« ... Mio padre non mi comprava i colori per dipingere, così ho imparato a usare le terre e a mischiarle per ottenerne dei colori. La tecnica che ho usato è mista».
Il colore dominante in quelle tele esposte a circondare lo spazio offerto dai muri bianchi e puri del Lavatoio Contumaciale, si perdeva ai miei occhi nelle tonalità del rosso caldo e accogliente, del giallo luminoso e accecante, del marrone a ridestare l'immobilità della terra così antica nella sua origine.
Rupestri gli occhi dei bovi rappresentati, dai contorni netti e neri, calcati a indagare nel vuoto della gialla carta. Un'affermazione del sé, nera. Tutto intorno si rompe il colore in tracce, residui sovrapposti gli uni agli altri, in un'immobilità perenne. Al pari di graffiti, rilasciati con gesto sicuro e netto pure nel bianco candido e immacolato che esplode dal pennello in sprazzi di luce, come stelle luminose distintesi dal cielo e scese alla terra a meravigliarla.
Ecco il Giovenale pittore, non l'altro, romano, il poeta. La sua opera, ci ha richiamati intorno ad ammirarla ponendoci domande esistenziali, arcaiche. La rudezza dell'io si dipana lungo sentieri a lungo inesplorati, nudi, freddi perché incontaminati. L'io ripiega sul suo più arcano sé per rintracciare volti bestiali, dagli occhi di lupo, di volatili seducenti dal becco però assai pungente. La terrena esistenza rude e gelida, accoglie come fonte di ritrovamento di un sé perdutosi al vivere l'oggi. La donna, Simona Sandric Gotovac, di verde velluto abbigliata con eleganza e cura, con un colletto ugualmente verde diretto verso l'alto ad accogliere un collo roseo e fiero come un fiore spuntato su uno stelo, era croata. Ci ha accolti con un sorriso e un'affettazione tutt'altro che ingannevoli ma generosi e attenti.
Lei era la moglie del defunto poeta croato Vlado Gotovac dall'esistenza travagliata e avventurosa a leggerla con gli occhi di oggi, giovani e inesperti della vita al cospetto di uomini dal passato così gravoso di politica responsabilità e fede in una lotta mai sentita vana nonostante la privazione della libertà inflitta con la reclusione. Un viaggio, il mio, in un animo ardimentoso, fertile di coraggio e caparbia, spesi tutti in egual misura, pur di sopravvivere ad una sfida. Sopravvivere, sopravvivere, è la crudele lotta di chi è condannato a sentire in maniera più forte e in egual misura a non tollerare lo scempio inferto alle società da coloro che ne detengono il potere. Forse da qui nasce l'esigenza del nero, quell'affermare il proprio sé attraverso un colore così forte che li annulla tutti. Annerire brutalmente l'altro che impedisce qualcosa, l'altro che: « ... Mio padre non mi comprava i colori ma lo devo a lui se oggi posso mostrare le mie opere ...».
Il carnefice permette l'affermarsi dell'eroe, del poeta, di quella singolarità che si fa largo per contrastare la negazione. L'uno, il pittore, combatteva contro il non essere visto, l'altro, contro il non essere ascoltato. Gli eroi, come nascono ? L'eroe si ritrova a ringraziare la negazione, che lo ha formato, lo ha dotato di uno strumento che voleva togliergli, ma non riuscendoci lo ha reso ancora più forte e pernicioso. La lotta conduce all'espressione del sé, lo scavare, il prendere le terre fra le mani, immergendosene fino al collo per creare un arcobaleno di colori diversamente irraggiungibile.
Il gridare a viva voce le proprie parole altrimenti inascoltate su fragili fogli di carta igienica, pur di comunicare un volere insoffocabile, pena la morte dell'anima. Quando si è legati in modo così viscerale alla propria patria da rischiare tutto, pur di gridarla dal profondo di un sentire che si fa totale, poiché destinato ad un dolore universale: non essere rispettati. La parola del dolore di chi ha perso la vita nella lotta, non diviene mai vana, resta nella voce di una moglie che grida anche lei perché tanto coraggio non vada perduto, resta nel colore impresso per sempre da un animo parimenti sofferente, resta a imbrigliare di nuove domande noi spettatori resi partecipi al viaggio nel suo Lavatoio Contumaciale da un'accanita e fervida combattente: Bianca Menna in arte Tomaso Binga.
La poetessa sonora, la donna che negli anni settanta adottò uno pseudonimo maschile perché così potesse essere udita in un ambito culturale fortemente maschilista e perciò lesivo di quei diritti dell'arte al femminile che pure meritavano plauso. Lo pseudonimo maschile l'ha dotata di un'energia poetica e creativa tale, da ricondurla al suo femminile più puro, in uno "sposalizio" con se stessa avvenuto per mezzo dell'arte. Il suo slegare parole infinite, accostandole a immagini del reale e quotidiano vivere. Dal tassì le nasce la suggestione giusta per riandare alle sue origini e rivelare la sua vita ripercorrendone le tappe salienti a suon di radiotaxi ! Un sentire fortemente libero e diapasonico, in un ascendere di suoni personalissimi che risvegliano però la forza insita nella parola, le donano vigore e slancio affinché non si riduca soltanto ad uno sterile fatto che ad essa inevitabile accompagniamo con la memoria ma abbia una valenza sua propria, regale. Così lei appare minuta nel riccio dorato dei capelli, liscia e levigata nella pelle come di ragazza, pura e bianca, per l'appunto. Così Bianca ci accoglie col suo candore nei posti meravigliosi dell'arte, ci prende per mano accompagnandoci per sentieri colorati e metafisici, si fa veicolo di sensazioni sopite che riaffiorano non appena ci si trova sedotti dall'opera d'arte. E' il bianco a dominare sovrano nello spazio della Bianca ed è il bianco a contenere tutti i colori, senza rifiutarne nemmeno uno. Quello spazio attrae poeti d'ogni sorta, sonori, lineari e dall'incontro si scatena la sinergia che si fa creazione ormai da oltre trent'anni.
LA MOSTRA
Relazioni analogiche
per Vlado Gotovac
Mostra personale di Giovenale
A cura di Massimo Bignardi, Antonio Petrilli, Simona Sandric Gotovac.
Letture poetiche dai testi di Vlado Gotovac, Tomaso Binga, Carlo Parente.
Alla presenza dell'ambasciatore croato Tomislav Vidosevic.
Il 15 novembre 2007.
Presso il Lavatoio Contumaciale in Piazza Perin del Vaga, Roma.
GIOVENALE
Giovenale Tresca vive e lavora come medico chirurgo a Benevento.
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