Il pittore
Orazio Riminaldi (1593-1630) è ormai
riconosciuto dalla critica come il principale
esponente del barocco a Pisa, città dove nacque
e morì dopo essere stato attivo a Roma per
almeno un decennio, pienamente immerso nel
contesto artistico cittadino . La sua vita e
la carriera che ebbe sono state ricostruite da
Pierluigi Carofano, Franco Paliaga e Riccardo
Lattuada, in una monografia uscita nel 2013 e
nel catalogo della mostra sull'artista tenutasi
nel 2021. A entrambi i volumi, dunque,
egualmente si rimanda per un resoconto esteso
sul corpus del pittore e la sua rilevanza
critica .
In questa sede
si desidera tornare sul sonetto che il letterato
pugliese Giovan Francesco Maia Materdona
(1590-post 1649) dedicò al Riminaldi nelle sue Rime, la cui prima
edizione uscì a Venezia nel 1629 , in lode di un
ritratto del poeta eseguito dal maestro pisano.
Esso è stato studiato per la prima volta da
Pierluigi Carofano e Franco Paliaga: il poeta
sarebbe stato il primo a riconoscere il
naturalismo del pittore, quest'ultimo lo avrebbe
in seguito aiutato a trasferirsi a Pisa dal 1626
al 1627 . Bisogna
sottolineare, in ogni caso, che – per quanto è
stato possibile ricostruire finora – si tratta
della prima attestazione datata del successo
raggiunto dal Riminaldi, altrimenti mai citato
nelle fonti a stampa di Roma , città che
aveva lasciato due anni prima, nel 1627, per
tornare a Pisa, chiamato da Curzio Ceuli a
decorare la volta della cupola del Duomo .
Un'attestazione scritta da un letterato, il Maia
Materdona, che godette di grande celebrità ai
suoi tempi, e che non nacque nel Granducato di
Toscana ma a Mesagne, nell'odierna Puglia: la
maggior parte dei contemporanei ne lodava
l'intelligenza e i versi eleganti che sapeva
comporre. Perfino l'arcade Giovan Mario
Crescimbeni, nel secolo successivo, avrebbe
riconosciuto in lui il principale erede di
Giovan Battista Marino e un dotato
versificatore, ancorché troppo incline a
metafore ardite, con un linguaggio saturo di
effetti . Per la sua
importanza, dunque, si ritiene opportuno
trascrivere integralmente il sonetto in onore
del Riminaldi:
«Non di
cristallo, ORAZIO, e non di rivo
Splendido
lampo, o trasparente humore,
ritrasse mai
l'effigie mia sì al vivo,
come già l'ha
ritratta il tuo valore.
Ma che festi?
Io sperava arso d'amore
restar tosto e
di vita, e di duol privo:
poco hor mi
gioverà s'ella si more;
ch'anco ne'
lini tuoi resterò vivo.
Deh, se tanto
benigno esser ti vanti,
quanto industre
tu sei, per saggio avviso
dipingi i
fortunati, e non gli Amanti.
Raddoppi un
huom, se d'huom tu pingi un viso;
nel ritrar chi
è dolente allunghi i pianti,
nel ritrar chi
è felice allunghi il riso»
.
Lo scopo del
presente studio è appurare se questi versi
possano essere un ulteriore mezzo per
comprendere il corpus dell'artista, pur nella
piena consapevolezza che il Maia Materdona fu un
poeta e mai un teorico delle belle arti come lo
furono Giulio Mancini o Filippo Baldinucci. La
sua esaltazione del naturalismo prezioso ed
emotivo del Riminaldi, tuttavia, corrisponde
alle letture dell'artista che diedero, fra Sette
e Ottocento, Ranieri Tempesti e Alessandro da
Morrona .
La necessità di
tornare sul sonetto al Riminaldi è giustificata
anche dall'analisi comparata degli altri
ventitré componimenti a tema artistico delle Rime del 1629 , la quale
dimostra che l'ermeneutica del Maia Materdona è
meno profonda, e ovviamente meno specifica
rispetto alle Vite del Baglione, o
alle Notizie del Baldinucci.
