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Studio sulla percezione gestuale a partire dalle opere esposte nella mostra 'Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630'  
Ilenia Salzano
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 16 Giugno 2024, n. 960
https://www.bta.it/txt/a0/09/bta00960.html
Articolo presentato il 30 Aprile 2024, accettato il 13 Giugno 2024 e pubblicato il 16 Giugno 2024
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Quando ci troviamo dinnanzi ad un'opera d'arte, molto spesso esordiamo con espressioni di giudizio quali “è bella”, “è brutta”, “non mi convince”, abbandonandoci ad un'impressione globale di ciò che appare, senza comprendere i reali meccanismi che muovono quelle prime sensazioni e che ragionevolmente conducono l'osservatore ad avere quella determinata percezione.

    «"Vedere" è un atto creativo; e il giudizio visivo non è contributo dell'intelletto successivo alla percezione ma ingrediente essenziale dell'atto stesso del vedere. Quanti, tuttavia, sanno prendere coscienza del giudizio visivo, e tradurlo e formularlo? Sapere quali sono i principi psicologici che lo motivano e quali sono le componenti del processo visivo che partecipa alla creazione come alla contemplazione dell'opera, significa sapere "che cosa", in realtà, vediamo 1».

Arte” e “percezione” sono due ambiti strettamente correlati: alla base della comprensione estetica vi sono sempre delle leggi ben precise che regolano il nostro sistema percettivo, anche di fronte ad un dipinto. Pertanto, la visione di un quadro non rappresenta un'esperienza immediata e casuale ma il percetto ─ compreso l'oggetto artistico ─ risponde ad una serie di regole che governano la conoscenza dell'arte e del mondo in generale. Una strada in tal senso sembra essere stata aperta da Ernst H. Gombrich (Vienna, 1909-2001), storico d'arte i cui scritti e il cui pensiero saranno utilizzati come punto di riferimento costante per lo svolgimento dell'elaborato in oggetto. In base alla sua fervida curiosità e ad un bisogno di necessità critica, l'esperto viennese ha approfondito l'interessante ed arricchente rapporto tra l'ambito della psicologia e quello dell'arte, aprendo nuovi scenari sul tema della percezione e della rappresentazione pittorica. Centrale, infatti, in questa tipologia d'approccio sono le scoperte psicologiche ─ in particolar modo, quelle afferenti alla Scuola della Gestalt ─ che permettono di ripensare all'arte con uno sguardo del tutto nuovo. «Col progredire della comprensione dei processi di percezione e di apprendimento, abbiamo dovuto modificare le concezioni sulla comunicazione pittorica; per converso, vari quadri e disegni, attraverso le esplorazioni delle leggi di raggruppamento compiute dai gestaltisti hanno avuto profonde implicazioni per lo studio della percezione visiva» 2.

L'obiettivo del presente lavoro è proprio quello di analizzare ─ muovendosi nell'intricato e complesso terreno d'intersecazione tra i due ambiti in questione ─ il “mistero” della percezione artistica, adottando una metodologia che permetta di cogliere le “strutture significanti” che entrano in gioco dinnanzi ad un'opera. Si tratta di un'operazione che consiste nel creare una sorta di “spaesamento” rispetto alla tradizionale modalità d'approcciarsi all'arte, trovando un nuovo ordine compositivo tra gli elementi che sia in grado di rimandare ad una relazione inedita tra le varie caratteristiche (espressione del volto, gestualità, giochi di luce, fattori socio-culturali) che costituiscono la scena del dipinto. Questo tipo di modalità non intende sostituirsi, con alcuna intenzione, alla libertà creativa ─ che vedremo, essere essenziale nel processo di realizzazione artistica ─ ma, piuttosto, vuole più semplicemente offrire un nuovo spunto d'indagine, che possa condurre ad una maggiore consapevolezza ed arricchimento dell'esperienza estetica. Questi i presupposti teorici da cui muove la trattazione seguente la cui volontà, va precisato, non è quella di abbandonare la teoresi come fine a sé stessa ma, piuttosto, di mostrare come ─ calandosi nella vita e nelle opere in cui ci s'imbatte quotidianamente ─ sia possibile osare di più che fermarsi ad un semplice sguardo distratto e superficiale.

«Il gusto artistico è senz'altro qualcosa di assai più complesso del gusto per i cibi e le bevande [...]. I grandi maestri hanno dato il meglio di sé in queste opere, ne hanno sofferto, hanno sudato sangue per crearle: il meno che possano chiederci è di cercare di comprendere i loro intenti. Non si finisce mai di imparare in arte. Ogni volta che ci poniamo dinanzi a esse, le grandi opere appaiono diverse. Sembrano inesauribili e imprevedibili come veri e propri esseri umani. Formano un mondo a sé, con le sue strane leggi e con i suoi eventi. Nessuno deve presumerne di saperne tutto perché nessuno lo potrà mai» 3.

Pertanto, queste riflessioni sull'arte hanno costituito una spinta motivazionale per operare, in questa sede, un approfondimento che ambisce ─ alla luce degli studi percettivi analizzati teoricamente ─ a svolgere un'analisi rispetto un campo d'indagine pratico, circoscritto e ben delimitato. L'oggetto prescelto è la mostra “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630” (Fig. 1), un'esposizione tenutasi presso Palazzo Venezia nel periodo compreso tra il 16 Novembre 2011 e il 5 Febbraio 2012, che prende in esame il momento cruciale della pittura vissuto nella Capitale all'inizio del XVII secolo, periodo in cui sulla scena culturale ed artistica predominano due “giganti” della storia dell'arte, Annibale Carracci e Michelangelo Merisi, detto “Caravaggio”.

Fig. 1 – Locandina della Mostra “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630”. Foto cortesia di Ilenia Salzano
Fig. 1 – Locandina della Mostra
“Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630”

Foto cortesia di Ilenia Salzano

Attraverso la selezione di una serie di opere ─ prese a campione esemplificativo ─ vedremo come sia possibile approcciarsi all'arte adottando la poc'anzi citata “nuova ottica”. Il percorso segue un criterio tematico, basato sulle principali “categorie percettive” emerse grazie al sostrato teorico: l'espressività facciale, la gestualità e il movimento nello spazio, il decorum, l'ambiguità e l'interpretazione dell'osservatore e l'essenza dell'epoca. Per ogni categoria percettiva, verranno ripresi i dipinti maggiormente in grado di erigersi a “portavoce” dei concetti enunciati, mostrando concretamente ─ mediante un equilibrato connubio tra teoria e prassi ─ come l'opera, di volta in volta selezionata, possa essere compresa attraverso la categoria percettiva prescelta.

1. L'espressività facciale

L'espressione del volto rappresenta ciò che più incarna, in un'opera d'arte, l'espressività del quadro in generale, ciò a cui l'osservatore si rifà per cogliere l'essenza della raffigurazione pittorica. Si tratta di una globalità che, da un lato, rimanda a caratteri stabili a cui gli artisti s'attengono per raggiungere il perfezionamento della loro creazione e, dall'altro, riconduce ad una soggettività di cui solo il genio creatore del dipinto è l'unico artefice. A tal proposito, l'epoca barocca rappresenta un importante campo d'indagine, in quanto, per la prima volta nella storia dell'arte, viene rappresentato il sentimento vivido sull'espressione dei soggetti raffigurati. A risaltare è una sorta di compromesso tra la “ragione” ─ che si esprime nell'idealizzazione e, in particolar modo, nel carattere della simmetria ─ e il “sentimentalismo” ─ dove la passione si fa spazio all'interno di opere perfettamente misurate. «È vero che l'atteggiamento psicologico delle figure nell'arte barocca è meno integrale delle figure dell'arte rinascimentale [...] Il sentire dell'uomo barocco è del tutto sincero, solo che non occupa per intero l'anima. Il soggetto non solo sente, ma è anche consapevole di quello che sente» 4.

