso e di “difesa” della
vittima che sembra ritornare spesso in arte, soprattutto, in scene di
battaglia e di temi come l'uccisione. Questo, assieme ad altre
espressioni gestuali, concorre alla lettura dell'opera, com'è
possibile osservare anche mediante l'analisi di altri dipinti
presenti in mostra.
Questa
combinazione di espressioni gestuali e di movimenti si inseriscono
sempre ─ come possiamo vedere anche dai quadri poc'anzi
analizzati ─ in uno spazio d'insieme dove ogni elemento appare
armonico rispetto al tutto. Il quadro si presenta come un ecosistema
costituito da elementi che si trovano in un rapporto di perfetta
relazione tra loro, proporzionalmente al messaggio dell'opera che
si vuole trasmettere. «L'immagine è quella cartina al tornasole
che ci consente di dimostrare quanto, così combinati, gli elementi
siano divenuti di per sé impercettibili come entità isolate e siano
invece affettate dall'osservatore come un complesso [...] L'opera
è esperita come qualcosa che è e si dà nella sua forma intera» 23.
Così alcune opere presenti in mostra, più di altre, offrono alla
percezione visiva questo meraviglioso concetto di “armonizzazione”
in cui ogni soggetto pittorico acquista la sua specifica funzione.
La
struttura compositiva dell'Incoronazione
della Vergine 24
di
Bartolomeo Manfredi (Fig. 7)
Fig. 7 – Bartolomeo Manfredi
Incoronazione della Vergine con i santi
Giovanni Battista, Maria Maddalena e Francesco, 1615-1616
Leonessa, Chiesa di San Pietro
Foto cortesia di Ilenia Salzano
dimostra la capacità dell'artista di saper padroneggiare ed
organizzare in maniera sicura la regia degli spazi. In quest'opera,
per ogni tipo di rapporto spaziale, c'è una distanza esatta tra i
soggetti pittorici: punto d'equilibrio sembra essere Maria ─
collocata appena sopra quello che è percepibile come il “centro”
dell'opera ─ cui appaiono ruotare intorno ed assumere precisa
posizione tutti gli altri personaggi. In base a questo equilibrio,
sono studiati anche gli oggetti del dipinto e la gestualità dei
protagonisti, i quali assumono specifico ruolo, uno in funzione
dell'altro. Nella parte alta, a destra, Dio Padre poggia una mano
sul globo e l'altra sulla corona che si accinge a mettere sul capo
della Madonna assieme a Cristo, sua giovane emanazione, realizzato in
maniera perfettamente speculare dall'altro lato del dipinto. In
basso, la Maddalena che si rivolge con sguardo estatico e l'intera
posizione del corpo verso la Vergine, San Francesco inginocchiato al
centro e col capo alzato osserva lo scenario in atto e Giovanni il
Battista che, indicando la Madonna, sembra guardare direttamente lo
spettatore ─ suggerendo di direzionare l'attenzione verso la
scena in corso, l'Incoronazione della Vergine ─. Tutti i
personaggi, i loro gesti e gli oggetti presenti nel quadro sottendono
dunque una sorta di collegamento che li unisce gli uni agli altri: i
soggetti connessi tra di loro costituiscono un'unità ed è questo
che dona coesione visiva al quadro, il rapporto stabilito tra tutti i
suoi elementi. Qualsiasi minima alterazione, causerebbe
un'instabilità della globalità attualmente percepita come
perfettamente in sintonia. «In genere, tutte le posizioni che
coincidono con uno dei punti salienti dello schema strutturale
vengono ad introdurre un elemento di stabilità [...] un effetto
spiacevole rende oscuro il giudizio visivo ed interferisce col
giudizio percettivo dello spettatore» 25.
Inoltre, è possibile notare un chiaro tentativo dell'artista di
creare un'opera “ordinata” che muove su un livello di
“simmetria bilaterale”: i personaggi ai lati sono disposti
formando una coppia identica e speculare e tutto è creato in
funzione del centro. Si tratta di una struttura tipica di molte
rappresentazioni divine, un'impostazione elementare in grado di
restituire una sensazione di stabilità allo spettatore, il quale, in
questo modo, potrà distinguere più chiaramente le forme semplici da
quelle più complesse e ristabilire l'ordine del quadro, non avendo
la percezione che qualcosa sia sbagliato, sbilanciato o mancante. È,
dunque, evidente ─ come sostenuto anche da Gombrich e Arnheim ─
come l'opera d'arte non sia un processo casuale ma, al contrario,
l'artista, tramite tentativi ed errori, debba cercare di arrivare
al risultato “perfetto” in cui ogni forma, posizione e gesto si
inserisce in uno spazio analiticamente e geometricamente studiato in
funzione del tutto.
In
più, questi rapporti spaziali non giocano solo all'interno del
quadro ma l'opera in questione ─ e, più in generale, la pittura
barocca ─ appare priva di confini delimitati, facendo preludere ad
un carattere d'infinitezza dello spazio. Alcuni dipinti della
mostra giocano, proprio, su una osmosi tra spazio interno ed esterno,
dove non solo Cielo e Terra sembrano mischiarsi tra di loro ma paiono
anche presagire una profondità ed illimitatezza che si estende oltre
i confini dell'opera stessa. Questa nuova struttura spaziale crea
la cosiddetta “illusione percettiva” di uno spazio aperto ed
infinito, che si protrae oltre i limiti delle dimensioni reali della
tela. La libertà d'espressione di questo periodo artistico è,
infatti, osservabile in tutti i campi: dalle espressioni del volto ai
gesti, dai colori vivaci agli scenari rappresentati, dalle posizioni
assunte dai soggetti alla completa gestione dello spazio.
