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Il rosso e il 'rumore': alcune questioni sul Caravaggio maturo tra iconografia e cronaca
Giorgia Duò
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 5 Ottobre 2025, n. 984
https://www.bta.it/txt/a0/09/bta00984.html
Articolo presentato il 28 Agosto 2025, accettato in data 21 Settembre 2025 e pubblicato in data 5 Ottobre 2025
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Abstract

Il contributo analizza in un'ottica didattico-scientifica, con il fine di offrire una sintesi pratica, alcune questioni che hanno animato il dibattito contemporaneo, a partire dal secolo scorso, sul maestro da Caravaggio: l'elemento del drappo-cortina rosso intenso, protagonista ricorrente dei quadri del pittore del periodo maturo; la reinterpretazione, in chiave positiva del termine “schiamazzo”, che, da un'accezione sostanzialmente negativa di disapprovazione e derisione, affermatasi a partire dalla la critica tardo-secentesca fino a tutto l'Ottocento, torna ad acquisire il valore essenzialmente neutro del periodo iniziale; la conseguente questione dei rifiuti-non rifiuti di alcuni suoi lavori.

Il contributo si propone di ricapitolare e condensare alcune questioni sul pittore Michelangelo Merisi da Caravaggio (Milano 1571- Porto Ercole 1610) che hanno animato il panorama storiografico dal Novecento ad oggi.

Con sguardo didattico-scientifico, a beneficio di lettori ancora in formazione o di esperti alla ricerca di una sintesi, ci immergiamo in un dibattito le cui acque agitano, dal secolo scorso, senza sosta, la critica sul Merisi, per sviluppare una lettura aggiornata, centrata su tre nodi tematici: il drappo rosso intenso, la ricezione del termine “schiamazzo” attraverso le sue stratificazioni semantiche e la questione dei lavori rifiutati.

Alla cortina scarlatta, introdotta quasi sistematicamente dal pittore, a partire dalla prima maturità 1, l'artista affida la corda emotiva delle opere del periodo, essa irrompe nelle composizioni, come un lampo nella notte, per attraversare e dominare la narrazione scenica 2.

Non si tratta di un mero colore collocato più o meno sapientemente, ma di un elemento centrale dell'estetica caravaggesca a cui spetta accendere e tenere viva la risposta emotiva e il coinvolgimento dello spettatore, infondere vitalità e dinamismo al racconto, e, come una seconda anima, parallela a quella estetico-visiva, vibrare e sostenere i drammi e le passioni silenziosi e reali, nonché le imperfezioni e le contraddizioni legate al suo realismo 3. Un escamotage compositivo, profondamente innovativo per la pittura sacra della Controriforma, la cui introduzione attiva un processo dinamico che mette in dialogo e comunicazione arte e fedeli. Dunque, non un felice elemento decorativo, ma un dispositivo simbolico fondamentale, sostenuto dalla classica teatralità del periodo barocco, a cui il maestro affida la diffusione del sentimento di forte devozione che fuoriesce con vivido senso di realtà dalle sue opere 4.

In Giuditta ed Oloferne (Fig. 1) 5, nella Morte della Vergine 6 e nella Madonna del Rosario (1607, olio su tela, 364 x 249 cm, Vienna, Kunsthistorisches Museum), per esempio, il drappo scarlatto funge sia da interlocutore che da cornice dell'evento tragico: ad esso, che delinea lo spazio esattamente come una quinta teatrale, è, infatti, assegnata la resa del pathos sacro che con veemenza qualifica in senso drammatico la scena raccontata 7.




Fig. 1 - MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO, Giuditta ed Oloferne, 1602, olio su tela, 148 × 195 cm, Roma, Galleria Nazionale di arte antica di Palazzo Barberini. Cortesia di Giorgia Duò
Fig. 1 - MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO,
Giuditta ed Oloferne, 1602, olio su tela, 148 × 195 cm
Roma, Galleria Nazionale di arte antica di Palazzo Barberini
Cortesia di Giorgia Duò




Fig. 2 - MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO, <i>Morte della Vergine</i>, 1604, olio su tela, 369 × 245 cm, Parigi, Museo del Louvre. Cortesia di Giorgia Duò
Fig. 2 - MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO
Morte della Vergine, 1604, olio su tela, 369 × 245 cm
Parigi, Museo del Louvre
Cortesia di Giorgia Duò

Dal punto di vista strettamente formale-compositivo, in tutte queste invenzioni la cortina caldo-cremisi incombe dall'alto 8 e avvolge il racconto, esaltando l'umanità dei protagonisti; in contrasto con il fondo buio, crea ed amplifica un chiaroscuro netto, quindi, ispessisce la narrazione visiva, confinando gli attori in un fronte scenico unico. Così operando, Caravaggio propone una codificazione visiva di un sistema strutturato sulla teatralità 9, con un uso mirato della luce che simula l'illuminazione di scena, e, contemporaneamente, nel mettere in dialogo arte, cornice e spettatore, attiva una sperimentazione inedita dove la rappresentazione chiusa, frontale, entra in contatto diretto con il pubblico partecipante. Un processo profondamente innovativo per la pittura sacra della Controriforma in cui l'elemento che divide, mette anche in connessione lo spazio della rappresentazione con quello dell'osservatore. Gli stessi personaggi sembrano muoversi come attori di teatro, disposti in modo da essere percepiti e fruibili dal riguardante, nessuno si trova su un piano nascosto, proprio perché devono essere tutti oggetto di contemplazione del fedele 10.

Il velo immaginario che traccia il confine tra lo spazio reale e quello del racconto, tra la vita e la morte, tra il sacro e il profano, come un Velo di Maya ante litteram, è infranto. Si genera in tal modo un dialogo interattivo tra arte, stage e spettatore che rompe la tipica distanza formale tra episodio sacro ed osservatore, il quale, in virtù del tendaggio scarlatto, percepito come barriera aperta, diventa consapevole di essere di fronte a una rappresentazione e, allo stesso tempo, si sente invitato a partecipare emotivamente e drammaticamente alla stessa di cui diventa co-attore emotivo. Assistiamo, cioè, alla teatralizzazione della sua pittura, che il Merisi persegue non per fini propagandistici, come lo spirito barocco vuole, o per speculazione fine a sé stesse, ma per inseguire un rapporto diretto e sincretico tra realtà e finzione, dove lo spettatore non è più esterno, ma sussunto, pervenendo così al fine ultimo della diffusione del messaggio di devozione religiosa.

Sono diversi gli studiosi contemporanei orientati in tal senso: già alla metà del secolo scorso lo storico inglese Hinks, in riferimento al telo cremisi sospeso, in alto sopra la testa di Apostoli e della Vergine, riferisce di una grande tenda rossa, come espediente di origine teatrale, derivato dall'esperienza degli spettacoli popolari e della rappresentazione sacra, introdotto nei dipinti a partire dalla Giuditta ed Oloferne (Fig. 1) 11. Successivamente, nel 1987 Maurizio Marini, esperto e studioso del Caravaggio, riprende il riferimento agli aspetti teatrali dell'inglese, confermando la crescente tendenza alla spettacolarizzazione delle opere del Lombardo 12.

Negli stessi anni Maurizio Calvesi, storico ed esperto del Maestro, a proposito della Morte della Vergine (Fig. 2), attribuisce al “grande drappo rosso”, al di sotto del quale, si svolge la scena, la capacità di dare “respiro teatrale al cupo e umile ambiente invaso dall'ombra” 13. E più di recente Claudio Strinati, in occasione della mostra, alle Scuderie del Quirinale, per i 400 anni dalla morte del Maestro, interpreta il drappo, che si apprezza nella Dormitio Virginis (fig. 2), come “quinta teatrale”, la cui funzione è quella di delimitare ed aprire la scena, creando un effetto di sospensione drammatica tra l'evento raffigurato e lo sguardo dello spettatore 14. Inoltre, il critico in diversi interventi pubblici e interviste, ha sottolineato come il Pittore spesso cerchi di creare un rapporto scenico tra opera e fruitore, facendo del quadro uno spazio teatrale connotato da un'inedita sacralità.

Anche Rodolfo Papa a proposito del pensiero figurativo di Caravaggio ravvede, nel drappo rosso della composizione caravaggesca del Transito (fig. 2), un elemento di “teatralità costruttiva”, che attiva, cioè, il dialogo tra realtà, rappresentazione e pubblico 15.

Sulla stessa linea si pone l'interpretazione di Sergio Rossi, esperto del maestro, il quale ritiene il tendaggio sollevato sopra la vicenda un accorgimento di origine teatrale, introdotto dal Merisi, come elemento scenico-liturgico: quasi un sipario che mette in movimento uno spettacolo di morte reale e di tragico dolore. Nel IV capitolo, sulla “Controversa iconografia della Vergine”, della sua recente pubblicazione 16, considera la cortina rossa come segnale visivo e concettuale, particolarmente efficace, che segna la transizione tra due stati: allude, cioè, al passaggio tra la vita (gli Apostoli) e la morte (la Madonna), tra il sacro (la Vergine) e il profano (il contesto domestico e umano della vicenda).

La valenza scenico-teatrale rilevata nelle rappresentazioni dell'artista, con esplicito riferimento al sipario, non va, però, limitata al solo elemento del sipario, ma estesa al sapiente utilizzo del colore rosso lato sensu. Tutt'altro che casuale, la tinta riveste una funzione simbolica, psicologica e compositiva, si lega, cioè, alla dimensione narrativa del racconto. Inserito spesso al centro delle composizioni, o in posizione strategica, qualificante stoffe, tessuti e altri dettagli, il colore attrae, orienta e guida lo sguardo dello spettatore per stimolarne il pensiero riflessivo e condurlo verso il cuore narrativo ed emotivo della scena. In quanto punto focale è il primo elemento con cui l'osservatore entra in contatto nonché l'ultimo ricordo impresso nella sua mente. Vividi esempi di questo impiego sono: la sopravveste rossa del San Matteo e l'angelo (1602, olio su tela, 295 × 195 cm, Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli) 17, il paramento sulle spalle del San Giovanni della Deposizione vaticana (1602-1604, olio su tela, 300 × 203 cm, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana) 18, il lenzuolo di Cristo dell'Incoronazione di Spine (1603, olio su tela, 127 × 165 cm, Vienna, Kunsthistorisches Museum) 19, in tutti questi quadri il rosso accende ed illumina la scena, genera tensione e intensifica il coinvolgimento drammatico.

Il tono cremisi in pittura ha una lunga tradizione simbolica che Caravaggio dimostra di ben conoscere e riprendere, per offrire, però, un'interpretazione assolutamente personale ed originale: il Pittore, spesso associa il colore a momenti di crisi, svolta o rivelazione; soprattutto nei temi sacri, allude al concetto di sacrificio, che, condito con una certa sensibilità tormentata, caratterizza e si lega alle figure di Santi, Martiri e alle scene della Passione 20. La simbologia tradizionale si sposa con l'inedita e sincera aderenza al dato reale che rende i soggetti religiosi individui umani, genuini, dotati di una corporeità schietta, le cui vivide e carnali presenze, caricate e munite di una gamma complessa e credibile di emozioni, animano atmosfere autentiche ed immediate, lontane dalle erudite raffigurazioni di corpi idealizzati o ascetici e di ambienti accademicamente costruiti sulla scorta della cultura trionfante del ‘600.

La pungente adesione a fatti concreti, evidentemente, non può essere passata inosservata, la pittura del maestro, prima di piacere, essere accettata e, infine, spasmodicamente ricercata 21, ha sconvolto l'opinione pubblica che vede nel pittore “il pervertitore del ‘buon costume' nella pittura, cui manca tutto ciò che per la teoria del primo classicismo sacro (…) (è) intangibile patrimonio delle sue formule scolastiche” 22, e dal Bellori gli vengono rimproverati “la mancanza di contegno nelle sue storie, l'eccessiva umanità delle sue mezze figure e dei suoi quadri di figure volgari” 23.

Caravaggio, quindi, fa “rumore” non acustico, ma visivo ed etico, le sue rappresentazioni troppo reali, i suoi Santi sporchi, le sue Madonne con tratti da popolane e gesti quotidiani, creano disturbo, infrangono il codice della decenza e del decoro figurativi. Questo “rumore” è lo svelamento brutale del reale nel sacro tipico della religiosità di stampo pauperistico-borromaico in cui il Pittore cresce.

Le fonti e cronache del tempo riferiscono sentimenti ed opinioni contrastanti nei confronti di questo nuovo stile artistico, cd “dal naturale”, disappunto e apprezzamento convivono dualisticamente nelle testimonianze letterarie giunte a noi 24: Gaspare Celio 25, nella sua biografia sul pittore, riporta che gente comune e personaggi più colti ed esperti di pittura, in occasione dell'apertura della Cappella Cantarelli (1599-1603, Roma, San Luigi dei Francesi), lodano la sua arte 26.

Giovanni Baglione (1573 ca-1643), invidioso ed astioso collega del Merisi 27, tra ammirazione ed acredine afferma: “Se Michelagnolo Amerigi non fusse morto sì presto, haveria fatto gran profitto nell'arte per la buona maniera, che presa havea nel colorire del naturale, benché egli nel rappresentar le cose non avesse molto giudicio di scegliere il buono, e lasciare il cattivo. Nondimeno acquistò gran credito, e più si pagano le sue teste, che l'altrui historie, tanto importa l'aura popolare, che non giudica con gli occhi, ma guarda con le orecchie. E nell'Accademia il suo ritratto è posto” 28. Il critico riporta di “romori” e “schiamazzi” del popolo di fronte allo scoprimento di alcune Madonne. I termini alludono, in senso assolutamente neutro, a quel clamore e quella vitalità, connotati da gioia, disordine, confusione e acceso vociare, creatisi attorno alla sua pittura nel momento dello scoprimento 29; solo successivamente alla sua morte, nella feroce ed anonima critica sei-ottocentesca, i termini sono messi in relazione a un presunto gusto “popolare volgare” e acquisiscono l'accezione negativa, di derisione, biasimo ed indignazione per un fare poco ortodosso, derivante dal riconoscere nelle Vergini e nei Santi le fattezze di popolani riconoscibili 30. In quel contesto, l'opera di Caravaggio è vista come eccessivamente realistica, teatrale e irreligiosa 31.

L'associazione dei termini riferiti dal Baglioni con significati di biasimo, quindi, deriva non direttamente dalle cronache coeve al Lombardo, come a lungo si è creduto, ma da un successivo travisamento del reale significato. A partire dall'indignazione manifestata dal Bellori, segretario dell'Accademia di San Luca, che non condivide il plauso (gli “schiamazzi”) con cui i lavori del Nostro sono stati accolti dal pubblico, assistiamo ad un generale mutamento di significato e valore per cui la critica tardo-secentesca, neoclassica e accademico-ottocentesca, trasformano i lemmi in forme di derisione e non apprezzamento, condivise diffusamente da critici, storici e opinione pubblica che perdureranno per tutto il XIX, giungendo al XX secolo, fino a Bernard Berenson 32.

Contemporaneamente, a partire da Lionello Venturi e da Roberto Longhi, a cavallo della prima metà del secolo scorso, passando per Calvesi, fino alle più recenti interpretazioni di Claudio Strinati, Andrea Lonardi, Rodolfo Papa e Marco Pupillo, si tende a ricondurre tali parole nell'alveo neutro di origine, ossia, nel contesto della meraviglia e ammirazione popolare per opere che parlano direttamente al fedele con un linguaggio e una grammatica immediatamente comprensibile al pubblico colto e meno colto.

A riprova del tono se non positivo, almeno neutro, di certi termini, citiamo ancora il Baglione che in occasione dell'inaugurazione della Cappella Contarelli scrive: “Pur venendovi a vederla Federico Zucchero, mentre io era presente, disse: che rumore è questo? E guardando il tutto diligentemente, soggiunse: io non ci vedo altro, che il pensiero di Giorgione nella tavola del Santo, quando Cristo il chiamò all'Apostolato; e sogghignando, e meravigliandosi di tanto rumore, voltò le spalle, e andossene con Dio.” 33. Sappiamo che Federico Zuccari, principe dell'Accademia di San Luca, strenuo difensore dell'arte classicista, nutre verso i modi caravaggeschi una vera e propria avversione, pertanto nel domandarsi cosa sia quel “rumore”, innescato dalla visione dei quadri appena scoperti, intende, quasi certamente, esprimere fastidio e stupore per l'accoglienza positiva manifestata dalla gente, se sottintesi ci fossero stati derisione e biasimo, in riferimento al “rumoro”, il pittore non si sarebbe sorpreso della situazione. Il popolo dimostra ammirazione e l'Accademico se ne va indignato, dopo aver espresso il suo giudizio pungente, contrario all'unanime plauso e chiacchiericcio del pubblico plebeo.

Sono sempre gli “schiamazzi”, riporta il Baglione, ad indurre il marchese Vincenzo Giustiniani, collezionista del Merisi, che si assicura la prima versione del San Matteo, ad “invaghirsi” delle opere del Milanese, gli stessi che fanno “cadere al romore anche Ciriaco Matthei”  34, il quale commissiona al Pittore diversi opere 35.

A riprova della neutralità del termine, in riferimento agli “schiamazzi” per la Madonna di Loreto (1604-06, olio su tela, 260 cm x 150 cm. Roma, Chiesa di Sant'Agostino) 36, il popolo, nelle parole dell'Autore, reagisce alle “leggerezze”, non indecenze come interpreta la critica successiva, dei piedi sporchi dei panni stracciati e sudici, con “estremo schiamazzo”, probabile segno di approvazione per un racconto pittorico in cui verosimilmente il volgo si riconosce, a conferma dell'efficacia dell'azione pittorica del Maestro 37.

Non riconosciamo, dunque, quelle connotazioni di indignazione e sbigottimento, per poco decoro in relazione a quello “estremo schiamazzo” testimoniato dal Baglione, che gli interpreti tardo-secenteschi, settecenteschi ed ottocenteschi hanno voluto individuare. Tale considerazione è avvalorata dal fatto che l'invidia e l'inimicizia provate dal Biografo per il Lombardo lo inducono, ove possibile, a scriver male dell'Artista, capace di produrre mere “teste” e non “historie” come gli “altrui” pittori 38, ma alla fine, per onestà intellettuale, non può non riconoscere che Michelangelo abbia conseguito un “gran credito” 39 presso un pubblico, connotato però da “incompetenza” 40.

Tra coloro che non hanno una piena considerazione del Pittore, in quanto orientati in senso più classicista, c'è il diplomatico pontificio, vescovo e scrittore, Giovanni Battista Agucchi (1570 – 1632) che, nel suo Trattato sulla pittura 41, riferisce a proposito del Milanese che è “eccellentissimo nel colorire” ma che “ha lasciato indietro l'Idea della bellezza, disposto di seguire del tutto la similitudine” 42, in sostanza il Monsignor non plaude all'eccessivo realismo. Del medesimo parere è il medico privato di Papa Urbano VIII e conoscitore d'arte dilettante, Giulio Mancini, che, nelle sue Considerazioni, rileva una grande capacità di riprendere dal vero, il cui impegno, però, va a scapito della narrazione e dei sentimenti! E, infatti, sul Maestro scrive: “Proprio di questa schola [di Caravaggio] è di lumeggiar con lume unito che venghi d'alto senza reflessi, come sarebbe in una stanza da una fenestra con le pariete colorite di negro, che così, havendo i chiari e l'ombre molto chiare e molto oscure, vengono a dar rilievo alla pittura [...] Questa schola in questo modo d'operare è molto osservante del vero, che sempre lo tien davanti mentre ch'opera; fa bene una figura sola, ma nella compositione dell'historia et esplicar affetto, pendendo questo dall'immagination e non dall'osservanza della cosa, per ritrar il vero che tengon sempre avanti, non mi par che vi vagliano, essendo impossibil di mettere in una stanza una moltitudine d'huomini che rappresentin l'historia con quel lume d'una fenestra sola, et haver un che rida o pianga o faccia atto di camminare e stia fermo per lasciarsi copiare, e così poi le lor figure, ancorché habbin forza, mancano di moto e d'affetti, di gratia, che sta in quell'atto d'operare come si dirà” 43.

