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Simbiosi aumentata in architettura: l'incontro tra intelligenza artificiale e rewilding nella progettazione contemporanea
Salvatore Rugino
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 24 Giugno 2025, n. 982
https://www.bta.it/txt/a0/09/bta00982.html
Articolo presentato il 19 Maggio 2025, accettato il 22 Giugno 2025 e pubblicato il 24 Giugno 2025
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Area Architettura

Abstract

L'architettura ha evoluto il suo linguaggio in risposta ai cambiamenti sociali, economici e tecnologici, passando dalla razionalizzazione industriale a un modello più fluido e interattivo. Oggi, nel contesto della società dell'informazione e della transizione ecologica, sta emergendo come un sistema dinamico in grado di integrare nuove tecnologie e affrontare le sfide ambientali.

Metápolis propone un'architettura come pratica relazionale e processuale, mentre la rewild architecture promuove la coesistenza e la rigenerazione ecologica, unendo l'ambiente costruito e naturale.

L'intelligenza artificiale (IA) sta rivoluzionando il settore, permettendo la progettazione generativa e la creazione di spazi adattivi che rispondono alle esigenze ecologiche, sociali e comportamentali. In questo nuovo paradigma, l'architetto non è più visto come creatore di forme statiche, ma come facilitatore di relazioni ecologiche e tecnologiche, promuovendo la simbiosi tra natura e tecnologia. L'integrazione dell'IA con principi ecologici apre la strada a un'architettura resiliente e sostenibile, capace di rispondere alle sfide globali del XXI secolo, contribuendo attivamente alla rigenerazione dei sistemi ecologici.

La convergenza tra tecnologia e natura, attraverso la "simbiosi aumentata", sta ridisegnando l'architettura contemporanea, sfidando la separazione tra l'ambiente costruito e quello naturale. Esempi come il Living Architecture Project mostrano come la tecnologia, l'IA e l'ecologia possano trasformare gli edifici in organismi viventi che si adattano continuamente all'ambiente. La progettazione sta evolvendo verso una visione sistemica, con la figura dell'"ecologo digitale", che integra scienze naturali e tecnologie avanzate. Questo approccio olistico cambia anche la formazione degli architetti, preparandoli a creare soluzioni innovative per le sfide ecologiche e climatiche. L'architettura del futuro sarà così un agente di cambiamento ecologico e sociale, capace di rigenerare e preservare i sistemi ecologici globali.


Introduzione

L'architettura, espressione materiale della cultura umana, ha sempre agito come interfaccia tra innovazione tecnologica e trasformazioni sociali. Questa relazione, che Lewis Mumford definì “determinismo tecnologico” 1, descrive come le innovazioni tecniche non solo influenzino ma modellino nuovi spazi e linguaggi architettonici.

L'era industriale, segnata dalla meccanizzazione e dall'urbanizzazione, incrinò i modelli architettonici tradizionali. La rivoluzione del XIX secolo introdusse materiali come ferro, acciaio e cemento armato, rendendo obsoleti i sistemi costruttivi storici 2. A questa rottura tecnologica si affiancarono profondi cambiamenti sociali: l'ascesa della classe operaia, la concentrazione urbana, la standardizzazione produttiva.

In tale contesto nacque il movimento moderno, che sviluppò un linguaggio coerente con i nuovi paradigmi industriali. Le Corbusier formulò i “Cinque punti dell'architettura” (1926), traducendo in chiave spaziale i principi della produzione seriale: pilotis, tetto-giardino, pianta libera, finestra a nastro e facciata libera. L'edificio come “macchina per abitare” sintetizzava un'idea di architettura efficiente e razionale.

Walter Gropius, con la Bauhaus, promosse il concetto di Gesamtkunstwerk industriale: una sintesi tra design, architettura e produzione, basata su prefabbricazione e standardizzazione per rendere l'architettura accessibile 3. Mies van der Rohe portò questa visione all'essenziale con il suo less is more, valorizzando struttura, spazio e luce in opere come il Padiglione di Barcellona (1929) e l'IIT di Chicago.




Fig. 1 – MIES VAN DER ROHE, Padiglione di Barcellona, 1929 (foto di S. Rugino)
Fig. 1 – MIES VAN DER ROHE, Padiglione di Barcellona, 1929
(foto © di S. Rugino, cortesia di S. Rugino)

Nonostante il successo, il modernismo presentava contraddizioni interne. L'approccio deterministico, che subordinava la progettazione alle logiche produttive, mostrava presto i suoi limiti:

  • riduzionismo funzionale: l'abitare ridotto a funzioni elementari ignorava la ricchezza dell'esperienza umana e la dimensione simbolica dello spazio;

  • universalismo astratto: la ricerca di soluzioni valide ovunque annullava le specificità locali:

  • separazione natura-cultura: la rottura con l'ambiente naturale privilegiava il controllo tecnologico a scapito dell'ecologia;

Negli anni ‘60, del novecento, queste criticità divennero evidenti. Jacobs denunciò l'impatto disgregante dell'urbanistica modernista, mentre Alexander propose metodi progettuali più organici e partecipativi.

Con l'avvento della società post-industriale — dominata da servizi, informazione e reti digitali — i modelli modernisti apparvero inadeguati. La rigidità spaziale del modernismo mal si adattava a una realtà fluida e in continua evoluzione. A partire dagli anni ‘90, del novecento, l'architettura cominciò a orientarsi verso modelli più flessibili, interattivi e adattivi, capaci di rispondere alla complessità contemporanea.

Il manifesto Metápolis, pubblicato nel 1999 da Manuel Gausa e altri membri dell'Institute for Advanced Architecture of Catalonia (IAAC), rappresenta una svolta teorica nel passaggio da un'architettura modernista, fondata su logiche funzionaliste e universaliste, a un approccio relazionale, processuale e adattivo. Questo documento anticipa la necessità di una progettazione non più orientata a oggetti statici, ma a sistemi complessi in continua interazione con le dinamiche socio-tecnologiche contemporanee. Come afferma Gausa, non si tratta più di progettare forme finite, ma di organizzare sistemi aperti, flessibili, interattivi, capaci di evolvere nel tempo 4.

Tale visione prefigura un'architettura pensata come infrastruttura cognitiva, non semplicemente materiale, capace di incorporare l'informazione come componente essenziale del progetto. In questo senso, Metápolis anticipa molte delle istanze che oggi trovano concretizzazione nell'integrazione dell'intelligenza artificiale nei processi progettuali. Il passaggio dal paradigma della forma a quello del processo, e da quello della tipologia a quello del comportamento, prepara il terreno a un'architettura computazionale in grado di apprendere, simulare, adattarsi e reagire al contesto in tempo reale.

Con l'introduzione dell'IA nei flussi progettuali, l'architettura acquisisce nuove capacità predittive e adattive. Algoritmi di apprendimento automatico, simulazioni generative e sistemi parametrici permettono di gestire la complessità ambientale, sociale e tecnologica in modo dinamico. Come sostiene Antoine Picon, l'architettura digitale inaugura una “nuova episteme progettuale”, dove il progetto non si limita più a una rappresentazione formale della volontà dell'architetto, ma diventa una piattaforma operativa che media tra dati, vincoli e intenzioni 5.

In questo quadro, l'IA non rappresenta solo uno strumento di ottimizzazione, ma un agente epistemologico che modifica la natura stessa del progetto. L'architetto assume un nuovo ruolo: da autore formale a facilitatore di sistemi intelligenti e relazionali, capace di orchestrare processi complessi piuttosto che imporre soluzioni univoche. Come osserva Mario Carpo (2021), il progetto architettonico, nell'epoca dell'algoritmo, non è più un'interpretazione del mondo, ma un'interazione con esso 6.