Quest'ultimo non costituisce più un'area circoscritta ed
opprimente ma si apre, invece, ad uno “sconfinamento” privo di
qualsiasi limite come è possibile notare, esemplarmente, anche
nell'opera San
Francesco d'Assisi in atto di rendere il bambino alla Vergine 26
di Orazio Borgianni.
3.
Decorum, potere e “senso dell'ordine”
Durante
l'epoca barocca, il decorum diventa importante per
evidenziare lo status e la posizione di un personaggio: in un periodo
di piena Riforma cattolica, le immagini di figure riccamente vestite
rappresentano un modo per affermare l'autorità delle persone
importanti. Molti santi, principi e pontefici vengono rappresentati
secondo elementi fisici, gesti ed oggetti che li caratterizzano e
tendono ad identificarli.
Il
San
Gregorio 27
di
Anastasio Fontebuoni (Fig. 8)
Fig. 8 – Anastasio Fontebuoni
San Gregorio Magno benedicente, 1606-1607
Roma, Chiesa di San Gregorio al Celio
Foto cortesia di Ilenia Salzano
rappresenta una delle opere, se non l'opera, che nella mostra in
questione perfettamente incarna il senso di “ decorum”,
così come inteso nel presente lavoro, ovvero l'insieme di
oggettualità che fornisce senso ed ordine all'immagine osservata.
Questo dipinto s'inserisce in un movimento che vede il culto della
figura di Papa Gregorio Magno come uno strumento per la diffusione di
una nuova immagine e di rinnovamento dell'istituzione
ecclesiastica. «La diffusione della sua iconografia nei primi due
decenni del Seicento va letta anche con una precisa volontà
pedagogica, di nuovo apostolo teso alla repressione dell'eresia
protestante» 28.
Conformemente a questo spirito controriformato, la sua immagine
appare intrisa di “dignità”, carattere che si esprime
principalmente attraverso la totalità degli attributi presenti nel
dipinto: il triregno o tiara papale inanellato di numerosi diademi
che culmina in un piccolo globo crucigero, l'abito papale finemente
ricamato e abbottonato sul davanti con una broche con pietre
preziose, un libro nella mano sinistra, che identifica San Gregorio
come dottore della Chiesa, e la scarpa che spunta leggermente sotto
il mantello con minuzia di particolari che ne fanno dedurre la
ricchezza del materiale. L'insieme di questi indizi iconografici
non possono essere considerati come meri accessori presenti in un
dipinto ma contribuiscono, piuttosto, a dare forma e significato al
dipinto stesso. «La decorazione è fatta per il volto ma il volto è
predestinato alla decorazione, esiste solo grazie ad essa. Qui
davvero l'ornamento è l'atto stesso del reale, è l'aprirsi
del simbolico» 29.
Essi aiutano a conferire i caratteri di “dignità” e “decenza”
al personaggio raffigurato e, anche, a modulare le aspettative dello
spettatore: di fronte a questi elementi, chi guarda l'opera potrà
cercare di dedurre l'atteggiamento interiore del Pontefice, il suo
stile di vita e il tipo di ambiente all'interno del quale si trova
ad operare. Dunque, l'efficacia di ogni segno ed attributo
pittorico è data dal fatto che esso non si limiti alla funzione di
abbellimento ma diventi un vero e proprio elemento essenziale al tipo
di messaggio che l'artista vuole comunicare e alla stessa
costruzione dell'opera. Non a caso, il medesimo repertorio
oggettuale ─ nonostante le importanti differenze stilistiche dei
due quadri ─ è presente anche nell'altro San
Gregorio Magno 30
presente in mostra, quello di Jusepe de Ribera.
Da
un punto di vista percettivo, il decoro non è, tuttavia, solo
essenziale a dare significato all'immagine ma anche a creare il
noto “senso dell'ordine” gombrichiano all'interno del quadro
che stiamo osservando. Ricordiamo che lo stesso termine “decoro”
deriva dal latino decorum
che
significa “star bene, convenire, addirsi, confarsi”, e proprio
l'oggettualità presente in San
Gregorio Magno conferma
come si tratti di qualcosa che s'integra perfettamente nella
struttura interna dell'opera, creando un certo ordine spaziale.
Osserviamo l'emblema di ciò che stiamo asserendo, la tiara papale:
essa è costituita da una triplice corona ─ simbolo del triplice
potere del pontefice ─ ma, soprattutto, da una sequenza di motivi
raffigurati al suo interno che si ripetono con cadenza regolare. Si
tratta del cosiddetto “ritmo lineare alternato”, costituito da
due elementi differenti per forma, colore e dimensione che continua a
ripetersi in successione nella decorazione della superficie
dell'oggetto. Oppure, anche i motivi ricamati sull'abito papale
non sono stati realizzati in modo casuale ma presentano uno
schematismo di fondo che ritorna in modo ridondante per tutta la sua
lunghezza. Questi elementi contribuiscono a dare “ordine” e
“linearità” alla rappresentazione pittorica e, soprattutto, a
orientare l'occhio dell'osservatore che attraverso la coerenza
strutturale non brancolerà nel caos
ma
sarà guidato da una perfetta armonia. «L'eterno, ordinato
ritorno dei motivi che, tra logica matematica inflessibile e
continuità ritmo-organica, dimora nel cuore dell'ornamento [...]»