Nella Sibilla Cumana 5 di Domenichino (Fig. 2)

Fig. 2 – Domenico Zampieri detto il Domenichino, Sibilla Cumana, 1617, Roma, Galleria Borghese. Foto cortesia di Ilenia Salzano
Fig. 2 – Domenico Zampieri detto il Domenichino
Sibilla Cumana, 1617
Roma, Galleria Borghese
Foto cortesia di Ilenia Salzano

si può notare come il volto della protagonista sia idealizzato secondo i dettami del classicismo, convogliando nel risultato di espressioni dai toni freddi e perfettamente armoniosi. Le fattezze del viso della Sibilla Cumana ─ la giovane ed elegante sacerdotessa di Apollo, così definita in quanto residente nella città di Cuma in Campania ─ non è manifesto di un'irruenta emozione ma, al contrario, rappresenta perfettamente lo stato estatico della protagonista mitologica. Questo dipinto viene commissionato a Domenichino dal Cardinale Scipione Borghese, ma quest'artista dipingerà più Sibille che rappresentano, tutte, raffinate figure femminili somiglianti tra loro e dai tratti ben noti: volto rotondo, occhi grandi e sgranati rivolti verso l'alto, naso piccolo e bocca semiaperta. La fisionomia facciale della protagonista non è il risultato di grotteschi accostamenti ma i singoli elementi del volto della sacerdotessa si sposano in una perfetta armonia d'insieme. Le singole caratteristiche facciali sono parti essenziali della comunicazione percettiva ma da sole non appaiono sufficienti a conferire un certo “tono” dell'espressione: fondamentali sono i legami che si vengono a costituire tra di essi che costituiscono la cosiddetta “struttura compositiva”, non visibile ma percepibile. Inoltre, la Sibilla, proprio nei tratti del viso ─ secondo alcuni storici d'arte ─ ricorderebbe la Santa Cecilia di Raffaello, modello frequentemente utilizzato negli stessi anni da Reni e altri artisti per la rielaborazione del medesimo soggetto. Questi elementi confermerebbero che Domenichino abbia seguito uno schematismo e delle regole ben precise nella rappresentazione dei lineamenti espressivi di questa figura. Analogamente, anche in Venere nella fucina di Vulcano 6 di Albani ─ seppur raffigurante un ritratto di gruppo e non un unico soggetto in primo piano come nel caso di Sibilla Cumana ─ è possibile scorgere una moltitudine di volti idealizzati, frutto di un attento studio della simmetria e dell'armonia degli elementi che compongono la faccia di tutti i personaggi. Venere, il marito, Diana e gli stessi putti intenti nei loro atti giocosi presentano espressioni perfettamente studiate e che si prestano al tema narrato di base: l'amore. Non a caso «Herrmann Fiore ha posto in evidenza le strette relazioni che legano la Sibilla Cumana [...] ai tondi di Albani» 7, entrambe opere realizzate per lo stesso committente, il Cardinale Scipione.

Tuttavia ─ come già affermato ─, sebbene la fisiognomica sia una pratica incentrata su una buona conoscenza di precise regole anatomiche, è proprio nel Seicento che quest'attività inizia ad assumere anche una connotazione differente, d'aspetto più psicologico. «La stessa fisionomia dei personaggi riflette l'evoluzione che porta dal classicismo rinascimentale al manierismo, e da questo al barocco; e questo mutamento fisionomico è forse il sintomo più rivelatore del processo psicologico che sta alla base dei fenomeni stilistici» 8. La pittura inizia a direzionarsi verso una realtà esteriore e psicologica al cui centro c'è la capacità di saper esprimere con maestria i “moti” e le “passioni” dell'animo che trovano massima espressione sul volto dei soggetti. Proprio di questo movimento, sarà pioniere Caravaggio e i suoi seguaci che, senza timore, ma, al contrario, con grande arguzia e coraggio, tenteranno di raffigurare tramite l'espressione facciale i sentimenti umani più disparati, da quelli più elevati ─ come la felicità, la gioia, la tenerezza ─ a quelli più bassi e struggenti ─ come il dolore, l'angoscia e la sofferenza. Come affermerà anche Panofsky «l'essenza e la novità del barocco consistono proprio in questa duplice riconciliazione di forze: un travolgente senso di eccitazione soggettiva e la consapevolezza di questo sentire. L'uomo del ‘600 ha il cuore palpitante di emozione [...]» 9, un'emozione che avverte la necessità di emergere anche in campo artistico. La mostra “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630” conferma proprio questo concetto presentando una moltitudine di opere in cui le passioni dei soggetti raffigurati ─ al di là degli aspetti stilistici e della tecnica ─ emergono con irruento impeto, quasi a voler uscire dalla tela.

La Madonna con Bambino 10 (Fig. 3) è stata realizzata da Artemisia Gentileschi, una delle artiste di questo periodo più in grado di riportare su tela con estrema vividezza i sentimenti umani. Ad emergere in quest'opera è, infatti, il viscerale e tenero legame tra madre e figlio fatto di dolci sguardi e tenere carezze: «il bambino staccatosi dalla mammella, sta regalando una carezza dalla intuitiva simbologia consolatoria. Maria sembra già entrare in uno stato di torpore di inedita dolcezza» 11.

Fig. 3 – Artemisia Gentileschi, Madonna con Bambino, 1610, Roma, Galleria Spada. Foto cortesia di Ilenia Salzano
Fig. 3 – Artemisia Gentileschi,
Madonna con Bambino, 1610
Roma, Galleria Spada
Foto cortesia di Ilenia Salzano

Il più classico dei soggetti devozionali viene rappresentato in un'originale scena intima dove il protagonista principale appare un incondizionato rapporto d'amore, come fedele specchio dei rapporti umani reali. Questo amore è palpabile proprio mediante le espressioni dei due protagonisti che ─ grazie alla sapiente maestria di Artemisia ─ sembrano colti, con i loro reciproci sguardi e fattezze, in un dialogo a due, estraneo al contesto circostante. Se dovessimo rifarci al registro linguistico di Gombrich, attraverso la fisionomia dei lineamenti del viso dei due soggetti e, in particolar modo della Madonna, ad emergere è la “soggettività”, il “carattere”, l'“anima” del dipinto che ─ al di là della brillante resa di colori e di qualsivoglia tecnicismo ─ cattura lo sguardo esterno, guadagnando fama ed ammirazione. Quest'opera si distingue, per certi versi, dall'altra Madonna con Bambino 12 esposta in mostra e dipinta, proprio, dal padre di Artemisia, Orazio Gentileschi. Si tratta di un quadro realizzato da quest'ultimo qualche anno prima rispetto a quello della figlia Artemisia, e che ha condotto ad altrettanta attenzione e riflessione da parte degli storici dell'arte. Anche in questa tela, la Madonna e il Bambino non rivolgono lo sguardo allo spettatore ma il momento appare sugellato in uno scambio di sguardi reciproci tra i due soggetti pittorici. Ciononostante, Orazio fa parte di quella schiera di pittori che tendono a riprodurre con un'importante dose di idealizzazione ─ propria della corrente classicista ─ le proprie opere, motivo per cui, questo dipinto appare molto più mite e composto rispetto quello di Artemisia, dove a colpire è una maggiore carica di pathos, una passione travolgente espressa attraverso la stessa fisiognomica delle figure. La pittrice è in grado di rappresentare perfettamente sul volto della Madre e di suo figlio la tematica dell'“amore materno”, quelle emozioni coinvolgenti ed eterne tipiche del sentire femminile.

La soggettività in mostra, però, non emerge solo tramite emozioni positive ma ad attirare particolarmente l'attenzione sono alcuni dipinti dove le passioni umane più dolorose ─ che connotano, assieme a quelle più felici, la stessa esistenza umana ─ coinvolgono lo spettatore con estremo realismo, quasi a renderlo partecipe dell'emozione vissuta da colui che è raffigurato nell'opera. Alcuni degli esempi più lampanti appartengono a rappresentazioni di natura sacra che hanno come protagonista Cristo ─ non a caso soggetto con cui si esprime la sofferenza assoluta ─.

L'opera Ecce Homo 13 rappresenta, forse, il dipinto più noto del Cigoli, un capolavoro realizzato sotto commissione del nobile romano Massimo Massimi che, si narra, aver richiesto lo stesso compito anche al Passignano e al Caravaggio, i quali, tuttavia, non raggiungeranno gli stessi risultati di Cigoli. Si tratta di una “competizione artistica” che Massimi indice sulla tematica cristologica e, in particolar modo, sull'“Ecce Homo”, ossia il momento della Passione di Cristo, in cui Gesù, dopo essere stato flagellato, viene presentato al popolo in segno dell'avvenuto sacrificio. Vincitore di questa gara è proprio il Cigoli, probabilmente, per il crudo realismo con cui riesce a riportare nel suo dipinto la drammaticità della scena. Sul volto di Cristo si leggono chiaramente i sentimenti tipici dell'arte barocca, dove il bello della composizione si fonde con il sentimento della sofferenza dell'anima. «Non è una tensione che cova sotterranea [...]: qui i conflitti e i contrasti [...] cominciano a fondersi in una nuova sfera di emozioni altamente soggettive, che si manifestano in valori ben precisi come l'espressività dolcemente soffusa dei volti» 14. Il dolore, l'angoscia, la sofferenza non rappresentano più sentimenti che devono essere mitigati all'insegna del “bello ideale” ma costituiscono un elemento fondamentale che deve trovare piena espressione nell'opera. Sulla stessa scia anche la Sepoltura di Cristo 15 di Van Baburen, dove, più che sul volto di Cristo (in penombra), emozioni toccanti sono lette sulle espressioni dei partecipanti alla scena, e l'Incoronazione di spine 16 di Salini, dove l'aria di rassegnazione di Cristo è resa in maniera ancor più lampante da un arguto gioco chiaroscurale.