Nella seconda metà del XVII secolo, il già citato, Pietro Bellori, scrittore, antiquario e storico dell'arte, abbiamo visto, considera il Merisi un “pervertitore” dell'arte nonché “veleno perniciosissimo” 44, nelle sue Vite, cavalca una posizione classicistico-accademica, poco incline al nuovo stile caravaggesco, che, non è un segreto, non apprezza affatto 45. La sua biografia, però, ci è utile per corroborare la connotazione originaria dei termini impiegati dal Baglione: e, a proposito della Madonna lauretana, riferisce che “In Santo Agostino si offeriscono le sozzure de' piedi del pellegrino” 46 e nonostante un procedere tutt'altro che decoroso (“tolta ogni autorità all'antico e a Rafaelle” 47) molti “invaghiti dalla sua maniera l'abbracciavano volen­tieri (…). All'hora cominciò l'imitazione delle cose vili, ricercandosi le sozzure e le deformità, come sogliono fare alcuni ansiosamente: se essi hanno à dipingere un armatura, eleggono la più rugginosa, se un vaso, non lo fanno intiero, masboccato e rotto. Sono gli habiti loro calze, brache, e berrettoni, e così nell'imitare li corpi, si fermano con tutto lo studio sopra rughe, e i difetti della pelle e dintorni, formano le dita nodose, le membra alterate da morbi. Per li quali modi il Caravaggio incontrò dispiaceri, essendogli tolti li quadri da gli altari come in San Luigi (…)” 48.

Le parole del biografo, testimoniando del plauso tra pittori e committenti del nuovo e “ansiosamente” ricercato modus operandi del Merisi, vanno a beneficio di un'interpretazione non negativa degli “schiamazzi” e del “rumore” di baglionesca memoria.

Di qualche anno più tardi è il trattato del Conte Carlo Cesare Malvasia (1616-1693), anch'egli si dimostra critico nei confronti della pittura del Nostro: “Non poté mai tollerare [si riferisce all'Albani a cui è dedicato il capitolo], che si seguitasse il Caravaggio, scorgendo essere quel modo il precipitio, e la totale ruina della nobilissima, e compitissima virtù della Pittura, poiché, se bene era da laudare in parte la semplice imitatione, era nondimeno per partorire tutto quello, che ne è seguito in progresso di 40 anni. [...] Non possono essere i Pittori egualmente eccellenti in tutte le parti. Se il Caravaggio havesse havuto questi requisiti saria stato Pittore dirò Divino, questo, non haveva cognitione nelle cose sopranaturali, mà stava troppo attaccato al naturale” 49.

Unica voce fuori dal coro, tra le fonti tardo-secentesche, è la testimonianza di Giovan Battista Passeri che nelle sue Vite dimostra di apprezzare il lavoro rivoluzionario del Milanese: “Michel'Angelo da Caravaggio fece qualche giovamento al gusto di quella nuova Scuola, perché, essendo uscito fuora con tanto empito, e con quella sua maniera gagliarda, fece prender fiato al gusto buono, et al naturale, il quale allora era bandito per la vita e reso contumace dal comercio umano, e precipitato nell'abisso d'una maniera ideale, e fantastica ad uso delle Grottesche dell'India. Ben'à vero, che egli non rese adorno il gusto con quelle vaghezze, con le quali la Scuola Caracciesca l'ha portato, pieno di piacevolezze, e di delizie, ricco nelli componimenti, adorno d'accompagnature, e discreto in tutto il portamento; tutta via aperse una fenestra per la quale fece rivedere la Verità, che si era già smarrita” 50.

La letteratura artistica della seconda metà del ‘600 si rivela, dunque, se non apertamente ostile alla pittura caravaggesca e alla sua poetica naturalistica, poco disposta ad accogliere le istanze estetiche da cui prende dichiaratamente le distanze. Da questo momento in poi la figura del Pittore viene gradualmente marginalizzata fino a essere relegata a un lungo periodo di oblio critico-storiografico che cessa solo con lo sviluppo dall'intenso e vivace dibattito degli anni Venti del secolo scorso.

La successiva letteratura neoclassica, infatti, continua sulla medesima impostazione e ritiene il Caravaggio un artista poco valido: Anton Rafael Meng, teorico del Neoclassicismo, assieme a Johan Joachim Winckelmann, nelle sue lezioni di pittura, scrive che l'Artista “non aveva ne varietà ne correzione; e perciò era tutto cattivo nel disegnò” 51. Meno lapidario il resoconto di Stendhal (Rome, 1806), il quale, nel suo Diario di viaggio, afferma che “per l'orrore ch'egli sentiva dell'ideale sciocco, il Caravaggio non correggeva nessuno dei difetti dei modelli ch'egli fermava nella strada per farli posare. Ho veduto a Berlino alcuni suoi quadri che furono rifiutati dalle persone che li avevano ordinati perché troppo brutti. Il regno del brutto non era ancora” 52, l'affermazione evidentemente rammenta e suggella il mito dei quadri rifiutati di cui parleremo in seguito.

Durante il XIX secolo, in piena temperie romantica, l'interesse per Caravaggio risorge, ma non senza ambivalenze. Alcuni critici lo rivalutano per il suo anticonformismo e la drammaticità 53, per altri, invece, continua ad essere colui che non ha avuto rispetto per l'arte 54.

All'inizio del ‘900 Alois Riegl, storico dell'arte della scuola viennese, lo celebra come un “Genie” (“II pittore che diede inizio al movimento doveva quasi per necessità naturale essere un uomo incolto, privo d'interessi per un passato culturale che non conosceva- Ma, ciononostante, un genio che seppe portare con sé anche la cultura attraverso i modi con cui attuò le proprie personalissime intenzioni. Questi sono appunto i tratti dell'iniziatore: Michelangelo da Caravaggio. Un uomo incolto ma un genio”) 55, ma dobbiamo attendere il lavoro appassionato di studio e ricerca che Adolfo Venturi e i suoi allievi mettono in campo a partire dagli anni Venti del ‘900 per assistere al recupero della sua figura.

Con Adolfo, sebbene persista un certo e sospettoso distacco nei confronti di un'arte che continua a “disturbare” per troppa sfrontatezza, violenza luministica e commistione tra sacro e profano, inizia un timido, ma decisivo cambio di rotta, il Nostro è celebrato come il precursore dei massimi geni del Seicento europeo 56. Ma sono i suoi studenti a gettare una nuova luce sul Pittore: Lionello Venturi 57, Roberto Longhi e, in misura minore, Antonio Muñoz si dedicano alla ricerca per dare una soluzione alla neonata “questione caravaggesca” e alla più generale rivalutazione della pittura italiana del ‘600 58 che continua ad essere la cenerentola dell'arte per via dell'imperante pensiero pregiudizievole, idealista, di stampo crociano sul periodo barocco 59.

“Quando guardiamo la Vocazione di San Matteo ci accorgiamo – scrive Lionello Venturi - che qualcosa di nuovo è avvenuto, qualcosa che ha mutato l'arte di Michelangelo da Caravaggio. Un nuovo modo di subordinare ogni immagine all'effetto generale di luce e ombra appare evidente, e poiché questo modo è essenziale a tutte le opere posteriori, si può dedurne che il periodo delle ricerche è finito e che lo stile dell'artista è perfettamente realizzato. Ci sono stati in tutti i tempi dei pittori realisti, che sono stati grandi artisti. Non perché abbiano riprodotto la realtà empirica in modo illusorio, ma perché l'hanno interpretata, e cioè veduta e sentita, a seconda della loro fantasia. E la loro differenza dai pittori della 'idea' è che questi evadono fantasticamente dalla realtà, mentre i 'naturalisti' interpretano la realtà e ne danno ciò che a loro sembra l'essenza. Giotto e Masaccio sono realisti come il Caravaggio, con questa differenza, ch'essi sono realisti senza un preciso programma, e il Caravaggio dovette farsi un programma per liberare polemicamente la propria fantasia da un groviglio di regole e di pregiudizi che il manierismo voleva imporgli” 60.

E se l'avvio del rinnovato interesse sul Merisi si deve al giovane Lionello, un di poco più giovane Longhi non rimane indifferente al tema e inaugura la sua carriera con una tesi sull'Artista, discussa con Pietro Toesca, allievo di Adolfo, nel 1911, all'Università di Torino 61. Alla fine degli anni Venti, scrive i celebri Quesiti caravaggeschi (1928-1929) 62, ancora oggi punto di riferimento di fondamentale importanza per gli studi sul Pittore, in cui la riflessione sulla dimensione naturalistica dell'arte del Maestro, associata al retroterra figurativo lombardo, particolarmente orientato in senso realistico, contraddicono le appena diffuse tesi marangoniane che vorrebbero un Merisi antirealistico! 63

“Dalle esperienze luministiche dei suoi precursori, fra cui erano anche quel Lotto che il Lomazzo [...] chiama "maestro del dare il lume" e quel Savoldo in cui il Pino esalta "le ingegnose descrittioni dell'oscurità", il Caravaggio scopre "la forma delle ombre": uno stile dove il lume, non più asservito, finalmente, alla definizione plastica dei corpi su cui incide, è anzi arbitro coll'ombra seguace della loro esistenza stessa. Il principio era per la prima volta immateriale; non di corpo ma di sostanza; esterno ed ambiente all'uomo, non schiavo dell'uomo [...] Che cosa importasse questo nuovo stile nei confronti col Rinascimento ch'era invece partito dall'uomo, e vi aveva sopra edificato una superba mole antropocentrica, cui anche la luce era anodina servente, è facile intendere. All'artificio, al simbolo drammatico dello stile attendeva ora il lume medesimo, non l'idea che l'uomo poteva aver formato di se stesso. Ma quando in un battito del lume una cosa assommasse, e poiché non era più luogo a preordinarla nella forma, nel disegno, nel costume, e neppure nella rarità del colore, essa non poteva sortire che terribilmente naturale. Il dirompersi delle tenebre rilevava l'accaduto e nient'altro che l'accaduto; donde la sua inesorabile naturalezza e la sua inevitabile varietà, la sua incapacità di "scelta". Uomini, oggetti, paesi, ogni cosa sullo stesso piano di costume, non in una scala gerarchica di degnità...” 64.

E, a proposito, della consapevole scelta di Michelangelo di non voler perseguire l'apologia del corpo umano della tradizione classico-classicistica, dall'antologia degli scritti del Torinese leggiamo: “La sua ostinata deferenza al vero poté anzi confermarlo nella ingenua credenza che fosse "l'occhio della camera" a guardar lui e a suggerirgli tutto. Molte volte dovette incantarsi di fronte a quella "magia naturale"; e ciò che più lo sorprese fu di accorgersi che allo specchio non è punto necessaria la figura umana, se, uscita questa dal suo campo, esso seguita a specchiare il pavimento inclinato, l'ombra sul muro, il nastro caduto a terra. Che altro potesse conseguire a questa risoluzione di procedere dipingendo per specchiatura diretta della realtà, non è troppo difficile intendere. Ne conseguiva la tabula rasa del costume pittorico del tempo che, preparandosi gli argomenti in carta e matita per via di erudizione storica e di astrazione stilizzante, aveva elaborato una complessa classificazione del rappresentabile, dove, per meglio servire alla società di allora, non poteva che preferirsi l'aspetto della classe dominante. Ma il Caravaggio pensa invece alla vita comune, ai sentimenti semplici, all'aspetto feriale delle cose che valgono, nello specchio, come gli uomini. [...] Anche il Caravaggio avvertiva il pericolo di ricadere nell'apologetica del corpo umano, sublimata da Raffaello o Michelangelo, o magari nel chiaroscuro melodrammatico del Tintoretto. Ma ciò che gli andava confusamente balenando era ormai non tanto il rilievo dei corpi quanto la forma delle tenebre che li interrompono. Lì era il dramma della realtà più portante ch'egli intravedeva dopo le calme specchiature dell'adolescenza. E la storia della religione, di cui ora si impadroniva, gli tornava come un seguito di drammi brevi e risolutivi la cui punta non può indugiarsi nella durata sentimentale delle trasparenze, anzi inevitabilmente s'investe del lampo abrupto della luce rivelante, fra gli strappi inconoscibili dell'ombra. Uomini e santi si sarebbero impigliati in quel tragico scherzo. Giacché, per restar fedeli alla natura del mondo, occorreva far sì che il calcolo dell'ombra apparisse come casuale, e non causato dai corpi; ove volesse esimersi dal riattribuire all'uomo la sua funzione umanistica dirimente, di eterno protagonista e signore del creato. Perciò il Caravaggio seguitò, e fu fatica di anni, ad osservare la natura della luce e dell'ombra incidentali. [...] Chi non sa che il Tintoretto studiava al lume di lucerna, non già il vero, ma i modellini della Cappella Medicea? E che i modellini del Greco erano cere dove si stiravano in una poetica follia le ultime spire laocoontiche del disegno 'serpentinato'? Ma ora è la realtà stessa a venir sopraggiunta dal lume per 'incidenza': il caso, l'incidente luminoso, diventano causa efficiente della nuova pittura (o poesia). Non v'è Vocazione di Matteo senza che il raggio, assieme col Cristo, entri dalla porta socchiusa e ferisca quel turpe spettacolo dei giocatori d'azzardo. In effetto Caravaggio stagliò questa sua "descrizione di luce", questo poetico "fotogramma", quando l'attimo di cronaca gli parve emergere, non dico con un rilievo, ma con uno spicco, con un'evidenza così memorabile, invariabile, monumentale, come dopo Masaccio non s'era più visto” 65.

La lunga resistenza del gusto idealizzante, di stampo belloriano, alla carica destabilizzante del linguaggio caravaggesco, nutrito di realismo popolare, per cui l'arte del Maestro stigmatizzata dalla bieca e moralistica visione classicista, come antipoetica, sconveniente, indecorosa perché “naturalista”, nel primo ‘900 viene, quindi, lentamente a desistere nel panorama di un rinnovato interesse per il Barocco 66. Ma lo “schiamazzo” e il “rumore”, in questa fase, continuano a essere associati a significati negativi di disapprovazione e biasimo per aver infranto i codici del decoro religioso, sovvertendo l'ordine visivo-culturale della tradizionale iconografia. Solo nel XXI secolo la critica comincia a rivisitare la semantica dei termini, per cui il clamore risonante diventa stupore e non solo scandalo, lo fa Pamela M. Jones 67, Marco Pupillo 68, Andrea Lonardo 69 ed altri, mentre contrario a questa lettura rimane Sergio Rossi per il quale il termine non può avere avuto un significato positivo, poiché, il malanimo del Baglione, afferma lo storico, piuttosto che scriver bene di Caravaggio avrebbe preferito fare “la fine di Giordano Bruno” 70. Ma è anche vero che tra le righe del suo racconto l'animoso Biografo riconosce al Nostro una certa bravura 71.

Da questa riconsiderazione semantica delle parole usate dallo Scrittore emerge la delicata questione dei rifiuti (o non-rifiuti) di alcune opere del Merisi. Ancora oggi la cultura popolare si nutre della leggenda, ripetuta per tre secoli, per la quale il Caravaggio, artista maledetto, abbia collezionato clamorosi rifiuti, nutrendo l'immaginazione dei più con fantomatiche e burrascose scene di liti fra il Pittore e i suoi committenti. Abbiamo già detto come spesso i resoconti dei biografi secenteschi (Baglione e Bellori), volti a minare e screditare il Pittore, abbiano distorto pesantemente la realtà degli avvenimenti e solo a partire dalla prima metà del secolo scorso, attraverso un intenso lavoro di ricerca e recupero si è giunti a far luce su alcuni episodi.




Fig. 3 - MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO, San Matteo e l'angelo, 1599, olio su tela, 223 × 183 cm, opera perduta (fotografia colorata). Cortesia di Giorgia Duo'
Fig. 3 - MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO
San Matteo e l'angelo, 1599, olio su tela
223 × 183 cm, opera perduta (fotografia colorata)
Cortesia di Giorgia Duò

La prima tela ad essere riferita, a torto, un rifiuto, è la versione “originale” del S. Matteo e l'angelo per la Cappella Contarelli (Fig. 3) 72. La testimonianza del bilioso Baglione afferma che il dipinto “non era (a) veruno piaciuto” 73, ad essa fa eco la successiva attestazione del Bellori secondo la quale “avendo egli terminato il quadro di mezzo di San Matteo e postolo su l'altare, fu tolto via dai preti, con dire che quella figura non haveva decoro, né aspetto di santo, stando a sedere con le gambe incavalcate e coi piedi rozzamente esposti al popolo” 74. Il malevolo Giovanni non racconta, però, di alcun rifiuto, ma semplicemente riporta di un generico mancato apprezzamento, fors'anche strumentale, della tela, sarà poi il fazioso classicista romano a raccontare falsamente di una “rimozione”, nessuna cronaca coeva al Pittore, infatti, ha lasciato intendere che vi sia stato un ripensamento, per mancanza di decoro o irriverenza, da parte dei confratelli di San Luigi dei francesi, a cui per altro non spetta alcuna decisione al riguardo, poiché trattasi di una commissione privata, della famiglia Contarelli.

Lo storico dell'arte Luigi Spezzaferro, allievo di Argan, a partire dagli anni '80 del secolo scorso, si dedica alla questione, e giunge, nel 2001, alla formulazione della teoria per la quale la primitiva tela d'altare è realizzata come elemento provvisorio, per consentire il normale svolgimento delle funzioni liturgico-devozionali, in attesa dell'opera definitiva del 1602 75. La composizione primitiva ha, quindi, assunto in tal modo un ruolo centrale per il dinamico e florido mercato antiquariale, il dipinto diventa, infatti, ambito “oggetto” di interesse per il fenomeno del Collezionismo seicentesco 76.

Anche Calvesi inquadra la vicenda della pala d'altare nel contesto della funzionalità liturgico-devozionale, non come lo Spezzaferro, che riconduce la sostituzione ad una necessità pratica, ma secondo un'ottica di fede. In contrasto con quanto asserito dal credo ugonotto-francese, per cui la salvezza è indipendente dalla volontà dell'individuo, lo Storico ritiene il “bellissimo” San Matteo (un uomo dalle ruvide fattezze di contadino analfabeta) figlio della rinnovata disciplina uscita dal Concilio di Trento, così come recepita in ambiente borromaico, per la quale l'uomo reprobo e peccatore è capace di scegliere la grazia 77.

Ma la schietta iconografia proposta dal Maestro, radicata nelle dispositiones pauperistiche di area lombarda, cozza con le istanze tridentine propugnate della Chiesa Trionfante Romana e all'indomani della sua realizzazione, il Nostro, ben conscio ed informato sull'estetica, aspetto e messaggio che le opere religiose devono veicolare nella Roma del Seicento, può aver deciso l'avvicendamento, in quanto la tela evidentemente non corrispondeva alle richieste e ai precetti della Controriforma, sia dal punto di vista teologico (un Santo troppo umile) che da quello tecnico (forma e misure del quadro non rispettano le indicazioni generali per le quali le pale d'altare devono avere un andamento verticale (come la seconda versione di 295 x 195 cm), mentre il primo San Matteo tendeva al quadrato (223 x 183 cm)).

