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La Calunnia di Botticelli. Cenni sulla genesi, sugli espedienti retorici e sulle finalità dell'opera  
Giulia Martina Weston
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 30 Novembre 2009, n. 544
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I. La Calunnia di Apelle. Breve ricognizione delle fonti testuali ed iconografiche

Le Vite di Giorgio Vasari, contraddistinte da arguzia narrativa e precisione nei rimandi biografici ed artistici, non mancano di segnalare, in merito alla produzione botticelliana, “una tavola dentrovi la Calumnia di Apelle, dove Sandro divinamente imitò il capriccio di quello antico pittore, e la donò ad Antonio Segni suo amicissimo” (Vasari, 1986, I, 478-9). Questi, appartenente alla prestigiosa famiglia dei Segna Guidi, non è mai citato dalle fonti come committente: è dunque ipotizzabile che sia entrato in possesso dell'opera proprio in virtù dell'amicizia con il pittore, o, più verosimilmente, perché il dipinto, la cui datazione in sede critica oscilla tra il 1493 ed il 1500, non sembrava più pertinente al suo primo destinatario, da identificare, forse, con Piero de' Medici [1] .

Il soggetto rimanda all'ekphrasis di Luciano di Samosata contenuta nel De Calumnia (II sec. d.C.) che, integralmente riportata da Leon Battista Alberti nel terzo libro del trattato De Pictura (1435), si pone quale riferimento imprescindibile per i numerosi tentativi di trasposizione pittorica e quale affidabile chiave di lettura per la versione botticelliana.

Il trattato lucianeo, apparentemente dimenticato in Occidente durante il Medioevo, sopravvive nell'Oriente bizantino ove conosce un'ampia diffusione nelle scuole in quanto valido esempio di ekphrasis. Non è un caso, quindi, che Guarino da Verona intraprenda la traduzione di questo testo (tra il 1403 ed il 1408) proprio a Costantinopoli, sede d'elezione per l'apprendimento del greco. In una lettera indirizzata al patrizio veneto Giovanni Querini, destinatario della traduzione del De Calumnia, Guarino definisce quella lucianea una “elegante operetta”: il recupero avvenuto nel XV sec. si deve quindi alle qualità stilistiche, retoriche e lessicali dell'ekphrasis.

Inizialmente circoscritto ad un'élite di umanisti ed intellettuali, il tema conosce una notevole diffusione solo grazie alla puntuale ripresa contenuta nel trattato albertiano.

Il motivo della Calunnia di Apelle, sviluppato in molte varianti testuali ed iconografiche, assume particolare rilevanza nella produzione figurativa italiana a partire dal 1472, anno della sua prima rappresentazione miniata per mano dello stesso traduttore Bartolomeo Fonzio. Questa prima versione in italiano, dedicata ad Ercole I d'Este, è introdotta da una miniatura che elude in parte le indicazioni ecfrastiche di Luciano. L'autore del II sec. d. C., riproponendo un esercizio di stile tipico della Seconda Sofistica, consentiva all'ascoltatore di riconvertire in linguaggio visivo la descrizione del dipinto, impostando il ritmo da sinistra a destra e tripartendo con accorta precisione i gruppi di Allegorie. Fonzio, per contro, prende le distanze dal prototipo lucianeo mediante piccole ma rilevanti variazioni concernenti sia il ritmo della composizione che gli attributi delle figure.

La trasposizione iconografica botticelliana è decisamente più filologica ed il richiamo a Luciano è ribadito sottilmente dal fregio che ospita la Famiglia dei Centauri (alla base del piedistallo del giudice), soggetto analogamente desunto e riconvertito in immagine dall'opera lucianea Non bisogna prestar fede alla Calunnia.