Un altro esempio di differente genere ma che non può mancare rispetto alla tematica della “percezione fisiognomica” è sicuramente il David con la testa di Golia 17 (Fig. 4): in mostra vengono riportate ben quattro opere raffigurante questo soggetto ma, per comodità di narrazione, si è scelto di analizzare il David di Nicolas Régnier, che può essere considerato esemplificativo di alcune caratteristiche comuni anche agli altri dipinti raffiguranti la medesima scena.

Fig. 4 – Nicolas Régnier, David con la testa di Golia, 1615-1620, Roma, Galleria Spada. Foto cortesia di Ilenia Salzano
Fig. 4 – Nicolas Régnier
David con la testa di Golia, 1615-1620
Roma, Galleria Spada
Foto cortesia di Ilenia Salzano

In questo quadro, i protagonisti sono due volti dai tratti ben marcati, quello di Davide, eroe trionfante che col braccio destro sorregge il capo appena reciso con la spada, e il volto di Golia che, seppur ormai spirato in seguito all'avvenuta decapitazione, appare segnato da un naturalismo che lo fa percepire agli occhi di chi osserva quasi ancora vivente. Ciò che colpisce dell'opera è la sofferta espressione del viso del protagonista che, guardando direttamente lo spettatore, sembra rivolgergli quasi una richiesta di partecipazione. «Il nostro Davide guarda lo spettatore compiaciuto e amareggiato insieme, assorto, nei propri pensieri, nella consapevolezza di avere avanti a sé ancora un lungo percorso da compiere» 18. Il volto espressivo del David, la mano chiusa a pugno che tiene la terribile testa mozzata di Golia, l'elegante corpetto che lascia intravedere il collo e parte del torace e la scena tutta in primo piano rendono la composizione incredibilmente attraente. Ma è, soprattutto, sul volto del protagonista ─ studiato con minuziosità di dettaglio ─ che l'artista riesce ad imprimere il messaggio globale dell'opera, rendendolo così comunicativo. Anche in questo caso, un attento studio fisiognomico e un sapiente uso di luce ─ che si staglia sul lato destro di entrambe le figure ─ contribuisce a rendere Régnier sapiente interprete dell'animo umano.

2. La gestualità e il movimento nello spazio

L'idea che il vero sia più commovente di qualsiasi altra invenzione raggiunge chiaramente livelli assoluti nell'epoca barocca, periodo in cui la necessità di realizzare una rappresentazione più realistica possibile diventa uno degli obiettivi principali dei pittori naturalisti e committenti del Seicento, soprattutto per quanto riguarda dipinti devozionali o pale destinate ad oratori. A contribuire al raggiungimento di tale scopo, fondamentale diventa la capacità dell'artista di creare la sensazione di “dinamicità” e “movimento” nell'opera, riuscendo a riprodurre scene ad “immagine e somiglianza” degli episodi reali. Questo è ben visibile nel San Michele arcangelo e il diavolo 19 di Orazio Gentileschi (Fig. 5).



Fig. 5 – Orazio Gentileschi, San Michele arcangelo e il diavolo, 1608, Farnese, Chiesa del Santissimo Salvatore. Foto cortesia di Ilenia Salzano
Fig. 5 – Orazio Gentileschi
San Michele arcangelo e il diavolo, 1608
Farnese, Chiesa del Santissimo Salvatore
Foto cortesia di Ilenia Salzano

La scena del dipinto riprende, in maniera particolarmente suggestiva ed intensa, il momento in cui San Michele arcangelo scaccia il diavolo all'inferno. Si tratta di un momento di lotta tra due forze antagoniste ─ che si può affermare incarnino rispettivamente la personificazione del “bene”, l'arcangelo, e del “male”, il diavolo ─ dove centrale diventa mettere in luce l'anatomia e il dinamismo dei corpi. Le linee oblique che seguono l'andamento delle due figure, ─ che appaiono come allungate, suggerendo all'occhio dello spettatore la direzione da seguire ─, donano una sensazione di squilibrio che suggerisce l'idea di movimento in atto, così come la piegatura delle ali di entrambi i personaggi rimanda all'atto del “battito”. Il senso di dinamicità, in questo caso, è rimandato dalla stessa posizione dei soggetti che appare “decentrata” (quasi fuori campo) rispetto alla centralità dell'immagine e dalle linee di forza che accompagnano i loro corpi e seguono il criterio dell'obliquità. «L'orientamento obliquo è probabilmente il mezzo più elementare ed efficace per ottenere una tensione guidata» 20. Inoltre, a questa percezione di dinamismo contribuisce sicuramente l'uso della luce ─ file rouge che lega la maggior parte delle opere presenti in mostra ─: riproducendo il rapporto chiaroscurale, Gentileschi, dona più volume e strutturazione ai corpi impegnati nella lotta che si staglia su uno sfondo scuro e profondo. Il gioco di contrasti crea un sapiente equilibrio tra parti in ombra e parti in luce facendo risaltare in modo ottimale l'anatomia delle figure, anche se grazie ad un vivace uso del colore viene maggiormente esaltato il personaggio di San Michele. Questi strumenti rendono più realistico il movimento che, in tal modo, dà la percezione di compiersi.

Un'altra opera interessante dal punto di vista del movimento è quella di Giusto Fiammingo, La fuga del giovane nudo 21 (Fig. 6), che narra l'episodio del Vangelo nel momento in cui Cristo è stato arrestato, e un giovane nudo, con al seguito una schiera di soldati, fugge facendo cadere il panno di lino in cui si trova avvolto. In quest'opera, innanzitutto, ciò che emerge, a primo impatto, è la presenza di due nuclei distinti: secondo la cosiddetta legge della vicinanza, le figure a sinistra appaiono come costitutive di un unico gruppo, quello dei soldati, isolando la figura maschile a destra, rappresentata, per l'appunto, dal giovane nudo.

Fig. 6 – Giusto Fiammingo, La fuga del giovane nudo dopo la cattura di Cristo, 1615-1625, Roma, Collezione Vincenzo Giustiniani. Foto cortesia di Ilenia Salzano
Fig. 6 – Giusto Fiammingo
La fuga del giovane nudo dopo la cattura di Cristo, 1615-1625
Roma, Collezione Vincenzo Giustiniani
Foto cortesia di Ilenia Salzano

Il dipinto incarna una scena estremamente dinamica in quanto deve rappresentare il momento della “corsa” e per farlo il pittore si serve di una serie di espedienti. Anche in questo caso, sicuramente la sensazione di “movimento” è generata dalla quantità di linee oblique su cui sono state realizzate l'interezza del corpo del protagonista, le braccia alzate e le gambe dei soldati; d'aiuto è anche la raffigurazione studiata dei muscoli, com'è ben visibile rispetto il braccio sinistro del soldato in primo piano, che attraverso un sapiente gioco di luci, rimanda alla “forza” e alla “tensione” implicita nel gesto dell'uomo di fermare il giovane fuggitivo. Ma ciò che più è in grado di evocare il carattere dinamico dell'opera è proprio il panno di lino al centro della scena: la sua lunghezza e le numerose pieghe che lo contraddistinguono rimandano alla distanza e, al contempo, al legame intercorrente tra i due nuclei prima accennati, i soldati e il giovane, e alla velocità tipica del movimento in atto. Tutte le principali direttrici, dal braccio teso del soldato a quello del giovane nudo che cerca di tirare la tela, alle lance e alle braccia alzate dei soldati, ai loro sguardi e alla testa del protagonista inclinata e rivolta all'indietro guidano l'occhio dell'osservatore verso il punto d'equilibrio dell'episodio, che sembra coincidere proprio con il mantello.