A sostenere la versione del “non rifiuto”, ma della scelta personale, c'è la considerazione del Marini, secondo cui il dipinto perso, inserito sull'altare, nel contesto della Cappella, per via di forma e dimensioni ridotte, non avrebbe potuto reggere il costante confronto con i laterali, di dimensioni molto più grandi del pannello centrale. Pertanto ritiene che “la prima pala della Contarelli non sia oggetto di un vero e proprio rifiuto (…) bensì di un ‘perfezionamento' o, meglio, di una più esplicita declinazione controriformista rispetto alla traccia del 1591 da cui dipendono la statua del Cobaert, il dipinto non eseguito del Cesari e, naturalmente, il primo San Matteo del Caravaggio” 78. Per lo studioso, infine, si è trattato di un momento nodale per la crescita artistica del Pittore.

In linea con la tesi della scelta di sostituire il quadro con una seconda versione, è anche Rossella Vodret, esperta del Maestro, già Soprintendente del Polo Museale della città di Roma, la quale pensa che dopo aver collocato l'opera sull'altare l'Autore si sia reso personalmente conto di due elementi dissonanti: il quadro si mostrava sottodimensionato rispetto sia allo spazio del vano che alle tele della Chiamata e del Martirio, e, dunque, mal si inseriva nel contesto della Cappella, inoltre, la composizione, autentica e originale, ma raffigurante un soggetto poco diffuso nella Roma dell'epoca, e quindi, poco conosciuto dai fedeli, avrebbe potuto prestarsi ad incomprensioni ed equivoci 79. A partire da queste valutazioni la studiosa presume che la tavola abbia assunto, quasi subito, il carattere di provvisorietà, favorendone la sostituzione con una composizione più consona ed allineata alle concezioni d'ispirazione divino-religiosa, dettate dal Concilio del 1546. Dall'opera in situ, infatti, risulta chiaro il messaggio di matrice cattolica per cui l'uomo collabora con Dio attraverso un messo-angelo 80.

Un vero e proprio giallo è, invece, quello relativo alla prima versione della Conversione di Saulo (Fig. 4), della Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo (Roma).




Fig. 4 - MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO, Conversione di Saulo, 1600-1601, olio su tavola di cipresso, 237 × 189 cm, Roma, Collezione Odescalchi. Cortesia di Giorgia Duo'
Fig. 4 - MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO
Conversione di Saulo, 1600-1601
olio su tavola di cipresso, 237 × 189 cm
Roma, Collezione Odescalchi
Cortesia di Giorgia Duò

Del quadro abbiamo molte informazioni (la data di realizzazione, il committente, i passaggi di proprietà), non conosciamo, però, il motivo dell'avvicendamento delle tavole con le versioni su tela, decoranti attualmente il vano-Cappella (Conversione di San Paolo, 1600-1601, olio su tela, 230 × 175 cm, Roma, Basilica di Santa Maria del Popolo; Crocifissione di San Pietro 1600-1601, olio su tela, 230 × 175 cm, Roma, Basilica di Santa Maria del Popolo) 81.

Il solito Baglione riporta di un rifiuto 82, ma nessuna altra fonte secentesca successiva, conferma il diniego, il Bellori, a proposito del quadro parla sinteticamente di una “historia affatto senza attione”, senza aggiungere ulteriori dettagli utili a risolvere l'enigma 83. Neanche il Mancini, mai avaro di informazioni, menziona il rifiuto, ma cripticamente restituisce solo il passaggio in collezione Sannesio 84, ragion per cui, in questi ultimi anni, la critica contemporanea ha preferito orientarsi diversamente, non propendendo per il rifiuto, ma, ancora una volta, per una precisa scelta del Maestro 85.

Nel 1951, lo storico ed esperto del Caravaggio, Sir Denis Mahon sostiene che sia stato il Milanese, di sua iniziativa, a decidere di sostituire i quadri originari d'ascendenza ancora manierista, con due nuove composizioni, probabilmente su impulso derivato dal confronto con l'Assunzione del Carracci (1600-1, olio su tela, 2,45 x 1,55 m. Roma, Chiesa di Santa Maria del Popolo, Cappella Cerasi), L'ipotesi si basa sull'eventualità che egli possa aver sentito la necessità di dare una risposta più attuale alla suggestione di forte modernità nata dall'osservazione della tela di Annibale 86. Quindi, il Pittore potrebbe aver riflettuto sull'invenzione carracesca dopo il compimento delle tavole ed aver deciso per una nuova formulazione delle sue historie. E allora il momento in cui il Cerasi entra in possesso della pala d'altare diventa decisivo, ma non ci sono documenti al riguardo, e si ritiene che la mancanza di documentazione di incarico/consegna nell'archivio del tesoriere, costituisca di per sé un elemento a favore della tesi per cui la tela possa essere stata oggetto di dono da parte del card. Odoardo Farnese, patrono di Annibale 87, e dunque il prelato potrebbe essere già entrato in possesso nel 1600, ossia, prima dell'incarico al Caravaggio 88. Contro questa possibilità, sostenuta anche negli anni Settanta dal Posner 89, è l'evenienza che l'Assunzione potrebbe essere stata consegnata, prima della sua morte, pertanto Caravaggio avrebbe potuto avere accesso all'opera, e quindi portare avanti la sua riflessione personale, già al momento della commissione iniziale.

Anche lo Spezzaferro opta per una riformulazione dei quadri dettata da una scelta personale e ritiene che il pagamento da parte dell'Ospedale, inferiore al pattuito, di soli 400 scudi 90, possa essere derivato proprio da questo cambiamento, frutto di una ricontrattazione, più vantaggiosa per entrambe le parti 91. Ulteriore posizione favorevole, è quella di Stephen Pepper che vede nell'avvicendamento l'esito di una sfida “gomito a gomito” tra i due artisti, Caravaggio può aver subito il peso del lavoro del Bolognese e aver considerato le proprie composizioni non all'altezza della moderna historia carraccesca 92, per Annibale, non è un segreto, che Michelangelo nutra apertamente una certa ammirazione 93. D'altra parte è plausibile che i due campioni si siano influenzati a vicenda, essi, infatti, sono assolutamente consapevoli di trovarsi al centro di una sfida sulla moderna pittura, latori di stili diversi in via di affermazione, i Due sono chiamati a misurarsi pubblicamente, alimentando una vera e propria competizione aperta 94. E, infatti, in un Avviso di quei giorni si legge: “Alli giorni passati si scoperse la non men vaga che bella galleria del Ill.mo cardinal Farnese dipinta dal Carracci Bolognese (…) hora si scorse che Roma fiorisce nella pittura, non meno che abbia fatto a tempi a dietro. Attendesi ora a finir la sala di Campidoglio del cav. Giuseppe, li dua quadri che fa il Caravaggio per la capella del già Mons. Ceraseo, tesauriero, il quadro principale in essa capella di detto Caraccio, essendo in somma quei tre quadri di tutta eccellenza e bellezza” 95.

Intrepreta diversamente la affermazione baglionesca il Longhi che, non sposando l'idea del confronto tra l'Emiliano e il Nostro, riconduce la scelta della sostituzione delle tavole ad una questione squisitamente tecnica: non già, cioè, perché non sia piaciuta al committente, piuttosto perché il cambio prevede il compimento di altri dipinti con la tecnica dell'olio su tela al Pittore più congeniale del supporto in legno 96 e, per ovviare all'umidità che avrebbe potuto rovinare le tele prevede di porre un'armatura di travi lignee per isolare i quadri dalle pareti 97,

Calvesi, nel '73, non addentrandosi nella questione, perché orientato ad approfondire altri aspetti, riferisce semplicemente del rifiuto letto nel Baglioni98, nel decennio seguente, rivede la sua posizione e ipotizza che possa esservi stata una sostituzione come chiaro gesto di volontà, senza, peraltro, analizzare significativamente la vicenda, ma limitandosi a segnalare la conclusione 99.

Sostenitrice di questo misterioso “scambio” diretto è anche la Vodret, la sua convinzione si basa sul fatto che le tele attualmente nella Cerasi, oltreché diversissime dal punto di vista stilistico, manierista la prima, pienamente inserite nella nuova, lucida ed essenziale visione della realtà elaborata dal Milanese, le seconde, esternano una consapevolezza del contesto architettonico che la tavola Odescalchi evidentemente non possiede. Di questa cognizione spaziale, già, nel 1959, si è accorto Leo Steinberg che ha ascritto l'adattamento attuato da Caravaggio allo spazio, come un'azione di zelo volta ad esaltare la potenza essenziale delle sue opere 100. Per il critico americano, come per la Storica, si è, dunque, trattato di una precisa scelta estetico-visuale attuata dal Lombardo coscientemente, in funzione dell'ambiente.

E allora il Maestro potrebbe aver iniziato a lavorare alle tavole, senza aver ben chiaro le dimensioni del vano, e, concluse le quali, esse rimangono, abbiamo visto, nel suo atelier in attesa della sistemazione architettonica della Cappella da parte del Maderno, al termine della quale, si rende probabilmente conto che i dipinti mal si inseriscono in quello stretto corridoio, ma necessitano di un punto di vista diverso, di più ampio respiro, rispetto a quello consentito dall'angusto spazio. La circostanza può aver allora generato nel Maestro un senso di frustrazione, nonché averlo indotto, in un momento non bene precisato, a prendere la decisione di produrre i due sostituti che meglio potessero interpretare la concezione spaziale del piccolo ambiente: un punto di vista molto ravvicinato, di massimo 1,5 metri. Le tele della seconda versione, infatti, sembrano essere elaborate in funzione della ridotta spazialità e mostrano quella maturazione stilistico-creativa tipica degli anni successivi. Questa ipotesi posticiperebbe la datazione dei due quadri ancora in situ, solitamente ascritti, sulla base del contratto, al 1600-1601, a un momento successivo e più coerente con la parabola artistico-stilistica del Merisi (1604-05) 101.

Altra opera su cui è calato il giudizio di un finto rigetto è la Madonna del serpe o dei Palafrenieri (1605, olio su tela, 292 x 211 cm, Roma, Galleria Borghese) 102, sembra, infatti, che il Cardinal Scipione Borghese, noto ammiratore delle opere del Caravaggio, abbia orchestrato la rimozione del dipinto, dissimulando la propria bramosia per il quadro, dietro il falso rifiuto. La tela, dunque, non subisce un diniego, ma viene piuttosto “opzionata” dal Borghese per la propria quadreria103.

Dipinta in pochi mesi, l'8 aprile del 1606, è esposta alla pietà dei devoti alla presenza dello stesso Pittore, quindi, rimossa dall'altare a distanza di pochi giorni, viene trasferita nella vicina chiesa di Sant'Anna dei Palafrenieri, nella stessa area vaticana, da dove Scipione la compra per soli 100 scudi 104. Vi è raffigurata una Madonna nelle vesti di una popolana verace, in compagnia di un bambino cresciuto ed una visibilmente anziana, provata dalla vita, S. Anna. L'opera avrebbe dovuto decorare il nuovo altare della Confraternita, ricavato nella Basilica di San Pietro, appena ristrutturata, ma a qualche giorno dall'inaugurazione, viene rimossa. Sui motivi che hanno portato al trasferimento si è molto discusso, tradizionalmente la critica si è orientata sulla questione iconografica: il dipinto si mostra eccessivamente “popolare”, con un'invenzione troppo aderente alla realtà che toglie il senso del sacro. Spiegazioni, per altro speculative, stante l'incertezza generale che avvolge il quadro e la sua storia, sono ascrivibili a ragioni teologiche e di decoro, per una rappresentazione non rispettosa dei canoni tridentini, nonché brutale e realistica che non svolge sui fedeli la funzione attribuita ad una pala d'altare. In particolare oggetto di accusa sono: in primis la provocante Maria, il cui elegante e rosso abito, evidenzia un procace e formoso seno, sottolineato da una scollatura velata di stoffa trasparente, che poco concede all'immaginazione; il Gesù-ragazzino, non più in età da esibire una nudità completa, la cui collocazione in primo piano, in scala maggiore del naturale crea un effetto forzato e di imbarazzo, per troppa vicinanza. sul riguardante; anche il gesto compiuto dai due che agendo contro il male, calpestando in modo vigoroso il serpente, con un fare esageratamente “terreno” e veemente, mal si addice allo status di santi cristiani; infine, l'anziana madre Meterza, protettrice dei Palafrenieri e dunque soggetto principale della composizione, di aspetto troppo plebeo e in posizione dimessa, raffigurata come un'umile vecchia contadina, con mani, volto e decolté segnati visibilmente dal tempo e dal lavoro all'aperto, iconograficamente è troppo lontana dalla forma ideale di una Santa.
Negli anni Cinquanta del secolo scorso, però, gli studi e le analisi di diversi storici hanno superato queste “dicerie”, nate dalla propaganda anticaravaggesca, già segnalata, che ha nell'invidioso Baglione il suo iniziatore e che si assesta e continua attraverso il Tardo-seicento fino a tutto l'Ottocento 105, e Walter Friedländer, seguito e sostenuto da Jacob Hess
106, suggerisce, sulla base delle sue ricerche che il “rifiuto” non abbia implicazioni dogmatico-iconografiche, piuttosto sia dovuto all'incompatibilità di spazio tra una tela di grandi dimensioni, come quella concepita dal Lombardo, e un sacello troppo angusto il cui piccolo altare dedicato alla S. Anna mal avrebbe accolto il quadro. Inoltre, lo studioso consultando gli archivi ha individuato da parte di alcuni Confratelli la volontà di trovare comunque una degna sistemazione alla pala del Maestro 107. Questa circostanza da sola confuterebbe il rifiuto, ma viene subdolamente manipolata, dalle smanie collezionistiche di Scipione, desideroso di entrare in possesso del dipinto caravaggesco, che chiede l'intervento dello stesso papa affinché si rimuova il dipinto. Successivamente lo Spezzaferro lega la vicenda della rimozione a quella del rifiuto della Morte della Vergine per Santa Maria delle Scala (fig. 2), l'esperto riporta che i Palafrenieri in cerca di una soluzione percorribile, chiedano il parere di Tolomeo Gallio di Como 108, Cardinale e Segretario di Stato Pontificio, virtuoso controriformato, il quale memore della recentissima vicenda trasteverina, di qualche giorno prima, può aver consigliato la rimozione 109. L'opinione del Gallio può, inoltre, essere stata influenzata da dinamiche più politiche che teologico-culturali, filospagnolo il primo, d'ambiente filofrancese il secondo, i cui mecenati e protettori sono legati agli interessi di area francese, i pareri di ricusazioni emessi dal clerico, anche se attualmente non dimostrati, potrebbero aver avuto il fine di perseguire equilibri di altro genere.
Negli stessi anni, Salvatore Settis, professore alla
Normale di Pisa, rileva che l'invenzione caravaggesca presenta, effettivamente, soluzioni un po' eccessive per un dipinto religioso, in particolare, la rappresentazione della Sant'Anna, patrona dei Palafrenieri, potentemente umana e perturbante, raffigurata come una vecchia popolana rugosa in posizione quasi subalterna rispetto alla Vergine con bambino, potrebbe, sostiene lo studioso, non aver soddisfatto i Confratelli 110. Secondo lo storico, al tempo, la Santa, il cui nome in ebraico significa “grazia”, potrebbe essere stata vista con sospetto dalla Chiesa stessa, in quanto la sua visione non avrebbe ispirato il concetto di grazia e salvazione dovuti. Riprendendo poi i soliti motivi della scollatura eccessiva, della mancanza di decoro in un bambino troppo cresciuto per essere raffigurato ignudo, lega la visione del gesto brutale, di uccisione della serpe, al dualismo interpretativo del passo della Genesi tra cristiani e protestanti, per cui la scena non sarebbe piaciuta ai cattolici più intransigenti 111.
Per il Marini la ragione della rimozione, invece, va ricercata nel divieto emesso dal
Concilio di Trento di raffigurare soggetti viventi riconoscibili nei panni di figure sacre 112. Tra i dettami conciliari vige, infatti, il veto di utilizzare le sembianze di personaggi noti ed individuabili, persone “particolari”, nei panni di Santi e Martiri, per opere destinate al culto nei luoghi di pubblici, in cui la gente possa identificare la/il modella/o. L'impedimento, evidentemente, nasce dal proposito di voler evitare equivoci e reazioni scomposte. Il Marini ravvisa nella Madonna i tratti della Lena, alias Maddalena Antognetti, amica del Lombardo 113, definita in un documento giudiziario “donna del Caravaggio” 114. Questo possibile riconoscimento, seguito variamente e per anni dalla critica 115, è stato recentemente messo in discussione dallo storico Sergio Rossi, nel recente Convegno sul Caravaggio 116, sulla basa la sua convinzione che se tale abbinamento tra la modella-cortigiana-Lena, donna amata dal Merisi, e la Vergine del quadro fosse vera, certamente non sarebbe passata inosservata ai cronisti del tempo, e sicuramente il Baglione, notoriamente nemico del Pittore, lo avrebbe riferito nelle sue Vite e sbandierato ai quattro venti pur di mettere l'Artista in cattiva luce, pertanto, conclude il Rossi non c'è nessuna prova, oltre che nessun documento, che confermi tale riconoscimento 117.

Di contro alcune fonti testimoniano che la Lena, soprannominata la “roschina” per i capelli rosso ramato
118, avesse un difetto anatomico chiamato oggi “piede cavo”, ossia un arco plantare particolarmente accentuato. Il dettaglio del piede può essere osservato sia nella Madonna dei Palafreni che nella Vergine di Loreto, questa evenienza potrebbe avvalorare, anche se debolmente, l'individuazione della cortigiana, amica-amante del Merisi, con le Madonne citate 119.




Fig. 5 - Ambrogio Figino, Madonna del serpe, Olio su tela, 210x 150 cm. San Nazaro in Brolo, Milano. Cortesia di Giorgia Duo'
Fig. 5 - Ambrogio Figino, Madonna del serpe
Olio su tela, 210x 150 cm
San Nazaro in Brolo, Milano
Cortesia di Giorgia Duò

Calvesi, sulla base delle affermazioni del Longhi, che propone per la tela un'ispirazione a un quadro di identico soggetto, realizzato, in ambiente lombardo, da Ambrogio Figino (Fig. 5), per la chiesa di San Fedele a Milano 120, un dipinto la cui concezione è imbevuta di quella religiosità di ambito pauperistico-borromaico a cui lo stesso Merisi non è indifferente, riporta che il dipinto, appena posto sull'altare, viene ritirato, quasi certamente per ordine di Paolo V, appena eletto al soglio pontificio (1605), zio di Scipione, che non a caso è particolarmente ostile alle correnti pauperiste e all'interpretazione che vuole la Madre e il Figlio alleati per sconfiggere il male. Per lo storico la rimozione diventa una “condanna senza appello” 121, cui seguirà nel giro di poco tempo il rifiuto della Dormitio 122. Stando a tale ipotesi, il Cardinal Nepote, estimatore di Caravaggio, volendo entrare a tutti i costi in possesso dell'opera, avrebbe fatto pressioni sullo zio-papa, manipolandone le idee e suggerendo le giuste informazioni, affinché il dipinto venisse rifiutato dai Palafrenieri per poi acquistarlo 123. In questo senso, Scipione potrebbe aver indotto Paolo V a vedere nella tela un'immagine indecente, quand'anche pia espressione di una religiosità profonda, ma estranea a quella dell'Urbe, inducendo i confratelli a spostare l'opera, quindi a deliberarne la vendita per 100 scudi (16 giugno) 124. Indipendentemente, dunque, dai motivi reali, il Cardinale Scipione ne approfitta si impossessa del dipinto che, per la prima volta, è testimoniato nella pinacoteca nella sua residenza, l'attuale Palazzo Rospigliosi, nel 1613 125. La tesi del “complotto” per l'acquisizione del dipinto, enunciata per la prima volta da Calvesi, è condivisa in massima parte anche dalla critica attuale, in particolare ci riferiamo ad Anna Coliva e Claudio Strinati 126.