In continuità con la visione delineata dal Metápolis Dictionary of Advanced Architecture, l'architettura computazionale e l'intelligenza artificiale (IA) convergono verso una nuova concezione sistemica del progetto. In questa prospettiva, l'ambiente costruito non è più uno sfondo inerte o un mero contenitore funzionale, ma un agente attivo che interagisce dinamicamente con i sistemi ecologici e le trasformazioni sociali. Questo passaggio segna una svolta epistemologica profonda: si abbandona una concezione dell'architettura come forma autonoma e finita, per abbracciare un modello in cui lo spazio è inteso come parte di “un'ecologia dell'informazione” 7, continuamente alimentata da flussi di dati, interazioni e adattamenti.

La progettazione, in questo contesto, non può più essere concepita come un atto isolato, definito una volta per tutte. Diventa un processo aperto, dinamico e interattivo, che deve misurarsi con l'eterogeneità e la complessità dei sistemi viventi. L'architettura deve quindi essere sostenibile, resiliente e sensibile ai segnali provenienti dall'ambiente naturale, dalle comunità locali e dalle infrastrutture tecnologiche. Le tecniche di IA — come il machine learning, l'ottimizzazione generativa e le simulazioni ambientali in tempo reale — offrono strumenti per progettare spazi capaci di apprendere e adattarsi, rispondendo in modo proattivo ai cambiamenti climatici, all'uso energetico, ai flussi umani e alla biodiversità.

In parallelo, si afferma il paradigma della rewild architecture, che propone un ribaltamento della visione antropocentrica moderna, promuovendo invece una coabitazione attiva tra esseri umani e non umani. In questa prospettiva, l'architettura non è più barriera o dominio, ma strumento di riconnessione ecologica. Si configura come dispositivo relazionale in grado di facilitare interazioni simbiotiche tra differenti forme di vita e i loro habitat, sia naturali che costruiti. L'architetto, quindi, non è più un autore solitario che impone un ordine formale, ma diventa un facilitatore di ecologie, capace di orchestrare relazioni complesse tra ambiente, tecnologia e cultura.

L'incontro tra IA e rewilding impone dunque una nuova grammatica progettuale, in cui l'intelligenza algoritmica si integra con la sensibilità ecologica. Non si tratta semplicemente di digitalizzare l'ecologia o di rendere “più verdi” gli edifici, ma di concepire ambienti costruiti come sistemi viventi, adattivi e rigenerativi. Un'architettura intelligente che evolve con i suoi contesti, capace di contribuire attivamente al riequilibrio ecologico e alla resilienza dei territori.

Questa convergenza apre una riflessione profonda sul ruolo del progetto oggi: qual è la funzione dell'architetto in un mondo in cui l'IA partecipa ai processi decisionali? Come possiamo integrare dati ecologici, climatici e comportamentali in tempo reale nel processo progettuale? E soprattutto, come progettare ambienti capaci di rispondere alle trasformazioni sociali e ambientali non con rigide soluzioni tipologiche, ma con adattabilità, sensibilità e responsabilità?

In conclusione, il presente saggio esplora l'ipotesi che l'integrazione tra intelligenza artificiale e rewild architecture possa generare un nuovo paradigma progettuale. Non più un'architettura intesa come artefatto statico, ma come organismo vivo, dotato di intelligenza distribuita e responsabilità ecologica. Una visione in cui teoria, tecnologia ed etica si intrecciano per affrontare le sfide complesse del XXI secolo, trasformando il progetto in un atto relazionale, rigenerativo e consapevole.

In questo contesto emergente, prende forma il concetto di simbiosi aumentata, in cui ambienti naturali, sistemi artificiali e intelligenze – umane e non umane – coevolvono in modo sinergico. L'architettura non è più separata dall'ambiente, ma lo potenzia, lo interpreta e lo rigenera attraverso sistemi interattivi e adattivi che amplificano la biodiversità e favoriscono nuovi equilibri ecosistemici. Si tratta di un cambio di prospettiva profondo: il progetto non agisce sulla natura, ma con la natura, in un dialogo continuo tra materia, dati e vita.

All‘interno di questo orizzonte, l'architetto assume il ruolo di “ecologo digitale”, un mediatore tra intelligenze artificiali, processi naturali e bisogni umani. Una figura capace di tradurre i flussi informativi complessi in strategie spaziali sostenibili, di progettare con algoritmi ma anche con empatia, di leggere il territorio come una rete vivente da ascoltare, tutelare e rigenerare. L'ecologo digitale non si limita a produrre forme, ma coltiva relazioni: tra specie, tecnologie e culture, orientando il progetto verso un futuro più simbiotico, inclusivo e resiliente.

Discontinuità post-industriale e nuovi paradigmi computazionali

La transizione dalla società industriale a quella post-industriale ha trasformato profondamente i modelli di produzione, l'organizzazione del lavoro e la concezione dello spazio. Daniel Bell individua tre tratti distintivi di questa nuova condizione: il passaggio da un'economia centrata sui beni materiali a una basata sui servizi, il ruolo centrale della conoscenza teorica come leva dell'innovazione e l'emergere di tecnologie intellettuali per la risoluzione di problemi complessi 8.

Questi mutamenti danno origine a nuove spazialità, analizzate da Manuel Castells nel concetto di “spazio dei flussi” 9, in contrapposizione allo “spazio dei luoghi” tipico della società industriale. Lo spazio post-industriale non si organizza più attorno alla prossimità fisica, ma attraverso reti globali di interazione istantanea. La struttura urbana si riconfigura in una rete di nodi interconnessi, come centri finanziari e infrastrutture tecnologiche, frequentati da una nuova élite manageriale globale che abita spazi standardizzati e deterritorializzati.

Parallelamente, Richard Sennett osserva come il nuovo capitalismo, fondato su flessibilità, customizzazione e lavoro cognitivo, richieda ambienti molto diversi da quelli pensati dal modernismo 10. La rigidità funzionale e la compartimentazione tipiche dell'era industriale si rivelano inadeguate a supportare forme di lavoro basate sulla collaborazione, sull'innovazione diffusa e sulla mobilità.

La smaterializzazione produttiva ridefinisce le logiche spaziali: le strutture organizzative diventano modulari e ricombinabili, richiedendo ambienti adattabili; l'innovazione emerge dall'interazione tra competenze diverse, favorendo spazi che facilitano lo scambio informale e la creatività; la virtualizzazione di molte attività riduce la necessità di funzioni spaziali rigide, aprendo a modelli ibridi fisico-digitali.

Il collettivo Metápolis sintetizza queste trasformazioni, delineando un paradigma progettuale per la società dell'informazione che propone un'architettura intesa come sistema aperto e trasformabile, capace di accogliere usi imprevisti e mutazioni future. Il progetto non definisce più uno stato finale, ma governa processi evolutivi in continua trasformazione, ponendo l'accento sulle relazioni con il contesto urbano, sociale e ambientale. La tecnologia digitale non è più un elemento decorativo, ma parte strutturale, consentendo agli edifici di raccogliere, elaborare e rispondere a dati ambientali e d'uso.



Fig. 2 – ENRIC RUIZ GELI, Media - TIC, Barcellona, 2009 (da https://www.archdaily.com/49150/media-tic-enric-ruiz-geli) Foto cortesia di S. Rugino
Fig. 2 – ENRIC RUIZ GELI, Media - TIC, Barcellona, 2009
(da https://www.archdaily.com/49150/media-tic-enric-ruiz-geli)
Foto cortesia di S. Rugino

Questa visione rappresenta una profonda svolta epistemologica per l'architettura, segnando il passaggio da una disciplina tradizionalmente ancorata alla rappresentazione geometrica statica a un campo incentrato sull'elaborazione informazionale dinamica e complessa. Oxman definisce questa trasformazione come il passaggio al “design computazionale” 11, una nuova pratica progettuale che si fonda su logiche evolutive, algoritmiche e performative. In altre parole, l'architettura non è più solo questione di forme da disegnare e riprodurre, ma di processi da simulare, ottimizzare e far evolvere continuamente, grazie all'interazione con dati e sistemi digitali.