Ovviamente, la comprensione del movimento dipende anche dalla chiarezza del suo significato. Alla presa di consapevolezza finale di un'opera d'arte, oltre alle indiscusse capacità percettive, concorre sempre l'abilità di saper leggere la sua storia mediante il cosiddetto registro simbolico e i segni convenzionali. Questo accade perché linee, forme, colori e movimenti non possono essere spogliati della loro veste simbolica senza cui la percezione dell'osservatore non potrebbe definirsi altrettanto chiara. È importante evidenziare che quello della gestualità è un tema ampiamente affrontato in arte non solo da Gombrich ma anche da altri noti esperti che si sono occupati della centralità della comunicazione non verbale, quali Chastel (2000), Dalli Regoli (2000), Chastel (2002), Ferraro (2002) ed infine La Porta (2006) 22. La maggior parte dei dipinti del XVII secolo sono commissioni pubbliche raffiguranti soggetti religiosi e, pertanto, necessitano di un linguaggio che permetta di comprendere il momento immortalato nell'opera. Per esempio, nel quadro che abbiamo poc'anzi analizzato di Gentileschi è raffigurata una scena precisa della storia: l'attimo in cui l'arcangelo San Michele affronta il diavolo. Ma se lo spettatore non fosse a conoscenza della storia di San Michele e, più in particolare, del suo specifico ruolo di angelo deputato a difendere i cieli contro le orde di Satana, probabilmente sarebbe difficile distinguere cosa sta accadendo nel quadro di Orazio. Pertanto, oltre all'indiscussa conoscenza della storia, la gestualità e alcuni simboli concorrono a permettere una più chiara attribuzione di significato da parte dello spettatore. San Michele, dipinto con ali bianche ─ tipiche della figura angelica ─ è colto nell'atteggiamento di chi, con la sua spada, è pronto a scagliare il colpo finale mentre il diavolo ─ raffigurato con le ali da pipistrello e la coda da satiro ─ porta al proprio volto il braccio sinistro in segno di difesa. Si tratta del classico atteggiamento di “trionfo” del vittorioso e di “difesa” della vittima che sembra ritornare spesso in arte, soprattutto, in scene di battaglia e di temi come l'uccisione. Questo, assieme ad altre espressioni gestuali, concorre alla lettura dell'opera, com'è possibile osservare anche mediante l'analisi di altri dipinti presenti in mostra.

Questa combinazione di espressioni gestuali e di movimenti si inseriscono sempre ─ come possiamo vedere anche dai quadri poc'anzi analizzati ─ in uno spazio d'insieme dove ogni elemento appare armonico rispetto al tutto. Il quadro si presenta come un ecosistema costituito da elementi che si trovano in un rapporto di perfetta relazione tra loro, proporzionalmente al messaggio dell'opera che si vuole trasmettere. «L'immagine è quella cartina al tornasole che ci consente di dimostrare quanto, così combinati, gli elementi siano divenuti di per sé impercettibili come entità isolate e siano invece affettate dall'osservatore come un complesso [...] L'opera è esperita come qualcosa che è e si dà nella sua forma intera» 23. Così alcune opere presenti in mostra, più di altre, offrono alla percezione visiva questo meraviglioso concetto di “armonizzazione” in cui ogni soggetto pittorico acquista la sua specifica funzione.

La struttura compositiva dell'Incoronazione della Vergine 24 di Bartolomeo Manfredi (Fig. 7)

Fig. 7 – Bartolomeo Manfredi, Incoronazione della Vergine con i santi Giovanni Battista, Maria Maddalena e Francesco, 1615-1616, Leonessa, Chiesa di San Pietro. Foto cortesia di Ilenia Salzano
Fig. 7 – Bartolomeo Manfredi
Incoronazione della Vergine con i santi
Giovanni Battista, Maria Maddalena e Francesco
, 1615-1616
Leonessa, Chiesa di San Pietro
Foto cortesia di Ilenia Salzano

dimostra la capacità dell'artista di saper padroneggiare ed organizzare in maniera sicura la regia degli spazi. In quest'opera, per ogni tipo di rapporto spaziale, c'è una distanza esatta tra i soggetti pittorici: punto d'equilibrio sembra essere Maria ─ collocata appena sopra quello che è percepibile come il “centro” dell'opera ─ cui appaiono ruotare intorno ed assumere precisa posizione tutti gli altri personaggi. In base a questo equilibrio, sono studiati anche gli oggetti del dipinto e la gestualità dei protagonisti, i quali assumono specifico ruolo, uno in funzione dell'altro. Nella parte alta, a destra, Dio Padre poggia una mano sul globo e l'altra sulla corona che si accinge a mettere sul capo della Madonna assieme a Cristo, sua giovane emanazione, realizzato in maniera perfettamente speculare dall'altro lato del dipinto. In basso, la Maddalena che si rivolge con sguardo estatico e l'intera posizione del corpo verso la Vergine, San Francesco inginocchiato al centro e col capo alzato osserva lo scenario in atto e Giovanni il Battista che, indicando la Madonna, sembra guardare direttamente lo spettatore ─ suggerendo di direzionare l'attenzione verso la scena in corso, l'Incoronazione della Vergine ─. Tutti i personaggi, i loro gesti e gli oggetti presenti nel quadro sottendono dunque una sorta di collegamento che li unisce gli uni agli altri: i soggetti connessi tra di loro costituiscono un'unità ed è questo che dona coesione visiva al quadro, il rapporto stabilito tra tutti i suoi elementi. Qualsiasi minima alterazione, causerebbe un'instabilità della globalità attualmente percepita come perfettamente in sintonia. «In genere, tutte le posizioni che coincidono con uno dei punti salienti dello schema strutturale vengono ad introdurre un elemento di stabilità [...] un effetto spiacevole rende oscuro il giudizio visivo ed interferisce col giudizio percettivo dello spettatore» 25. Inoltre, è possibile notare un chiaro tentativo dell'artista di creare un'opera “ordinata” che muove su un livello di “simmetria bilaterale”: i personaggi ai lati sono disposti formando una coppia identica e speculare e tutto è creato in funzione del centro. Si tratta di una struttura tipica di molte rappresentazioni divine, un'impostazione elementare in grado di restituire una sensazione di stabilità allo spettatore, il quale, in questo modo, potrà distinguere più chiaramente le forme semplici da quelle più complesse e ristabilire l'ordine del quadro, non avendo la percezione che qualcosa sia sbagliato, sbilanciato o mancante. È, dunque, evidente ─ come sostenuto anche da Gombrich e Arnheim ─ come l'opera d'arte non sia un processo casuale ma, al contrario, l'artista, tramite tentativi ed errori, debba cercare di arrivare al risultato “perfetto” in cui ogni forma, posizione e gesto si inserisce in uno spazio analiticamente e geometricamente studiato in funzione del tutto.

In più, questi rapporti spaziali non giocano solo all'interno del quadro ma l'opera in questione ─ e, più in generale, la pittura barocca ─ appare priva di confini delimitati, facendo preludere ad un carattere d'infinitezza dello spazio. Alcuni dipinti della mostra giocano, proprio, su una osmosi tra spazio interno ed esterno, dove non solo Cielo e Terra sembrano mischiarsi tra di loro ma paiono anche presagire una profondità ed illimitatezza che si estende oltre i confini dell'opera stessa. Questa nuova struttura spaziale crea la cosiddetta “illusione percettiva” di uno spazio aperto ed infinito, che si protrae oltre i limiti delle dimensioni reali della tela. La libertà d'espressione di questo periodo artistico è, infatti, osservabile in tutti i campi: dalle espressioni del volto ai gesti, dai colori vivaci agli scenari rappresentati, dalle posizioni assunte dai soggetti alla completa gestione dello spazio. Quest'ultimo non costituisce più un'area circoscritta ed opprimente ma si apre, invece, ad uno “sconfinamento” privo di qualsiasi limite come è possibile notare, esemplarmente, anche nell'opera San Francesco d'Assisi in atto di rendere il bambino alla Vergine 26 di Orazio Borgianni.

3. Decorum, potere e “senso dell'ordine”

Durante l'epoca barocca, il decorum diventa importante per evidenziare lo status e la posizione di un personaggio: in un periodo di piena Riforma cattolica, le immagini di figure riccamente vestite rappresentano un modo per affermare l'autorità delle persone importanti. Molti santi, principi e pontefici vengono rappresentati secondo elementi fisici, gesti ed oggetti che li caratterizzano e tendono ad identificarli.