Nel corso del secolo successivo la fortuna critica del soggetto conosce un momento di particolare splendore, e se l'approccio di Andrea Mantegna (attorno al 1504-1506) è di natura archeologica, quello di Baldassarre Peruzzi (1516-1518) risulta decisamente monumentale e fieramente memore del linguaggio “proto-archeologico” dell'ultimo Raffaello. La disposizione delle figure avvicina questa scena di giudizio ad un consesso di Muse o di ninfe di ascendenza pagana, avvolte da panneggi che richiamano l'Antico con la stessa enfasi delle strutture architettoniche di sapore classicheggiante [2] .

Nel Nord Europa la tradizione prende avvio dal disegno di Albrecht Dürer del 1522 e si caratterizza per un approccio intellettuale ed erudito che affonda le proprie radici nel metodo di analisi filologica inaugurato da Erasmo da Rotterdam, laddove in Italia il periodo più squisitamente critico sembra chiudersi con la versione di Federico Zuccari del 1572.

La frammentaria situazione politica della Penisola, caratterizzata dalla presenza di ducati e signorie, incentiva la diffusione di questo tema, riletto ad hoc come allegoria morale e didattica e come monito ai governanti di non prestar fede alle false accuse. Per questo motivo la figura in trono (Tolomeo nell'ecfrasi) diviene paradigmatica del “cattivo giudice”, passaggio facilitato peraltro dalle orecchie d'asino che contraddistinguono anche re Mida, il giudice corrotto nella contesa Apollo-Marsia, nonché figura antitetica rispetto all'integerrimo Salomone. La Calunnia diviene quindi una scena di giudizio e non è un caso che in un fregio dello sfondo botticelliano compaia la scena della Giustizia di Traiano.

Nel corso dei due secoli successivi questa tematica verrà progressivamente abbandonata poiché la suggestione esercitata dal retaggio culturale antico, enfatizzata dalle sensazionali scoperte di Ercolano e Pompei, non sarà più di tipo simbolico o allegorico, ma piuttosto storica e antiquaria. Nelle conclusioni al proprio monumentale studio sulla diffusione dell'iconografia della Calunnia in Europa, Jean-Michel Massing si professa pienamente concorde con la proposta di Chastel di individuare quale ulteriore motivo di abbandono del tema ecfrastico la sua incompatibilità con il carattere “originale” dell'“idea”. Stupisce allora che l'ultima riproduzione grafica risalga al 1875, anno in cui Edward Burne-Jones, esponente di spicco del movimento preraffaellita inglese, esegue una copia del Gruppo del giudizio all'epoca attribuito a Mantegna.

II. La versione di Botticelli. Lo sviluppo del dibattito critico attorno allo stile del Maestro

Un primo approccio visivo alla tavola botticelliana custodita agli Uffizi consente di riconoscerne la "maniera", erede dell'“arte ornata” del maestro Filippo Lippi che Cristoforo Landino menzionava in opposizione al “puro sanza ornato” masaccesco, che è stata oggetto di riflessione sin dagli esordi della moderna critica artistica [3] . Nel 1873 Walter Pater, esponente del clima estetizzante e preraffaellita di fine secolo, pone in rilievo il “particolare sentimento” che l'artista “infuse nei suoi personaggi sacri e profani, leggiadri e, in un certo senso, simili ad angeli, ma soffusi d'un senso di smarrimento o di perdita: lo struggimento di esuli […] che pervade d'un senso di ineffabile malinconia tutta la varia opera di Botticelli”. Ad un decennio di distanza, Heindrich Wölfflin individua nell'indole dell'artista una chiave di lettura per il suo stile “struggente”: il pittore viene definito “tormentato, ardente, ma sempre intimamente eccitato”, giudizio che rimanda al vivido ritratto contenuto nelle Vite di Vasari, ove Sandro si distingue per un'inquietudine tale da rendere “il padre infastidito di questo cervello sì stravagante” (Vasari, 1986, I, 473). Agli inizi del Novecento, Crowe e Cavalcaselle ne ammirano la nitidezza del disegno e l'esattezza da orafo nell'esecuzione, mentre Berenson mette in risalto la “musicalità lineare” e la straordinaria capacità di tradurre “valori plastici” in “valori di movimento”.