Un esempio concreto di questa evoluzione è l'integrazione degli algoritmi genetici, sviluppati da pionieri come John Frazer (1995) e Karl Chu (2006). Questi algoritmi si ispirano ai meccanismi della selezione naturale e dell'evoluzione biologica per generare morfologie architettoniche complesse e adattative. Attraverso simulazioni evolutive, parametri progettuali codificati matematicamente – i cosiddetti “genotipi” – producono configurazioni spaziali, i “fenotipi”, che vengono poi valutate in base a criteri di performance definiti, come efficienza energetica, stabilità strutturale o funzionalità. Il sistema applica processi di selezione, mutazione e crossover, analoghi a quelli biologici, per creare soluzioni innovative e ibride che sfuggono alla rigidità del progetto tradizionale, permettendo così di esplorare un vasto spazio di possibilità progettuali.

Parallelamente, l'avanzamento del machine learning e delle reti neurali sta trasformando ulteriormente il processo progettuale, facendone una pratica predittiva e data-driven. Questi algoritmi sono in grado di analizzare enormi dataset che includono informazioni climatiche, comportamentali e urbane, per ottimizzare la disposizione degli spazi in modo che rispondano efficacemente ai pattern d'uso reali, anticipino variazioni ambientali e migliorino il comfort e la sostenibilità. La manutenzione predittiva, resa possibile dal monitoraggio continuo tramite sensori intelligenti, contribuisce a prevenire guasti strutturali o impiantistici, estendendo la durata e l'efficienza degli edifici.

Il contributo di Achim Menges con il concetto di “material computation” aggiunge un ulteriore livello di complessità a questa trasformazione. In questo approccio, le proprietà fisiche e comportamentali dei materiali non sono più viste come semplici elementi passivi da modellare, ma come componenti attivi del processo computazionale 12. Attraverso simulazioni sofisticate è possibile modellare fenomeni come deformazioni, invecchiamento e interazioni ambientali, permettendo di ottimizzare la distribuzione dei materiali e delle forze in modo topologico, ma anche di progettare elementi architettonici capaci di rispondere dinamicamente agli stimoli esterni, come variazioni di temperatura o umidità. Questo approccio trasforma l'architettura in un organismo “vivente”, che interagisce attivamente con il proprio ambiente.

L'insieme di queste metodologie dà origine a un'architettura cognitiva, intesa come un sistema complesso e intelligente che percepisce l'ambiente circostante attraverso reti sensoriali integrate, elabora grandi quantità di dati per identificare pattern e tendenze, e si adatta dinamicamente ai cambiamenti esterni. Questo processo di apprendimento continuo e feedback loop migliora progressivamente le performance degli spazi, permettendo una progettazione che non è mai definitiva, ma sempre in evoluzione.

Questa profonda trasformazione non investe solo gli strumenti e i linguaggi dell'architettura, ma ne ridefinisce l'essenza stessa, incidendo in modo radicale sul ruolo dell'architetto all'interno della società contemporanea. L'architetto non è più (o non può più essere) semplicemente il creatore di forme statiche, chiuse e autoreferenziali, ma diventa un regista di complessità, un facilitatore di relazioni, chiamato a operare in un contesto in continua evoluzione, segnato da crisi ambientali, trasformazioni urbane, emergenze climatiche e mutamenti socio-culturali.

In questo nuovo scenario, l'architetto assume un ruolo interdisciplinare e sistemico: deve saper leggere e interpretare dati complessi (ambientali, sociali, energetici, tecnologici), integrare competenze provenienti da ambiti differenti (come l'ingegneria, la biologia, l'informatica o le scienze sociali) e orchestrare processi progettuali flessibili, adattivi e aperti all'imprevisto. L'opera architettonica non è più intesa come un risultato definitivo, ma come un sistema dinamico, capace di evolvere nel tempo, di dialogare con l'ambiente circostante e di interagire con chi lo abita.

L'architettura diventa così un organismo intelligente, un'infrastruttura sensibile e responsiva, dotata di capacità di apprendimento (grazie anche all'uso di tecnologie digitali, sensori, intelligenza artificiale e analisi dei dati), in grado di contribuire attivamente alla rigenerazione ecologica e sociale dei territori. Essa si configura come un'interfaccia tra natura e cultura, tra innovazione tecnologica e tradizione locale, tra esigenze individuali e bisogni collettivi.



Fig. 3 – JEAN NOUVEL, Musée du Quai Branly, Parigi, 2009 (foto © S. Rugino, cortesia di S. Rugino)
Fig. 3 – JEAN NOUVEL, Musée du Quai Branly, Parigi, 2009
(foto © S. Rugino, cortesia di S. Rugino)

In questo contesto, progettare significa prendersi cura: della terra, delle persone, delle risorse. L'architetto, in quanto mediatore critico, non si limita a risolvere problemi tecnici, ma assume una responsabilità etica e politica, orientando le scelte progettuali verso modelli di sviluppo più equitativi, inclusivi e sostenibili. L'architettura, dunque, non è più un oggetto da contemplare, ma un agente attivo di trasformazione, una pratica relazionale e rigenerativa che abita il tempo, i conflitti e le fragilità del presente, offrendo visioni concrete e trasformative per il futuro.

Rewilding architettonico: verso un paradigma ecocentrico

Il concetto di rewilding è emerso negli anni ‘90 all'interno dell'ecologia della conservazione come risposta alla crescente frammentazione degli ecosistemi naturali e alla crisi globale rappresentata dalla sesta estinzione di massa. Questo approccio propone una trasformazione radicale della gestione ambientale, orientata non solo a proteggere singole specie o habitat, ma a ristabilire le dinamiche ecologiche complesse e autonome degli ecosistemi. Soulé e Noss (1998) hanno sintetizzato il rewilding nei tre principi fondamentali, le cosiddette “tre C”: cores (nuclei), corridors (corridoi) e carnivores (carnivori).

I “cores” sono ampie aree protette capaci di ospitare popolazioni vitali di specie native, inclusi i grandi predatori, che necessitano di habitat estesi e continui. I “corridors” sono corridoi ecologici che collegano queste aree, facilitando lo scambio genetico e i movimenti migratori essenziali per la sopravvivenza delle specie. Infine, la presenza dei “carnivores”, cioè la reintroduzione di predatori apicali, è cruciale per ristabilire le cosiddette “trophic cascades”: la loro azione di regolazione sulle popolazioni di erbivori evita il sovrasfruttamento della vegetazione, consentendo la rigenerazione e il mantenimento della biodiversità 13.

Il successo di iniziative come il Yellowstone Wolf Project, avviato nel 1995, ha dimostrato come la reintroduzione di lupi possa ripristinare equilibri ecologici complessi, influenzando la struttura della fauna e della flora. Analogamente, i progetti nei Paesi Bassi (Oostvaardersplassen) hanno mostrato l'efficacia del rewilding nella creazione di habitat dinamici e resilienti. Tuttavia, applicare questi principi in contesti antropizzati, come le aree urbane o agricole, pone sfide che richiedono un ripensamento profondo del concetto stesso di ecosistema.




Fig. 4 – Totora Reed Floating, (da Julia Whatson, Lo-TEK. Design by radical indigenism, Cologne, Taschen, 2019, pag. 287) - Cortesia di S. Rugino
Fig. 4 – Totora Reed Floating, (da Julia Whatson,
Lo-TEK. Design by radical indigenism, Cologne, Taschen, 2019, pag. 287)
Cortesia di S. Rugino

Jørgensen (2015) ha introdotto la nozione di “novel ecosystems14, ovvero sistemi ecologici nuovi, ibridi, che nascono dall'interazione tra elementi naturali e antropici senza precedenti storici. Questo riconoscimento implica che gli ambienti urbani e antropizzati non possono tornare a uno stato pristino o naturale tradizionale, ma possono sviluppare nuove forme di biodiversità e offrire servizi ecosistemici innovativi, spesso più funzionali e adattativi rispetto ai modelli naturali classici.

In questo contesto, l'architettura occidentale tradizionale si è dimostrata storicamente antropocentrica, basata sulla separazione netta tra uomo e natura. Il paradigma consolidato, incarnato dalla Carta di Atene (1933), concepisce lo spazio costruito come funzionale alle esigenze umane, relegando la natura a semplice decorazione o risorsa da sfruttare. Questa visione limita la possibilità di integrare realmente la natura negli ambienti urbani.