31
scandisce la narrazione della figura stessa. È quest'ordine a
determinare quella determinata percezione visiva del soggetto che ─
come sostengono le posizioni teoriche di Gombrich e Arnheim ─
tenderà sempre più alla semplicità che alla complessità. Non si
tratta più, dunque, di ridurre la questione alla, ormai
consuetudinaria e obsoleta, differenza tra “elementi necessari”
ed “elementi superflui” ma il decorum
costituisce piuttosto, un elemento che tra i tanti fa parte del senso
unitario interno alla scena raffigurata.
«Se
la decorazione dipende dalla struttura non è più decorazione [...].
La decorazione crea il volto, lo porta alla luce: solo esso dona,
conferisce al volto dignità umana, valore sociale e significato
spirituale. Qui cade ogni differenza aprioristica tra fondamento e
supplemento, tra ornamento e struttura. Perché non è che volto e
decorazione siano immediatamente la stessa cosa: piuttosto si
compongono in unità 32».
Infine,
il caso ancora più emblematico del Tabernacolo
portatile con la Pietà 33
a cui hanno collaborato Annibale Carracci ed altri artisti mostra ─
forse, in modo ancor più evidente ─ come quest'opera senza la
sua struttura decorativa non sarebbe più identificabile nel
Tabernacolo
ma costituirebbe del tutto “un'altra opera”, diversa da questa.
Osservare questa creazione artistica togliendola del suo impianto
decorativo equivarrebbe a “spogliarla” di parte del suo
significato, conducendo lo spettatore ad una differente percezione.
Ciò, per rimarcare ancora una volta come senza il decoro ─
ribadiamo, in questa sede, inteso nel senso più ampio del termine,
ossia come oggettualità, interna ed esterna all'opera, che
fornisce significato ed ordine alla scena ─ la configurazione del
dipinto veicolerebbe un altro messaggio. Esso contribuisce alla
coesione, alla significazione e all'unità essenziale a cui
l'artista mira, ancor più in un periodo storico-culturale dove lo
sfarzo e la teatralità sono designati a strumento di comunicazione
imprescindibile. «La grande decorazione barocca interpreta
perfettamente le fastose esigenze dei principi romani, laici ed
ecclesiastici»34
e caratterizza, in questo modo, non solo il senso del singolo ma lo
spirito di un'intera epoca.
4.
L'ambiguità e l'interpretazione dell'osservatore
L'interpretazione
di un'opera è sempre anche soggettiva e dipende dalle informazioni
che una mente ha a propria disposizione: oltre alle indubbie capacità
percettive innate, ognuno di noi può fornire un proprio punto di
vista sull'opera ─ simile o differente da altri ─ a seconda
della personale esperienza di vita vissuta. Se un uomo è capace di
individuare i diversi rapporti proporzionali, di astrarre le forme
semplici da quelle complesse, di orientarsi nello spazio, sarà anche
in grado ─ seguendo quella che rappresenta una tendenza naturale
innata di fronte ad un'opera d'arte ─ di fornire una personale
interpretazione di ciò che sta osservando. Si tratta della fase in
cui lo spettatore ─ attraverso uno stadio d'attenzione più
focalizzato e la messa a fuoco di dettagli rilevati nella percezione
iniziale ─ cerca di attribuire significato globale all'opera che
ha di fronte. Il fruitore, elaborando le informazioni percepite ed
integrando le proprie conoscenze, aspettative ed esperienze contenute
nel proprio bagaglio culturale, sfocia nella creazione di
significati, letture ed interpretazioni varie.
«Tendiamo
a proiettare vita e espressione sull'immagine arrestata e ad
aggiungere in base alla nostra esperienza ciò che non è presente.
Perciò il ritrattista che voglia compensare la mancanza di
movimento deve innanzitutto mobilitare la nostra proiezione. Egli
deve sfruttare l'ambiguità della faccia immobilizzata in modo che
la molteplicità delle possibili letture diano luogo alla parvenza
di vita 35».
Un
esempio concreto di dipinto che innesca la “soggettività”
dell'osservatore sembra essere fornito dall'opera con cui
Artemisia Gentileschi fa il suo esordio nel contesto artistico
romano, Susanna
e i vecchioni 36
(Fig. 9).
Fig. 9 – Artemisia Gentileschi
Susanna e i vecchioni, 1610
Pommersfelden, Collezione Graf von Schönborn, Schloss Weissenstein
Foto cortesia di Ilenia Salzano
L'ambiguità non riguarda solo un oggetto o un dettaglio specifico
all'interno del quadro ma anche la stessa natura della realtà che
l'autore vuole comunicare. In questo dipinto ─ dall'artista
realizzato più volte nel corso degli anni per giungere al risultato
desiderato ─, una giovane donna nuda ─ coperta solo da un panno
bianco che cela le sue parti intime ─, Susanna, appare seduta su un
gradino di pietra mentre dietro di lei, in posizione più elevata,
due uomini sembrano rivolgerle la loro attenzione, sporgendosi in sua
direzione. Naturalmente, anche in questo caso, parliamo di un'opera
oggetto di grande critica e di dibattito da parte degli storici
d'arte proprio perché si presta a varie visioni. Le
interpretazioni predominanti ─ in base all'episodio biblico
narrato nell'Antico Testamento ─ afferiscono ad una chiave di
lettura di tipo femminista ed autobiografica: la scena narrerebbe
l'episodio di molestia subito da Susanna da parte di due uomini
anziani che frequentavano la casa della donna e si invaghirono di
lei, chiedendole favori sessuali. Altre ─ che fanno leva sulla
nudità in primo piano ─ rimandano, invece, a risvolti dai tratti
erotici, tema oltretutto frequente nelle rappresentazioni dell'epoca.