Il San Gregorio 27 di Anastasio Fontebuoni (Fig. 8)

Fig. 8 – Anastasio Fontebuoni, San Gregorio Magno benedicente, 1606-1607, Roma, Chiesa di San Gregorio al Celio. Foto cortesia di Ilenia Salzano
Fig. 8 – Anastasio Fontebuoni
San Gregorio Magno benedicente, 1606-1607
Roma, Chiesa di San Gregorio al Celio
Foto cortesia di Ilenia Salzano

rappresenta una delle opere, se non l'opera, che nella mostra in questione perfettamente incarna il senso di “decorum”, così come inteso nel presente lavoro, ovvero l'insieme di oggettualità che fornisce senso ed ordine all'immagine osservata. Questo dipinto s'inserisce in un movimento che vede il culto della figura di Papa Gregorio Magno come uno strumento per la diffusione di una nuova immagine e di rinnovamento dell'istituzione ecclesiastica. «La diffusione della sua iconografia nei primi due decenni del Seicento va letta anche con una precisa volontà pedagogica, di nuovo apostolo teso alla repressione dell'eresia protestante» 28. Conformemente a questo spirito controriformato, la sua immagine appare intrisa di “dignità”, carattere che si esprime principalmente attraverso la totalità degli attributi presenti nel dipinto: il triregno o tiara papale inanellato di numerosi diademi che culmina in un piccolo globo crucigero, l'abito papale finemente ricamato e abbottonato sul davanti con una broche con pietre preziose, un libro nella mano sinistra, che identifica San Gregorio come dottore della Chiesa, e la scarpa che spunta leggermente sotto il mantello con minuzia di particolari che ne fanno dedurre la ricchezza del materiale. L'insieme di questi indizi iconografici non possono essere considerati come meri accessori presenti in un dipinto ma contribuiscono, piuttosto, a dare forma e significato al dipinto stesso. «La decorazione è fatta per il volto ma il volto è predestinato alla decorazione, esiste solo grazie ad essa. Qui davvero l'ornamento è l'atto stesso del reale, è l'aprirsi del simbolico» 29. Essi aiutano a conferire i caratteri di “dignità” e “decenza” al personaggio raffigurato e, anche, a modulare le aspettative dello spettatore: di fronte a questi elementi, chi guarda l'opera potrà cercare di dedurre l'atteggiamento interiore del Pontefice, il suo stile di vita e il tipo di ambiente all'interno del quale si trova ad operare. Dunque, l'efficacia di ogni segno ed attributo pittorico è data dal fatto che esso non si limiti alla funzione di abbellimento ma diventi un vero e proprio elemento essenziale al tipo di messaggio che l'artista vuole comunicare e alla stessa costruzione dell'opera. Non a caso, il medesimo repertorio oggettuale ─ nonostante le importanti differenze stilistiche dei due quadri ─ è presente anche nell'altro San Gregorio Magno 30 presente in mostra, quello di Jusepe de Ribera.

Da un punto di vista percettivo, il decoro non è, tuttavia, solo essenziale a dare significato all'immagine ma anche a creare il noto “senso dell'ordine” gombrichiano all'interno del quadro che stiamo osservando. Ricordiamo che lo stesso termine “decoro” deriva dal latino decorum che significa “star bene, convenire, addirsi, confarsi”, e proprio l'oggettualità presente in San Gregorio Magno conferma come si tratti di qualcosa che s'integra perfettamente nella struttura interna dell'opera, creando un certo ordine spaziale. Osserviamo l'emblema di ciò che stiamo asserendo, la tiara papale: essa è costituita da una triplice corona ─ simbolo del triplice potere del pontefice ─ ma, soprattutto, da una sequenza di motivi raffigurati al suo interno che si ripetono con cadenza regolare. Si tratta del cosiddetto “ritmo lineare alternato”, costituito da due elementi differenti per forma, colore e dimensione che continua a ripetersi in successione nella decorazione della superficie dell'oggetto. Oppure, anche i motivi ricamati sull'abito papale non sono stati realizzati in modo casuale ma presentano uno schematismo di fondo che ritorna in modo ridondante per tutta la sua lunghezza. Questi elementi contribuiscono a dare “ordine” e “linearità” alla rappresentazione pittorica e, soprattutto, a orientare l'occhio dell'osservatore che attraverso la coerenza strutturale non brancolerà nel caos ma sarà guidato da una perfetta armonia. «L'eterno, ordinato ritorno dei motivi che, tra logica matematica inflessibile e continuità ritmo-organica, dimora nel cuore dell'ornamento [...]» 31 scandisce la narrazione della figura stessa. È quest'ordine a determinare quella determinata percezione visiva del soggetto che ─ come sostengono le posizioni teoriche di Gombrich e Arnheim ─ tenderà sempre più alla semplicità che alla complessità. Non si tratta più, dunque, di ridurre la questione alla, ormai consuetudinaria e obsoleta, differenza tra “elementi necessari” ed “elementi superflui” ma il decorum costituisce piuttosto, un elemento che tra i tanti fa parte del senso unitario interno alla scena raffigurata.

«Se la decorazione dipende dalla struttura non è più decorazione [...]. La decorazione crea il volto, lo porta alla luce: solo esso dona, conferisce al volto dignità umana, valore sociale e significato spirituale. Qui cade ogni differenza aprioristica tra fondamento e supplemento, tra ornamento e struttura. Perché non è che volto e decorazione siano immediatamente la stessa cosa: piuttosto si compongono in unità 32».

Infine, il caso ancora più emblematico del Tabernacolo portatile con la Pietà 33 a cui hanno collaborato Annibale Carracci ed altri artisti mostra ─ forse, in modo ancor più evidente ─ come quest'opera senza la sua struttura decorativa non sarebbe più identificabile nel Tabernacolo ma costituirebbe del tutto “un'altra opera”, diversa da questa. Osservare questa creazione artistica togliendola del suo impianto decorativo equivarrebbe a “spogliarla” di parte del suo significato, conducendo lo spettatore ad una differente percezione. Ciò, per rimarcare ancora una volta come senza il decoro ─ ribadiamo, in questa sede, inteso nel senso più ampio del termine, ossia come oggettualità, interna ed esterna all'opera, che fornisce significato ed ordine alla scena ─ la configurazione del dipinto veicolerebbe un altro messaggio. Esso contribuisce alla coesione, alla significazione e all'unità essenziale a cui l'artista mira, ancor più in un periodo storico-culturale dove lo sfarzo e la teatralità sono designati a strumento di comunicazione imprescindibile. «La grande decorazione barocca interpreta perfettamente le fastose esigenze dei principi romani, laici ed ecclesiastici»34 e caratterizza, in questo modo, non solo il senso del singolo ma lo spirito di un'intera epoca.




4. L'ambiguità e l'interpretazione dell'osservatore

L'interpretazione di un'opera è sempre anche soggettiva e dipende dalle informazioni che una mente ha a propria disposizione: oltre alle indubbie capacità percettive innate, ognuno di noi può fornire un proprio punto di vista sull'opera ─ simile o differente da altri ─ a seconda della personale esperienza di vita vissuta. Se un uomo è capace di individuare i diversi rapporti proporzionali, di astrarre le forme semplici da quelle complesse, di orientarsi nello spazio, sarà anche in grado ─ seguendo quella che rappresenta una tendenza naturale innata di fronte ad un'opera d'arte ─ di fornire una personale interpretazione di ciò che sta osservando. Si tratta della fase in cui lo spettatore ─ attraverso uno stadio d'attenzione più focalizzato e la messa a fuoco di dettagli rilevati nella percezione iniziale ─ cerca di attribuire significato globale all'opera che ha di fronte. Il fruitore, elaborando le informazioni percepite ed integrando le proprie conoscenze, aspettative ed esperienze contenute nel proprio bagaglio culturale, sfocia nella creazione di significati, letture ed interpretazioni varie.

«Tendiamo a proiettare vita e espressione sull'immagine arrestata e ad aggiungere in base alla nostra esperienza ciò che non è presente. Perciò il ritrattista che voglia compensare la mancanza di movimento deve innanzitutto mobilitare la nostra proiezione. Egli deve sfruttare l'ambiguità della faccia immobilizzata in modo che la molteplicità delle possibili letture diano luogo alla parvenza di vita 35».

Un esempio concreto di dipinto che innesca la “soggettività” dell'osservatore sembra essere fornito dall'opera con cui Artemisia Gentileschi fa il suo esordio nel contesto artistico romano, Susanna e i vecchioni 36 (Fig. 9).

Fig. 9 – Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchioni, 1610, Pommersfelden, Collezione Graf von Schönborn, Schloss Weissenstein. Foto cortesia di Ilenia Salzano
Fig. 9 – Artemisia Gentileschi
Susanna e i vecchioni, 1610
Pommersfelden, Collezione Graf von Schönborn, Schloss Weissenstein
Foto cortesia di Ilenia Salzano

L'ambiguità non riguarda solo un oggetto o un dettaglio specifico all'interno del quadro ma anche la stessa natura della realtà che l'autore vuole comunicare. In questo dipinto ─ dall'artista realizzato più volte nel corso degli anni per giungere al risultato desiderato ─, una giovane donna nuda ─ coperta solo da un panno bianco che cela le sue parti intime ─, Susanna, appare seduta su un gradino di pietra mentre dietro di lei, in posizione più elevata, due uomini sembrano rivolgerle la loro attenzione, sporgendosi in sua direzione. Naturalmente, anche in questo caso, parliamo di un'opera oggetto di grande critica e di dibattito da parte degli storici d'arte proprio perché si presta a varie visioni. Le interpretazioni predominanti ─ in base all'episodio biblico narrato nell'Antico Testamento ─ afferiscono ad una chiave di lettura di tipo femminista ed autobiografica: la scena narrerebbe l'episodio di molestia subito da Susanna da parte di due uomini anziani che frequentavano la casa della donna e si invaghirono di lei, chiedendole favori sessuali. Altre ─ che fanno leva sulla nudità in primo piano ─ rimandano, invece, a risvolti dai tratti erotici, tema oltretutto frequente nelle rappresentazioni dell'epoca. Le ipotesi sono più di una e quasi tutte convogliano ─ in virtù di un fattore culturale che vede nella storia umana la supremazia della figura maschile rispetto quella femminile ─ nella direzione di una donna “sottomessa” o, in qualche modo, “disturbata” dalla presenza dei due uomini raffigurati alle sue spalle. «Il focus emozionale dell'episodio narrato è centrato sul sentimento avverso alla violenza» 37.