Il filosofo e paesaggista Gilles Clément propone una visione alternativa attraverso la teoria del “Terzo Paesaggio”. Clément individua negli spazi abbandonati, incolti e marginali delle città luoghi spesso trascurati o considerati rifiuti urbani— le vere riserve di biodiversità. Questi “spazi dell'abbandono” consentono alla natura di esprimere liberamente la propria dinamica evolutiva, dimostrando che la vita può prosperare anche in ambienti fortemente antropizzati, purché liberata da un controllo eccessivo 15.

Parallelamente, l'antropologa Anna Tsing ha elaborato il concetto di “more-than-human worlds16, che supera la tradizionale dicotomia natura/cultura. In questa prospettiva, le città e i loro ecosistemi sono visti come ambienti ibridi in cui specie native, esotiche e sinantropiche coevolvono attraverso relazioni complesse e simbiotiche. La biodiversità urbana diventa così un processo emergente, non un semplice residuo di ecosistemi passati, e l'architettura può assumere un ruolo attivo come infrastruttura ecologica che supporta questi processi coevolutivi.

Il rewilding architettonico si concentra quindi sulla creazione di condizioni favorevoli all'auto-organizzazione ecologica, piuttosto che sulla definizione di configurazioni spaziali rigide e statiche. Questo approccio implica la progettazione di successioni ecologiche programmate: gli spazi inizialmente controllati evolvono nel tempo verso ambienti semi-naturali, con edifici e infrastrutture che incorporano substrati, microhabitat e materiali che facilitano la colonizzazione spontanea di specie pioniere. La gestione adattiva è essenziale, con un monitoraggio continuo delle dinamiche emergenti e interventi minimi che assecondano piuttosto che dirigono i processi naturali.

Inoltre, il riconoscimento della “temporalità non-umana” richiede che l'architettura incorpori la dimensione dei tempi ecologici —cicli vitali, successioni, adattamenti— spesso molto più lunghi e imprevedibili rispetto ai tempi progettuali umani. Progettare per la durata e il cambiamento è quindi un elemento cruciale per il successo del rewilding urbano.

La progettazione ecologica richiede competenze specifiche: la creazione di nicchie integrate in elementi architettonici (coperture verdi, sistemi di raccolta delle acque, facciate vegetali) che svolgano funzioni tecniche ed ecologiche contemporaneamente; la definizione di reti di connettività che collegano habitat frammentati attraverso corridoi verdi, ponti ecologici e stepping stones; la progettazione di microhabitat calibrati sulle esigenze di specie target, come nidi per uccelli, rifugi per chirotteri e zone per impollinatori.

Il principio della coevoluzione, mutuato dalla biologia, si traduce in architetture adattive, modulari e capaci di modificarsi in risposta alle dinamiche ecologiche. L'integrazione di sistemi di monitoraggio permette all'edificio di “apprendere” e adattarsi, regolando aspetti come illuminazione o accessi in base alla presenza di fauna. L'idea di invecchiamento programmato trasforma l'obsolescenza in un'opportunità, concependo strutture pensate per essere colonizzate e trasformate dalla vegetazione spontanea nel tempo.

L'osservazione di come la natura colonizza le rovine urbane e l'archeologia industriale ispira queste strategie. Le “rovine del futuro” di Robert Smithson anticipano l'idea di architetture che integrano fin dall'origine processi di decadimento e rinaturalizzazione 17. La biomimesi in questo ambito non si limita alla forma ma include funzioni ecologiche, come la riproduzione di canopy urbane stratificate o superfici che offrono substrati di colonizzazione per specie vegetali e animali.

Artisti come Smithson, Nancy Holt e Andy Goldsworthy hanno esplorato le relazioni tra arte, architettura e processi naturali, creando opere viventi e dinamiche che influenzano fortemente l'approccio progettuale contemporaneo verso edifici come sculture in continua trasformazione.



Fig. 5 – ROBERT SMITHSON, Broken circle/spiral hill, 2021 (da https://www.exibart.com/arte-contemporanea/broken-circle-spiral-hill-di-robert-smithson-cinquantanni-dopo/) Cortesia di S. Rugino
Fig. 5 – ROBERT SMITHSON, Broken circle/spiral hill, 2021
(da https://www.exibart.com/arte-contemporanea/
broken-circle-spiral-hill-di-robert-smithson-cinquantanni-dopo/)
Cortesia di S. Rugino

Questo nuovo paradigma ridefinisce radicalmente il ruolo dell'architetto, che non progetta più configurazioni definitive ma condizioni per processi emergenti e interattivi. Sono necessarie competenze ecologiche avanzate, una visione sistemica orientata ai processi e una gestione dell'incertezza, accettando che i risultati emergeranno da complesse interazioni non completamente prevedibili. L'architetto diventa mediatore tra esigenze umane e non-umane, sviluppando conoscenze di etologia applicata, ecologia urbana e forme di comunicazione multispecifica che dialogano con diverse specie.

Il paradosso del rewilding architettonico consiste nel tentativo di progettare la spontaneità, in una disciplina tradizionalmente legata al controllo e alla definizione rigida degli spazi. L'introduzione di dinamiche ecologiche “selvagge” negli ambienti urbani solleva questioni di sicurezza, salute pubblica e conformità normativa, dovute alla presenza di fauna selvatica, vegetazione spontanea e accumulo di biomassa. Per questo, il successo del rewilding dipende anche dall'accettazione sociale di estetiche più disordinate e processi meno controllati, che richiedono programmi educativi e di sensibilizzazione per modificare la percezione comune della natura urbana.

Nonostante queste sfide, il rewilding architettonico rappresenta una direzione di ricerca e pratica fondamentale per immaginare forme di coabitazione sostenibile e rispettosa tra umani e non-umani negli ambienti urbani del XXI secolo, contribuendo a ridefinire i confini tra città e natura e a promuovere ecosistemi più resilienti, dinamici e biodiversi.

Simbiosi aumentata: framework teorico

La simbiosi aumentata rappresenta un cambiamento di paradigma nell'architettura contemporanea, superando la dicotomia tra natura e tecnologia attraverso l'integrazione tra intelligenza artificiale e processi di rewilding. Gli edifici non sono più concepiti come oggetti statici, ma come organismi viventi capaci di adattarsi alle dinamiche ecologiche circostanti.

Radicata nella teoria dei sistemi complessi adattivi (Holland, 1995; Gell-Mann, 1994), questa visione configura l'architettura come interfaccia attiva tra biosfera e tecnosfera. Come teorizzato da Bateson, la simbiosi non è solo funzionale ma ontologica: edificio ed ecosistema co-evolvono, influenzandosi reciprocamente, secondo i principi della coevoluzione.

L'edificio diventa un organismo percettivo, dotato di un sistema nervoso distribuito. Sensori ambientali operano su diverse scale: micro (qualità dell'aria, temperatura dei materiali), meso (microclima, presenza di fauna) e macro (pattern climatici, connettività ecologica), permettendo all'intelligenza artificiale di elaborare una comprensione olistica delle dinamiche ambientali. I dati raccolti alimentano sistemi responsivi che trasformano fisicamente lo spazio: pareti che regolano la permeabilità, coperture che modulano l'ombreggiamento in base ai cicli vegetativi, aperture che seguono i flussi migratori. L'edificio si adatta, interpretando l'ambiente in tempo reale, secondo i principi della responsive architecture 18 e della biomimicry 19.

Questa adattività si estende anche al metabolismo: i flussi energetici e idrici si sincronizzano con i ritmi naturali. L'IA ottimizza il funzionamento dell'edificio seguendo cicli circadiani e stagionali, integrando fitodepurazione, ventilazione naturale e raccolta idrica secondo una logica ecologica del metabolismo urbano 20.