La fedeltà dell'artista alla natura che
contraddistingue il sonetto al Riminaldi,
invero, è uno dei temi ricorrenti nelle Rime, con
espressioni sempre molto simili. Cavalier
d'Arpino, gli ignoti Gaspare Torelli e
Marcantonio Vinta, nonché il pittore provinciale
e attardato Giovan Pietro Zullo, al pari di
Tiziano Vecellio, sono tutti egualmente lodati per aver
vinto l'arte mediante la loro fedeltà alla
natura . Si sarebbe
dunque tentati di sottovalutare la validità del
sonetto al Riminaldi del Maia Materdona come
testimonianza, ma il confronto con il Marino,
riferimento primario del poeta , induce a
ritenere che ci si sbaglierebbe. La ricerca ha
dimostrato che alcuni elogi nella Galeria a maestri oggi
svalutati o dimenticati, ad esempio Lucilio
Gentiloni ed Ercole Abbadi , sono basati
sull'effettivo successo goduto da loro mentre
erano in vita. Malgrado Luigi Lanzi ritenesse
entrambi immeritevoli di essere lodati dal
Marino , è ormai
acquisito che il primo fu un disegnatore
ritenuto capace di imitare efficacemente
Bartolomeo Passarotti, procacciatore di disegni
di Tiziano e Raffaello per Cesare d'Este e parte
della cerchia del cardinale Ippolito, della
stessa famiglia . Ercole
Abbadi, invece, fu al servizio degli Estensi a
Modena e venne incaricato di restaurare la Madonna del
San Sebastiano di Correggio . Non sono
state condotte ricerche sugli artisti oggi
ignoti o svalutati che il Maia Materdona lodò
nelle sue Rime, ma è comunque certo che Giovan Pietro
Zullo fosse più dotato di quanto potremmo
ritenere oggi, come lascia supporre il sonetto
ecfrastico che gli dedicò Daniele Geofilo
Piccigallo e i cinque componimenti encomiastici
su di lui scritti da Donato Antonio Cito .
Nel sonetto a
lui dedicato, dunque, Orazio Riminaldi riesce a
ritrarre il poeta in una maniera che il Maia
Materdona ritiene, adottando un punto di vista
comparativo, emozionante come quella scelta da
Giovan Pietro Zullo per effigiare la madre di
questi, ma ciò non può invalidare la fondatezza
dei giudizi del poeta in materia di belle arti,
per quanto strano ciò possa suonare. Giudizio,
in questa sede, si deve intendere come «facoltà attiva
dell'intelletto, che paragona le idee, e ne
ricava delle conseguenze», la quale «supplisce alla
mancanza delle nostre cognizioni, mentre presume
che le cose siano in una certa maniera»
. Nelle Rime del Maia
Materdona una delle premesse certe del giudizio
del poeta in materia di belle arti è scritta nei
due versi che aprono il primo sonetto in lode
del Cavalier d'Arpino:
«Lessi,
GIUSEPPE, anch'io più di una volta,
Che l'Arte è di
Natura imitatrice» .
Si tratta di un
modo di vedere la pittura e la scultura molto
diffuso, invero quasi obbligato per chi volesse
scrivere di arte tra il XVI e il XVII secolo,
tant'è vero che si trova in Lodovico Dolce, nel
Vasari, nell'Agucchi, in Giulio Mancini e in
Vincenzo Giustiniani . Esso però è
importante perché testimonia, benché in maniera
indiretta, il legame tra il Maia Materdona e il
Marino, il quale nelle Dicerie
Sacre definiva pittura e scultura «sagaci
imitatrici della natura» . È necessario
ribadire il legame tra i due perché il primo
amava visceralmente le opere del secondo, al
pari degli intellettuali nelle accademie che
frequentò: degli Oziosi a Napoli, degli Umoristi
a Roma, dei Gelati e quella della Notte a
Bologna. Nonché nella cerchia della famiglia
Ludovisi . Rimane
traccia nelle Rime del Maia
Materdona di quanto egli fosse stato influenzato
dagli scambi intellettuali in quei sodalizi e
dalla metodologia descrittiva del marinismo: ad
esempio, nelle liriche in lode di Giovanni
Valesio, Agostino Tassi, Guercino, Guido Reni e
Piermarino Stella per aver realizzato dei
notturni . Come è noto,
Marino cercava di abbattere i confini tra
pittura e scrittura .
Probabilmente, con quelle liriche il Maia
Materdona ambì a fare lo stesso. Allo stato
attuale delle conoscenze, infatti, non è
possibile accertare se la serie di dipinti sulla
notte sia esistita davvero oppure se si tratti
di un caso di variatio su un
contenuto identico ma declinato in modi diversi:
un genere in cui il Maia Materdona si era già
cimentato con Le buone feste, opera in
prosa uscita nel 1624 .