Le ipotesi sono più di una e quasi tutte convogliano ─ in virtù
di un fattore culturale che vede nella storia umana la supremazia
della figura maschile rispetto quella femminile ─ nella direzione
di una donna “sottomessa” o, in qualche modo, “disturbata”
dalla presenza dei due uomini raffigurati alle sue spalle. «Il focus
emozionale dell'episodio narrato è centrato sul sentimento avverso
alla violenza» 37.
Ma
chiunque si trovi ad osservare questo quadro trarrà le proprie
conclusioni in base alle proprie conoscenze e alla propria esperienza
di vita, la quale ─ plasmata ovviamente anch'essa dall'ambiente
─ presenterà comunque sempre un aspetto individuale. Infatti, di
fronte a uno sguardo scevro di conoscenza inerente al testo biblico,
alla vita dell'artista e al contesto cui ella appartiene ed opera,
i “vecchioni” potrebbero essere interpretati come semplici
passanti che si scambiano opinioni sull'abbigliamento indecoroso
della donna, uomini intenti nell'atto di disturbarla o ancora
conoscenti che vogliono richiamarla ... Susanna
e i vecchioni
è un'opera che non appare già “definita” ma che, proprio per
la sua incompletezza ed apertura all'interpretazione, cattura
l'attenzione dello spettatore a cui è richiesta una sorta di
partecipazione attiva. «Lo stesso elemento di ambiguità e mistero
ci fa leggere il dramma in termini di emozioni interne, e una volta
che siamo sintonizzati su questa interpretazione proiettiamo in
misura crescente su questi gesti ed espressioni pacate un'intensità
maggiore di quella che probabilmente vedremmo [...]» 38.
L'artista realizza una scena scarna che punta a descrivere in modo
essenziale il fatto narrato: vengono dipinti solo i protagonisti
dell'episodio (lo sfondo appare privo di paesaggio e di altre
persone che potrebbero contribuire alla lettura dell'opera),
caratterizzati nei loro gesti ed espressioni eloquenti. Tuttavia,
proprio l'insieme dei dettagli in cui Artemisia si prodiga per
condurre ad un'interpretazione dell'opera ben precisa e ad uno
“svelamento” della tematica sottostante ─ il telo posto sulle
parti intime della protagonista, l'espressione di disprezzo
leggibile sul suo volto, la gestualità delle mani ─, in realtà,
contribuisce ad una sorta di “mascheramento” ed indeterminatezza
della scena rappresentata senza condurre, per forza, ad
un'interpretazione univoca. Essi sono come «luoghi di
indeterminazione, che funzionano come relais
attivando nell'osservatore una serie di domande e innescando il
meccanismo della sintesi che si susseguono senza peraltro giungere a
una concettualizzazione stabile e definita» 39.
Ad
aiutare nella formulazione del proprio pensiero riguardo il
significato dell'opera è sicuramente il contesto come possiamo
osservare in Cantore
40
di
Pietro Paolini e in Fabbricante
di strumenti musicali 41
di Cecco del Caravaggio. Entrambi gli esempi ci mostrano quanto il
contesto ─ inteso come gli elementi e gli oggetti presenti intorno
alle figure principali ─ sia importante nella lettura dei dipinti e
quanto senza di esso l'interpretazione della rappresentazione
sarebbe differente. Nel caso del Cantore,
su un fondo scuro di chiaro stampo caravaggesco, il fanciullino
protagonista di questo dipinto viene raffigurato in un'espressione
“peculiare”: «il viso e il naso sono allungati, i lineamenti
morbidi, gli zigomi alti, le labbra prominenti, gli occhi acquosi ed
espressivi e [...] la bocca enormemente spalancata» 42.
A prima vista, volgendo lo sguardo esclusivamente verso l'espressione
del ragazzo, il senso comune potrebbe portare, banalmente, ad
ipotizzare si tratti di un'espressione raffigurante l'emozione
tipica della “paura” o della “sorpresa”: il giovane con lo
sguardo rivolto alla sua sinistra sembra essere colto da qualcosa di
inaspettato che si esprime, in tal modo, sul suo volto. In realtà,
c'è un elemento che fa la differenza ed è proprio quello del
contesto: se lo sguardo si allarga a tutto ciò che è presente nel
quadro, è possibile notare come il protagonista abbia tra le sue
mani uno spartito musicale che stravolge completamente la visione
iniziale. Questo dipinto s'inserisce, infatti, nella
rappresentazione tipizzata dei musicisti e dei cantori dell'epoca
che vengono ritratti con alcune stereotipie tra cui proprio la “bocca
aperta”, indice che il giovane in quel momento fosse probabilmente
impegnato in un'attività di gorgheggio. Un'opera simile presente
in mostra è il Fabbricante
di strumenti musicali
di Cecco del Caravaggio, in cui ─ oltre agli strumenti musicali che
aiutano a ridefinire l'ambiguità del dipinto ─ è possibile
cogliere la stessa caratteristica della bocca semiaperta. Ancora una
volta, è evidente come l'artista ─ sempre per compensare la
limitazione degli strumenti che ha a disposizione ─ si serva di un
registro gestuale e contestuale che, spesso, si ripete nelle opere di
medesimo genere o che vogliono veicolare un messaggio analogo.