La progettazione si apre a un processo co-evolutivo che include attivamente anche altre specie. Gli algoritmi simulano i comportamenti di insetti, uccelli, mammiferi e piante per generare configurazioni spaziali che integrano microhabitat e percorsi ecologici. Le esigenze multispecifiche vengono bilanciate attraverso design generativi che ottimizzano simultaneamente per le necessità umane e non-umane: giardini verticali, facciate con nidi integrati, corridoi ecologici urbani. Le strutture si trasformano in interfacce interspecifiche, capaci di mediare relazioni: superfici che favoriscono la crescita di muschi, sistemi di irrigazione che fungono da abbeveratoi per la fauna, elementi architettonici che svolgono funzioni ecologiche e sociali simultaneamente.

Questa logica relazionale si ispira al concetto di “boundary objects” elaborato da Star e Griesemer, reinterpretato in chiave architettonica all'interno di una visione post-antropocentrica. In questo contesto, l'edificio non è più un oggetto statico, ma un sistema in evoluzione continua, capace di adattarsi, apprendere e trasformarsi in risposta al proprio ambiente 21.

L'intelligenza artificiale, integrata nei processi costruttivi e gestionali, apprende dai cicli ambientali, dal comportamento degli abitanti e dalle variazioni climatiche, affinando nel tempo le proprie strategie attraverso modelli di machine learning e principi di adaptive management 22. L'architettura si fa così intelligente e sensibile, capace di reagire dinamicamente alle sollecitazioni esterne.

Materiali biologici integrati nella struttura si autoriparano, sistemi robotici automatizzano la manutenzione e i moduli architettonici si riconfigurano in base ai mutamenti del contesto. In questo modo, l'edificio sviluppa proprietà autopoietiche 23: mantiene la propria coerenza interna mentre si rinnova continuamente, come un organismo vivente.

L'evoluzione architettonica si distribuisce su diverse scale temporali, dai microcicli quotidiani alle trasformazioni più lente e profonde che si dispiegano nell'arco di decenni. L'intelligenza artificiale, in questo scenario, funge da regista della complessità cronologica, anticipando traiettorie di sviluppo secondo i principi della coevolutionary theory e dell'ecologia temporale 24.

Questo paradigma ridefinisce radicalmente il significato dell'abitare: non si tratta più di occupare uno spazio, ma di partecipare a un ecosistema dinamico. Gli esseri umani diventano coabitanti all'interno di una comunità biotecnologica, in cui le scelte abitative influenzano — e sono al tempo stesso influenzate — da processi ecologici in continua trasformazione.

Le riflessioni fenomenologiche di Heidegger sull'”abitare” costituiscono un punto di partenza fondamentale per ripensare il rapporto tra l'essere umano e il mondo. Nel saggio Costruire, abitare, pensare, Heidegger afferma che abitare non è semplicemente occupare uno spazio fisico, ma è un modo essenziale dell'essere, un rapporto di cura e appartenenza con il mondo. L'”abitare” autentico, secondo il filosofo, implica una relazione radicata, non strumentale, con la terra, gli altri e il divino, ponendo l'essere umano non come dominatore, ma come custode del mondo 25.

Questa visione viene ampliata e messa in dialogo con l'ecologia relazionale di Tim Ingold, secondo cui gli esseri viventi non si muovono in uno spazio già dato, ma “crescono con” l'ambiente attraverso un processo continuo di interazione e co-evoluzione. Per Ingold, abitare significa essere immersi in un flusso di relazioni materiali e percettive, dove la distinzione tra natura e cultura perde di significato. Il paesaggio non è uno sfondo inerte, ma un tessuto vivente che si forma insieme a chi lo attraversa e lo abita. L'abitare, in questo senso, è un gesto ecologico e creativo, che implica una partecipazione attiva alla vita dei luoghi 26.

A completare questa prospettiva si inserisce l'ontologia simbiotica di Philippe Descola, che mette in discussione la visione occidentale dualistica di natura e cultura. Descola mostra come diverse culture non separino gli esseri umani dagli altri viventi, ma li concepiscano come parte di una rete simbiotica e interdipendente. Nell'ontologia simbiotica, il mondo è abitato da una pluralità di agenti – umani, animali, vegetali, spiriti, elementi – tra i quali si instaurano relazioni di reciprocità e co-esistenza. Questa visione apre la strada a una concezione dell'abitare non antropocentrica, in cui l'architettura non è costruita solo per l'umano, ma insieme ad altri esseri e in ascolto delle ecologie locali 27.

L'intreccio di queste tre prospettive — fenomenologica, relazionale e simbiotica — permette di ripensare radicalmente l'architettura e il progetto dello spazio abitato. L'abitare non è più un gesto individuale o funzionale, ma un atto etico ed ecologico, che implica la partecipazione consapevole a una rete di relazioni viventi.

In questo quadro, il progetto architettonico si configura come una pratica situata, sensibile e interconnessa, capace di generare luoghi che non solo accolgono la vita, ma la coltivano, la amplificano e la rigenerano. L'architettura, così intesa, non si limita a rispondere a esigenze funzionali o estetiche, ma si inserisce attivamente nei cicli vitali del territorio, diventando un elemento trasformativo all'interno degli ecosistemi.

È in questo contesto che si colloca il concetto di simbiosi aumentata, una prospettiva che va oltre la semplice sostenibilità. Non si tratta più di limitare i danni ambientali o ridurre l'impronta ecologica, ma di generare valore ecologico positivo, contribuendo in modo attivo alla salute e alla resilienza dei sistemi viventi. L'architettura diventa così un agente rigenerativo, capace di incrementare la biodiversità, migliorare la qualità dell'aria e del suolo, regolare i flussi idrici e rafforzare le reti ecologiche locali.

Questa evoluzione progettuale si fonda su approcci sistemici e integrativi, che ripensano in profondità il rapporto tra architettura, ambiente e società. L'ambiente costruito non è più visto come un'entità separata o correttiva rispetto alla natura, ma come una componente attiva dei cicli ecologici, capace di contribuire alla rigenerazione dei territori. Modelli ispirati ai processi naturali offrono strategie resilienti, basate sull'interazione sinergica tra elementi e sulla valorizzazione delle risorse locali. Allo stesso tempo, si amplia la nozione di valore architettonico, includendo dimensioni ambientali, sociali e temporali all'interno delle decisioni di progetto.

Tuttavia, le sfide che accompagnano questa trasformazione sono rilevanti. La crescente complessità tecnologica richiede nuove competenze interdisciplinari e una revisione profonda dei riferimenti culturali ed etici della progettazione. Diventa centrale il riconoscimento di soggettività non-umane all'interno del processo progettuale, evidenziando la necessità di considerare diritti ecologici e relazioni multi-specie come parte integrante della costruzione dello spazio. In questo scenario emergono anche nuovi quadri normativi, capaci di riconoscere la legittimità di agenti come animali, piante, microbi ed ecosistemi nella definizione delle regole che governano l'abitare collettivo.

Numerosi progetti anticipano già questi scenari futuri. Dalla Blur Building di Diller + Scofidio (2002), che dissolve i confini materiali dell'edificio attraverso una nuvola artificiale, all'Algae House dello studio Splitterwerk (2013), che integra alghe fotosintetiche per la produzione di energia.



Fig. 6 – DILLER + SCOFIDIO, Blur Building, 2002 (da https://publicdelivery.org/blur-building/) - Cortesia S. Rugino
Fig. 6 – DILLER + SCOFIDIO, Blur Building, 2002
(da https://publicdelivery.org/blur-building/)
Cortesia S. Rugino




Fig. 7 – SPLITTERWERK, Algae House, 2013 (da https://www.fastcompany.com/3005162/splitterwerk-architects-biq-house) - Cortesia S. Rugino
Fig. 7 – SPLITTERWERK, Algae House, 2013
(da https://www.fastcompany.com/3005162/splitterwerk-architects-biq-house)
Cortesia S. Rugino

Il programma Living Architecture (LIAR) dell'Università di Newcastle sperimenta con materiali microbiologici capaci di processare rifiuti e produrre risorse, mentre il MIT Media Lab esplora l'impiego di organismi geneticamente modificati come componenti architettonici attivi.