La critica successiva tenderà a svincolare la personalità colta e raffinata di Botticelli dall'atmosfera languida e malinconica che pervade le sue creazioni. Nel suo saggio concernente lo stile botticelliano, Arasse si serve della Calunnia per dimostrare come la chiarezza narrativa dell'historia possa coniugarsi armoniosamente con la rappresentazione del movimento e con l'espressione delle emozioni delle figure. In quest'opera tarda, un'accresciuta austerità nella composizione non deve però indurre ad affermazioni eccessive come quelle di Chastel, per il quale “dopo il 1495, le azioni violente di Savonarola, il rogo delle vanità e le conversioni frenetiche sono state per Botticelli solo l'occasione di piccoli dipinti allegorici”. Il rifiuto di elementi “moderni”, indubbiamente più accentuato in questa fase, costituisce tuttavia una costante nella sua produzione, così come le scelte artistiche fondamentali precedono l'arrivo in città del Frate.

Fedele alla tecnica a tempera, appresa nella bottega di Filippo Lippi negli anni Settanta, Sandro non si interessa alla procedura ad olio, sperimentata a Firenze nell'ultimo ventennio del secolo e rimane sostanzialmente indifferente anche agli studi sull'anatomia intrapresi da alcuni suoi contemporanei tra i quali il Pollaiolo. Osservando il braccio alzato della Verità, e soprattutto l'attaccatura arbitraria di questo al busto della figura, si evince una predilezione particolare per il ritmo creato dalla linea, ritmo al quale viene accordata un'indiscussa preferenza rispetto alla resa naturalistica delle proporzioni. I corpi, di conseguenza, si presentano all'occhio più come eleganti silhouettes che non come immagini tridimensionali morbidamente tornite ed il movimento che li anima non è generato dalla coerenza interna della struttura anatomica, ma dalla dinamica delle curve e degli arabeschi disegnati dai panneggi e dalle chiome fluenti.

Prestando attenzione alla resa della grande loggia definita da arcate di elaborata architettura, è possibile rilevare la discrasia tra le indicazioni teoriche fornite da Leon Battista Alberti nel De Pictura e la costruzione adottata da Botticelli nei propri dipinti. Laddove il primo, infatti, individua nella prospettiva lo strumento irrinunciabile per conferire unitarietà allo spazio dell'istoria, il secondo riesce invece ad ottenere una straordinaria chiarezza narrativa mediante la successione articolata dei luoghi (o successione di arcate, in questo caso). Il campo d'azione delle figure si limita quindi al primo piano della rappresentazione, mentre alle loro spalle la profondità fittizia si sviluppa come un fondale, le cui linee verticali e oblique scandiscono la superficie e vi distribuiscono i gruppi di personaggi disposti come in un fregio.

Herbert Horne rimarca la propensione di Botticelli a rendere progressivamente le figure più vivaci nel movimento ed espressive negli atti, portata al massimo grado nell'opera qui analizzata, ed evidenzia il climax di azione e moto, che si fanno “agitati, quasi febbrili”. La ricerca incessante di nuove forme di espressione trapela da ogni dettaglio, come “il disegno nervoso e spezzato delle figure, specialmente alle giunture e alle estremità; e gli strani contrasti di umore e colore […]”. La dinamicità dei personaggi, esito estremo di quel “furor malinconicus” che aveva informato di sé le creazioni artistiche degli esordi, determina una ricezione non unitaria delle figure e delle passioni che le animano, in netto contrasto con il carattere generalizzato proprio di un'allegoria. E' infine degno di menzione lo scarto evidente tra l'assembramento disordinato che affolla l'aula e la serena calma del cielo nitido e delle acque tranquille appena percepibili all'orizzonte, “tra burrascose passioni che scuotono gli attori di questa scena, e la chiara solarità che la pervade”. Gli effetti generati da tale dissidio sono “talmente inquietanti ed imperscrutabili, da divenire parte integrante del concetto di allegoria proprio del pittore, come se egli avesse voluto rappresentare per simboli qualcosa delle contraddizioni di questo intelligibile mondo” (Horne, 1986, 365).