Anche
nella mostra in oggetto, non sono solo presenti similarità
espressive e contestuali rintracciabili nei dipinti che hanno come
protagonisti i soggetti “cantori” ma, in particolare, ciò che
salta all'occhio ─ guardando le opere esposte ─ è la comunanza
di caratteristiche espressive, gestuali e stilistiche nelle scene di
genere predominante, l'ambito sacro. Basti pensare ─ al di là
delle imprescindibili differenze peculiari della personalità e del
modo di dipingere del singolo pittore ─ alle somiglianze che
l'osservatore può rintracciare tra le varie raffigurazioni della
Sacra
Famiglia,
della Madonna
col Bambino,
di David
con la testa di Golia e
degli episodi inerenti Cristo.
Proprio queste tipizzazioni ridondanti che possono essere definite
come «immagini di memoria» 43
permettono al fruitore ─ ripercorrendo ciò che, per l'appunto, è
presente nella sua memoria visiva ─ di compiere parallelismi tra
opere e di associarle ad emozioni già vissute dando, ogni volta, la
propria interpretazione personale. È in base al proprio modo
d'apprendere, ai propri ricordi, alle associazioni e, in generale,
al proprio passato che la persona può determinare il presente
percettivo dell'opera. L'ambiguità e gli indizi, non
rappresentano un limite all'immaginazione del fruitore ma, al
contrario, fornendo un contesto di maggior precisione, stimolano
maggiormente le sue attività di percezione individuale. Un'immagine
ambigua verrà sempre completata mediante la cosiddetta “parte
dell'osservatore” che ─ tramite le proprie reminiscenze ed
esperienze ─ contribuirà alla definizione del dipinto con una
buona dose di soggettività.
5.
L'essenza di un'epoca
Figlie
dello stesso periodo, le opere con cui s'apre la mostra “Roma al
tempo di Caravaggio 1600-1630” rappresentano entrambe le
antitetiche ragioni dello spirito di un'epoca, uno stesso periodo
storico che si esprime attraverso due differenti modalità
espressive. Da un lato, un “Classicismo raffinato” ─ la pala di
Annibale ─ e dall'altro un “Naturalismo realistico” ─ la
pala del genio lombardo, Caravaggio ─.
Questo
iniziale confronto tra le pale d'altare di due grandi artisti
riassume magnificamente il concetto di quanto le opere d'arte non
siano mai considerabili come “unità isolate” quanto, piuttosto
si tratti sempre di entità incorporate e culturalmente emergenti. La
tela di Carracci 44
(Fig. 10)
Fig. 10 – Annibale Carracci e bottega
Madonna di Loreto, 1604-1605
Roma, Chiesa Sant'Onofrio al Gianicolo
Foto cortesia di Ilenia Salzano
─ commissionata dal cardinale Carlo Gaudenzio Madruzzo per la
chiesa di Sant'Onofrio al Gianicolo ─ rappresenta uno stile
unitario pienamente fedele alla tradizione dell'iconografia sacra.
I personaggi rientrano in uno spazio prospettico che rispetta le
gerarchie e la simbolicità: il luogo fisico della casa della Vergine
viene sollevata da angeli e putti che ─ grazie alla forza
miracolosa divina ─ si accingono a trasportarla al luogo destinato,
per l'appunto, Loreto, mentre la Madonna col Bambino appare
collocata in posizione sollevata ─ segno della sua importanza ─,
esattamente al centro della scena. La struttura proporzionata dei
corpi e degli spazi, la bellezza idealizzata dei volti, le vesti
sontuose e gli stessi simboli (gli angeli e la corona) rimandano ad
una classicità tipica e richiesta dalle commissioni del tempo.
Quella di Annibale è una pittura che compiace il gusto dei
committenti, si attiene alle regole e allo stile predefinito ed
esprime idealmente il sentimento del contesto in cui si trova ad
operare. Il metodo utilizzato da quest'artista incarna
perfettamente lo spirito della Controriforma che nei caratteri
classici trova la via più limpida e lineare per diffondere i dogmi e
i valori della fede cristiana. Tuttavia, questa non è l'unica
strada possibile: Caravaggio mostra come «tra il manierismo di
Giuseppe Cesari e il sublime idealismo di Annibale Carracci esista
anche la capacità di sconvolgere le regole imposte agli artisti
dalla Controriforma» 45.
La Madonna
di Loreto 46
di Caravaggio (Fig. 11)
Fig. 11 – Caravaggio
Madonna di Loreto, 1604-1605
Roma, Chiesa di Sant'Agostino
Foto cortesia di Ilenia Salzano
─ commissionata, invece, dalla famiglia Cavalletti per la Chiesa di
Sant'Agostino ─ non s'attiene al codice tradizionale ma, come
un “battitore libero”, questo pittore infrange le regole
spogliando la tela dell'iconografia classica ─ fino ad allora
declinata in diverse forme simili ─ e apre artisticamente un nuovo
percorso. La scena sacra viene calata in un'ambientazione di
carattere profano dove la Madonna con indosso abiti da “popolana”
si presta ad accogliere in casa due pellegrini ─ dalle vesti
sporche e dagli atteggiamenti umili ─ ai suoi piedi inginocchiati.