Il padiglione HygroScope del FRAC Centre, progettato da Achim Menges, dimostra invece le potenzialità dei materiali igroscopici, in grado di modificare la propria forma in risposta all'umidità atmosferica.



Fig. 8 – ACHIM MENGES, HygroScope, 2018 (da https://parametric-architecture.com/hygroscope-meteorosensitive-morphology/) - Cortesia S. Rugino
Fig. 8 – ACHIM MENGES, HygroScope, 2018
(da https://parametric-architecture.com/hygroscope-meteorosensitive-morphology/)
Cortesia S. Rugino

Guardando al futuro, l'architettura potrà integrare organismi progettati in laboratorio, frutto di avanzamenti nella biologia sintetica, e sfruttare reti neurali ispirate ai sistemi ecologici, in grado di coordinare dinamicamente le interazioni tra componenti viventi e artificiali. In questo scenario, emergeranno nuove forme di intelligenza collettiva, in cui la coscienza naturale, umana e artificiale si connettono e si potenziano reciprocamente, dando origine a sistemi progettuali distribuiti, adattivi e profondamente interrelati con l'ambiente.

L'obiettivo ultimo è dar forma a habitat urbani capaci di comportarsi come ecosistemi viventi: ambienti che si rigenerano, si adattano, e supportano attivamente la biodiversità. In questo scenario, la tradizionale separazione tra natura e architettura si dissolve, lasciando spazio a una nuova visione dell'abitare planetario.

La tecnologia non si contrappone più alla biologia, ma si fonde con essa in sistemi coevolutivi complessi, dando forma a un'architettura capace di integrarsi nei cicli vitali del pianeta. In questo scenario, il progetto non è più solo costruzione di spazio, ma diventa coltivazione di relazioni viventi, in un equilibrio dinamico tra artificio e natura.

Applicazioni e casi studio

Come abbiamo evidenziato in precedenza, l'architettura contemporanea sta vivendo una profonda trasformazione epistemologica, superando la tradizionale concezione dell'edificio come entità statica per abbracciare una visione dinamica e sistemica, strettamente integrata con i processi biologici e ambientali. L'impiego di intelligenza artificiale e tecnologie ambientali avanzate sta ridefinendo il rapporto tra ambiente costruito e natura, configurando gli edifici come sistemi complessi e viventi, capaci di adattarsi e rispondere in modo proattivo alle variabili climatiche e agli stimoli ambientali.

Tra gli sviluppi più rilevanti si segnala l'integrazione tra algoritmi ambientali e vegetazione viva, che dà origine a sistemi bio-responsivi in grado di monitorare e regolare in tempo reale parametri quali temperatura, umidità, CO, luce e qualità dell'aria. Sensori avanzati raccolgono dati costantemente, mentre algoritmi predittivi anticipano scenari futuri, consentendo ai sistemi di adattarsi e ottimizzare funzioni come l'irrigazione, l'ombreggiamento e l'orientamento delle superfici verdi. Questo continuo circuito di feedback garantisce sia la salute delle piante sia l'efficienza energetica dell'edifício.

I benefici di tali sistemi sono molteplici: riduzione del consumo energetico, miglioramento della qualità dell'aria e creazione di habitat urbani a supporto della biodiversità. Inoltre, l'applicazione dell'intelligenza artificiale alla pianificazione urbana permette di progettare corridoi verdi funzionali, simulando le migrazioni faunistiche, la dispersione vegetale e valutando gli impatti climatici sugli ecosistemi urbani. L'ottimizzazione della connettività ecologica facilita la continuità tra habitat frammentati, promuovendo il flusso genetico e integrando in modo armonioso infrastrutture grigie e verdi.

La nuova generazione di edifici intelligenti impiega sistemi auto apprendenti per massimizzare i servizi ecosistemici, regolando la vegetazione, i flussi d'aria e sfruttando superfici fotocatalitiche per purificare l'ambiente. Fondamentale è anche la gestione idrica, che attraverso la raccolta e il riutilizzo delle acque meteoriche, la fitodepurazione e la regolazione del microclima urbano, si avvale di elementi vegetali integrati all'interno delle strutture edilizie. La regolazione termica si basa sull'inerzia della biomassa, sull'ombreggiamento dinamico e sulla ventilazione naturale indotta dalla vegetazione.



Fig. 9 – STEFANO BOERI, Bosco Verticale, Milano, 2014 (da https://www.archdaily.com/777498/bosco-verticale-stefano-boeri-architetti/564e7c88e58ece4d730003a5-bosco-verticale-stefano-boeri-architetti-detail) - Cortesia S. Rugino
Fig. 9 – STEFANO BOERI, Bosco Verticale, Milano, 2014
(da https://www.archdaily.com/777498/bosco-verticale-stefano-boeri-architetti/
564e7c88e58ece4d730003a5-bosco-verticale-stefano-boeri-architetti-detail)
Cortesia S. Rugino

Esempi emblematici di queste pratiche sono il Bosco Verticale di Milano, che ospita oltre 20.000 piante, assorbe grandi quantità di CO e riduce significativamente il consumo energetico, e il non realizzato Garden Bridge di Londra, una visione innovativa di infrastruttura verde sospesa e corridoio ecologico. Progetti come il Living Architecture Project sperimentano edifici capaci di auto-ripararsi, adattarsi e integrarsi nei cicli biologici, mentre iniziative come quelle di Terreform ONE promuovono un'architettura rigenerativa focalizzata su biodiversità, sequestro del carbonio e chiusura dei cicli materiali.




Fig. 10 – TERREFORM ONE, Arboreal Tower, 2025 (da www.terreform.org) - Cortesia S. Rugino
Fig. 10 – TERREFORM ONE, Arboreal Tower, 2025
(da www.terreform.org)
Cortesia S. Rugino

A queste esperienze si affiancano quelle di Lo-TEK, che esplora le tecniche costruttive tradizionali e sostenibili delle culture indigene, valorizzando sistemi ingegneristici basati su conoscenze ancestrali di simbiosi con l'ambiente naturale, applicate in chiave contemporanea. Analogamente, Studio Weave si distingue per un approccio interdisciplinare che integra architettura, arte e scienze ambientali, sviluppando progetti incentrati sulla partecipazione attiva della comunità e la rigenerazione degli spazi urbani attraverso soluzioni sensibili e adattive.

Questi approcci stanno trasformando la città in una rete ecologica integrata, dove ogni edificio diventa un nodo attivo nel supporto alla salute dell'ecosistema urbano. Corridoi verdi e sincronizzazioni biologiche tra città e natura assumono un ruolo centrale nel disegno urbano contemporaneo, rafforzando la resilienza climatica attraverso adattabilità, ridondanza ecologica e risposte rapide ai cambiamenti ambientali.



Fig. 11 – STUDIO WEAVE, Paleys upon Pilers, 2012 (da www.studioweave.com) - Cortesia S. Rugino
Fig. 11 – STUDIO WEAVE, Paleys upon Pilers, 2012
(da www.studioweave.com)
Cortesia S. Rugino

La complessità di questi sistemi richiede modelli predittivi avanzati, sensori biologici integrati e interfacce intuitive per una gestione efficace e armoniosa delle relazioni tra esseri umani e natura. La sostenibilità economica si basa sulla valorizzazione dei servizi ecosistemici, sull'automazione che riduce i costi di gestione e sulla creazione di mercati per crediti di carbonio e biodiversità.

L'architettura bio-integrata rappresenta così non solo un'evoluzione tecnologica, ma un vero e proprio cambio di paradigma, dove gli edifici si trasformano in attori ecologici attivi. Per realizzare questo nuovo modello è indispensabile un approccio multidisciplinare che connetta architettura, biologia, ingegneria, informatica e scienze sociali. Il futuro dell'architettura sostenibile è fatto di edifici capaci non solo di minimizzare l'impatto ambientale, ma di rigenerare attivamente gli ecosistemi urbani, promuovendo biodiversità e benessere delle comunità.

Tutto ciò implica un ripensamento profondo dei processi progettuali, normativi ed economici, per dare vita a un'architettura davvero rigenerativa e simbiotica con la natura.