Il carattere espressivo dei corpi non trae vigore dalla monumentalità, legata ad esempio alla costruzione prospettica da sotto in su, ma si fonda sul potere della linea, in una ricerca spesso antinaturalistica, ma soprattutto antileonardiana. Effettuato un confronto tra i due allievi del Verrocchio, Argan (1968, 245) sottolinea come la comune aspirazione alla trascendenza, in un clima ormai immemore delle certezze assolute pierfrancescane, non basti a celare le profonde divergenze metodologiche nell'approccio alla realtà. Leonardo vuole analizzarla, interrogarla mediante l'esperienza per conoscerne le leggi ed i segreti; Botticelli vuole trascenderla, oltrepassarla mediante l'arte stessa per elevarsi alla purezza dell'idea.

La sua predilezione per la linea, strettamente connessa all'aspetto ideale della poetica, è in disaccordo tanto con le convinzioni di Leonardo, per il quale la linea di contorno deve essere invisibile come in natura, quanto con le asserzioni contenute nel trattato di Alberti. Questi insiste sul fatto che la linea attorno alle figure, fondamentale nella loro definizione, deve risultare invisibile nell'opera compiuta, onde evitare che si produca una sorta di “fessura” sulla superficie della rappresentazione, che ne comprometterebbe il potere di creare un'illusione. Botticelli, per contro, mette in evidenza tanto le linee del contorno esterno quanto quelle interne di definizione anatomica, evidenziate ed esaltate dai riflessi metallici prodotti dalla luce. “E' il dispiegarsi di questa linea attraverso la superficie”, spiega Arasse, “una linea che circola, viene ripresa e modulata da una figura all'altra, ad assicurare la coordinazione ritmica degli elementi della rappresentazione, dove i panneggi e le capigliature in movimento giocano un ruolo decisivo di connessione dinamica” (Arasse, 2004, 20).

Sandro non dissimula mai la propria arte in quanto tale, non nasconde che si tratta di un artificio tramite l'illusione generata dall'imitazione della natura; e se Ruskin definiva “manierato” il suo modus pingendi, la Calunnia testimonia allora la rilevanza di questa “maniera ornamentale”, che si fonda sulla pennellata che “orna il mondo” e consente alla natura di accedere al mondo della cultura.

III. La ninfa botticelliana. Suggestioni neoplatoniche e punti di tangenza con l'Hypnerotomachia Poliphili

Prima di procedere all'interpretazione iconografica del tema della ninfa che ricorre per ben tre volte nel fondale della Calunnia, occorre accennare allo stretto legame di Botticelli con il clima culturale e filosofico della Firenze di fine secolo, animato dalla spiritualità neoplatonica di Marsilio Ficino e dal fervore mistico e “misterico” di Pico della Mirandola.

L'influenza neoplatonica, che già aveva informato di sé i programmi iconografici della Primavera e della Nascita di Venere, si lega in quest'opera soprattutto alla figura di Arianna e al gesto compiuto dalla Verità. Sulla scorta degli studi condotti da Mosè Viero (2005) si scorge la reiterazione della figura di Arianna su due fregi distinti, collocati l'uno su un architrave, l'altro alla base del trono. La posa dell'abbandono che caratterizza la figlia di Minosse è assunta anche da Ifigenia, raffigurata al cospetto di Cimone su un altro architrave più a destra. Entrambe le donne sono portatrici della lezione ficiniana dell'Amore come via alogica verso la dimensione del divino: Arianna, abbandonata dall'amore terreno di Teseo e riscattata da quello divino di Dioniso, vive in prima persona la crescita spirituale; Ifigenia, che nella novella boccaccesca trasforma il rozzo Cimone in un virtuoso gentiluomo, di questa crescita è causa, motore è l'amore.