Ma chiunque si trovi ad osservare questo quadro trarrà le proprie conclusioni in base alle proprie conoscenze e alla propria esperienza di vita, la quale ─ plasmata ovviamente anch'essa dall'ambiente ─ presenterà comunque sempre un aspetto individuale. Infatti, di fronte a uno sguardo scevro di conoscenza inerente al testo biblico, alla vita dell'artista e al contesto cui ella appartiene ed opera, i “vecchioni” potrebbero essere interpretati come semplici passanti che si scambiano opinioni sull'abbigliamento indecoroso della donna, uomini intenti nell'atto di disturbarla o ancora conoscenti che vogliono richiamarla ... Susanna e i vecchioni è un'opera che non appare già “definita” ma che, proprio per la sua incompletezza ed apertura all'interpretazione, cattura l'attenzione dello spettatore a cui è richiesta una sorta di partecipazione attiva. «Lo stesso elemento di ambiguità e mistero ci fa leggere il dramma in termini di emozioni interne, e una volta che siamo sintonizzati su questa interpretazione proiettiamo in misura crescente su questi gesti ed espressioni pacate un'intensità maggiore di quella che probabilmente vedremmo [...]» 38. L'artista realizza una scena scarna che punta a descrivere in modo essenziale il fatto narrato: vengono dipinti solo i protagonisti dell'episodio (lo sfondo appare privo di paesaggio e di altre persone che potrebbero contribuire alla lettura dell'opera), caratterizzati nei loro gesti ed espressioni eloquenti. Tuttavia, proprio l'insieme dei dettagli in cui Artemisia si prodiga per condurre ad un'interpretazione dell'opera ben precisa e ad uno “svelamento” della tematica sottostante ─ il telo posto sulle parti intime della protagonista, l'espressione di disprezzo leggibile sul suo volto, la gestualità delle mani ─, in realtà, contribuisce ad una sorta di “mascheramento” ed indeterminatezza della scena rappresentata senza condurre, per forza, ad un'interpretazione univoca. Essi sono come «luoghi di indeterminazione, che funzionano come relais attivando nell'osservatore una serie di domande e innescando il meccanismo della sintesi che si susseguono senza peraltro giungere a una concettualizzazione stabile e definita» 39.

Ad aiutare nella formulazione del proprio pensiero riguardo il significato dell'opera è sicuramente il contesto come possiamo osservare in Cantore 40 di Pietro Paolini e in Fabbricante di strumenti musicali 41 di Cecco del Caravaggio. Entrambi gli esempi ci mostrano quanto il contesto ─ inteso come gli elementi e gli oggetti presenti intorno alle figure principali ─ sia importante nella lettura dei dipinti e quanto senza di esso l'interpretazione della rappresentazione sarebbe differente. Nel caso del Cantore, su un fondo scuro di chiaro stampo caravaggesco, il fanciullino protagonista di questo dipinto viene raffigurato in un'espressione “peculiare”: «il viso e il naso sono allungati, i lineamenti morbidi, gli zigomi alti, le labbra prominenti, gli occhi acquosi ed espressivi e [...] la bocca enormemente spalancata» 42. A prima vista, volgendo lo sguardo esclusivamente verso l'espressione del ragazzo, il senso comune potrebbe portare, banalmente, ad ipotizzare si tratti di un'espressione raffigurante l'emozione tipica della “paura” o della “sorpresa”: il giovane con lo sguardo rivolto alla sua sinistra sembra essere colto da qualcosa di inaspettato che si esprime, in tal modo, sul suo volto. In realtà, c'è un elemento che fa la differenza ed è proprio quello del contesto: se lo sguardo si allarga a tutto ciò che è presente nel quadro, è possibile notare come il protagonista abbia tra le sue mani uno spartito musicale che stravolge completamente la visione iniziale. Questo dipinto s'inserisce, infatti, nella rappresentazione tipizzata dei musicisti e dei cantori dell'epoca che vengono ritratti con alcune stereotipie tra cui proprio la “bocca aperta”, indice che il giovane in quel momento fosse probabilmente impegnato in un'attività di gorgheggio. Un'opera simile presente in mostra è il Fabbricante di strumenti musicali di Cecco del Caravaggio, in cui ─ oltre agli strumenti musicali che aiutano a ridefinire l'ambiguità del dipinto ─ è possibile cogliere la stessa caratteristica della bocca semiaperta. Ancora una volta, è evidente come l'artista ─ sempre per compensare la limitazione degli strumenti che ha a disposizione ─ si serva di un registro gestuale e contestuale che, spesso, si ripete nelle opere di medesimo genere o che vogliono veicolare un messaggio analogo.

Anche nella mostra in oggetto, non sono solo presenti similarità espressive e contestuali rintracciabili nei dipinti che hanno come protagonisti i soggetti “cantori” ma, in particolare, ciò che salta all'occhio ─ guardando le opere esposte ─ è la comunanza di caratteristiche espressive, gestuali e stilistiche nelle scene di genere predominante, l'ambito sacro. Basti pensare ─ al di là delle imprescindibili differenze peculiari della personalità e del modo di dipingere del singolo pittore ─ alle somiglianze che l'osservatore può rintracciare tra le varie raffigurazioni della Sacra Famiglia, della Madonna col Bambino, di David con la testa di Golia e degli episodi inerenti Cristo. Proprio queste tipizzazioni ridondanti che possono essere definite come «immagini di memoria» 43 permettono al fruitore ─ ripercorrendo ciò che, per l'appunto, è presente nella sua memoria visiva ─ di compiere parallelismi tra opere e di associarle ad emozioni già vissute dando, ogni volta, la propria interpretazione personale. È in base al proprio modo d'apprendere, ai propri ricordi, alle associazioni e, in generale, al proprio passato che la persona può determinare il presente percettivo dell'opera. L'ambiguità e gli indizi, non rappresentano un limite all'immaginazione del fruitore ma, al contrario, fornendo un contesto di maggior precisione, stimolano maggiormente le sue attività di percezione individuale. Un'immagine ambigua verrà sempre completata mediante la cosiddetta “parte dell'osservatore” che ─ tramite le proprie reminiscenze ed esperienze ─ contribuirà alla definizione del dipinto con una buona dose di soggettività.

5. L'essenza di un'epoca

Figlie dello stesso periodo, le opere con cui s'apre la mostra “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630” rappresentano entrambe le antitetiche ragioni dello spirito di un'epoca, uno stesso periodo storico che si esprime attraverso due differenti modalità espressive. Da un lato, un “Classicismo raffinato” ─ la pala di Annibale ─ e dall'altro un “Naturalismo realistico” ─ la pala del genio lombardo, Caravaggio ─.

Questo iniziale confronto tra le pale d'altare di due grandi artisti riassume magnificamente il concetto di quanto le opere d'arte non siano mai considerabili come “unità isolate” quanto, piuttosto si tratti sempre di entità incorporate e culturalmente emergenti. La tela di Carracci 44 (Fig. 10)

Fig. 10 – Annibale Carracci e bottega, Madonna di Loreto, 1604-1605, Roma, Chiesa Sant’Onofrio al Gianicolo. Foto cortesia di Ilenia Salzano
Fig. 10 – Annibale Carracci e bottega
Madonna di Loreto, 1604-1605
Roma, Chiesa Sant'Onofrio al Gianicolo
Foto cortesia di Ilenia Salzano

─ commissionata dal cardinale Carlo Gaudenzio Madruzzo per la chiesa di Sant'Onofrio al Gianicolo ─ rappresenta uno stile unitario pienamente fedele alla tradizione dell'iconografia sacra. I personaggi rientrano in uno spazio prospettico che rispetta le gerarchie e la simbolicità: il luogo fisico della casa della Vergine viene sollevata da angeli e putti che ─ grazie alla forza miracolosa divina ─ si accingono a trasportarla al luogo destinato, per l'appunto, Loreto, mentre la Madonna col Bambino appare collocata in posizione sollevata ─ segno della sua importanza ─, esattamente al centro della scena. La struttura proporzionata dei corpi e degli spazi, la bellezza idealizzata dei volti, le vesti sontuose e gli stessi simboli (gli angeli e la corona) rimandano ad una classicità tipica e richiesta dalle commissioni del tempo. Quella di Annibale è una pittura che compiace il gusto dei committenti, si attiene alle regole e allo stile predefinito ed esprime idealmente il sentimento del contesto in cui si trova ad operare. Il metodo utilizzato da quest'artista incarna perfettamente lo spirito della Controriforma che nei caratteri classici trova la via più limpida e lineare per diffondere i dogmi e i valori della fede cristiana. Tuttavia, questa non è l'unica strada possibile: Caravaggio mostra come «tra il manierismo di Giuseppe Cesari e il sublime idealismo di Annibale Carracci esista anche la capacità di sconvolgere le regole imposte agli artisti dalla Controriforma»45. La Madonna di Loreto 46 di Caravaggio (Fig. 11)