Implicazioni teoriche e metodologiche

La simbiosi aumentata rappresenta un paradigma rivoluzionario che trasforma l'architettura contemporanea, spostando l'attenzione dalla costruzione di oggetti edilizi alla progettazione di ecosistemi viventi e responsivi. Come sottolinea Gruber, l'architettura del futuro non sarà più basata su strutture inerti, ma sulla coltivazione di sistemi viventi integrati nell'ambiente costruito 28. Questa transizione ridefinisce radicalmente il ruolo dell'architetto, che da semplice autore diventa orchestratore di complesse relazioni tra organismi viventi, algoritmi, materiali intelligenti e processi ambientali, richiedendo una comprensione sistemica delle interazioni e dei loro effetti a cascata.

Latour evidenzia che l'”agentività” non è più esclusivamente umana, ma distribuita tra attori umani e non-umani che co-costituiscono reti socio-tecniche, costringendo il progettista a operare nell'incertezza, riconoscendo pattern emergenti e adattando dinamicamente le proprie strategie 29. La progettazione computazionale si configura così come strumento essenziale per esplorare scenari complessi, dove algoritmi genetici, reti neurali e sistemi multiagente permettono di generare soluzioni emergenti dall'interazione tra molteplici parametri. Frazer descrive questa architettura evolutiva come un processo basato su variazione, selezione ed ereditarietà, in grado di adattarsi dinamicamente alle condizioni ambientali.

L'ecologia applicata offre un solido quadro teorico per tradurre le dinamiche naturali in principi progettuali concreti. Concetti chiave come resilienza, diversità e cicli dei nutrienti diventano strumenti operativi utili a interpretare e guidare il progetto. La resilienza, intesa come la capacità di un sistema di assorbire disturbi mantenendo le proprie funzioni e struttura, diventa centrale per affrontare l'incertezza e la variabilità ambientale. Questo approccio sistemico consente di riconoscere proprietà emergenti e di progettare interventi capaci di amplificare sinergie e ridurre gli effetti collaterali, trasformando la progettazione in un processo iterativo e non lineare, fondato sull'osservazione, l'azione e l'adattamento.

All'interno di questo processo, i meccanismi di feedback assumono un ruolo strutturale. Sensori, algoritmi e sistemi di monitoraggio continuo forniscono dati in tempo reale, trasformando l'edificio in un sistema adattivo capace di apprendere dal proprio comportamento. Questa capacità di autoregolazione, basata sull'analisi dei risultati precedenti, rende possibile una progettazione evolutiva e dinamica.

La modellazione parametrica e generativa, ispirata a processi di selezione naturale, consente di esplorare un'ampia varietà di soluzioni progettuali, mantenendo flessibilità e adattabilità durante tutto il ciclo di vita dell'edificio. In questo contesto, la struttura fisica non è più un semplice contenitore, ma un supporto attivo per processi dinamici come la crescita biologica, l'adattamento climatico e la trasformazione metabolica. L'uso di materiali viventi e superfici responsive trasforma l'edificio in un organismo architettonico vero e proprio.

Questa nuova concezione mette in discussione la tradizionale distinzione tra vivente e non-vivente, generando ibridi che integrano entrambe le dimensioni. L'architettura assume così una temporalità complessa, in cui i cicli biologici e tecnologici si intrecciano continuamente. Per rappresentare questa dimensione dinamica, servono nuovi strumenti: diagrammi di flusso, mappe sistemiche, visualizzazioni interattive e simulazioni in tempo reale affiancano i disegni tecnici tradizionali, offrendo una comprensione più articolata del divenire spaziale.

Anche i criteri di valutazione del progetto si evolvono: al posto della performance statica si considerano metriche come biodiversità, resilienza, adattabilità e capacità rigenerativa. L'obiettivo non è più solo la funzionalità immediata, ma la capacità dell'edificio di co-evolvere con il proprio ambiente nel tempo.

Questa trasformazione richiede un approccio interdisciplinare, che integri competenze biologiche, informatiche, ingegneristiche e sociali. La progettazione diventa un atto collettivo, dove umani, algoritmi e sistemi naturali co-partecipano attivamente. In questa visione, ogni elemento del progetto – umano o non-umano – partecipa alla definizione della realtà architettonica, trasformando il progetto in un processo di negoziazione continua tra intelligenze artificiali, biologiche e umane.

La simbiosi aumentata, quindi, non rappresenta solo un'evoluzione tecnologica, ma una profonda trasformazione dei nostri modi di pensare e abitare lo spazio. Imitare la natura non è più soltanto una strategia progettuale, ma l'espressione di un nuovo paradigma basato sulla cooperazione tra vita, ambiente e tecnologia. Realizzare questa trasformazione richiede uno sforzo collettivo per sviluppare nuove competenze, strumenti e politiche capaci di sostenere un'architettura realmente simbiotica con i sistemi naturali.


Sfide e prospettive future

La complessità computazionale che caratterizza i sistemi integrati biologico-artificiali rappresenta una delle principali sfide nell'implementazione pratica della simbiosi aumentata in architettura. Progettare edifici come ecosistemi viventi e responsivi implica la modellazione di interazioni complesse tra componenti biologici, tecnologici e ambientali, che richiedono capacità di calcolo estremamente elevate, spesso superiori alle infrastrutture attualmente disponibili. Come evidenzia Mitchell, i sistemi complessi adattivi presentano proprietà emergenti non prevedibili a partire dai singoli componenti 30, rendendo la simulazione e il controllo di tali sistemi un compito di elevata complessità.

Nel contesto progettuale, la sfida consiste nell'integrare modelli multiscala, che spaziano dal livello molecolare a quello ecosistemico, gestendo simultaneamente migliaia di variabili interconnesse. Si propone l'adozione di approcci ibridi, in cui la modellazione matematica tradizionale si combina con algoritmi bio-ispirati di machine learning, per comprendere la dinamica di questi ecosistemi artificiali e permettere risposte adattative in tempo reale.

L'implementazione richiede inoltre l'integrazione di sensori biologici, algoritmi di controllo e sistemi ambientali distribuiti, capaci di monitorare e regolare continuamente parametri quali temperatura, umidità, qualità dell'aria e ciclo dei nutrienti. Imparare dalla natura significa accettare l'incertezza come parte integrante del progetto, non come un errore da eliminare. Questo implica considerare nei processi progettuali non solo la complessità computazionale, ma anche l'imprevedibilità intrinseca dei sistemi viventi, ampliando così il ruolo dell'architetto da semplice progettista a orchestratore di sistemi adattivi.

Dal punto di vista normativo, l'integrazione di componenti biologiche nell'architettura si scontra con un vuoto regolatorio significativo. Le attuali normative edilizie non prevedono edifici con sistemi viventi o adattivi, né affrontano questioni di biosicurezza e responsabilità legale. È urgente sviluppare un nuovo quadro normativo che integri aspetti edilizi e biotecnologici e valuti l'impatto ecosistemico a lungo termine degli interventi. Inoltre, il progetto deve affrontare la complessità delle responsabilità legali connesse a sistemi autonomi in grado di influenzare l'ambiente circostante, ponendo domande cruciali sulla certificazione e gestione di tali sistemi.

Sul piano economico, l'architettura bio-ibrida comporta costi iniziali elevati e investimenti significativi in ricerca e infrastrutture specializzate, come bioreattori e sistemi di manutenzione per organismi viventi. Tuttavia, il potenziale della simbiosi aumentata come risposta alla crisi climatica è straordinario. Strutture biologicamente attive potrebbero sequestrare grandi quantità di CO₂, posizionando edifici fotosintetici come potenti serbatoi urbani di carbonio. Progetti con facciate viventi, sistemi radicali per la gestione dell'umidità o coperture adattive stagionali rappresentano strumenti innovativi per ridurre drasticamente i consumi energetici. Inoltre, materiali biologici autoriparanti potrebbero estendere la durata degli edifici e ridurne l'impatto ambientale.