Il tema della ninfa dormiente, che viene risvegliata dal piacere, ha una forte valenza allegorico-filosofica, in evidente consonanza con la ricercata armonia della coincidentia oppositorum, cara al neoplatonismo fiorentino ed in particolare in riferimento al connubio tra Virtus e Voluptas, a Virtù riconciliata con Passione. L'Eros platonico è una forza che, mediante la contemplazione della bellezza, eleva l'uomo verso l'Assoluto, restituendo all'anima le ali per ritornare alla sua patria celeste. Nelle opere ficiniane Della cristiana religione e Theologia platonica, l'"amor platonico" (o "amor socratico") coincide con l'amor cristiano, che porta l'uomo empirico a reintegrarsi con la propria metaempirica Idea di Dio, attraverso la progressiva ascesa nella scala dell'amore. Marsilio sostiene che è possibile risalire a Dio attraverso una duplice via, quella dell'amore e quella della conoscenza, intesa come visione globale che muova dalla dottrina cristiana ma sappia comporsi con l'insegnamento degli antichi. "Il nodo di congiunzione" è rappresentato dall'Anima, che ha in sé le caratteristiche del mondo superiore, ma al contempo è capace di vivificare quello inferiore. L'Anima partecipa del finito e dell'infinito, del contingente e dell'eterno, costituisce il legame tra l'Uno e la continua generazione delle cose molteplici. Nell'ottica ficiniana l'Anima è il centro della natura, l'intermediaria del creato, il volto del tutto: la copula mundi. Nella Calunnia la scena allegorica si snoda in un succedersi concitato di vari gruppi di personaggi fino alla riposante figura della nuda Veritas, la donna statuaria che indica il cielo come il luogo della Verità, personificando quindi al tempo stesso l'Anima, principio che anela a realizzare in Terra l'ordine eternamente pensato da Dio.

Un'ultima tematica neoplatonica è quella della luce: Dio è definito da Marsilio “padre della luce” dal quale discendono la luminosità degli angeli, il risplendere dei cieli e degli astri e la limpida “scintilla” dell'intelletto umano. La luce è emanazione dell'“universale amore” che congiunge il Creatore alla creatura: per questo “luminosità” e “splendore” sono le fonti di quel sentimento di amore provato dall'anima di fronte alla bellezza del creato, che la induce a superare ogni limite terreno per riscoprire dovunque la segreta presenza del divino ed il suo manifestarsi in armonia ed ordine.

Lo stesso Dante nell'incipit del Paradiso fa ricorso alla metafora della potenza abbagliante della luce per suggerire l'ineffabile fulgore di Dio:

"La gloria di colui che tutto move
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più della sua luce prende
fu'io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là su discende" [4]

Il valore teologico della luce è ribadito, infine, dalle parole di Horne: “La pura bellezza e trasparente luminosità di pigmento di questo dipinto non sono state eguagliate nel corso di tutta l'arte fiorentina. I colori che hanno in sé la luce di una gemma, e i raggi di un vero tramonto, sembrano indugiare nell'atmosfera dorata in cui è immersa la scena” (Horne, 1986, 365).

L'influsso del pensiero di Pico della Mirandola è forse più indiretto, ma l'apporto dello studioso, che nel 1484 si reca a Firenze proprio per confrontarsi con la cerchia neoplatonica, è indispensabile per cogliere il carattere composito dell'apparato iconografico del fondale, che esibisce un articolato intreccio di motivi pagani ed episodi biblici. La Calunnia si inserisce in un contesto culturale che ormai conosce una sintesi armoniosa tra forme pagane e spirito cristiano, risultato al quale Pico contribuisce in maniera significativa. Edgar Wind, autore dei Misteri pagani nel Rinascimento, sottolinea il ruolo di Pico in rapporto alla complessità delle iconografie rinascimentali, concepite per “iniziati” e decifrabili solo tramite “il linguaggio dei misteri”. Nella scomparsa Poetica teologia, egli sosteneva che le religioni pagane si erano servite di miti e leggende solo per dissimulare le loro rivelazioni autentiche, mostrando “de' misterii … solo la corteccia … riservando le midolle del vero senso agli intelletti più elevati e più perfetti” (Wind, 1971, 21).