Tra il 1604 e il 1606, Caravaggio consegna ai Padri Carmelitani Scalzi di Santa Maria della Scala, la Morte della Vergine (fig. 2), oggi al Museo del Louvre 127, che rappresenta, forse l'unico lavoro del Maestro che sia stato realmente rifiutato 128. Baglioni tramanda di una rimozione dovuta ad un'iconografia con poco decoro: “Per la Madonna della Scala in Trastevere dipinse il transito di N. Donna, ma perché havea fatto con poco decoro la Madonna gonfia e con gambe scoperte, fu levata via; e la comperò il Duca di Mantova, e la mise in Mantova nella sua nobilissima Galleria” 129. Il Bellori, che non ha potuto vedere direttamente il quadro, in quanto già traferito in Collezione Gonzaga, riporta che il “Il Transito della Madonna nella Chiesa della Scala (è) rimosso per avervi troppo imitato una donna morta gonfia130.

Dall'altare, testimonia il Mancini, il quadro viene prontamente rimosso dai Carmelitani perché la Madonna non rispetta l'iconografia tradizionale (“tavola d'altare dov'è la morte della Madonna attorno con gli apostoli, quale andava nella Madonna della Scala di Trastevere, per essere stata spropositata di lascivia e di decoro, il Frate Scalzo l'ha fatta levare”) 131. E se la mancanza di qualsiasi attributo divino, la caratterizzazione in senso troppo terreno, con una faccia umana, il ventre gonfio e un braccio scompostamente abbandonato, sono già motivo di biasimo, nelle Considerazioni l'autore propone l'ulteriore elemento di scandalo per cui, per la Vergine, il Milanese avrebbe ritratto la modella-prostituta! 132. Le affermazioni del Medico riprendono ed arricchiscono la testimonianza del Baglione che anni prima si è limitato ad asserire: “perché havea fatto con poco decoro la Madonna gonfia e con gambe scoperte, fu levata via” 133.

È, dunque, noto che, una volta esposta, la tela, nel giro di pochi giorni, viene levata dall'altare, sulle ragioni dell'allontanamento, a cui il Maestro non può opporsi, in quanto in fuga nei feudi Colonnesi di Palestrina, Zagarolo e Paliano 134, per aver ucciso accidentalmente un uomo 135, ancora una volta si è scritto molto.

Le attestazioni secentesche, abbiamo visto, si limitano a riportare una generica accusa di mancanza di decoro della Dormitio Virginis, e si ipotizza che la modella sia stata una cortigiana annegata nel Tevere. Queste motivazioni di natura iconografica perdono valore se si tiene conto del contratto stipulato tra il committente Laerzio o Laerte Cherubini da Norcia, ricco avvocato romano, amico del Cardinale del Monte e del Marchese Giustiniani, entrambi protettori del Milanese, che potrebbero aver favorito la commissione, e il Caravaggio. Nel caso in questione il contratto ha, infatti, applicato le clausole stringenti, previste per le commissioni pubbliche in ambienti religiosi, delineate nell'ambito della politica tridentina e fortemente volute e caldeggiate anche da San Carlo Borromeo, secondo le quali gli artisti sono obbligati a sottoporre preventivamente il “disegno generale” dell'opera prima della traduzione finale su tavola/tela/marmo a cui il designum deve necessariamente essere similiter  136.

Il Nostro, firmando il documento, ha sottoscritto i vincoli e si è impegnato a presentare le sue intenzioni attraverso un disegno, sia al committente che ai rettori della chiesa. Inoltre, recenti ricerche hanno dimostrato che il Giurista stesso ha partecipato attivamente alla progettazione dell'Historia della Vergine ed ha fornito, durante il lavoro di traduzione grafica, indicazioni e disposizioni iconologico-iconografiche 137.

Riteniamo pertanto che il Merisi, prima della trasposizione su tela, abbia rispettato le postille, e coinvolgendo i religiosi nel progetto, i quali hanno potuto prima visionare, quindi approvare lo “schizzo”, l'accusa reiterata per il diniego di generica mancanza di decoro dell'iconografia diventa sensibilmente debole e nonché vacillante; credere, pertanto, alle vaghe insinuazioni dei biografi secenteschi, che difficilmente avrebbero potuto conoscere i reali motivi della vicenda di cronaca 138, sarebbe da parte nostra peccare di ingenuità.

D'altra parte nessuna cronaca parla di rifiuto, ma solo di rimozione. Questa sottigliezza semantica nei secoli successivi o non viene colta o si crede che i due termini coincidano, per cui a partire da fine Ottocento, si è attivato un intenso lavoro di ricerca, studio ed indagine sul corpus del Maestro, volto ad identificare, spesso in maniera alquanto speculativa, a partire dai resoconti del'600, i motivi delle supposte ricusazioni per assenza di decoro.

Nel caso specifico dobbiamo considerare che il Merisi non sceglie il classico momento della Dormitio, quando, cioè, la Madonna ormai morta è ricomposta ed adagiata sul letto, mentre, nel registro superiore, la sua anima è accolta tra le braccia del Figlio-Gesù; elegge piuttosto l'istante immediatamente successivo al Transito, quando il suo corpo non è ancora stato sistemato, e l'incredulità e la potenza del dolore crescono inesorabilmente, ossia, il momento del primo lutto mentre, in un teatro di gesti ed espressioni, di mani e volti, che comunicano un forte senso di smarrimento e sconforto, si è appreso razionalmente della dipartita, ma ancora non ci si è resi conto delle conseguenze.

La figura della Vergine è scrutata minuziosamente alla ricerca di eccentricità ed eccessi imperdonabili: è stato rilevato che i piedi nudi avrebbero potuto creare disorientamento, che Maria adagiata su una tavola e non su un letto, dalle dimensioni insufficienti ad accogliere il suo corpo per intero, ha i piedi in evidenza e si offrono alla visione del fedele in modo poco consono, che anche gli Apostoli sono scalzi. Ma l'insieme di questi dettagli più che a mancanza di decoro va ricondotto ad una sorta di omaggio all'Ordine degli Scalzi 139. Neanche l'ambientazione estremamente essenziale può essere motivo di malcontento, in fondo, rispecchia verosimilmente quelle che dovevano essere le reali condizioni di modestia del luogo dove la Vergine ha passato gli ultimi anni della sua vita terrena 140, e ben si addice alla spiritualità pauperista che anima gli Oratoriani e gli ordini minori a cui Caravaggio e molti dei suoi principali mecenati sono legati 141.

Il pianto ed il dolore vividi che gli astanti manifestano, palesemente umani, smarriti e turbati, rientrano anch'essi nei dettami di normalità e verosimiglianza e servono al popolo osservante per riconoscersi nella vicenda, come gli indirizzi conciliari consigliano, assolvendo così alla funzione didascalica dell'arte come insegnamento. Gli Apostoli, i santi Pietro e Paolo 142, il giovane al capezzale, identificato con San Giovanni, a cui Gesù sulla croce affida la madre, e le pie, ma umane, donne corrispondono ai racconti evangelici di Luca, Marco, Giovanni e Matteo, il che fa supporre che Michelangelo abbia a disposizione, come già nel caso del ciclo Contarelli, consulenti teologi che forniscono chiarimenti o delucidazioni al bisogno, lo stesso Cherubini, si è detto, ha svolto tale ruolo. La loro particolare umanità, sebbene dirompente, esclude l‘eterodossia, il modus operandi del Lombardo, infatti, è ormai diffuso e praticato da molti artisti, pertanto la stessa non può obiettivamente divenire giustificazione per la scelta radicale degli Scalzi di sostituire la pala.

Anche la bella, pure nella morte, giovane figura di Maria, attorniata dagli statuari Apostoli 143, ha un insigne precedente nella Pietà di Michelangelo, la cui giovinezza è dallo stesso Buonarroti spiegata con il passo dantesco dell'Invocazione di San Bernardo alla Vergine Maria in cui si recita: “Vergine madre, figlia del tuo figlio” ( dal XXXIII Canto del Paradiso) 144.

Insomma, dal punto di vista compositivo la solennità e la correttezza teologiche, richiamate dai dettami controriformati, non risultano sostanzialmente essere state violate, pertanto studiosi e critici devono volgere il proprio interesse altrove.

Robert Hinks, alla metà del XX secolo, parte ed accoglie l'idea della “meretrice degli Ortacci” di memoria manciniana, e riconduce il rifiuto all'ignobile, nonché indecorosa, associazione prostituta-Vergine, una “prostituta degli Ortacci; caduta nel Tevere, (…) ripescata già gonfia prima che Caravaggio iniziasse a dipingerla”145.

Nello stesso periodo, argomenta bene Calvesi in diversi suoi studi e scritti, e riconduce il significato dell'aspetto della Vergine morta, con il ventre gonfio, a un “esercizio corretto della storia dell'arte” per cui si ravvede nella raffigurazione della donna la “Maria ‘piena di Grazia' sempre gravida della divina Grazia ovvero del corpo di Cristo”, in altri termini, il ventre gonfio altro non è che un richiamo alla funzione della Madre Chiesa dispensatrice di grazia 146. Tale lettura, peraltro, è presente anche nella, già menzionata, Pietà michelangiolesca, dove una Maria monumentale, con un corpo visibilmente e simbolicamente più grande di quello del Figlio, allusione anche in questo caso alla Madre Chiesa, tiene in grembo e sulle sue ginocchia Gesù senza vita,

Alla fine degli anni Ottanta, Peter Robb, autore del romanzo M. L'enigma Caravaggio, a seguito delle sue ricerche effettuate per documentarsi sul personaggio, riprende la parola “gonfia”, usata sia dal Baglione che dal Bellori e la combina con l'informazione del Mancini, relativa alle modelle-cortigiane per le Madonne, e con l'argomentazione calvesiana di Madonna “gravida di grazia” per generare romanzescamente la notizia inverosimile per cui la sventurata modella morta, non è solo annegata nel Tevere, ma è addirittura “incinta” 147!

Pamela Askew, durante le sue ricerche sul Caravaggio, condotte negli anni Novanta, si imbatte nella notizia secondo cui Laerzio Cherubini sarebbe stato in relazione con l'Arciconfraternita di Santa Maria dell'Orazione e Morte, il cui compito era quello di occuparsi della sepoltura dei morti non reclamati, tra cui gli affogati nel Tevere. La studiosa, allora, intravede la possibilità che il Milanese, a seguito della relazione d'affari con il Giurista, avrebbe potuto trovarsi di frequente e con una certa abitualità sotto gli occhi corpi femminili ripescati dai Confratelli, e quindi, abbia potuto studiarli, come a suo tempo Leonardo e Michelangelo hanno fatto, nonché utilizzarli come modelli dal vero 148. Ma si tratta solo di un congettura, per quanto suggestiva, che al momento non ha altre conferme.

Anche il dettaglio del ventre rigonfio, quindi, indagato variamente, e ripetutamente ricondotto a motivo di ricusazione, sembra, invece, non essere stato decisivo nel determinarla, altrimenti, già a partire dai riferimenti nelle biografie del ‘600, avrebbe assunto nell'economia letteraria dei resoconti un ruolo maggiormente significativo rispetto a quello appendicolare che invece ha.

Con testimonianze e considerazioni, si è sin qui svolta una disamina volta ad escludere la supposta e, come verificato, non plausibile eterodossia dell'iconografia della Vergine, nonché a confermare la correttezza teologica del dipinto che, abbiamo spiegato, conforme allo schizzo preliminare (obbligatorio da contratto), i rettori di Santa Maria della Scala hanno certamente visionato e approvato.

Allo stato attuale, continua a rimanere irrisolto l'interrogativo sull'accaduto, sul perché dell'avvicendamento: richiamiamo come possibile spiegazione il divieto, già enunciato precedentemente per la Madonna della serpe, espresso dai dettami conciliari, di utilizzare le sembianze di persone riconoscibili (“facce de particolari”) 149, per raffigurare Santi, Martiri e Madonne , esposti in luoghi di culto pubblici, si deve, cioè, “aver cura di non riprodurre a bella posta l'effigie di un altro uomo vivente o morto” 150 eccetto situazioni di evidente virtù 151.

La proibizione ha la precipua funzione, si è detto, di evitare equivoci e reazioni scomposte, forse quegli “schiamazzi” e quel “romore” consegnatici dal Baglione.

Il Mancini ci informa, però, che il Caravaggio anche nel realizzare il Transito si è ispirato alle fattezze di una cortigiana “da lui amata”152. Non ci sono conferme al riguardo, e la notizia, di seconda mano, ricordiamo che il Mancini scrive nella seconda metà del Seicento, non da testimone diretto, desta certamente qualche sospetto dal momento che nessun biografo precedente ha riferito la circostanza, e, soprattutto, come sottolinea Sergio Rossi, se l'abbinamento fosse stato noto il Baglione non avrebbe di sicuro perso l'occasione per denigrare e condannare il Merisi,

Roberto Longhi, come testimonia Giovanni Previtali, negli anni Ottanta, pur non approfondendo la questione, si domanda se effettivamente possa essere stato questo il motivo della rimozione153. Il riconoscimento, seppur a distanza di qualche giorno, nella Madonna di una prostituta, sarebbe stato chiaramente incompatibile con la finalità devozionale della pala, il cui compito è quello di indulgere alla preghiera, pertanto, la strada della ricusazione, in questa circostanza, sarebbe più che plausibile. Il quadro è, dunque, messo sul mercato del collezionismo secentesco, e, sfuggito al Mancini che, nonostante la critichi (spropositata di lascivia e decoro) tenta comunque e per una somma piuttosto considerevole, di accaparrarselo, l'opera prende la strada per Mantova 154.

Stante il difetto all'anulare sinistro, di cui abbiamo già parlato (cfr. infra, n. 120 e Fig. 6), la cortigiana, che avrebbe potuto prestare il volto a Maria nella Vergine della Scala, potrebbe essere la stessa Fillide rintracciata in altre opere; la malformazione del dito è, seppur vagamente, intravista nell'oscurità della scena (Fig. 7) 155.




Fig. 6 - MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO, <i>Marta e Maria Maddalena</i>, dettaglio della mano sinistra della Maddalena (1598, olio su tela, 100 x 134,5 cm, Detroit, Institue di Fine Arts). Cortesia di Giorgia Duo'
Fig. 6 - MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO, Marta e Maria Maddalena, dettaglio della mano sinistra della Maddalena (1598, olio su tela, 100 x 134,5 cm, Detroit, Institue di Fine Arts). Cortesia di Giorgia Duò



Fig. 7 - MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO, <i>Morte della Vergine</i>, dettaglio della mano sinistra (1604, olio su tela, 369 × 245 cm, Parigi, Museo del Louvre). Cortesia di Giorgia Duo'
Fig. 7 - MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO, Morte della Vergine, dettaglio della mano sinistra (1604, olio su tela, 369 × 245 cm, Parigi, Museo del Louvre). Cortesia di Giorgia Duò

Ma l'identificazione non convince ancora Sergio Rossi che non ravvede nessuna identità in particolare nel volto della Madonna, e lega piuttosto la rimozione al nome di Caravaggio che a 5 giorni dallo scoprimento della tela si trova invischiato in un omicidio (cfr. infra n. 135). L'imbarazzo dei padri della Scala non nascerebbe pertanto dall'irriverenza della composizione, ma, sostiene lo storico, dal fatto che l'opera è connessa ad un uomo su cui pende la pena capitale!

Già nel 2005, Papa avanza la medesima supposizione come causa della rimozione, la vicenda della morte del Tomassoni, in cui Caravaggio è coinvolto, è motivo valido e credibile di allontanamento 156. Contro questa ipotesi, rileviamo, però, che nessun'altra opera del Maestro, escluso il caso della Madonna della Serpe, la cui vicenda ha una plausibile spiegazione nelle trame ordite da Scipione Borghese per entrarne in possesso, ha subito il medesimo destino, eppure di opere del Lombardo nelle chiese romane ce ne sono molte. In sostanza, nessuna damnatio memoriæ si è realmente verificata.

Altra possibile soluzione dell'interrogativo può riguardare, invece, un dettaglio compositivo che integra un aspetto di natura iconografico-teologica, che fino a questo momento non è stato considerato, almeno dal punto di vista dottrinale. Alludiamo al ruolo del pesante tendaggio rosso, catalizzatore dell'attenzione e dello sguardo del fedele, nell'economia della dottrina cristiana e dell'invenzione della Morte della Vergine.

Necessario presupposto al discorso è che i Carmelitani, tra gli ordini religiosi, rappresentano forse il ramo più progressista della cattolicità del tempo, e, consentendo al Cherubini di servirsi del Pittore rivoluzionario, le cui opere radicalmente innovative sono ormai note e ricercate, i frati sono, o dovrebbero essere, perfettamente consci e consapevoli del tipo di raffigurazione “simile al naturale” che il l'Artista avrebbe potuto ideare. Ciò premesso, ribadiamo che, anche per questa considerazione, non sono realisticamente credibili le ragioni tradizionalmente indagate legate all'inventione del Transito. La dipartita terrena, in una stanza volutamente disadorna, come da indicazioni pauperistiche, di una donna in carne ed ossa, priva, se escludiamo l'elegante e leggera aureola d'oro, dei classici attributi religiosi, attorniata da amici affranti, distesa su un letto improvvisato, in una posa ancora scomposta, con i capelli spettinati, il corpetto slacciato, le braccia abbandonate in una posizione che richiama allusivamente una pseudo-crocifissione orizzontale 157, con le caviglie visibili, i piedi nudi disuniti, e al di là della scena, lo spettatore ignaro e allo stesso tempo emotivamente coinvolto, partecipe dell'evento doloroso per il trapasso della madre di Cristo, attraverso l'espediente catartico-regressivo che catapulta il pubblico nell'insopportabile vicenda della morte, non ha concreti motivi di ricusazione. Siamo nel 1606 e il Caravaggio ha abituato la società a questo tipo di rappresentazione. Pertanto altrove va ricercata una spiegazione coerente e convincente. Nella tradizione pittorica la Morte della Vergine o Dormitio è normalmente è preceduta dal Transito ed è seguita dall'Assunzione e dall'Incoronazione. E allora proponiamo di spostare l'attenzione sull'ingombrante cortina che, per l'ubicazione, ferma in un dolore eterno la pena provata dagli astanti; quel drappo impedisce e congela in un destino bloccato l'evento, e. sebbene si percepisca un'azione a ritroso, ossia, l'apertura della tenda che precedentemente era chiusa, nel rispetto dell'intimo momento del Transito-trapasso, si apre alla visione dello spettatore per la contemplazione della Morte, lo stesso non può dirsi per il procedere della storia, per cui al fedele non è consentito di andare oltre, di immaginare le conseguenti Assunzione e Incoronazione della Vergine.

Quindi, nella percezione dei fedeli, il regolare procedere della vicenda è in qualche modo contrastato e ostacolato da quella cortina rossa che è allo stesso tempo fonte di forti emozioni e impedimento alla sublimazione ed elaborazione del dolore. In una frase, il soffocante paramento, occupante completamente tutto lo spazio superiore della scena, impedisce il verificarsi del dogma dell'Assunzione 158 e su questa sensazione, divenuta dopo alcuni giorni considerazione, i Confratelli Scalzi devono aver riflettuto e ritenuto di allontanare quella rappresentazione potente, ma sacrilega, in quanto incapace di far comprendere la reale natura del trapasso di Maria, il cui corpo, non soggetto alla morte terrena e alla corruzione delle carni, ascende e viene accolto in cielo, per la successiva glorificazione nella sua dimensione spirituale che fisica.