Per comprendere
se il sonetto in lode di Orazio Riminaldi possa
davvero facilitare la comprensione della sua
arte, occorre un termine di paragone. Dei versi,
cioè, che siano stati scritti riportando non
fatti storici, ma giudizi in merito a un artista
di cui rimangano a oggi le opere. Tra le varie
liriche possibili, sembra particolarmente
opportuno focalizzare l'attenzione
sull'evocativo epitaffio di Masaccio nella
chiesa del Carmine a Firenze, scritto da Annibal
Caro in italiano e pubblicato anche nella
Torrentiniana . Esso dimostra
che talora nei versi encomiastici si possono
ritrovare consonanze con i giudizi critici coevi
sulla storia delle belle arti, e possono
sintetizzarli. Invero, la consonanza di vedute
tra Annibal Caro e il Vasari è tanto palese
perché il letterato fu un suo fedele
consigliere, che revisionò anche la prima
edizione delle Vite : ciò malgrado,
la quartina a Masaccio merita comunque di essere
adottata come termine di paragone e, pertanto,
di essere riproposta in questa sede perché
rimase attuale per secoli. Francesco Maria
Niccolò Gabburri la trascrisse nelle Vite di
pittori perché la ritenne composta «con tutta
ragione»:
«Pinsi e la mia
pittura al ver fu pari.
L'atteggiai,
l'avvivai, le diedi moto,
Le diedi
affetti, insegni il Buonarroti
A tutti gli
altri e da me solo impari»
.
Laddove il Caro
sceglie un ordine delle parole lineare, il Maia
Materdona opta per una diversa disposizione
delle parole, che enfatizzi i loro risvolti
emotivi e coreografici. Sembra aver avuto un valore
esemplare, per il poeta pugliese, il sonetto che
Giovanni della Casa scrisse in lode del Vecellio
per avere effigiato Elisabetta Querini, la donna
da lui amata: «Ben veggio
io, Tiziano, in forme nuove», citato dal
Vasari e studiato anche dall'arcade Domenico
Maria Manni . La scelta del
Maia Materdona di inserire il nome del pittore
come proposizione incidentale nel primo verso, e
di concluderlo con un enjambement, sembra
richiamare infatti «Ben veggio io,
Tiziano, in forme nuove». Il distico al
termine della prima quartina nel sonetto al
Riminaldi «ritrasse mai
l‘effigie mia sì al vivo, / come già l‘ha
ritratta il tuo valore»
è ordinato in
maniera prossima al parlato, come fa anche
monsignor della Casa nella conclusione di tutte
le strofe. Si veda ad esempio: «in vostre vive
carte e parla, e spira / veracemente, e i dolci
membri move». Così come il
Maia Materdona, rivolgendosi al Riminaldi, gli
dice: «Raddoppi un
huom, se d'huom tu pingi un viso, / nel ritrar
chi è dolente allunghi i pianti,/ nel ritrar chi
è felice allunghi il riso», allo stesso
modo il cuore del monsignore «doppio
ritrov[a] / il suo conforto, ove talor sospira;
/ e mentre che l'un volto, e l'altro mira, /
brama il vero trovar, né sa ben dove». Per il Maia
Materdona, infine, Orazio Riminaldi è «industre», mentre per
Giovanni della Casa Tiziano è «oscuro fabbro a
sì chiara opra eletto». Che il
monsignore potesse avere un valore esemplare per
il Maia Materdona non è sorprendente: egli era
rinomato per la maestà con cui scriveva delle
pitture delle donne che ha amato, e perché le
sue rime avevano per scopo precipuo la
meraviglia: fu scelto per essere uno dei numi
tutelari dell'Accademia della Notte a Bologna,
con cui entrò in contatto il Maia Materdona . Se il legame
tra il sonetto al Riminaldi e quello a Tiziano
fosse davvero consapevole, saremmo di fronte a
un caso di «raffinata
riscrittura della realtà secondo un codice
esemplare» tipico del
petrarchismo tra Cinque e Seicento . La stessa
operazione messa in atto dal Marino con le
carriere di Lucilio Gentiloni ed Ercole Abbati.
Che il Maia
Materdona avesse composto i suoi versi in lode
del Riminaldi avendo una autentica conoscenza
della sua arte, e fosse genuinamente consapevole
del suo valore, sembra essere dimostrato dal
ricorrere in esso di una espressione tipica
dell'arte europea tra gli anni Novanta del
Cinquecento e il quinto decennio del Seicento: «al vivo». Nelle Rime, essa compare
solamente nel sonetto in lode del Riminaldi,
perciò sembra lecito supporre che si tratti di
una valutazione specifica, nata grazie
all'osservazione diretta del ritratto eseguito
dall'artista. Anche se non ci sono prove che sia
mai stato realizzato. Tra Cinque e Seicento,
rappresentare un paesaggio, una persona, un
oggetto o un animale «dal vivo», «au vif», «naar het leven», divenne una
vera moda con varie possibilità di
interpretazione, che oggi sembrano talora
perfino incompatibili fra loro, come ha
sintetizzato Sheila McTighe . «Al vivo», nel sonetto
al Riminaldi, e la conclusione con il
riferimento al piangere e al ridere, richiama la
definizione della parola vivacità in ambito
artistico che diede Filippo Baldinucci:
«qualità delle
figure ben dipinte o scolpite: ... un certo che
di spiritoso, che consiste ... in tre parti
della faccia, cioè negli occhi, che sieno desti,
e non addormentati, massimamente nel guardar
fiso alcuna cosa, onde paiono aver'abbondanza di
spiriti; nelle narici assai aperte, come chi nel
respirare, tira e manda fuori molta copia
d'aria; e nell'aprir la bocca sempre un poco più
del bisogno, tutt'e'tre proprie degli adirati,
che però mostrano gran vivacità: conviensi alla
gioventù, alla virilità, ed alle femmine
sfacciate» .