Non solo i caratteri e le sembianze dei personaggi appaiono
innovativi ma la stessa struttura spaziale rappresenta un
capovolgimento dell'iconografia sacrale: non più la Vergine col
Bambino collocata al centro del quadro ma due gruppi di persone posti
ai lati della Tela dove il senso di sacralità viene rimandato
esclusivamente dalla linea obliqua che dal basso dei pellegrini muove
verso la destra della Madonna e di Gesù. Ora ─ seppur in seguito
ad un enorme scalpore suscitato ─, questa nuova forma espressiva
non verrà ripudiata ma accogliendola sarà, piuttosto, sintomo di un
altro tipo di sentimento artistico che si farà spazio nei primi anni
del Seicento, quello di rappresentare gli aspetti della vita con
carica di realismo e di passione, la quale non dev'essere latente
ma, al contrario, necessita d'imprimersi sulla tela con tutta la
sua forza. Carracci e Caravaggio, attraverso la loro attività,
rispecchiano entrambi il sentire d'un'epoca a riprova del fatto
che l'arte ─ basata su uno studio attento e accurato ─ sia
sempre un'opera “umana”.
«Quanto
siamo soliti definire “opera d'arte” non è il risultato di
un'attività misteriosa, bensì un oggetto fatto dall'uomo per
l'uomo. [...] La maggior parte dei quadri che ora sono allineati
sulle pareti dei musei e delle statue che si trovano nelle gallerie
non era affatto destinata a essere esposta come opera d'arte: fu
creata per una circostanza ben determinata e con un fine preciso che
l'artista aveva in mente al momento di mettersi all'opera 47».
L'intera
mostra ─ attraverso la sola impressione percettiva iniziale nei
confronti dei dipinti ─ permette di cogliere quest'ambivalenza
culturale di cui i quadri si fanno portavoce: da un lato il
classicismo delle regole, dall'altro l'impeto e la necessità del
sentimento. L'arte di quest'esposizione è l'espressione
diretta della vita di quel determinato periodo storico e di quel
luogo, dove a prevalere è un “dualismo” di fondo, quello tra la
forma e l'istinto. La prima cosa che viene in mente osservando le
opere è una raffinata ridondanza che si mostra nella struttura del
dipinto, nelle forme studiate dei protagonisti dai tratti tondi ed
idealizzati, nell'uso attento del colore che ne esalta i volumi e
nella stessa gestualità mai scomposta ma attenta al rispetto
tradizionale. Opere come Cristo
nel sepolcro 48
di Passignano o David
che contempla la testa di Golia 49
di
Gentileschi
oppure
Santa
Cecilia e l'angelo 50
di
Saraceni hanno tutte in comune uno stile in cui è possibile notare
alla base un attento studio compositivo, caratterizzato da una
precisa logica spaziale e dai tratti analitici e precisi dei corpi
dei protagonisti che fanno presumere la grande maestria e la
preparazione da parte dei loro autori. Ma di fronte alla
contemplazione di questi stessi dipinti, lo spettatore non può, al
contempo, non essere catturato dalle emozioni che si imprimono sul
volto dei soggetti protagonisti delle scene: la sofferenza incarnata
sul volto di Cristo,
l'espressione pensosa e malinconica di David
─ quasi egli provasse compassione verso la sua vittima ─ e la
beatitudine di Santa
Cecilia.
Ancor più lampante è il caso di Maria
Maddalena in Estasi 51
di
Louis Finson, dove la protagonista ─ su una contrapposizione
figura-sfondo ben studiata, e messa ancor più in risalto dal gioco
di luci di stampo caravaggesco ─, esprime l'apice del suo momento
estatico coronato, addirittura, dall'uscita di una piccola lacrima
che scende dall'occhio sinistro. La Maddalena
non nasconde l'emozione ma quest'ultima diventa vivida
protagonista del quadro, quasi ad avanzare allo spettatore una
richiesta di partecipazione al suo stato emotivo. Attraverso
l'osservazione di queste opere, emerge, dunque, un atteggiamento di
“sentimentalismo” che porta a non dover camuffare le passioni
dell'animo umano quanto, piuttosto, alla necessità dell'artista
di saperle narrare con tecnica ed efficacia. Da qui la “doppia
funzione” di fondo del periodo barocco.
«L'atteggiamento
del barocco può dirsi basato su un conflitto oggettivo tra forze
antagoniste, che tuttavia si fondono in un sentimento soggettivo di
libertà e anche di piacere [...]. Il dolore è talmente violento da
tramutarsi quasi in piacere, così l'ineffabile beatitudine di una
creatura mortale giustificata da un'apparizione celeste può
divenire così travolgente da provocare dolore, un dolore che rende
ancor più intenso il piacere 52».