Già Papa ha sottolineato come il Caravaggio, nel rappresentare la Morte della Vergine, abbia colto un aspetto nodale di tipo dottrinale, ossia, l'immunità del corpo di Maria, in quanto madre di Dio, alla corruzione materiale della carne 159.

E allora, il rifiuto, non imputabile, abbiamo visto, alla troppa umanità della Vergine o della scena, né al profondo ed implacabile dolore provato dagli Apostoli e dagli astanti, né al mancato decoro per i piedi scalzi o il ventre gravido, è da ascrivere all'idea veicolata dall'impedente drappo rosso di assoluta impossibilità per la Vergine di superare l'istante della Dormitio e procedere all'Assunzione e successiva Incoronazione.

Quando a distanza di qualche giorno gli Scalzi hanno avuto chiara la sensazione che quell'immagine avrebbe negato il dogma dell'Assunzione, i frati non hanno potuto fare altro che chiederne la rimozione. La tela del resto, in tempi più recenti, è dal Longhi descritta con un'immagine lapidaria ed essenziale di angoscia perenne, tutt'altro che transitoria; cioè, un'elaborazione poetica dell'infinito tempo e dell'imperituro dolore a cui sono tutti condannati e bloccati in una scena impossibile da superare in quanto destinata a ripetersi di continuo: “ (...) l'angoscia di questi astanti prende senso e autorità infinita dal chiarore devastante che, irrompendo da sinistra nella cerchia di colori già stranamente fiammanti e pur combattendo con tutte le specie dell'ombra, soste per un attimo sul viso arrovesciato della Madonna morta, sulle calvizie lunate, sui colli pulsanti, sulle mani disfatte degli apostoli; fende di traverso il viso dolente di Giovanni; fa della Maddalena seduta un solo massello luminoso; della sua mano sul ginocchio un grumo solo di luce rappresa”160.



   

NOTE

1 La maturità di Caravaggio segue al periodo giovanile e caratterizza il momento centrale del soggiorno romano, è contraddistinta da uno stile più cupo, drammatico e sensibile, con forti chiaroscuri e colori terrosi. A partire dalle prime commissioni pubbliche (Cappella Cantarelli (San Luigi dei Francesi, ottenuta per intercessione dell'amico Cardinale Francesco Maria del Monte) e Cappella Cerasi (Santa Maria del Popolo)), l'intensità emotiva delle scene è enfatizzata e l'artista si concentra maggiormente sull'aspetto umano e sulla sofferenza dei protagonisti, allestendo composizioni teatrali e spettacolari, e, allo stesso tempo. legate alla vita quotidiana con personaggi mutuati dalla realtà popolare, pervenendo ad esiti di forte impatto visivo e psicologico.

2 Il colore rosso non è una specifica novità della maturità, le composizioni giovanili e del primo periodo romano recano dettagli, anche apparentemente marginali, nelle vesti o nei tessuti, caratterizzati da un acceso color rosso, si pensi per esempio alla fodera interna dell'abito del ritratto di Maffeo Barberini (1593-1594, olio su tela, 121 × 95 cm, Firenze, Collezione privata), alla veste della Vergine della Sacra Famiglia (1595-1596, olio su tela, 100 × 128,5 cm, Roma, Galleria Doria Pamphilij) o al cuscino su cui siede la Santa Caterina di Alessandria (1597, olio su tela, 173 × 133 cm, Madrid, Museo Thyssen Bornemisza), in tutti questi casi il Pittore già dimostra una predilezione per l'uso del colore rosso e probabilmente si tratta di precoci ed iniziali meditazioni sulle potenzialità emotivo-narrative della tinta che successivamente assurge a corda emotiva dell'intera narrazione come si vede nella Morte della Vergine (1604, olio su tela, 369 × 245 cm, Parigi, Museo del Louvre) o nella Madonna del Rosario (1607, olio su tela, 364 × 249 cm, Vienna, Kunsthistorisches Museum).

3 La sua pittura, screvra dall'idealismo e dall'allegorismo dell'epoca (cfr. BOLOGNA 2006, p. 190), si caratterizza con una cromia decisa e sperimentale che sostiene e difende la “moderna idea di scienza e conoscenza in nome di un naturalismo tutto intento alla ricerca della verità, traducendo visivamente il linguaggio talvolta oscuro di alcuni testi coevi. Per esempio, la Lampas trigiuta statuarum di Giordano Bruno (…). Insomma (…) Caravaggio dipingeva spinto da un'urgenza di autenticità e questo comportava la buona imitazione delle cose naturali, che non era semplicemente e rozzamente mimesi, ma accesso alla possibilità di capirle in maniera autonoma ed indipendente” (cfr. PANZERA 2011, p. 63).

4 Lo stesso sentimento di devozione è alla base della sofferta decisione dei padri Carmelitani Scalzi, di Santa Maria della Scala, di rifiutare la tela della Morte della Vergine (cfr. infra).

Calvesi per primo attribuisce alle opere del Merisi una matrice agostiniana facendo rientrare il sentimento religioso del Pittore nell'ambito della cultura lombarda influenzata dai cugini Borromeo (cfr. CALVESI 1975, passim), che fomentavano l'ala pauperistica della Controriforma e certamente si erano imposti su una buona parte del mondo artistico attraverso la pubblicazione, nel 1577, delle Istructiones Fabricae et Supellectilis Ecclesiasticae, seguita alla XXV sessione del Concilio di Trento del 1563, in cui si affrontava il problema della venerazione delle immagini sacre, ritenute strumento di comunicazione di massa (cfr. PANZERA 2011, p. 156).

La religiosità espressa dal Caravaggio non integra, dunque, il sentimento trionfante di Santa Romana Chiesa di età barocca, piuttosto riflette la semplice ed accessibile devozione degli umili, appresa dal pittore in ambito milanese, improntata al pauperismo di stampo borromaico. Una religiosità sobria, rigorosa, radicata nel vissuto quotidiano dei fedeli, a queste istanze si ispira l'aspetto innovativo e fortemente umano delle rappresentazioni sacre del Caravaggio, che, sebbene latrici di una profonda partecipazione emotiva e spirituale, talvolta, in ambito curiale, sono state fraintese al punto da sollevare dubbi di ateismo sul Maestro, colpevole di realizzare scene troppo audaci, irriverenti, mancanti di decoro e rispetto. La profonda umanità che contraddistingue il suo lavoro, invece, va messa in relazione con la Riforma Cattolica promossa dai cugini San Carlo e Federico Borromeo, in ambito milanese, dove il Maestro cresce e si forma, che propugnano una religione degli ultimi, cosiddetta pauperistica, legata agli esiti del contesto della Controriforma. All'indomani del Concilio di Trento (1545-1563), si sente l'urgenza di riconnettersi con i fedeli e di rinnovare la pratica religiosa attraverso la promozione di una devozione intima e sentita, in questo processo le raffigurazioni sacre svolgono un ruolo cruciale, in linea con i dettami della Controriforma, devono essere, cioè, comprensibili, chiare e toccanti per il popolo di fedeli, non idealizzate o astratte. E allora il crudo realismo e l'immediatezza delle figure del Pittore, con volti veri e corpi imperfetti, ambientati in luoghi umili, disadorni e riconoscibili, rispondono perfettamente alle esigenze espresse e, attraverso la verosimiglianza, consentono al fedele un'immedesimazione immediata con il messaggio sacro. La pittura viscerale e diretta, che rende visibile la fede, nel dolore, nella carne e nella luce, intrinsecamente popolare, nel senso più elevato del termine, e la dimensione umana del sacro sono, dunque, in linea con il sentimento pauperistico borromaico radicato nella realtà.

5 Il quadro, che aderisce perfettamente al racconto biblico dell'Antico Testamento, anche nei dettagli più minuti, come la spada di foggia orientale o l'acconciatura dei capelli dell'eroina, inaugura lo stile tragico e violento che caratterizza il lavoro del maestro fino alla sua morte. Rappresenta, una delle prima meditazioni sulla violenza e sul destino ineffabile e potrebbe essere stato ispirato dalla tragica esecuzione capitale di Beatrice Cenci (1577-1599), figlia di un nobile romano e vittima di abusi atroci da parte del padre. La giovane, a dispetto della denuncia, rimasta inascoltata, contro il genitore, decide di non rimanere inerte vittima e progetta l'assassinio dell'uomo.

6 Cfr. infra.

7 Anna Maria Panzera rileva che in alcune opere il drappo rosso rappresenti un espediente per nascondere “ ‘errori' evidenti delle composizioni” come nella Cena in Emmaus di Londra, scegliendo di “non apportare correzioni pur avendo accortezza e mezzi per farlo” (cfr. PANZERA 2011, p. 80). In questo senso appare determinante l'invenzine del nero, scaldato da un tono di bruno accesodalla cortina di lacca rossa e usato per evitare ogni indicazione architettonica (Ivi, p. 99)-

8 Dalle evidenti connotazioni di natura simbolica legate al sangue, alla passione e alla morte.

9 Nota e diffusa è la simbologia teatrale del sipario rosso che nel Seicento romano coinvolge tutto il contesto culturale, religioso ed artistico in riferimento al Barocco. Nella cultura del tempo il rosso è associato alla regalità, alla sacralità e alla teatralità. In ambito liturgico e artistico, richiama il sangue, e, quindi, il sacrificio di Cristo, ma anche la sua maestà. Mentre nei teatri ecclesiastico-aristocratici di Roma il colore evoca la grandezza, e l'intensità emotivo-drammatica. Nello stesso ambito, il sipario (detto anche “tela” o “velario”) è strumento di divisione tra realtà e finzione; il suo alzarsi segna l'inizio della rappresentazione, nonché il passaggio rituale tra il mondo reale e quello drammatico. La teatralizzazione del sacro sviluppata in età barocca ha una funzione, in linea con lo spirito del tempo, di coinvolgimento e trasformazione, in quanto strumento di propaganda religiosa e politica, nonché veicolo di messaggi morali

10 In quest'ottica il Maestro attua, in tempi non sospetti, in anticipo di circa 3 secoli, un'operazione tipica dell'ambiente letterario nord-europeo noto come teatro strindberghiano. August Strindberg (1849-1912), negli anni Novanta del XIX, dopo aver lasciato la Svezia, per recarsi in Germania, sperimenta il cd teatro intimo da camera, una situazione di confidenzialità concepita come un piccolo auditorium ristretto e caratterizzato dall'innovativo avvicinamento del palco al pubblico, financo all'eliminazione sperimentale del tradizionale confine tra spettatore e rappresentazione per un'immersione emotiva totale degli astanti nella vicenda allestita (cfr. DUO' 2023, passim).

11 HINKS 1953, passim.

12 MARINI 1987, p. 495.

13 CALVESI 1986 Caravaggio, p. 48.

14 Caravaggio 2010, passim.

15 Papa 2005, passim.

16 Rossi 2022, passim.

17 Trattasi della seconda tela dipinta dal Merisi per l'altare della Cappella Contarelli, realizzata due anni dopo aver consegnato i dipinti laterali. La prima versione, distrutta durante un bombardamento nella seconda guerra modale viene “rifiutata” (cfr. infra).

Alla fine del ‘500, per volontà del nipote Francesco, Caravaggio subentra, grazie alla probabile mediazione del Card. Francesco Maria del Monte, nella decorazione della Cappella, commissionata da Matteo Contarelli, nel 1560, prima a Girolamo Muziano, quindi al Cav. D'Arpino. La seconda versione del San Matteo, tuttora in loco, restituisce la scena biblica secondo i canoni dell'epoca: il Santo, ispirato da un angelo apparso alle sue spalle, ha l'aspetto di un dotto e scrive di suo pugno il Vangelo, ispirato, ma non materialmente guidato (come nella versione precedente), dall'angelo che, con un gesto, sembra elencargli i fatti di cui narrare. L'unico accenno di "spregiudicatezza" dell'opera è la posa del Matteo, che si appresta a scrivere intingendo la penna nel calamaio, in bilico con le braccia sul tavolo e la gamba su uno sgabello in equilibrio precario, quasi a sottolineare l'incertezza sul cosa scrivere. Squarcia la tela il manto rosso dell'Evangelista che, appoggiandosi sulla calda veste gialla, illumina l'ambiente scuro e crea un forte senso plastico.

18 Si tratta del dipinto commissionato da Girolamo Vittrice per la Cappella della Pietà, in Santa Maria in Vallicella a Roma, sede degli Oratoriani di San Filippo Neri. Non è un caso che la famiglia si sia rivolta al Merisi per questa commissione, infatti, essa, come il pittore, è legata all'ambiente oratoriano e, dunque, al pauperismo della Chiesa, i cui ideali di religiosità popolare collimano con quelli borromaici che il giovane Caravaggio assorbe in Lombardia e che la sua pittura traduce, come abbiamo già detto, perfettamente in immagine (cfr. ZUCCARI 1983, p, 55; CALVESI 1990, passim; PAPA 2002, p. 90). Lo Zuccari riporta che il nipote Girolamo, alla morte dello zio Pietro (fondatore della Cappella e maggiordomo-guardarobiere di papa Gregorio XIII, devoto a San Filippo Neri), il 26 marzo del 1600, prende in carico la gestione della Cappella di famiglia e, per collocarvi il quadro di Caravaggio, chiede indietro agli Oratoriani la pala d'altare precedente che la Congregazione restituisce il 21 ottobre 1609. Il documento del 6 settembre 1604 riporta: "si dia al nepote del Signor Pietro Vittrice il quadro della Pietà con il suo ornamento di legno, che dimanda havendo di sua cortesia fatto fare il quadro nuovo del Caravaggio, al quale non serve il sopra [detto] ornamento di legno" (cfr. ZUCCARI 1986, p. 54). Il dipinto, realizzato negli ultimi anni di permanenza a Roma, viene lodato anche dai biografi seicenteschi, in genere preoccupati da “quell'eccessiva aderenza al dato naturale” da parte di Merisi, poco propenso a idealizzare soggetti e personaggi nei suoi dipinti (cfr. SCLOSSER-MAGNINO 1990, pp. 512-ss). Le lodi sono anche riportate da Giovanni Baglione che scrive: "Nella Chiesa Nuova alla man ritta v'è del suo nella seconda cappella il Christo morto, che lo vogliono seppellire con alcune figure, a olio lavorato; e questa dicono, che sia la migliore opera di lui" (cfr. BAGLIONE 1642, p. 137). Più tardi il Bellori del quadro riporta: "Ben tra le migliori opere, che uscissero dal pennello di Michele si tiene meritatamente in istima la Depositione di Christo nella Chiesa Nuova de' padri dell'Oratorio; situate le figure sopra una pietra nell'apertura del sepolcro. Vedesi in mezzo il sacro corpo, lo regge Nicodemo da piedi abbracciandolo sotto le ginocchia e nell'abbassarsi le coscie, escono in fuori le gambe. Di là San Giovanni sottopone un braccio alla spalla del Redentore, e resta supina la faccia, e 'l petto pallido à morte, pendendo il braccio col lenzuolo; e tutto l'ignudo è ritratto con forza della più esatta imitazione. Dietro Nicodemo si veggono alquanto le Marie dolenti, l'una con le braccia sollevate, l'altra col velo à gli occhi, e la terza riguarda il Signore" (cfr. BELLORI 1672, p. 207).

Il dipinto rimane in situ fino al 1797 quando, in seguito al Trattato di Tolentino, Giuseppe Valadier, incaricato dai francesi di prenderlo in consegna, lo fa trasferire a Parigi assieme a molte altre opere per essere esposto al Musée Napoleon. Con le successive restituzioni, seguite alla Restaurazione di Vienna, del 1816, Antonio Canova riporta in patria la Deposizione, che viene inglobata nelle collezioni papali ed entra a far parte della Pinacoteca di Pio VII, poi Pinacoteca Vaticana (cfr. PAPA 2009, p. 171).

Il Merisi adotta un'invenzione inconsueta, non una tradizionale Deposizione nel sepolcro, ma un seppellimento in una tomba interrata, la cui lastra tombale sporge verso il riguardante che, intercettato dallo sguardo dubbioso di Nicodemo (il cui volto è un omaggio a Michelangelo Buonarroti, già autoritrattosi nella Pietà Bandini (1550-55, marmo, altezza 2,26 m. Firenze, Museo dell'Opera del Duomo)), si sente partecipe dell'azione e viene sapientemente traghettato nella vicenda attraverso il drappo rosso di Giovanni, che risalta con decisione rispetto alle tetre tonalità del quadro, quindi, all'apice dell'esperienza emotiva è ricondotto a terra attraverso il drammatico braccio senza vita del Cristo, memore della più celebre Pietà giovanile del Buonarroti (1498-1500, marmo, 1,74 x 1,95 m., Roma, Basilica di San Pietro).

19 Si tratta probabilmente dell'Incoronazione di spine, citata dal Bellori, realizzata per Vincenzo Giustiniani, nella cui collezione compare nel 1638 (cfr. DANESI SQUARZINA 2005, passim). L'impostazione del dipinto è giocata sull'attraversamento delle linee diagonali, calcate dalle figure dei torturatori e di Cristo, coperto da un lenzuolo rosso, foriero di una forte emotività. I toni terrosi e spenti della tavolozza sono, infatti, improvvisamente ravvivati dal potente rosso che incornicia il Cristo (cfr. Caravaggio 2003, p. 130). Gli autori della scheda del catalogo del 2010, descrivono la scena come segue: “al centro della tela è raffigurata la Flagellazione di Cristo per mano di due uomini (sulla destra) che lo seviziano con dei bastoni, i quali servono loro per collocare sulla testa del condannato la corona di spine. Il Cristo, con la fronte al seno, è vestito con un drappo purpureo dal quale intuiamo la sua nudità. La parte sinistra della tela è occupata da un uomo in armatura che osserva la scena senza tuttavia parteciparvi direttamente, e che è curiosamente molto simile, nella postura ed esteticamente, alla figura del Proconsole Egeas della Crocifissione di sant'Andrea” (cfr. Caravaggio 2010, pp. 176-183).

20 Nel corso della storia dell'arte il colore rosso ha rivestito a livello simbolico una tradizione di particolare importanza sia a livello religioso-liturgico, che a livello socio-culturale. Ha rappresentato in modo dualistico il potere e la passione, l'amore e il peccato, il sangue e il fuoco, veicolando in modo immediato e suggestivo significati specifici. È noto che il rosso è un colore liturgico e viene usato per composizioni religiose, legate alla Pentecoste, ai Martiri e alle feste dello Spirito Santo.

21 Grande successo ha in vita il Caravaggio le cui opere sono richiestissime da ricchi e facoltosi committenti: il marchese Vincenzo Giustiniani irretito, testimonia il Baglione dagli schiamazzi di Prosperino delle grottesche”, il turcimanno del Caravaggio (cfr. infra), colleziona opere del maestro e cita il pittore, assieme ad Annibale Carracci e Guido Reni, nel suo XII discorso (“dipingere di maniera, e con l'esempio avanti del naturale”) del suo Discorso sopra la pittura (pubblicato postumo da Anna Banti con il titolo Discorsi sulle arti e sui mestieri, Firenze 1981). Tra i committenti figurano le famiglie Mattei e Costa, il cardinal Del Monte e il cardinal Nepote Scipione Borghese (per il quale dipinge David e Golia ((1609-1610, olio su tela, 125 x 101 cm, Roma, Galleria Borghese)) a supporto della richiesta di grazia, concessa da papa Paolo V Borghese, in cambio di due versioni del San Giovanni Battista e una Maria Maddalena, opere imbarcate dal Merisi sulla feluca di ritorno da Napoli ma “perse” lungo la strada per il suo arresto a Palo Laziale). Le prestigiose commissioni e acquisizioni, sono la testimonianza tangibile dell'interesse nei confronti delle opere del Caravaggio. Inoltre, la protezione che il Milanese ottiene dai suoi committenti e amici in occasione della vicenda dell'uccisione di Ranuccio Tamassoni (cfr. infra, n. 135), è ulteriore elemento di apprezzamento del valore del Nostro.