Quando uscì la
prima edizione delle Rime del Maia
Materdona, nel 1629, il poeta aveva trentanove
anni .
Probabilmente, Riminaldi era riuscito a rendere
la forza della sua maturità nel ritratto che gli
fece: Alessandro da Morrona, in effetti, ritenne
che quel pittore avesse superato il suo maestro
Orazio Gentileschi nella resa degli incarnati
grazie al chiaroscuro. Aggiunge, inoltre, che il
Riminaldi «pennelleggiò
con gusto nobile e maschio»
.
Sembra ora
opportuno discutere due opere che mostrano oggi le
doti di quel pittore come ritrattista nella sua
giovinezza da caravaggista e, presumibilmente,
dopo il raggiungimento della maturità. Entrambe
sono correlate di iscrizioni seicentesche col
nome del pittore: l'Autoritratto degli Uffizi (fig.
1), realizzato forse intorno al 1620
Fig. 1 - ORAZIO RIMINALDI, Autoritratto, 1620 circa
olio su tela, 67 x 53,3 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi
© Wikimedia Commons, Foto cortesia di Simone Andreoni
e il disegno
raffigurante il volto di donna di tre quarti
dell'Albertina a Vienna (fig.
2).
Fig. 2 - ORAZIO RIMINALDI, Capo di giovane donna, s. d.
pietra rossa su carta marroncina, 19,5 x 15,9 cm
Vienna, Albertina. © Albertina. Foto cortesia di Simone Andreoni
Poiché l'obiettivo del presente
studio non è fare connoisseurship, le due opere
risultano meritevoli di trattazione in questa
sede perché il nome del Riminaldi, scritto
rispettivamente sul retro della tela e sul bordo
inferiore del foglio, dimostra che egli fu
ritenuto capace di creare entrambe. Le loro
caratteristiche stilistiche, così come si
possono cogliere oggi, sembrano coincidere in
modo particolare col giudizio che Ranieri
Tempesti nel Settecento diede del pittore,
esteso in seguito dal da Morrona . In effetti,
l'Autoritratto è all'opposto
delle caratteristiche della vivacità così come
connotata dal Baldinucci. Orazio ha gli occhi
aperti, ma guarda verso sinistra; il suo volto è
in penombra, con le labbra serrate. Non cerca
l'osservatore: è quest'ultimo che si imbatte
nell'artista. I dettagli sono pochi: questo
quadro sembrerebbe piuttosto un bozzetto. Senza
contrasti luministici eccessivi nell'incarnato e
nei panneggi, e neppure pennellate impetuose. Si
direbbe, perciò, l'elaborazione di un artista «pieno ... del
più vivace e tenero sentimento» che cerca
nella Natura quanto «più piace e
dolcemente inganna», al pari del
disegno dell'Albertina, che sembrerebbe quasi
un'attualizzazione seicentesca di una testa
disegnata dal Verrocchio, con una certa
aggraziata attenzione al naturale, evidente
nella capigliatura. Precisamente ciò che i
committenti italiani più sensibili al
classicismo si aspettavano e che,
plausibilmente, il Riminaldi aveva imparato ad
adottare, giacché parve nato per emulare
Domenichino, come scrissero sia il da Morrona
sia Luigi Lanzi .
È ormai
acquisito che i giudizi formulati da letterati e
poeti sui pittori, definibili in inglese come criticism, non possono
essere considerati scientifici e neppure
storici: semplicemente, formalizzano come il
poeta ha reagito all'opera . «Non di
cristallo, ORAZIO, e non di rivo» è meritevole di
considerazione perché racconta una moda
artistica del primo Seicento, quella dell'«al vivo», e completa,
da un punto di vista emotivo, la visione critica
sul Riminaldi che ebbero i letterati toscani e
pisani. Quel sonetto risulta, quindi, un valido
mezzo ermeneutico per comprendere come era
percepita l'arte di quel caravaggesco atipico
che fu il pittore pisano, giacché completa con
una dimensione emotiva i resoconti del Tempesti
e del da Morrona sul Riminaldi, aggiungendo
ulteriori spunti di riflessione.
NOTE
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