Fig. 11 – Caravaggio, Madonna di Loreto, 1604-1605, Roma, Chiesa di Sant’Agostino. Foto cortesia di Ilenia Salzano
Fig. 11 – Caravaggio
Madonna di Loreto, 1604-1605
Roma, Chiesa di Sant'Agostino
Foto cortesia di Ilenia Salzano

─ commissionata, invece, dalla famiglia Cavalletti per la Chiesa di Sant'Agostino ─ non s'attiene al codice tradizionale ma, come un “battitore libero”, questo pittore infrange le regole spogliando la tela dell'iconografia classica ─ fino ad allora declinata in diverse forme simili ─ e apre artisticamente un nuovo percorso. La scena sacra viene calata in un'ambientazione di carattere profano dove la Madonna con indosso abiti da “popolana” si presta ad accogliere in casa due pellegrini ─ dalle vesti sporche e dagli atteggiamenti umili ─ ai suoi piedi inginocchiati. Non solo i caratteri e le sembianze dei personaggi appaiono innovativi ma la stessa struttura spaziale rappresenta un capovolgimento dell'iconografia sacrale: non più la Vergine col Bambino collocata al centro del quadro ma due gruppi di persone posti ai lati della Tela dove il senso di sacralità viene rimandato esclusivamente dalla linea obliqua che dal basso dei pellegrini muove verso la destra della Madonna e di Gesù. Ora ─ seppur in seguito ad un enorme scalpore suscitato ─, questa nuova forma espressiva non verrà ripudiata ma accogliendola sarà, piuttosto, sintomo di un altro tipo di sentimento artistico che si farà spazio nei primi anni del Seicento, quello di rappresentare gli aspetti della vita con carica di realismo e di passione, la quale non dev'essere latente ma, al contrario, necessita d'imprimersi sulla tela con tutta la sua forza. Carracci e Caravaggio, attraverso la loro attività, rispecchiano entrambi il sentire d'un'epoca a riprova del fatto che l'arte ─ basata su uno studio attento e accurato ─ sia sempre un'opera “umana”.

«Quanto siamo soliti definire “opera d'arte” non è il risultato di un'attività misteriosa, bensì un oggetto fatto dall'uomo per l'uomo. [...] La maggior parte dei quadri che ora sono allineati sulle pareti dei musei e delle statue che si trovano nelle gallerie non era affatto destinata a essere esposta come opera d'arte: fu creata per una circostanza ben determinata e con un fine preciso che l'artista aveva in mente al momento di mettersi all'opera 47».

L'intera mostra ─ attraverso la sola impressione percettiva iniziale nei confronti dei dipinti ─ permette di cogliere quest'ambivalenza culturale di cui i quadri si fanno portavoce: da un lato il classicismo delle regole, dall'altro l'impeto e la necessità del sentimento. L'arte di quest'esposizione è l'espressione diretta della vita di quel determinato periodo storico e di quel luogo, dove a prevalere è un “dualismo” di fondo, quello tra la forma e l'istinto. La prima cosa che viene in mente osservando le opere è una raffinata ridondanza che si mostra nella struttura del dipinto, nelle forme studiate dei protagonisti dai tratti tondi ed idealizzati, nell'uso attento del colore che ne esalta i volumi e nella stessa gestualità mai scomposta ma attenta al rispetto tradizionale. Opere come Cristo nel sepolcro 48 di Passignano o David che contempla la testa di Golia 49 di Gentileschi oppure Santa Cecilia e l'angelo 50 di Saraceni hanno tutte in comune uno stile in cui è possibile notare alla base un attento studio compositivo, caratterizzato da una precisa logica spaziale e dai tratti analitici e precisi dei corpi dei protagonisti che fanno presumere la grande maestria e la preparazione da parte dei loro autori. Ma di fronte alla contemplazione di questi stessi dipinti, lo spettatore non può, al contempo, non essere catturato dalle emozioni che si imprimono sul volto dei soggetti protagonisti delle scene: la sofferenza incarnata sul volto di Cristo, l'espressione pensosa e malinconica di David ─ quasi egli provasse compassione verso la sua vittima ─ e la beatitudine di Santa Cecilia. Ancor più lampante è il caso di Maria Maddalena in Estasi 51 di Louis Finson, dove la protagonista ─ su una contrapposizione figura-sfondo ben studiata, e messa ancor più in risalto dal gioco di luci di stampo caravaggesco ─, esprime l'apice del suo momento estatico coronato, addirittura, dall'uscita di una piccola lacrima che scende dall'occhio sinistro. La Maddalena non nasconde l'emozione ma quest'ultima diventa vivida protagonista del quadro, quasi ad avanzare allo spettatore una richiesta di partecipazione al suo stato emotivo. Attraverso l'osservazione di queste opere, emerge, dunque, un atteggiamento di “sentimentalismo” che porta a non dover camuffare le passioni dell'animo umano quanto, piuttosto, alla necessità dell'artista di saperle narrare con tecnica ed efficacia. Da qui la “doppia funzione” di fondo del periodo barocco.

«L'atteggiamento del barocco può dirsi basato su un conflitto oggettivo tra forze antagoniste, che tuttavia si fondono in un sentimento soggettivo di libertà e anche di piacere [...]. Il dolore è talmente violento da tramutarsi quasi in piacere, così l'ineffabile beatitudine di una creatura mortale giustificata da un'apparizione celeste può divenire così travolgente da provocare dolore, un dolore che rende ancor più intenso il piacere 52».

La corrente carraccesca e quella caravaggesca non sono, quindi, completamente antitetiche e inconciliabili ma possono essere descritte come lati di una stessa medaglia che, spesso e volentieri, trovano sintesi all'interno del medesimo quadro. Queste correnti apriranno la strada alla fase successiva, quella del Barocco, che altro non sarà che il risultato di entrambi gli aspetti, il classicismo e il naturalismo, che troveranno unità in una nuova forma espressiva. Questo è ben visibile nell'opera che chiude e sintetizza la mostra in oggetto, Allegoria dell'Italia 53 (Fig. 12)

Fig. 12 – Valentin de Boulogne, Allegoria dell’Italia, 1627-1628, Roma, Institutum Romanum Finlandiae. Foto cortesia di Ilenia Salzano
Fig. 12 – Valentin de Boulogne
Allegoria dell'Italia, 1627-1628
Roma, Institutum Romanum Finlandiae
Foto cortesia di Ilenia Salzano

─ dipinta tra il 1627 e il 1628 per la famiglia papale Barberini ─ di Valentine de Boulogne, ultimo caravaggesco rimasto a Roma.

In un quadro che raffigura allegoricamente l'Italia, in modo splendente e fiero, De Boulogne sembra voler raccontare l'Italia del suo tempo, in quel preciso periodo storico in cui gli artisti da tutto il mondo ne vengono attratti, soprattutto, grazie alla pittura innovativa di Caravaggio, che si inserisce in una lunga tradizione artistica italiana. Lo spirito di quest'artista si insinua con vigore nella tela di grandi dimensioni, dove la teatralità dell'insieme e la capacità di riprodurre l'immagine allegorica in una scena dai tratti popolari si sposa con la sapiente tecnica esecutiva, fatta dal colore avvolgente, dal dinamismo compositivo e dalla luce che si sofferma sui volti. Questa tela rappresenta «una prova generale [...], sintesi suprema del processo che doveva condurre Valentin verso esiti più spiccatamente classicisti, in cui è ravvisabile una più vibrante resa naturalistica accanto a sfumature liriche classiche e a elementi chiaramente barocchi» 54. Commissionata come un'opera su cui aleggia, ancora una volta, l'aura papale ─ molteplici nel dipinto sono i rimandi all'istituzione pontificia, primo fra tutti il Carattere inciso sull'elmo, sulla lancia e sullo scudo della protagonista ─, questa rappresentazione non può trovare massima espressione se non nella forma della classicità. Ciononostante, quest'ultima non si spoglia mai completamente della resa naturalistica e degli insegnamenti del genio lombardo che ne costituiscono le fondamenta e su cui l'intera opera trova realizzazione. Con questo dipinto, De Boulogne si presenta come «il pittore francese, tra tutti ad aver compreso ed assimilato il più autentico messaggio caravaggesco» 55 e si presta a chiudere il cerchio di un florido periodo, il caravaggismo romano, la cui eredità sarà avvertita fino ai giorni nostri.