Prospero Orsi il Turcimanno del Caravaggio, è una figura importante nella vita del Pittore, grazie alla sua amicizia provvidenziale la vita a Roma passa dall'essere lo spiantato “senza ricapito e senza provvedimento” (cfr. BELLORI 1672, p. 136) garzone di bottega, che lavora a cottimo per “tre teste al dì” (cfr. GIUSTINIANI 1981, XII Discorso), al gigante della pittura ammirato e richiesto, Quando, infatti, il Maestro lascia la bottega del Cavalier d'Arpino e resta senza fissa dimora, Prospero lo ospita a casa sua in via dei Giubbonari.

22 SCHLOSSER-MAGNINO 1990, p. 515.

23 Ibidem.

24 Il Pittore mette in discussione le convenzioni rappresentative e sociali del sacro, scatena reazioni che vanno ricondotte all'interno della cornice ideologica-istituzionale del tempo.

25 Gaspare Celio è un pittore e scrittore italiano del XVII secolo, noto soprattutto per il suo Compendio delle Vite di Vasari, un'opera critica nei confronti del celebre biografo, con l'aggiunta di vite di artisti successivi, inclusa una delle prime biografie di Caravaggio. Celio, un attaccabrighe e contestatore, si distingue per la sua visione artistica che non è centrata su Firenze, ma su Roma, e per la sua critica alla pittura "dal naturale" di Caravaggio.

26 “Poste esse pitture in opera che furno ad olio, Prosperino condusse tanti pittorecoli, et altri, a lodare l'opera, che vi fece un concorso straordinario, e la fama suonò fora di modo, essendo le teste ritratte dal naturale, e di bella, et oscura maniera, cosa nuova alle persone non nell'arte. Sì che non guardando se erano ben disegnate le figure, o se mostravano le sue distanze secondo il luogo, fu lodato esso Caravaggio oltre il dovere dalle persone non erudite.” E poco oltre riporta il giudizio positivo di Giovanni de Vecchi, “pittore celebre”, per il quale “Questo virtuoso, per non saper disegnare, ha fatto assai” (cfr. CELIO 2021, ad vocem)

27 Pittore e letterato il Baglione querela Caravaggio il 28 agosto 1603, ne segue un processo per diffamazione, i cui atti ci consentono di ricostruire i vicendevoli rapporti. In quella sede il Merisi dichiara che “non so niente che ce sia nessun pittore che lodi per buon pittore Giovanni Baglioni” (cfr. Caravaggio 2011, pp. 102-103).

28 Il passo in chiusura della Vita oscilla tra ammirazione tecnica e il disprezzo morale nei confronti del Pittore accusato di “dipingere tutto dal naturale” e di aver ridotto la pittura a imitazione meccanica, dimentica delle forme ideali più consone a soggetti sacri (cfr. BAGLIONE 1642, p. 139).

29 In questo contesto, “schiamazzo” oltre alla confusione popolare, potrebbe alludere anche ad una forma di rumore iconografico: Caravaggio mette in scena un mondo che grida troppo forte, che non rispetta le regole e le gerarchie. Questa rottura con le convenzioni può essere letta come un clamor vulgaris, un vociare del popolo che invade lo spazio sacro e crea una contaminazione tra basso e alto. L'effetto disturbante non è solo estetico, ma profondamente politico: la pittura di Caravaggio sembra, infatti, minacciare l'ordine simbolico che la Chiesa cerca di consolidare.

30 A proposito del termine “schiamazzo”, il Baglione lo usa in diverse circostanze: dal presunto rifiuto del San Matteo (“non era a veuno piaciuto (…) e per li gran schiamazzi (…)”): alla Madonna di Loreto (“per queste leggierezze in riguardo delle parti, (…) ne fu fatto estremo schiamazzo”).

“Per il Marchese Vincenzo Giustiniani fece un Cupido a sedere dal naturale ritratto, ben colorito sì, che egli dell'opere del Caravaggio fuor de' termini invaghissi; ed il quadro d'un certo S. Matteo, che prima avea fatto per quell'altare di S. Luigi, e non era a veruno piaciuto, egli per esser'opera di Michelangelo, se 'l prese; e in questa opinione entrò il Marchese per li gran schiamazzi, che del Caravaggio, da per tutto, faceva Prosperino delle Grottesche “turcimanno di Michelagnolo” (cfr. BAGLIONE 1642, p. 137).In questa testimonianza il termine è usato in riferimento ad un comportamento spropositato che il “turcimanno” del Merisi, probabilmente ubriaco, mette in atto per elogiare il Maestro e la sua opera.

“Nella prima cappella della chiesa di Sant'Agostino alla man manca, fece una Madonna di Loreto ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co' piedi fangosi e l'altra con una cuffia sdrucita e sudicia, e per queste leggierezze in riguardo delle parti, che una gran pittura haver dee, da' popolani ne fu fatto estremo schiamazzo” (cfr. ibidem).

31 L'estetica del Pittore si distingue e si caratterizza per aver attribuito a Madonne, Santi, Martiri e perfino al Cristo, tratti fisici e sociali lontani dall'ideale classicista. Le sue Marie, spesso modellate su donne del popolo, sono vestite con abiti dimessi, immerse in atmosfere quotidiane e domestiche. La Madonna dei Pellegrini è criticata per i piedi sporchi e i vestiti laceri dei romei inginocchiati e per l'aspetto troppo terreno della Vergine. Il pubblico colto del tempo, abituato a un culto dell'elevazione e della trascendenza, trova inaccettabile questa umanizzazione del divino, mentre il popolo ravvede nell'immagine un avvicinamene mai percepito fino a quel momento.

32 Il Berenson rappresenta un punto di svolta nell'ambito del recupero del valore del Lombardo. Nel 1951, seppur ancora critico verso il realismo “crudo” del Merisi, propone una rilettura più sfumata rispetto ai suoi predecessori ottocenteschi. Pur percependo elementi disturbanti (delitto scenico, forte presenza materica), egli si propone di ristabilire un equilibrio: gli “schiamazzi” tornano a essere letti come una reazione emotiva piuttosto che un giudizio di rigetto. In tal senso, il suo contributo segna la svolta da una lettura moralmente orientata e pregiudizievole, ad una storicamente più pertinente e contestualizzata (cfr. BERENSON 1951 Caravaggio, passim).

33 BAGLIONE 1642, p. 137.

34 Ibidem.

35 “Caravaggio & intaccò quel Signore di molte centinaia di scudi” (cfr. BAGLIONE 1642, p. 137).

36 A seguito delle ricerche iconografiche sull'opera caravaggesca oggi si è convinti che il Merisi abbia raffigurato la Madonna appena giunta in volo a Loreto, con la sacra casa di Nazareth, pertanto è più pertinente parlare di Madonna di Loreto, piuttosto che Madonna dei Pellegrini, cionondimeno si mantiene, per via della notorietà, storicità e diffusione del titolo anche la seconda definizione, legata alla presenza dei due anziani inginocchiati in primo piano. Si noti che già il Baglioni utilizza nella sua Vita entrambi i titoli.

37 “Nella prima cappella della chiesa di Sant'Agostino alla man manca, fece una Madonna di Loreto ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co' piedi fangosi e l'altra con una cuffia sdrucita e sudicia, e per queste leggierezze in riguardo delle parti, che una gran pittura haver dee, da' popolani ne fu fatto estremo schiamazzo” (cfr. BAGLIONE1642, p. 137).

38 In questo contesto il termine “teste” è introdotto dal Baglione in accezione dispregiativa: Caravaggio non è in grado, secondo l'autore, di creare “historie”, voce usata per indicare il lavoro degli “altrui” pittori del tempo. Nelle intenzioni malevole dello Scrittore, il primo lemma si lega ad un fare meccanicistico di riproduzione ed esecuzione di scene volgari e popolari, mentre il secondo implica un lavoro mentale che il Nostro, secondo il biografo, non è capace di attivare (cfr. BAGLIONE 1642, p. 139).

39 “Se Michelagnolo Amerigi non fusse morto sì presto, haveria fatto gran profitto nell'arte per la buona maniera che presa havea nel colorire del naturale, benché egli nel rappresentar le cose non avesse molto giudicio di scegliere il buono e lasciare il cattivo. Nondimeno acquistò gran credito, e più si pagano le sue teste che l'altrui historie” (cfr. BAGLIONE 1642, p.139)

40 Tanto importa l'aura popolare, che non giudica con gli occhi, ma guarda con le orecchie. E nell'Accademia il suo ritratto è posto” (cfr. BAGLIONE 1642, p.139).

41 Opera non pubblicata, ma nota attraverso il Malvasia che la copia nella sua Felsina Pittrice (cfr. MALVASIA 1678).

42 Caravaggio 2003, p. 184.

43 MANCINI 1956, p. XXVI.

44 BELLORI 1672, p. 213.

45 “(…) perché non erano in lui né invenzione, né decoro, né disegno, né scienza alcuna della pittura mentre tolto dagli occhi suoi il modello restavano vacui la mano e l'ingegno” (cfr. BELLORI1672, p. 213).

46 BELLORI1672, p. 207.

47 Ibidem.

48 Ivi, p. 213.

49 MALVASIA 1678, ad vocem; Caravaggio 2003, p. 184.

50 PASSERI 1678, p. 62.

51 MENGS 1760-1770.

52 OTTINO DELLA CHIESA 1967, p. 12.

53 “II Caravaggio fu in Italia uno dei più illustri propagatori del sistema che prevalse poi nella scuola olandese, sistema che consiste nel trasformare in bellezza d'arte, ciò che è schifoso nella natura. L'elevatezza del pensiero non è il suo fine; sì invece l'imitazione d'ogni naturale qual ch'esso sia. (…) rinunciò alla bellezza per rintracciare il vero quale si presentava senza annobilirlo; anzi per tema di non parere abbastanza naturale, cercò il vero più volgare, perché comune, e perciò più compreso dalle moltitudini. Simile sistema prevalse sempre nelle scuole di secondo ordine, perché non esige se non il compiuto svolgimento dell'istinto imitativo. Torna senza dubbio più facile copiare che non abbellire” (cfr. SELVATICO 1856, pp. 781-782). Giovanni Morelli, storico dell'arte innovatore, a proposito ritiene l'artista, “un pittore non molto simpatico, ma di molto ingegno” (cfr. MORELLI 1897, p. 229).

54 Jacob Burckhardt, nel suo Der Cicerone, afferma che “Egli non tiene in onore che la passione”, descrive Caravaggio come l'iniziatore del "naturalismo moderno", sottolineando la sua capacità di rappresentare i fatti sacri come se siano accaduti nelle strade della sua epoca. Del Maestro evidenzia la passione, l'energia e il crudo realismo, i cui modi questa appassionati, popolari ed impressionanti, diventano tratto distintivo di una nuova scuola.  Pur apprezzando il suo talento a paragone degli artisti classicisti, trova eccessivi io naturalismo "crudo" e la attenzione alla realtà contemporanea. Ammette, però, che a lui si deve una svolta nel modo di concepire la pittura, ed ha aperto la strada a nuove forme di espressione artistica (cfr. BURCKHARD 1855, pp. 1016-1017). Un giudizio quello del Burckhard, ancora di impostazione idealista, di non totale condanna.

55 RIEGL 1908, p. 203

56 “(…) cancella il valore disegnativo dato alla forma dai fioren­tini, rifugge dai partiti decorativi, semplifica la visione degli oggetti per mezzo di un taglio, nitido, notturno, tra luce e ombra; approfondisce e semplifica la composizione. Dalle opere giovanili, composte ad armonia di chiari colori, sotto luci bion­de e velari leggieri di ombre trasparenti, alle ultime, cupe e notturne, schiarate da luci crude e costrette, l'arte del Caravaggio sempre più afferma i suoi principi fondamentali plastico-luminosi, che fanno di lui il precursore dei massimi geni del Seicento europeo: da Franz Hals e Rembrandt, al primitivo Velázquez” (cfr. VENTURI 1924, p. 334).

57 L'inizio degli studi sul Caravaggio, quando ancora i movimenti e la cronologia del maestro sono avvolti in una fitta nebbia, si fa risalire ai due articoli di Lionello apparsi già, nel 1909, nel tentativo di fornire qualche risposta alle problematiche sorte (cfr. VENTURI 1909 L'Arte; Id. 1909 Nuova Antologia). Ma l'autentico avvio del recupero avviene l'anno seguente con la pubblicazione di un nuovo saggio sulla rivista L'Arte, ritenuto dagli storici successivi come Calvesi, Strinati e Zuccari, “il primo intervento italiano sull'artista” (cfr. Caravaggio 2010, p.17). L'argomento caravaggesco poi ritornerà più volte all'interno del percorso critico venturiano (cfr. VENTURI 1912; Id. 1921; Id.1951).

58 La polemica intorno alla pittura seicentesca si avvia all'indomani della pubblicazione, nel 1926, de Il gusto dei rimitivi di Lionello Venturi, e rappresenta la querelle più rilevante esplosa all'interno della storiografia artistica italiana degli anni Venti che porta al recupero del vilipeso periodo barocco.

59 “È certo che il concetto di barocco si formò nella critica d'arte per contrassegnare la forma di cattivo gusto artistico che fu propria di gran parte dell'architettura e altresì della scultura e pittura del Seicento” (cfr. CROCE 1929, p. 43). Un'intera era culturale veniva svalutata da un giudizio morale negativo espresso da storici e filosofi di area crociana, il cui giudizio salvava poche grandi personalità artistiche dal valore universali: Bernini, Rembrandt, Rubens e pochi altri, coloro, cioè, che si erano distinti come geni di valore universale, emergenti dal complesso discutibile e da condannare dell'arte del secolo XVII.

60 Caravaggio 2003, p.187.

61 A partire dalla tesi di laurea, rimasta inedita sino al 1995, quando ne verrà pubblicato un estratto, il terzo capitolo “I preparatori del naturalismo” (cfr. LONGHI 1998, pp. 11-68), Longhi, al pari di Lionello, si dedica allo studio di Caravaggio per tutta la vita (cfr. LONGHI. 1913, pp. 161-164; Id. 1927, pp. 28-31; Id. 1928; Id. 1928, pp. 17-33; Id. 1929, pp. 258-320; Id.1943, pp. 5-63; Id. 1953, pp. 17-19; Id 1968).

62 Apparsi separatamente su due numeri della rivista “Pinacotheca” (R. Longhi, Quesiti caravaggeschi, I. Registro dei tempi, in “Pinacotheca”, 1928, I, pp. 17-33; Id., Quesiti caravaggeschi, II. I precedenti, in “Pinacotheca”, 1929, II, 5-6, pp. 258-320), vengono ripubblicati in LONGHI 1968.

63 Quello veramente da tener di mira è la sua nuova concezione stilistica. La nota che la caratterizza è una ricerca così tenace di concisione, da ricordare la sobrietà dei grandi periodi arcaici. A tal fine il Caravaggio si serve principalmente di due mezzi: della luce e della composizione. Egli, come è noto, immerge le sue scene nell'oscurità, investendole di un getto violento di luce radente, in modo che alcune parti soltanto affiorino dalle tenebre nella luce. Questa, creduta fino ad oggi, e forse dagli stessi suoi seguaci, una trovata realistica fu, caso mai, una concessione alla fantasia — come pare la interpretasse lo stesso Rembrandt —, ma soprattutto una ricerca di unità e di stile : un mezzo a mettere in valore certe parti e linee essenziali delle cose, facendole affiorare nella luce e ad eliminarne nelle tenebre altre secondarie, inutili o dannose ad una concisa rappresentazione (cfr. MARANGONI 1922, p. 6).

64 LONGHI 1968, p. 137.

65 LONGHI 1973, p. 829.

66 BERNE–JOFFROY 2005, passim.

67 JONES 2008, p. 116.

68 PUPILLO 2009, p.219.

69 Enigma Caravaggio, Convegno 2021, I sessione pomeridiana, intervento di A. Lonardo, “I dipinti per le chiese romani: rivoluzine e ortodossia”.

70 Enigma Caravaggio, Convegno 2021, V sessione pomeridiana, intervento di S. Rossi, “Lo scandalo Caravaggio”.

71 “Se Michelagnolo (…) haveria fatto gran profitto nell'arte per la buona maniera (…). Nondimeno acquistò gran credito, e più si pagano le sue (…)” (cfr. BAGLIONE 1642, p. 139).

72  La prima versione del San Matteo e l'Angelo avrebbe dovuto rimpiazzare la scultura di Jacob Cornelisz Cobaert, voluta dal committente Matteo Contarelli (1519-1585), e rifiutata dal nipote Francesco che, dopo la morte dello zio, incaricato di terminare i lavori in San Luigi dei Francesi, vuole, al suo posto, una "imago depicta" (da cui forse il travisamento del rifiuto per la tela caravaggesca). Il 7 febbraio del 1602 l'abate Giacomo Crescenzi, esecutore testamentario del cardinale, stipula un contratto con Caravaggio per la realizzazione della pala d'altare da consegnare entro la Pentecoste del 1602. L'opera finisce in Collezione Giustiniani (il Marchese Vincenzo è un estimatore e collezionista delle opere del Pittore), dove risulta negli inventari sei-settecenteschi di famiglia (cfr. DANESI SQUARZINA, 2005, passim). La crisi finanziaria che colpisce le famiglie romane nel corso dell'800 costringe i Giustiniani ad alienare la propria pinacoteca di arte, tra il 1812 e il 1815, avvengono le cessioni più significative in favore del re di Prussia, Federico Guglielmo III, per il Kaiser Friedrich Museum di Berlino, Successivamente, i pezzi più importanti andranno ai musei del Palazzo di Sanssouci di Potsdam e della Gemäldegalerie di Berlino. Il quadro è quindi ricoverato, durante la II guerra mondiale nelle Flakturm Friedrichshain (le torri antiaeree), le quali, nel maggio del 1945, vengono coinvolte in un disastroso bombardamento, che, in realtà, è stato una catena di incendi dolosi, appiccati in tempi relativamente brevi. Ufficialmente il quadro è perito nell'evento, nessuna prova conferma la perdita, c'è chi pensa ad un trafugamento da parte delle truppe sovietiche. Infatti, diversi capolavori scomparsi in quella circostanza, negli anni del dopoguerra, sono ricomparsi nei depositi dei musei russi (Ermitage, Puskin).

73 “Il quadro d'un certo S. Matteo, che prima avea fatto per quell'altare di S. Luigi, e non era a veruno piaciuto, egli per essere opera di Michelagnolo, se ‘l prese; e in questa opinione entrò il Marchese per li gran schiamazzi, che del Caravaggio da per tutto faceva Prosperino delle Grottesche, turcimanno di Michelagnolo e mal affetto col Cavalier Gioseppe” (cfr. BAGLIONE 1642, p. 137).

74 BELLORI 1672, p. 202.

75 SPEZZAFERRO 1980; SPEZZAFERRO 2001 Caravaggio; ID. 2001 Problemi; SPEZZAFERRO 2004.

76 Studi e ricerche testimoniano che la stessa Chiesa di San Luigi de' Francesi all'epoca rappresenta un centro importante di lo sviluppo del collezionismo nobiliare (cfr. Decorazione 2003; CURTI 2007).