La
corrente carraccesca e quella caravaggesca non sono, quindi,
completamente antitetiche e inconciliabili ma possono essere
descritte come lati di una stessa medaglia che, spesso e volentieri,
trovano sintesi all'interno del medesimo quadro. Queste correnti
apriranno la strada alla fase successiva, quella del Barocco, che
altro non sarà che il risultato di entrambi gli aspetti, il
classicismo e il naturalismo, che troveranno unità in una nuova
forma espressiva. Questo è ben visibile nell'opera che chiude e
sintetizza la mostra in oggetto, Allegoria
dell'Italia 53
(Fig. 12)
Fig. 12 – Valentin de Boulogne
Allegoria dell'Italia, 1627-1628
Roma, Institutum Romanum Finlandiae
Foto cortesia di Ilenia Salzano
─ dipinta tra il 1627 e il 1628 per la famiglia papale Barberini ─
di Valentine de Boulogne, ultimo caravaggesco rimasto a Roma.
In
un quadro che raffigura allegoricamente l'Italia, in modo
splendente e fiero, De Boulogne sembra voler raccontare l'Italia
del suo tempo, in quel preciso periodo storico in cui gli artisti da
tutto il mondo ne vengono attratti, soprattutto, grazie alla pittura
innovativa di Caravaggio, che si inserisce in una lunga tradizione
artistica italiana. Lo spirito di quest'artista si insinua con
vigore nella tela di grandi dimensioni, dove la teatralità
dell'insieme e la capacità di riprodurre l'immagine allegorica
in una scena dai tratti popolari si sposa con la sapiente tecnica
esecutiva, fatta dal colore avvolgente, dal dinamismo compositivo e
dalla luce che si sofferma sui volti. Questa tela rappresenta «una
prova generale [...], sintesi suprema del processo che doveva
condurre Valentin verso esiti più spiccatamente classicisti, in cui
è ravvisabile una più vibrante resa naturalistica accanto a
sfumature liriche classiche e a elementi chiaramente barocchi» 54.
Commissionata come un'opera su cui aleggia, ancora una volta,
l'aura papale ─ molteplici nel dipinto sono i rimandi
all'istituzione pontificia, primo fra tutti il Carattere inciso
sull'elmo, sulla lancia e sullo scudo della protagonista ─,
questa rappresentazione non può trovare massima espressione se non
nella forma della classicità. Ciononostante, quest'ultima non si
spoglia mai completamente della resa naturalistica e degli
insegnamenti del genio lombardo che ne costituiscono le fondamenta e
su cui l'intera opera trova realizzazione. Con questo dipinto, De
Boulogne si presenta come «il pittore francese, tra tutti ad aver
compreso ed assimilato il più autentico messaggio caravaggesco» 55
e si presta a chiudere il cerchio di un florido periodo, il
caravaggismo romano, la cui eredità sarà avvertita fino ai giorni
nostri.
Conclusioni
Viviamo
in un mondo dove l'esperienza di vita si identifica sempre più con
“ciò che appare” al punto tale da considerare la conoscenza del
reale, ad uno sguardo superficiale, come logica e naturale.
Affrontare questo percorso di analisi percettiva, avendo come oggetto
privilegiato d'indagine un campo concreto, ovvero la Mostra “Roma
al tempo di Caravaggio 1600-1630”, ha permesso di addentrarsi in un
ambito, forse, ancora poco conosciuto e di svelare alcuni legami e
meccanismi inediti. Il campo dell'arte, per quanto, possa apparire
un atto di percezione semplice ed immediato, in realtà, risponde a
processi cognitivi, psicologici, storico-culturali ben precisi e che
meritano di essere analizzati.
«La
semplice presa di contatto non può bastare: troppe persone visitano
i musei e raccolgono libri d'arte senza con ciò ottenere un
accesso all'arte. La capacità innata di comprendere attraverso
gli occhi si è assopita e deve essere risvegliata [...] Non già che
sia un mezzo espressivo estraneo e inadatto ad esprimere le cose
visibili, non si riferisce a nient'altro che all'esperienza
percettiva» 56.
Ciò
che in ambito artistico si presenta, ai nostri occhi, come
superficiale ed evidente risponde, al contrario, a regole ben
definite e che afferiscono al campo sia della sfera oggettiva che di
quella soggettiva. In particolare, pare che gli aspetti oggettivi
guidino il soggetto verso un percorso di lettura dell'opera
studiato dall'artista creatore mentre gli aspetti soggettivi
servano, invece, ad elaborare lo stimolo visivo secondo le
aspettative, conoscenze, emozioni che queste immagini suscitano in
chi osserva. L'impressione iniziale e gli elementi principali di
un'opera vengono raccolti secondo una struttura cognitiva
invariante tra gli individui, che consente alla maggior parte delle
persone di percepire la raffigurazione in modo globale, cogliendone
gli aspetti essenziali. Le cosiddette “leggi gestaltiche”,
percepire un oggetto vicino piuttosto che lontano, notare le
sfumature di colore, la necessità di ricercare la semplicità nella
complessità sono costanze che rispondono tutte al fatto che il
sistema percettivo umano funzioni in un determinato modo. Gli stessi
artisti ─ dotati di tale consapevolezza ─ abbiamo visto come
sfruttino le capacità cognitive dell'osservatore mettendo in atto
una serie di espedienti per direzionare l'occhio verso un preciso
elemento e significato. Rappresentare i corpi in specifiche posizioni
affinché si possa trasmettere il carattere di movimento, addensare
più elementi vicini per dare l'idea di unitarietà, utilizzare i
contrasti di luci ed ombre in base a svariate finalità artistiche
sono tutti strumenti che il pittore utilizza sulla base della
conoscenza del funzionamento del cervello umano.