L'architettura intesa come ecosistema multispecie apre nuove prospettive per la biodiversità urbana. Città biofile potrebbero ospitare una quota significativa della biodiversità terrestre, con edifici ecosistemici che connettono frammenti ecologici e trasformano gli spazi urbani in hotspot biologici. Progettare edifici autosufficienti e verticali, capaci di purificare l'acqua, produrre cibo e gestire rifiuti organici, supera la tradizionale separazione tra ambiente naturale e costruito, dando vita a strutture rigenerative che producono più risorse di quante consumano.

Per realizzare questi progetti sono necessarie strategie graduali e coordinate, con sperimentazioni pilota che forniscano dati utili a convincere regolatori, investitori e utenti. Fondamentale è anche la formazione di nuove figure professionali interdisciplinari, in grado di integrare ecologia, biotecnologie e design computazionale, affinché emerga una nuova figura professionale capace di unire scienze naturali e tecnologie avanzate.

Infine, la standardizzazione e la collaborazione industriale sono strumenti chiave per ridurre i costi e accelerare la diffusione di questa nuova architettura. Consorzi che uniscano aziende biotecnologiche, edilizie e informatiche favoriranno interoperabilità ed economie di scala, permettendo un approccio progettuale coerente e rigenerativo. La simbiosi aumentata rappresenta così non solo una sfida tecnologica, ma un cambiamento sistemico, il cui successo dipenderà dalla capacità di integrare ricerca, innovazione, normative e modelli economici in un ecosistema progettuale realmente sostenibile.


Conclusioni

La simbiosi aumentata si configura oggi come un paradigma emergente e rivoluzionario che supera la tradizionale dicotomia tra naturale e artificiale, proponendo un'architettura intesa non più come semplice costruzione inerte, ma come un sistema vivente, intelligente e in continua evoluzione. In questo contesto, l'integrazione tra intelligenza artificiale e pratiche di rewilding apre nuove prospettive per una progettazione realmente rigenerativa, capace non solo di ridurre l'impatto ambientale, ma di contribuire attivamente al ripristino e alla rinaturalizzazione degli ecosistemi a scala globale.

Nel corso del XXI secolo, l'architettura sta vivendo una trasformazione profonda, spinta dalla convergenza tra innovazioni tecnologiche avanzate e l'urgenza di risposte efficaci alle crisi ambientali e climatiche. Se nel passato l'approccio dominante si fondava su principi razionalisti e funzionalisti, oggi emerge la necessità di un modello progettuale più dinamico, interattivo e integrato con i cicli e le reti degli ecosistemi naturali. Questa evoluzione ridefinisce radicalmente il ruolo dell'architetto, che da creatore solitario e autore di forme statiche diventa un facilitatore e orchestratore di complesse relazioni ecologiche, tecnologiche e sociali, in grado di progettare ambienti capaci di interagire e adattarsi in modo continuo con il contesto circostante.

L'intelligenza artificiale si presenta come uno strumento chiave di questa nuova visione, abilitando forme di progettazione generativa e adattativa che permettono all'architettura di evolvere in tempo reale in risposta ai dati provenienti dall'ambiente e dagli utenti. Grazie a modelli predittivi e algoritmi di machine learning, l'edificio diventa un organismo intelligente, capace di ottimizzare consumi energetici, migliorare la qualità della vita degli abitanti e aumentare la resilienza rispetto agli eventi climatici estremi, offrendo soluzioni personalizzate e sostenibili che si adattano ai mutamenti ambientali in modo fluido e continuo.

Parallelamente, si afferma con forza un approccio ecocentrico che spinge oltre i confini tradizionali della sostenibilità, promuovendo la reintegrazione attiva della natura negli spazi costruiti.

La rewild architecture, ovvero l'architettura che favorisce il ritorno della natura negli ambienti urbani, stimola la biodiversità, crea habitat ecologici integrati e incorpora sistemi naturali di gestione delle risorse come il ciclo dell'acqua, il trattamento dei rifiuti organici e la regolazione microclimatica. Questo approccio trasforma gli edifici da oggetti isolati a parti vitali di reti ecologiche urbane, contribuendo a restituire agli ecosistemi urbani funzionalità spesso compromesse.

In questo scenario complesso e dinamico, l'architettura assume il ruolo di vero e proprio motore di trasformazione ambientale e sociale. La fusione sinergica tra natura e tecnologia genera ambienti intelligenti, vitali e resilienti, in grado di autoregolarsi, rigenerarsi e migliorare la qualità della vita degli esseri umani e non umani che li abitano. A supporto di questa trasformazione, la formazione accademica e professionale si orienta verso un approccio sistemico, preparando una nuova generazione di progettisti capaci di considerare in modo integrato le interazioni tra edificio, ambiente e società, con un'attenzione costante alle dinamiche ecologiche e tecnologiche.

Da questa evoluzione nasce la figura emergente dell'”ecologo digitale”, un progettista multidisciplinare che integra competenze ecologiche, tecnologiche e progettuali per affrontare le complesse sfide contemporanee. Questo professionista è in grado di dialogare con sistemi naturali e artificiali, utilizzando biomateriali innovativi e soluzioni adattive che rendono possibile un'architettura veramente vivente.

Il nuovo paradigma della simbiosi aumentata implica quindi un ripensamento profondo delle pratiche progettuali, fondato sulla collaborazione attiva con sistemi naturali e intelligenti, e sull'adozione di metodologie che combinano sostenibilità, rigenerazione e tecnologia. Parallelamente, la ricerca dovrà concentrarsi sullo sviluppo di regolamenti e normative che ne facilitino l'adozione su larga scala, superando le barriere legali, economiche e tecniche ancora presenti.

In definitiva, l‘architetto del futuro sarà prima di tutto un facilitatore di simbiosi, capace di mediare e armonizzare le relazioni tra ambiente naturale e tecnologia, promuovendo un'architettura resiliente, sostenibile e profondamente integrata con i cicli della natura.




         

NOTE

1 Il determinismo tecnologico, secondo Lewis Mumford, è l'idea che lo sviluppo delle tecnologie abbia un ruolo fondamentale e spesso determinante nel plasmare la società, la cultura e la storia umana. In altre parole, Mumford vede la tecnologia come un fattore che influenza profondamente il modo in cui viviamo, pensiamo e ci organizziamo, quasi come se fosse la forza principale che guida il progresso sociale. È importante notare che Mumford, pur riconoscendo l'importanza della tecnologia, spesso sottolineava anche la necessità di un uso consapevole e responsabile di essa, per evitare che il progresso tecnologico diventi un fattore incontrollato o distruttivo.

2 BANHAM 1969.

3 WINGLER 1969.

4 Diccionario Metápolis 2001, p. 7.

5 PICON 2010, p. 70.

6 CARPO 2022, p. 3.

7 BRATTON 2016, p. 83.

8 BELL 1973, p. 75.

9 CASTELLS 1996.

10 SENNETT 2006.

11 OXMAN 2017, pp. 1-24.

12 MENGES 2012, pp. 14-21.

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15 CLEMENT 2005.

16 TSING 2015.

17 SMITHSON 1967.

18 NEGROPONTE 1975.

19 BENYUS 1997.

20 Per un approfondimento più completo, si rimanda a: WOLMAN 1965, pp. 178-193; KENNEDY 2007, pp. 43-59.

21 STAR & GRIESEMER 1989, pp. 387-420.

22 Per un'analisi più approfondita dei modelli di machine learning e dei principi di adaptive management, si rimanda a MITCHELL 1997 e HOLLING 1978.

23 MATURANA & VARELA 1980.

24 Per un approfondimento più completo, si rimanda a: EHRLICH & RAVEN 1964, pp. 586-608; WOLKOVICH et al. 2012, pp. 494-497.

25 HEIDEGGER 1951, pp. 96-108.

26 INGOLD 2000.

27 DESCOLA 2013.

28 GRUBER 2011.

29 LATOUR 1995, p. 45.

30 MITCHELL 2009, p. 43.

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Vedi anche nel BTA: USCITE DI ARCHITETTURA LIQUIDA

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