77 CALVESI 1986 Dipinti, p. 36.

78 MARINI 1987, p. 43.

79 VODRET 2010, p. 88.

80 Sul dogma dell'ispirazione sviluppato nel corso del Seicento cfr. Decretum 1546.

81 Sulla Cappella Cerasi è pervenuta una dettagliata documentazione contrattuale pubblicata in SPEZZAFERRO 2001 Cappella (pp. 9-34, p. 111). Sappiamo che l'8 luglio del 1600, il potente Tiberio Cerasi, tesoriere, sotto Clemente VIII Aldobrandini, della Camera Apostolica, acquista dai padri Agostiniani, la Cappella Foscari, nella Chiesa di Santa Maria del Popolo, con diritto di modificarla a suo piacimento, per destinarla alla propria sepoltura. Incarica, quindi della ristrutturazione architettonica Carlo Maderno, architetto della Fabbrica di San Pietro, subentrato a Michelangelo, mentre per la decorazione pittorica si affida ai due pittori più famosi della città: Annibale Carracci, reduce della grandiosa impresa della Galleria Farnese e Michelangelo Merisi da Caravaggio, che ha appena debuttato nell'importante commissione pubblica di San Luigi dei Francesi che lo ha reso celeberrimo per la sua tecnica rivoluzionaria (Ivi, p. 31; VIAGGIANO 2009, p. 512). Il primo realizza la pala d'altare con l'Assunta (1600-1601, olio su tela, 245 × 155 cm, Roma, Basilica di Santa Maria del Popolo), il secondo i due quadri “su tavola” per le pareti laterali aventi a soggetto San Pietro e San Paolo, a cui è dedicata la Cappella. Un progetto ambizioso, prontamente registrato dalle cronache contemporanee, che diventa da subito un evento artistico di assoluto rilievo nel panorama artistico romano all'inizio del nuovo secolo (cfr. Vodret 2010). Dal contratto del 24 settembre del 1600, apprendiamo che il pittore deve mostrare al committente “specimina et designationes figurarum et aliorum, quibus ipse pictor ex sui inventione et ingenio dicta mysterium et martyrium decorare intendit” (cfr. ASR, Notai RCA, notaio Luzio Calderini, anno 1600, vol. 378, c. 767 r-v; MAHON 1951, p. 226, n. 33), ma anche che il Cerasi, estimatore del Lombardo, lascia piuttosto libero il pittore rispetto all'ideazione delle scene (“ex sui inventione et ingenio”), prevedendo come unici veri vincoli il supporto in cipresso, la misura dei due grandi quadri (dieci palmi per otto (corrispondenti a circa 233 x 178 cm)) e l'impegno a consegnare nei successivi 8 mesi (SPEZZAFERRO 2001 Cappella, p. 54).Sul perché abbia voluto il legno di cipresso, interviene Claudia Viaggiani che riconducibile la richiesta alle caratteristiche fisiche del supporto, le fibre molto dense e resinose sono particolarmente resistenti ed indicate per evitare l'umidità derivante da eventuali infiltrazioni di acqua provenienti dalle pendici del Pincio (cfr. VIAGGIANI 2009, p. 514). Il Cerasi muore, nella notte tra il 2 e il 3 maggio 1601, quando ancora la Cappella non è finita, con un codicillo aggiunto al testamento, dettato in punto di morte, il Tesoriere “comanda” l'Ospedale della Consolazione, il suo erede universale, a cui è legato da vincoli personali e familiari e che finanzia regolarmente, di completare il progetto conformemente al disegno del Maderno (cfr. ASR, Archivio Notarile di Frascati, notaio Ascanio Roggio, vol. 39, f. 266r; MAHON 1951, pp. 227, n. 41; SPEZZAFERRO 2001, p. 11; VIAGGIANI 2009, p. 514). Questo dettaglio implica che la Cappella dal punto di vista architettonico ancora non è ancora terminata.

Da un documento, datato 10 novembre del 1601 e conservato in ASR, sappiamo che l'Ospedale salda la commissione dei due quadri (non si specifica se tavole o tele), con una somma inferiore al pattuito (cfr. VIAGGIANI 2009, p. 514), ma poiché i lavori di ristrutturazione risultano ancora in essere, i due dipinti rimangono nello studio del Pittore, con la promessa di provvedere alla loro sistemazione sulle pareti al momento giusto. Le due opere, pertanto, rimangono a disposizione del Merisi per diversi anni, probabilmente fino al maggio del 1605, data relativa ad un secondo documento conservato in ASR, relativo al contratto di 4 baiocchi tra un falegname Bartolomeo e l'Ospedale, “per haver accomodato li quadri delle pitture”, ossia, per la sistemazione delle tele, nella Cappella Cerasi. Si noti che la consacrazione della stessa avverrà solo l'11 novembre del 1606, a ben 6 anni dall'avvio dei lavori. I quadri sistemati nel 1605 non sono tavole, come richiede il contratto originale (legno di cipresso), ma sono due tele. Le tavole, realizzate inizialmente, hanno preso strade diverse, mentre le tele, dipinte in un momento successivo non meglio precisato sono state consegnate ai frati della Consolazione (cfr. VODRET 2010, passim).

82 “Nella Madonna del Popolo a man dritta dell'altar maggiore dentro la cappella de Signori Cerasi su i lati del muro sono di sua mano la Crocifissione di s, Pietro E di rincontro ha la Conversione di s. Paolo. Questi quadri prima furono lavorati da lui in un'altra maniera, ma perché non piacquero al Padrone, se li prese il Cardinale Sannesio e lo stesso Caravaggio vi fece questi, che hora si vedono, a olio dipinti, poiché egli non operava in altra maniera e òa Fortuna con la Fama il portava” (cfr. BAGLIONE 1642, p. 137), Il passo suggerisce molto debolmente, senza circostanziare alcunché, un rifiuto e tradizionalmente, pur non essendoci altre cronache a testimoniare il fatto, è stato interpretato come tale fino alla metà del secolo scorso quando critici e storici cominciano ad interrogarsi sull'effettivo motitvo del diniego. Non si comprende cosa abbia di preciso offeso la sensibilità del “Padrone”, chi sia costui se il committente-Cerasi o gli eredi, i reggenti dell'Istituzione benefica, ma il termine potrebbe anche alludere al Merisi stesso, in quanto padrone intellettuale delle opere. C'è chi ha creduto che la raffigurazione del Santo, delineato avanti con gli anni, con il corpo seminudo ed atletico, abbia potuto essere oggetto di critiche, ma tenendo conto che il chiaro modello è l'illustre affresco, di identico soggetto, del Buonarroti nella Cappella Paolina, diventa difficile avvalorare tale supposizione. Si è, poi, pensato che la figura irruenta e violente di Cristo, così fisica e “bestialmente” umana, con una corporeità tale da spezzare il ramo di un albero, mentre irrompe nella scena, possa essere la ragione del biasimo, ma anche in questo caso, per via del nobile modello, la tesi non ha avuto seguito. Si è, quindi, spostata l'attenzione verso l'angelo androgino che abbraccia carnalmente Dio, colpevole di avere le sembianze di Cecco Boneri, il modello dell'artista, che, le malelingue, dicono essere l'amante del Pittore, ma nonostante le ricerche la presunzione è rimasta tale e non sono state trovate conferme, insomma, si tratta di congetture molto deboli, nate dalla speculazione della critica. Il motivo dell'affermazione baglionesca è forse da ricercare nel rapporto competitivo tra i due pittori rivali, al lavoro nella Cappella, e nella coeva critica, di matrice classicista, che vede le opere del Merisi come troppo “naturali” e prive di forma “ideale” che si è perpetrato fino al ‘900, nonché, nel successivo tentativo di alimentare il mito del pittore maledetto. Avanziamo qui l'ipotesi che il Baglione testimone dell'insoddisfazione del Maestro, o per motivi stilistici (derivanti dal confronto con la pala dell'Assunzione), o per ragioni tecnico-estetiche (date da un cattivo effetto risultante dall'inserimento delle opere nello spazio angusto della Cappella rinnovata), con il termine “Padrone” abbia voluto alludere al Lombardo stesso, padrone intellettuale dell'opera, che, insoddisfatto risultato, abbia deciso di sostituire le tavole con le tele, decisamente più audaci ed innovative, per le quali ha ricevuto, forse a seguito di nuovo accordo con i Confratelli della Consolazione, un pagamento inferiore di 100 scudi (cfr. VIAGGIANI 2009, p. 514).

83 BELLORI 1672, p. 207.

84 “Questi quadri prima furono lavorati da lui in un'altra maniera, ma perché non piacquero al Padrone, se li prese il Cardinale Sannesio; e lo stesso Caravaggio vi fece questi, che hora si vedono, a olio dipinti poiché egli non operava in altra maniera; e (per dir così) la Fortuna con la Fama il portava” (cfr. BAGLIONE 1642, P. 139). Nel 1604 le due tavole sono in casa del card. Giacomo Sannesio, il collezionista evidentemente amava lo stile caravaggesco visto che si assicura prontamente i due quadri e acquista anche una serie di dipinti di Orazio Gentileschi. Il nipote Francesco, unico erede dei beni di famiglia, forse per fronteggiare le spese di successione, nel 1645, vende i “doi quadri grandi in tavola che rappresentano san Pietro crocifisso e l'altro la Conversione di san Paolo scorniciati e filettati d'oro”, presenti nell'inventario Sannesio del 1644, a Juan Alfondo Enriquez de Cabrera IX Almirante di Castiglia, vicerè di Sicilia e Napoli (cfr. SPEZZAFERRO 2001 Cappella, p. 111). Il de Cabrera, porta i due dipinti (San Paolo e San Pietro Crocifisso) in Spagna, dove sono documentati nel 1647. Alla morte di Almirante (1647) il Saulo è probabilmente venduto forse per coprire le tasse di successione al nobile genovese Agostino Ayrolo, il cui cognato, Francesco Maria Balbi, entra in possesso del quadro nel 1664 e ove rimane fino agli anni '50 del secolo scorso, qunado, per via ereditaria finisce nella collezione della principessa Vittoria Balbi di Piovera Odescalchi, quindi, sempre per discendenza perviene al ramo romano degli Odescalchi, gli attuali proprietari

Il San Pietro, invece, rimane in collezione Almirante fino al 1691, anno in cui se ne perdono le tracce (cfr. MERLINI-STORTI 2008, passim). Il Marini ritiene di aver identificato una copia secentesca dell'originale Crocifissione nella chiesa di S. Alberto di Siviglia (cfr. MARINI 1987, pp. 57-58), mentre una seconda copia del soggette è stata rintracciata nel San Pietro di Lionello Spada conservato all'Ermitage di San Pietroburgo.

85 Studi 2000, passim.

86 MAHON 1951, pp. 222-235; POSNER 1971, p. 55.

87 SPEZZAFERRO 2001, p. 31.

88 Sulla questione si veda anche VIAGGIANI 2009.

89 POSNER 1971, p. 55.

90 Cento scudi in meno rispetto al contratto che prevedeva 400 scudi (cfr, VIAGGIANI 2009, pp. 512 e 514).

91 SPEZZAFERRO 2001, pp. 13-17; Annibale 2006, p. 4; sulla questione del pagamento si veda anche VIAGGIANI 200, pp. 514-515.

92Si noti che Pepper lega l'inserimento del codicillo al testamento del Cerasi, come prova del prolungamento dei lavori della Cappella, derivante dalla sostituzione delle prime versioni; fissa al 1601 il termine ante quem non per la datazione delle seconde versioni, la cui realizzazione è da attribuirsi al confronto con la pala del Carracci (cfr. PEPPER 2009, p. 111).

93 A proposito della Santa Margherita del Carracci, per la Chiesa di S. Caterina dei Funari, riporta il Bellori, che “Michel angelo da Caravaggio dopo essersi fermato lungamente a riguardarlo, si rivolse, e disse: mi rallegro che al mio tempo veggo pure un pittore, intendendo egli della buona maniera naturale, che in Roma, e nell'altre parti ancora affatto era mancata” (cfr. BELLORI 1672, p. 32).

94 BROWN 2001, p. 250.

95 Avvisi di Roma, in Mss 983 c. 63v, Biblioteca Casanatense (Roma); ZAPPERI 1981, p. 822.

96 LONGHI 1952, p. 55.

97 VIAGGIOANI 2009, p. 515.

98 CALVESI 1990, p. 95.

99 CALVESI 1986 Caravaggio, p. 44.

100 “The Caravaggio paintings acknowledge their architectural context” (cfr. STEINBERG 1959, p. 186).

101 VODRET 2010, passim.

102 l dipinto è commissionato, il 31 ottobre del 1605, dai membri della potente Arciconfraternita dei Palafrenieri che, in seguito al rinnovamento della Basilica di San Pietro, voluto da Papa Paolo V, si rivolgono al Nostro per una nuova pala a decorazione del futuro altare dedicato alla Sant'Anna, in sostituzione della precedente pala, di Leonardo da Pistoia e Jacopino del Conte.

103 Sembra, infatti, che il Card. Nepote solo per intercedere presso lo zio papa, per far ottenere la grazia al Caravaggio abbia ottenuto, come moneta di scambio, il David e Golia, opera realizzata a Napoli ed inviata a simbolico supporto della domanda di grazia al potentissimo Cardinale. La lettura iconologica, proposta dal Rossi, vede sia nel David che nel Golia l'autorappresentazione del Pittore che si autoritrae metaforicamente nel giovane David, non ancora toccato dal peccato, mentre uccide emblematicamente sé stesso peccatore (il Golia) e chiede perdono a Dio e agli uomini (cfr. Enigma Caravaggio, Convegno 2021, V sessione pomeridiana, intervento di S. Rossi, “Lo scandalo Caravaggio”). Il messaggio potententissimo gli avrebbe fruttato la grazia.

104 La commissione è affidata a Caravaggio in una data precedente il 1 dicembre 1605, momento in cui si registra il primo anticipo pagato all'Artista; eseguita nel giro di pochi mesi è consegnata l'8 aprile 1606 al decano Antonio Tirollo che, dopo averla fatta collocare sull'altare, ne ordina la rimozione (SPEZZAFERRO 1974, passim: la questione della rimozione è esaminata anche in RICE 1997; Madonna 1998, passim; BELTRAMME 2001, passim). Il 16 aprile 1606, infatti, alcuni facchini sono incaricati di spostare la tela presso la vicina Chiesa di S. Anna, quindi, nei giorni successivi il Borghese compra l'opera per la sua quadreria pagando 100 scudi, un prezzo superiore a quello sborsato dall'Arciconfraternita al Maestro che era pari a 75 scudi (Soli cento scudi, a fronte dei settantacinque pagati dalla Confraternita all'artista; se si pensa che la stima, magari un po' gonfiata, del Giustiniani per la Morte della Vergine ammontava a duecentottanta scudi si ha tutta la misura del talento commerciale del Cardinal Nepote. Per le transazioni tra i Palafrenieri, Caravaggio e il cardinale cfr. Archivio dell'Arciconfraternita dei Palafrenieri, cod. 246, c.81v (19 maggio 1606; MACIOCE 2023, ad vocem).

105 “Fece anch'egli in s. Pietro Vaticano una s. Anna con al Madonna che ha Putto fra le sue gambe, che con il piede schiaccia la testa ad un serpe; opera da lui condotta per li Palafrenieri di palazzo; ma fu fevata d'ordine de' Signori Cardinali della fabrica, e poi dà Palafrenieri donata al Cardinale Scipione Borghese” (cfr. BAGLIONI 1642, pp. 137-138); “L'altro quadro di Santa Anna fù tolto ancora da uno de minori altari della Basilica Vaticana, ritratti in esso visibilmente la Vergine con Gesù fanciullo ignudo, come si vede nella Villa Borghese” (cfr. BELLORI 1672, p. 213);

“E doppo il Christo Deposto nella Chiesa Nova, li quadri di San Luigi, la Morte della Madonna nella Scala, che l'ha adesso il Serenissimo di Mantova, fatta levar di detta chiesa da quei padri perché in persona della Madonna havea ritratto una cortigiana la Madonna di Loreto in S. Agostino, quella dell'altar de' Palafrenieri in San Pietro, molti quadri che possiede l'illustrissimo” (cfr. MANCINI 1956, p, 224).

106 HESS 1954, pp. 274-275.

107 “When the altars in this part of the church were desecrated (October 1605) to make room for the construction of the new nave, the Palafrenieri could not obtain a place in the new church, as they had hoped, but were removed to the Sacristia Vecchia. One of the altars in the inner octagon of the Sacristia Vecchia was then dedicated to their patroness, St. Anne, on the order of the pope. To this altar belonged a painting of St. Anne standing behind the Virgin and Child with two saints on either side; Chattard and other writers on the Vatican, in an understandable error, have called this a work of Caravaggio (later ascribed to il Fattorino Penni). Caravaggio's painting, as we see it now in the Borghese, could not have been destined for this small altar: the height of the chapel, according to Chattard (p. 234), of 14% palmi, or about 3.12 m., could hardly have accommodated the huge dimensions of Caravaggio's altarpiece, which is almost three meters high. Probably for this reason, the Palafrenieri were permitted to place their image of St. Anne, “manu di Michelangelo da Caravaggio,” in the much larger chapel of St. John Chrysostom. This must have been a provisional arrangement until a permanent location could be found” (FRIEDLÄNDER 1974, p. 191).

108 Benefactor di Santa Maria della Scala e legato ai Carmelitani Scalzi, al punto da essere sepolto all'interno della Chiesa trasteverina, il Cardinal Tolomeo Gallio, convinto controriformato, nell'arco di tutta la vita agisce finanziando o commissionando opere architettoniche come chiese, ville, collegi. Da mecenate di imprese architettoniche non è certamente a digiuno di intendimenti decorativi nella quale veste è probabilmente interpellator dai Palafrenieri a proposito dell'opportunità o meno di mantenere la Pala sull'altare in Vaticano.

109 SPEZZAFERRO 1974.

110 SETTIS 1975.

111 IOMMELLI 2023.

112 Gli scrittori moralisti della Controriforma ci informano che “In nessun modo mai siano ritratti [i santi] con faccie de particolari e di persone mondane e dagli altri conosciute; perché, oltre l'essere cosa vana et indignissima, verrebbe a rassomigliare un re posto nel trono della sua maestà con la maschera al viso d'un cerettano o d'altra persona ignobile e conosciuta dal volgo per pravatissima, tal che chi la riguardasse, sùbito si movesse a riso oltre molt'altre inconvenienze” (PALEOTTI, 1582, p. 157).; e dell'importanza di “aver cura di non riprodurre a bella posta l'effigie di un altro uomo vivente o morto” (cfr. Carlo 2000 p. 168), con l'unica eccezione che “non dovriano porsi in ritratto se non le persone le quali o con bontà morale o con santità cristiana potessero essere incitamento alle virtù” (PALEOTTI, 1582, p. 158).

113 MARINI 1987.

114 Maddalena Antognetti, detta la “roschina” per i suoi capelli biondo-ramati (cfr. BASSANI-BELLINI 1994), è nota in una serie di carte giudiziarie, come una cortigiana romana abitante al Corso nei pressi della chiesa di S. Ambrogio dei Lombardi, che è stata amante del cardinale Alessandro Peretti Montalto e di Melchiorre Crescenzi, e convivente more uxorio dal 1603 con il notaio Gaspare Albertini. In particolare si conserva in ASR una querela dell'Antognetti, datata 19 luglio 1605 contro l'Albertini che, il 28 giugno 1605, volutamente la sfregia al volto con un coltello. Il notaio geloso dopo averle imposto di lasciare tutti i suoi amanti, ed “in particulare l'amicitia di Michelangelo pittore” (cfr. BASSANI-BELLINI 1994, p. 208) e nonostante lei abbia “lassato l'amicizia di quelli che lui haveva prohibito” perpetra ugualmente il delitto, poiché non ha smesso di posare per Caravaggio come modella (cfr. BASSANI 2021). Secondo alcuni critici lo sfregio potrebbe essere la conseguenza diretta del riconoscimento di Lena nella Madonna di Loreto a cui il maestro stava lavorando proprio nei giorni in cui si perpetra il delitto.