Tuttavia,
abbiamo avuto anche modo di osservare, però, come la nostra
razionalità permetta di spiegare meglio l'arte ma non consenta di
prevederla o di capirla fino in fondo. Il modo in cui esploriamo le
immagini è guidato dalle informazioni visive oggettivamente presenti
nel quadro (il colore, la luce, le forme, le dimensioni) ma è anche
influenzata dalle nostre conoscenze, dal nostro vissuto, dalla nostra
memoria e dalla nostra personale interpretazione. Tutto questo mette
in luce un altro aspetto della medaglia, l'esistenza di un rapporto
reciproco tra l'artista che crea l'opera e lo spettatore che è
chiamato ─ attraverso una sorta di partecipazione attiva ─ a
comprenderla ed arricchirla. L'arte sembra apparire incompleta o
incapace di essere definita tale senza il coinvolgimento percettivo
ed emotivo dello spettatore: ogni immagine è intrinsecamente
“ambigua” ─ sia per la natura stessa della materia artistica
sia in quanto legata al punto di vista personale del suo autore ─
al punto tale da richiedere l'intervento dell'osservatore che,
secondo il proprio vissuto emotivo, risponderà al completamento
dell'opera con una forte carica di soggettività. L'engagement
sembra essere proprio dato da una via di mezzo tra l'espressione
dell'artista e il contributo personale di chi osserva, dando vita
ad una creazione artistica unica e sempre diversa.
«Tutto
ciò porta a concludere che l'espressione linguaggio dell'arte è
qualcosa di più di una vuota metafora, cioè che anche per
descrivere in immagini il mondo visibile è necessario un elaborato
sistema di schemi. [...] Senza qualche punto di partenza, qualche
schema iniziale, non potremmo mai fissare il flusso dell'esperienza.
Senza categorie non potremmo analizzare e sceverare le nostre
impressioni» 57.
Queste
osservazioni consentono non solo di approfondire il campo dell'arte
ma di aprire nuove strade nei confronti di molteplici campi di realtà
irrelati fra loro. In un'epoca dove la dimensione sensibile appare
come elemento predominante e mediatore di qualsiasi forma di
conoscenza, indagare come funzionino i meccanismi percettivi delle
immagini ─ sia nei loro aspetti oggettivi che soggettivi ─ offre
spunti di riflessione per scoprire cose altrimenti latenti ai nostri
occhi e che vengono, spesso, date per scontate. La necessità critica
─ che ha caratterizzato la principale spinta motivazionale da cui
muove l'elaborato in oggetto ─ non conduce necessariamente ad una
sistematizzazione dei concetti ma prestare attenzione, sollevare
problemi, analizzare le forme nelle loro molteplici espressioni
permette, oltre che spiegare la complessità dell'atto conoscitivo,
di trovare significati reconditi e svelare nuovi scorci di progresso.
NOTE
1
ARNHEIM 1954, Quarta di copertina.
2
GOMBRICH, HOCHBERG, BLACK 1972, p. 58.
5
Roma al tempo di
Caravaggio 2011, p.
80.
10
Roma al tempo di
Caravaggio 2011, p.
166.
21
Roma al tempo di
Caravaggio 2011, p.
260.
22
Per approfondimenti, si vedano i testi riportati in bibliografia di
Dalla Regoli (2000), Chastel (2000; 2002), Ferraro (2002) e La Porta
(2006).
23
L'arte e i linguaggi
della percezione 2004,
p. 33.
24
Roma al tempo di
Caravaggio 2011, p.
186.
25
ARNHEIM 1954, pp. 33-34.
26
Roma al tempo di
Caravaggio 2011, p.
114.
28
Roma al tempo di
Caravaggio 2011, p.
52.
29
L'arte e i linguaggi
della percezione 2004,
p. 105.
30
Roma al tempo di
Caravaggio 2011, p.
250.
31
L'arte e i linguaggi
della percezione 2004,
p. 101.
32
L'arte e i linguaggi
della percezione 2004,
p. 105.
33
Roma al tempo di
Caravaggio 2011, p.
70.
34
Il Seicento
2005, p. 169.
35
GOMBRICH, HOCHBERG, BLACK 1972, p. 24.
36
Roma al tempo di
Caravaggio 2011, p.
164.
38
GOMBRICH 1982, p. 108.
39
L'arte e i linguaggi
della percezione
2004, p. 86.
40
Roma al tempo di
Caravaggio 2011, p.
332.
44
Roma al tempo di
Caravaggio 2011, p.
24.
46
Roma al tempo di
Caravaggio 2011, p.
22.
48
Roma al tempo di
Caravaggio 2011, p.
98.
52
PANOFSKY 1995, pp. 41-58.
53
Roma al tempo di
Caravaggio 2011, p.
346.
54
Roma al tempo di
Caravaggio 2012, p.
85.
56
ARNHEIM 1954, pp. 23-24.
57
GOMBRICH 1959, pp. 93-94.
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al tempo di Caravaggio 1600-1630. Saggi (Catalogo
della Mostra, Roma, Palazzo Venezia, Saloni Monumentali, 16 novembre
2011 - 5 febbraio 2012), a cura di Rossella Vodret, Milano, Skira,
2012.
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