Conclusioni

Viviamo in un mondo dove l'esperienza di vita si identifica sempre più con “ciò che appare” al punto tale da considerare la conoscenza del reale, ad uno sguardo superficiale, come logica e naturale. Affrontare questo percorso di analisi percettiva, avendo come oggetto privilegiato d'indagine un campo concreto, ovvero la Mostra “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630”, ha permesso di addentrarsi in un ambito, forse, ancora poco conosciuto e di svelare alcuni legami e meccanismi inediti. Il campo dell'arte, per quanto, possa apparire un atto di percezione semplice ed immediato, in realtà, risponde a processi cognitivi, psicologici, storico-culturali ben precisi e che meritano di essere analizzati.

«La semplice presa di contatto non può bastare: troppe persone visitano i musei e raccolgono libri d'arte senza con ciò ottenere un accesso all'arte. La capacità innata di comprendere attraverso gli occhi si è assopita e deve essere risvegliata [...] Non già che sia un mezzo espressivo estraneo e inadatto ad esprimere le cose visibili, non si riferisce a nient'altro che all'esperienza percettiva» 56.

Ciò che in ambito artistico si presenta, ai nostri occhi, come superficiale ed evidente risponde, al contrario, a regole ben definite e che afferiscono al campo sia della sfera oggettiva che di quella soggettiva. In particolare, pare che gli aspetti oggettivi guidino il soggetto verso un percorso di lettura dell'opera studiato dall'artista creatore mentre gli aspetti soggettivi servano, invece, ad elaborare lo stimolo visivo secondo le aspettative, conoscenze, emozioni che queste immagini suscitano in chi osserva. L'impressione iniziale e gli elementi principali di un'opera vengono raccolti secondo una struttura cognitiva invariante tra gli individui, che consente alla maggior parte delle persone di percepire la raffigurazione in modo globale, cogliendone gli aspetti essenziali. Le cosiddette “leggi gestaltiche”, percepire un oggetto vicino piuttosto che lontano, notare le sfumature di colore, la necessità di ricercare la semplicità nella complessità sono costanze che rispondono tutte al fatto che il sistema percettivo umano funzioni in un determinato modo. Gli stessi artisti ─ dotati di tale consapevolezza ─ abbiamo visto come sfruttino le capacità cognitive dell'osservatore mettendo in atto una serie di espedienti per direzionare l'occhio verso un preciso elemento e significato. Rappresentare i corpi in specifiche posizioni affinché si possa trasmettere il carattere di movimento, addensare più elementi vicini per dare l'idea di unitarietà, utilizzare i contrasti di luci ed ombre in base a svariate finalità artistiche sono tutti strumenti che il pittore utilizza sulla base della conoscenza del funzionamento del cervello umano.

Tuttavia, abbiamo avuto anche modo di osservare, però, come la nostra razionalità permetta di spiegare meglio l'arte ma non consenta di prevederla o di capirla fino in fondo. Il modo in cui esploriamo le immagini è guidato dalle informazioni visive oggettivamente presenti nel quadro (il colore, la luce, le forme, le dimensioni) ma è anche influenzata dalle nostre conoscenze, dal nostro vissuto, dalla nostra memoria e dalla nostra personale interpretazione. Tutto questo mette in luce un altro aspetto della medaglia, l'esistenza di un rapporto reciproco tra l'artista che crea l'opera e lo spettatore che è chiamato ─ attraverso una sorta di partecipazione attiva ─ a comprenderla ed arricchirla. L'arte sembra apparire incompleta o incapace di essere definita tale senza il coinvolgimento percettivo ed emotivo dello spettatore: ogni immagine è intrinsecamente “ambigua” ─ sia per la natura stessa della materia artistica sia in quanto legata al punto di vista personale del suo autore ─ al punto tale da richiedere l'intervento dell'osservatore che, secondo il proprio vissuto emotivo, risponderà al completamento dell'opera con una forte carica di soggettività. L'engagement sembra essere proprio dato da una via di mezzo tra l'espressione dell'artista e il contributo personale di chi osserva, dando vita ad una creazione artistica unica e sempre diversa.

«Tutto ciò porta a concludere che l'espressione linguaggio dell'arte è qualcosa di più di una vuota metafora, cioè che anche per descrivere in immagini il mondo visibile è necessario un elaborato sistema di schemi. [...] Senza qualche punto di partenza, qualche schema iniziale, non potremmo mai fissare il flusso dell'esperienza. Senza categorie non potremmo analizzare e sceverare le nostre impressioni» 57.

Queste osservazioni consentono non solo di approfondire il campo dell'arte ma di aprire nuove strade nei confronti di molteplici campi di realtà irrelati fra loro. In un'epoca dove la dimensione sensibile appare come elemento predominante e mediatore di qualsiasi forma di conoscenza, indagare come funzionino i meccanismi percettivi delle immagini ─ sia nei loro aspetti oggettivi che soggettivi ─ offre spunti di riflessione per scoprire cose altrimenti latenti ai nostri occhi e che vengono, spesso, date per scontate. La necessità critica ─ che ha caratterizzato la principale spinta motivazionale da cui muove l'elaborato in oggetto ─ non conduce necessariamente ad una sistematizzazione dei concetti ma prestare attenzione, sollevare problemi, analizzare le forme nelle loro molteplici espressioni permette, oltre che spiegare la complessità dell'atto conoscitivo, di trovare significati reconditi e svelare nuovi scorci di progresso.




NOTE

1 ARNHEIM 1954, Quarta di copertina.

2 GOMBRICH, HOCHBERG, BLACK 1972, p. 58.

3 GOMBRICH 1950, p. 36.

4 PANOFSKY 1995, p. 77.

5 Roma al tempo di Caravaggio 2011, p. 80.

6 Ivi, p. 82.

7 Ibidem.

8 PANOFSKY 1995, p. 58.

9 Ivi, p. 13.

10 Roma al tempo di Caravaggio 2011, p. 166.

11 Ibidem.

12 Ivi, p. 148.

13 Ivi, p. 90.

14 Ivi, p. 41.

15 Ivi, p. 194.

16 Ivi, p. 160.

17 Ivi, p. 180.

18 Ibidem.

19 Ivi, p. 112.

20 ARNHEIM 1954, p. 345.

21 Roma al tempo di Caravaggio 2011, p. 260.

22 Per approfondimenti, si vedano i testi riportati in bibliografia di Dalla Regoli (2000), Chastel (2000; 2002), Ferraro (2002) e La Porta (2006).

23 L'arte e i linguaggi della percezione 2004, p. 33.

24 Roma al tempo di Caravaggio 2011, p. 186.

25 ARNHEIM 1954, pp. 33-34.

26 Roma al tempo di Caravaggio 2011, p. 114.

27 Ivi, p. 52.

28 Roma al tempo di Caravaggio 2011, p. 52.

29 L'arte e i linguaggi della percezione 2004, p. 105.

30 Roma al tempo di Caravaggio 2011, p. 250.

31 L'arte e i linguaggi della percezione 2004, p. 101.

32 L'arte e i linguaggi della percezione 2004, p. 105.

33 Roma al tempo di Caravaggio 2011, p. 70.

34 Il Seicento 2005, p. 169.

35 GOMBRICH, HOCHBERG, BLACK 1972, p. 24.

36 Roma al tempo di Caravaggio 2011, p. 164.

37 Ibidem.

38 GOMBRICH 1982, p. 108.

39 L'arte e i linguaggi della percezione 2004, p. 86.

40 Roma al tempo di Caravaggio 2011, p. 332.

41 Ivi, p. 226.

42 Ivi, p. 332.

43 GOMBRICH 1982, p. 10.

44 Roma al tempo di Caravaggio 2011, p. 24.

45 D'ORAZIO 2013, p. 37.

46 Roma al tempo di Caravaggio 2011, p. 22.

47 GOMBRICH 1950, p. 32.

48 Roma al tempo di Caravaggio 2011, p. 98.

49 Ivi, p. 176.

50 Ivi, p. 162.

51 Ivi, p. 248.

52 PANOFSKY 1995, pp. 41-58.

53 Roma al tempo di Caravaggio 2011, p. 346.

54 Roma al tempo di Caravaggio 2012, p. 85.

55 Ibidem.

56 ARNHEIM 1954, pp. 23-24.

57 GOMBRICH 1959, pp. 93-94.


     

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Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630. Saggi (Catalogo della Mostra, Roma, Palazzo Venezia, Saloni Monumentali, 16 novembre 2011 - 5 febbraio 2012), a cura di Rossella Vodret, Milano, Skira, 2012.



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