L'identificazione dell'Antognetti con la Lena definita “donna del Caravaggio” si basa su un noto documento giudiziario pubblicato da Antonino Bertolotti alla fine dell'Ottocento che registra la denuncia del notaio Mariano Pasqualoni contro Caravaggio, che la sera del 29 luglio del 1605 lo aggredisce, ferendolo, durante una passeggiata serale nella centrale via del Corso. Il notaio, incaricato del controllo del decoro delle immagini sacre, sembra che abbia accusato il Pittore di aver commesso un grave delitto, dipingendo la Madonna con le sembianze di una nota cortigiana, e che lo abbia minacciato di gravi conseguenze. La sera del 29 luglio, in un agguato, il Lombardo ferisce l'uomo alla testa con un colpo di spada. Nella denuncia si legge che l'aggressione è avvenuta a causa “di una donna chiamata Lena, che sta in piedi a piazza Navona passato il palazzo, ovvero il portone del palazzo del signor Sertorio Teofilo, che è donna di Michelangelo” (cfr. ASR, Tribunale criminale del Governatore, Visite dei notai, reg. 39, c. 54vG; BERTOLOTTI 1881, pp. 71-72).

Aggredito il Pasqualone e a causa del suo carattere sempre litigioso ed irrequieto, il Maestro è costretto prima a chiedere asilo, per qualche tempo, in S. Agostino e quindi a fuggire a Genova.

115 ROBB 1998, p. 310; ZUFFI 2010, p. 182. Si noti che lo Zuffi non solo identifica Maria con la Lena, ma addirittura afferma che il Pittore possa essersi ispirato “alla macabra immagine del cadavere di Lena Antognetti”. La donna, però, risulta che sia morta tempo dopo la realizzazione della pala).

116 Enigma 2023.

117 Enigma Caravaggio, Convegno 2021, V sessione pomeridiana, intervento di S. Rossi, “Lo scandalo Caravaggio”.

Si noti che la medesima identificazione è proposta anche con la Vergine di Loreto (cfr. Infra).

118 BASSANI-BELLINI 1994.

119 Che Caravaggio nella sua strenua ricerca della realtà proponga difetti anatomici non è una novità, lo ricorda anche il Bellori (“All'hora cominciò l'imitazione delle cose vili (…) e le deformità (…) e così nell'imitare li corpi, si fermano con tutto lo studio sopra rughe, e i difetti della pelle e dintorni, formano le dita nodose, le membra alterate da morbi (…)”(cfr. BELLORI 1672, p. 213)) e lo possiamo osservare in diversi quadri in cui la modella, identificata con Fillide Melandroni, è raffigurata sempre con il difetto all'anulare sinistro che ha consentito tale abbinamento: Santa Caterina di Alessandria (1598-1599 ca, olio su tela, 100 x134, Detroit, Institute of Arts), Marta e Maria Maddalena (1597, olio su tela, 87,5 x115,9 cm, New York, Metropolitan Museum) e la Deposizione vaticana (1602-1604). In tutte e tre le opere citate, i soggetti della S. Caterina, della Maria Maddalena e della tealtrale Maria di Cleofa che alza teatralmente le braccia in alto, hanno le sembianze della modella Fillide e l'evidente difetto al dito/anulare sinistro. A proposito della deformità del piede cavo, questa è osservabile sia nella Madonna dei Palafrenieri, che nella Vergine di Loreto (1604-1605, olio su tela, 260 x 150 cm, Roma, Basilica di Sant'Agostino), c forse anche nella Dormitio, quest'ultimo caso l'angolazione prospettica di piedi e la scarsa luce su di essi non aiutano l'osservazione.

120 LONGHI 1968, passim. Si noti che il “quadro ispiratore” nasce in ambiente pauperistico-borromaico.

121 CALVESI 1986 Caravaggio, p. 48.

122 Ibidem. Oggi si tende, invece, a sostenere la cronologia contraria, ossia, prima il rifiuto della Morte della Vergine, quindi, lo spostamento della Madonna con S. Anna.

123 Camillo Borghese, al secolo Paolo V, nel 1603 rimette in vigolre l'editto del Card. Rusticucci Per gli altari e le pitture nelle chiese (1593), con cui si stabilisce che i bozzetti delle opere siano sottoposti al vaglio della censura e che periodiche visite pastorali accertino l'osservanza delle prescrizioni tridentine in fatto di soggetti religiosi (cfr. PANZERA 2011, p. 133). Alla luce di questa reintroduzione si legge il noto documento di denuncia pubblicato da Antonino Bertolotti che riporta la dichiarazione di aggressione del notaio Pasqualoni da parte del Caravaggio. Il notaio, incaricato del controllo del decoro delle immagini sacre, potrebbe aver accusato il Merisi di aver dipinto una Madonna indecorosa con tutte le conseguenze del caso (cfr.Infra, nota 114).

124 “Che viene fatta levare dall'altare della confraternita in San Pietro dai padri della chiesa” (cfr. BAGLIONE 1642). Negli atti d'archivio la vendita del dipinto è ritenuta “utile”, piuttosto che un “danno alla compagnia” (cfr. Archivio dell"Arciconfraternita dei Palafrenieri, cod. 17, c. 99 (in MACIOCE 2023, p. 197)).

Sulle transazioni tra i Palafrenieri, Caravaggio e il cardinale Borghese cfr. Archivio dell'Arciconfraternita dei Palafrenieri, cod. 246, c.81v, 19 maggio 1606, in MACIOCE 2023.

125 "Gesù e la Madre calpestano due (sic!) aspidi, del Caravaggio" (cfr. FRANCUCCI 1613).

126 Madonna 1998, passim; STRINATI 1998, pp. 7-11.

127 Dopo la rimozione dall'altare la tela, su segnalazione di Pietro Paolo Rubens, è acquistata, nel 1607, dal Duca di Mantova, Vincenzo I Gonzaga, prima di lasciare Roma, la pala è, però, esposta per qualche giorno tra il 14 e il 21 aprile 1607 nel palazzo di Giovanni Magni, ambasciatore ducale in Roma, affinché gli altri pittori possano ammirarla. Sono gli stessi artisti ad insistere affinché il quadro venga esposto pubblicamente, e tutti abbiano la possibilità di ammirarlo prima della partenza. In seguito, a causa del dissesto finanziario dei Gonzaga, il dipinto, è alienato al re d'Inghilterra Carlo I in occasione della tragica morte del re inglese, nel 1649, parte della collezione, compresa la Vergine, è comprata dal banchiere parigino Everhard Jabach, per essere poi ceduta al re di Francia Luigi XIV, infine, durante la Rivoluzione Francese l'opera è inglobata nelle azioni di “statalizzazione” degli oggetti reali, quindi, esposta al Museo del Louvre (cfr. MARINI 1986, p. 494; FULLOTTI 2003, p. 488, docc. 714 e ss).

128 ll dipinto è commissionato, nel 1601, dal giurista curiale Laerzio Cherubini da Norcia per la propria cappella in Santa Maria della Scala (cfr. MARINI 1987, pp. 493-494; CESARINI, I documenti, in Caravaggio 2011, p. 250; MACIOCE 2013, p. 133, Doc. 526). Il documento contrattuale si conserva nell’Archivio di Stato di Roma, in esso si stabilisce soggetto e misure del dipinto, data di consegna (entro un anno), un anticipo di 50 scudi, l’obbligo di sottomettere “lo sbozzo” (il progetto) all’approvazione del committente e dei rettori della chiesa (“esibire il cartone, o sbozzo in disegno dell’historia”, cfr. ASR, Notai dell’Auditor Camerae, notaio Mercurius Accursi, Vol 9, c. 293/ReV; pubblicato in CESARINI, I documenti, in Caravaggio 2011, p. 250; MACIOCE 2013, p. 133, Doc. 526). Tale vincolo si comprende alla luce dei nuovi dettami tridentini (cfr. PALEOTTI 1582; RUSTICUCCI 1593). L’accordo prevede che il Pittore debba rappresentare “cum omni diligentia et cura” il “misterium” della “mors sive transitus Beatae Mariae Verginis” (“con ogni diligenza e cura il mistero della morte o transito della Beata Vergine Maria”) e, al momento della consegna, avrebbe ricevuto il saldo del lavoro. Non conosciamo il momento della consegna della tela, alcuni studiosi propendono per una data precoce, tra il 1601 e il 1603 (MARANGONI 1922; ARSIAN 1923; KONING 1997; PUGLISI 1998; SMITH 1998), di altro avviso il Marini per il quale, nel 1604, Michelangelo sta ancora lavorando al quadro, che “nondimeno il pittore deve avere iniziato la stesura della pala in concomitanza con la Deposizione” a riconferma di una datazione tarda il fatto che: dal testamento di Laerzio, datato 14 agosto 1602, sembra che solo la sepoltura fosse pronta mentre il resto, ad opera di Girolamo Rainaldi, è ancora in corso di realizzazione. Infine, la concessione papale per l’“altare privilegiato” è accordata da Paolo V solo il 22 maggio 1606 (sei giorni prima l’uccisione di Ranuccio Tomassoni). Qualora abbia terminato prima la tela deve averla conservata nel proprio studio in quanto la cappella riceve l’autorizzazione solo nel 1606 (MARINI 1987, p. 494).

129 BAGLIONE 1642, p. 138.

130 BELLORI 1672, p. 213.

131 Attraverso alcune lettere al fratello Deifebo (del 14/10/1606), sappiamo che il Mancini è interessato ad acquistare un dipinto di una Madonna “spropositata di lascivia e di decoro” rifiutata dai Confratelli della Scala (cfr. MACCHERINI. 1997, pp. 71-92).. Anche la nota biografica sul pittore, riferisce della sua di acquisire l'opera. Ne inizia una trattativa, condotta in parola, che si interrompe nel gennaio del 1607, quando la pala, su suggerimento di Rubens, è acquistata dal Duca di Mantova, attraverso il suo ambasciatore a Roma, Giovanni Magni (cfr. MARINO 1987, p. 494).

132 “E doppo il Christo Deposto nella Chiesa Nova, li quadri di San Luigi, la Morte della Madonna nella Scala, che l'ha adesso il Serenissimo di Mantova, fatta levar di detta chiesa da quei padri perché in persona della Madonna havea ritratto una cortigiana la Madonna di Loreto in S. Agostino, quella dell'altar de' Palafrenieri in San Pietro, molti quadri che possiede l'illustrissimo” (cfr. MANCINI 1956, p, 224). E ancora, in riferimento alla pratica diffusa di usare le cortigiane come modelle per le Madonne, scrive: “alcuni di moderni...per descrivere una Vergine o Nostra Donna vanno retraendo qualche meretrice sozza degli ortacci, come Michelangelo de Caravaggio e fece nel Transito della Scala, che per tal rispetto quei buoni padri non la volsero...” (ibidem, n. 26). Si noti gli Ortacci corrispondono ad un'area nei pressi dell'allora Palazzo Dezza, poi Borghese, in cui le meretrici di Roma erano confinate, almeno fino all'ottenimento lo status di “cortigiana” e che comporta un miglioramento delle condizioni di vita, alloggio e lavoro.

133 BAGLIONE 1642, p. 138.

134 PAPA 2002, p. 130.

135 Ranuccio Tomassoni (1580-1606), definito dal Baglione un “giovane di molto garbo” (cfr. BAGLIONE. p. 138) è, in realtà, un uomo di malaffare, nonché un prosseneta. Gestisce il giro di prostituzione di famiglia e tra le cortigiane risulta la Fillide Melandroni che il Caravaggio ritrae in diversi suoi dipinti. Il 28 maggio 1606, in occasione di una partita di pallacorda, tenutasi in Campo Marzio, a causa di una discussione per un punto di gioco, Ranuccio ferisce il Pittore il quale reagisce colpendolo, a sua volta, a morte. “Praticavano spesso – scrive il Baglione – in sua compagnia huomini anch'essi per natura brigosi: & ultimamente affrontatosi con Ranuccio Tomassoni (…), per certa differenza di giuoco di palla a corda, sfidaronsi, e venuti all'armi, caduto a terra Ranuccio, Michelagnolo gli ritò d'una punta, e nel pesce della coscia feritolo il diede a morte” (cfr. BAGLIONE 1642, p. 138). La vicenda rappresenta l'ennesimo episodio, finito in fatalità, di un insieme di questioni, anche di natura economica, che ci sono state tra i due. Rodolfo Papa riferisce anche di debiti di gioco non pagati dall'Artista e non esclude tensioni di carattere politico, in quanto, la famiglia Tomassoni è notoriamente filo-spagnola, mentre il Merisi è protetto dall'ambasciatore francese (PAPA 2002, pp. 127-128). Il Lombardo è condannato subitamente alla decapitazione, chiunque lo avesse riconosciuto per strada avrebbe potuto eseguirla, pertanto è costretto alla fuga. A partire da questa vicenda nei suoi dipinti compaiono ossessivamente composizioni di teste mozzate con il suo macabro autoritratto, come a voler espiare un fatto di cui si sente colpevole (ivi, p. 130). Recentemente Strinati è intervenuto sulla questione di “Caravaggio, uccisore di Ranuccio Tomassoni in una lite”, in un'intervista al Corriere della Sera, ha dichiarato che il Pittore “era un figlio del suo tempo. Roma era una città di grandissima conflittualità. In quella circostanza, Caravaggio agì secondo una frequentatissima logica di comportamento e, esaminando il caso, c'è anche da propendere per la legittima difesa. Essendo il più grande dei pittori, sembra che anche quell'episodio lo sia, ma non è così” (cfr. CONTE 2022).

136 È inoltre prevista una sanzione per i rettori ecclesiastici qualora permettano che nella loro chiesa sia raffigurata o collocata un'immagine insolita o contraria alle disposizioni tridentine(cfr. Carlo 2000, p. 71 (Cap. XVII, Le sacre immagini o le pitture),

137 CESARINI 2011, p. 205.

138 Anche oggi, nella società dell'informazione, a fronte di eventi di cronaca, non abbiamo l'arroganza di presumere di conoscere la verità. Spesso le vicende si dipanano a distanza di tempo, e talvolta neanche dopo molto tempo si riesce a conoscere il perché dei fatti.

139 PUGLISI 1998, passim.

140 E come richiesto dal Concilio la scene Sacre devono ricreare situazioni il più possibile vicino a quanto raccontato/avvenuto, quindi essere verosimiglianti per non indurre in confusione gli spettatori più “semplici”.

141 CALVESI 1990, pp. 147-152.

142 I due vegliardi a sx, con le braccia conserte, e al centro, con le mani alzate, sono interpretabili come Paolo che, com'è noto, non era uno dei dodici, ma secondo le fonti apocrife era anche lui presente al transito di Maria.

143 Alcuni Vangeli Apocrifi riportano che al momento della morte Maria aveva circa 70 anni e muore tra il dolore degli Apostoli con cui è vissuta dopo la morte del Figlio.

144 Sappiamo che il Merisi ha accesso alla Sistina ed utilizza i nudi michelangioleschi come modelli per alcune sue opere (cfr. Enigma Caravaggio, Convegno 2021, I sessione antimeridiana, intervento di S. Danesi-Squarzina, “Religione, storia, autobiografia in alcune opere di Caravaggio”), pertanto nel concepire una madre-giovane è verosimile che possa essersi ispirato all'Aretino e alla Pietà vaticana, e non può essere riconducibile ad un'anomalia teologica significativa.

145 HINKS 1953, p. 4.

146 CALVESI 1986 Caravaggio, p. 48; CALVESI 1990, pp. 279-310.

147 ROBB 1988, p. 310. L'Autore è uno scrittore di romanzi, e non certo uno storico, a dispetto di ciò l'informazione si diffonde anche negli ambienti di espertti e storici dell'arte, per cui ho ritenuto di dover riportare l'origine della notizia assolutamente infondata.

148 ASKEW 1990, pp. 8-16.

149 “In nessun modo mai siano ritratti con faccie de particolari e di persone mondane e dagli altri conosciute; perché, oltre l'essere cosa vana et indignissima, verrebbe a rassomigliare un re posto nel trono della sua maestà con la maschera al viso d'un cerettano o d'altra persona ignobile e conosciuta dal volgo per pravatissima, tal che chi la riguardasse, sùbito si movesse a riso oltre molt'altre inconvenienze” (PALEOTTI 1582, p. 157).

150 BORROMEO 1577, p. 168.

151 “Non dovriano porsi in ritratto se non le persone le quali o con bontà morale o con santità cristiana potessero essere incitamento alle virtù” (cfr. PALEOTTI 1582, p. 158).

152 “E doppo il Christo Deposto nella Chiesa Nova, li quadri di San Luigi, la Morte della Madonna nella Scala, che l'ha adesso il Serenissimo di Mantova, fatta levar di detta chiesa da quei padri perché in persona della Madonna havea ritratto una cortigiana” (cfr. MANCINI 1956, p. 224).

153 Roberto 2006, p. 62.

154 MACCHERINI 1997.

155 Per dovere di cronaca si riporta anche l'ipotesi che la modella della Vergine possa essere stata Anna Bianchini, detta Annuccia, sostenuta da Giuseppe Nifosì (cfr. NIFOSI' 2014, p. 276) e da Gianfranco Sassu (SASSU 2023), Non risulta, però, che la donna abbia mai fatto il salto da “meretrice degli Ortacci” a “Cortigiana”, e dunque è poco probabile che il documento possa riferirsi alla Bianchini. Per Sassu, che non è uno studioso, ma un romanziere, si tratterebbe di Annuccia, prostituta trovata morta nel fiume Tevere, annegata o, forse più probabilmente, uccisa. Il ventre rigonfio rivelerebbe una gravidanza in corso, la qual cosa sarebbe stata una sicura diminuzione dei guadagni per un protettore, 'non vi c'era niente di trascendentale – scrive Sassu - nella sua Morte, ma qualcosa di estremamente terreno. Un corpo abbandonato su una branda, qualcuno intorno in lacrime, una stanza spoglia. Quella era l'immagine della morte in tutti i vicoli dimenticati di ogni città del mondo, altro che putti alati e occhi rivolti verso il cielo [...]' e più avanti: 'Anna Bianchini sarebbe tornata per sempre a Santa Maria della Scala, ma non come prostituta da redimere, ma addirittura come la Vergine Maria, davanti alla quale tutti si sarebbero inginocchiati in adorazione' (cfr. SASSU 2023, p. 145).

156 PAPA 2005, p. 46.

157 Mostra il braccio sinistra su un cuscino verso lo spettatore, mentre il destro è ripiegato simbolicamente sul ventre gonfio, allusione al perenne ruolo di madre di colui che ha salvato il mondo.

158 Sebbene Dogma dell'Ascensione è ufficialmente decretato solo nel 1950 da papa Pio XII, esiste una tradizione molto ricca e molto antica sulla morte di Maria, che affonda le sue radici sia nei racconti apocrifi sia nelle riflessioni spirituali e teologiche della patristica e della scolastica, sia nella devozione popolare e nella la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine, per cui il corpo di Maria va preservato dalla corruzione della morte perché è il corpo della madre di Dio.

159 Alla maternità allude evidentemente il ventre gravido nonché l'elegante gesto della mano destra a protezione dello stesso (cfr. PAPA 2005, p. 46).

160 LONGHI 2006, pp. 61-62.


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