Il filosofo francese, noto per i suoi studi sulle comunicazioni di massa e sul consumismo, presenta al Palazzo delle Esposizioni di Roma una collezione di fotografie realizzate negli ultimi due anni. Si tratta di "fotografie filosofiche", ovvero di dimostrazioni scientifiche sulle modalità di relazione tra soggetto (chi fotografa) e oggetto (l'oggetto fotografato), che intende essere paradigmatica dell'intero modo di percepire il reale dell'uomo contemporaneo.
Le foto non hanno alcun valore estetico perché secondo Baudrillard oggi non è più possibile avere un'esperienza di tale tipo perché non avrebbe pù senso dopo la rivoluzione attuata da Duchamp (che decontestualizzando un oggetto comune azzera qualsiasi differenza tra arte e vita) e, in secondo luogo, dopo la predominanza dei mass media, soprattutto della pubblicità, nella produzione di immagini. Del visuale noi abbiamo solo l'esperienza della seduzione, ovvero della capacità degli oggetti rappresentati a diventare simbolo, segno. L'uomo contemporaneo, infatti, non esperisce gli oggetti nella loro concretezza, ma nel loro valore segnico, simbolico, di rimando a una realtà "altra".
Le fotografie del filosofo francese sono allora una sperimentazione (e non un'esperienza, visto che non si conoscono ancora i risultati di tale azione) al fine di riscattare gli oggetti dalla sparizione della realtà: « L'intensità dell'immagine é la misura della negazione della realtà, e dell'invenzione di un'altra scena. Trasformare un oggetto in immagine vuol dire sottrarre, una ad una, tutte le sue dimensioni: il peso, il rilievo, il profumo, la profondità, il tempo, la continuità, il senso. A prezzo di questa spoliazione, l'immagine acquista una tale potenza di fascinazione da diventare medium della pura obiettività, da cui traspare una forma di seduzione più sottile ».
Secondo il filosofo francese, « evitando la trasfigurazione estetica » si può sperare in un recupero di un rapporto di complicità con l'oggetto. Tale rapporto prevede la sperimentazione della sparizione del reale dietro la rappresentazione. Dietro questo concetto si nasconde « l'idea platonica dell'immagine che è il frutto dell'incontro delle due luci, la luce dell'oggetto e la luce dello sguardo (Prof. Giuliano Compagno) ».
« Nell'atto fotografico noi non vediamo niente, in realtà, o meglio, è l'obiettivo nascosto che vede ciò che si fotografa ma in realtà ciò che rimane è l'oggetto che resta impresso quando voi vi siete allontanati non ci siete più. L'oggetto è quindi scomparso è come se ci fosse una morte simbolica dell'oggetto ma ciò di cui non si parla mai è la scomparsa del soggetto. Il soggetto scompare ogni volta che scatta una foto, che spinge il pulsante fotografico, è come se facesse scomparire l'oggetto e scomparisse con l'oggetto. E' una scomparsa di entrambi i termini. C'è una sorta di complicità sospetta. Questa interattività con l'immagine è piuttosto pericolosa perché c'è il fotografo che vuole fotografare e c'è la persona che sa di essere fotografata e vuole farsi fotografare. Tutti sorridono di fronte alla fotografia ma l'oggetto rifugge da questa logica e non sorride. è per questo che io adoro gli oggetti. »
Parlare di fotografia, quindi, è solo un modo di trattare tutto il problema della realtà e dell'immagine. « Questo è un problema vecchio quanto il mondo. Il rapporto con l'immagine sappiamo essere sempre stato polemico perché ha in qualche maniera a che vedere con la teologia. Si pone, infatti, il problema del rapporto dell'immagine con dio e con la trascendenza. Dobbiamo veramente rappresentare dio? Questo è stato un problema del quale si sono occupate moltissime culture. C'è stata poi la divisione tra iconoclasti e iconolatri. Il problema è stato sempre quello di rappresentare la realtà trascendente e lo stesso avviene anche oggi. La nostra realtà è una realtà materialistica, tecnica, mediatica. Gli iconoclasti si sono sempre posti il problema se fosse giusto rappresentare dio perché secondo loro dietro la rappresentazione dell'immagine di dio scompare qualcosa e cosa scompare? Dio stesso. E dio prende quest'occasione per scomparire dietro quest'immagine e oggi stiamo affrontando lo stesso problema. »
« L'immagine diventa un mezzo tra l'oggetto e la sua rappresentazione. Curiosamente però accade che proprio nella nostra età, che è l'età dei media, l'immagine non può più essere un mezzo. Per esempio la televisione non può più essere considerata solo un mezzo o semplicemente un messaggio perché la televisione diventa un messaggio di se stessa, si autorappresenta, quindi.
Si entra dunque in un circolo vizioso dove il mondo non rappresenta più niente. »
La posizione del filosofo tende, in ultima analisi, a fornire gli strumenti per entrare in rapporto con la realtà secondo modalità nuove e sconosciute (« non conosciamo ancora le regole del gioco »), purché si « resista alla vertigine del visuale, del troppo visibile... Bisogna fermarsi sull'immagine, apprezzarne il tempo, il silenzio, lo sguardo, che purtroppo mancano alle immagini virtuali e industriali. Trovare l'immagine per me quindi significa conservare la forma reale dell'immagine e non farsi sopraffare dallo sviluppo continuo e ininterrotto della visualità. Passare all'atto fotografico, quindi, come avrete visto nelle mie foto, non significa rappresentare visi, storie ma per trovare la reale qualità dell'immagine, secondo me, bisogna cercarla soltanto nell'oggetto. È nell'oggetto che sono riuscito a trovare la singolarità, nella scena dell'oggetto e purtroppo non sono riuscito a trovarla a livello di visi, di rappresentazioni umane, di paesaggi, di storia e il mio scopo è quello di andare contro la profusione direi mortuaria dell'immagine televisiva e non solo, di tutte le immagini. »
I testi citati tra virgolette sono tratti dal convegno Realtà e Tele-visioni, tenutosi al Palazzo delle Esposizioni in Roma il 29 mar 1999.
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