Adattando il medesimo criterio alle Scritture, Pico individua nel testo biblico la “corteccia” e nella Cabala, comprensibile solo per pochi eletti, “la midolle” e mette in luce la stessa dicotomia, legata alla capacità di discernimento dell'ascoltatore, anche nella parola di Cristo. Le conclusioni tratte da Wind rivelano il nucleo centrale della filosofia della tolleranza, quale apporto teorico imprescindibile dalle poesie e dalle pitture rinascimentali: “Mettendo a confronto i vari misteri, Pico scoperse che esisteva tra loro un'affinità insospettata. Nel dogma esterno, una riconciliazione fra teologie pagana, ebraica e cristiana, ciascuna ancorata a una rivelazione differente, sarebbe parsa impossibile; ma se la natura degli dèi pagani doveva essere intesa nel senso mistico dei platonici orfici e la natura della Legge mosaica nel senso nascosto della Cabala, e se inoltre la natura della Grazia cristiana doveva rivelarsi nella pienezza dei segreti che Paolo aveva comunicato a Dionigi Areopagita, allora si sarebbe scoperto che queste teologie non differivano affatto nella sostanza, ma solo nel nome.” (Wind, 1971, 23-24).

Tornando ora al tema della ninfa, possono essere poste in evidenza alcune peculiarità sull'iconografia botticelliana sulla scorta di ipotesi e teorie recentemente postulate in sede critica. Risulta illuminante e pregno di significato il saggio di Charles Dempsey (2004) per alcune considerazioni in merito alle due figure allegoriche che incarnano la Calunnia e la Verità. La prima, “acconciata e agghindata da due donne (l'Insidia e la Frode) per apparire ancora più irresistibile” (Dempsey, 2004, 34), è contraddistinta da una bellezza senza eguali e da un temperamento audace e imprevedibile che la rendono una “ninfa fiorentina” per eccellenza. Ripercorrendo i pionieristici studi di Aby Warburg risalenti agli inizi del XX secolo, Dempsey sottolinea con efficacia che “le convenzioni seguite dal Botticelli nel raffigurare la bellezza femminile […] non derivano dai modelli classici ma piuttosto dai precetti e dalle regole della poesia vernacolare, che loda i capelli biondi dell'amata, le sue sopracciglia scure perfettamente arcuate, le labbra piccole, rosse come bacche, e i seni simili a mele ben sode” (Dempsey, 2004, 32). Esiste dunque uno stretto legame tra i “costumi” indossati dalle ninfe botticelliane e quelli realmente sfoggiati dalle fanciulle nubili fiorentine in occasione di feste religiose o di cortei laici [5] : alla linea ornata e ai preziosismi virtuosi del pittore farebbero riscontro, pertanto, le descrizioni argute e non di rado maliziose dei letterati vissuti in epoca precedente, come quelle del Boccaccio del Decamerone o, meglio, del Ninfale Fiesolano.

La nuda Veritas, d'altro canto, si ricollega tipologicamente alla Venere Anadiomene nuda dipinta dal calunniato Apelle del testo lucianeo, ma presenta altrettante affinità iconografiche, prima fra tutte il gesto della mano sinistra volto a coprire le nudità, con la figura centrale della Nascita di Venere, raffigurata anch'essa come Venus pudica.

Un analogo atteggiamento pudico caratterizza le pose delle pur seducenti figure femminili dei riquadri precedentemente menzionati (Arianna nei primi due ed Ifigenia nel terzo). Le fanciulle sono raffigurate nella postura della figura recubans poiché si tratta di “risvegli amorosi” che avvengono al cospetto di un personaggio maschile che le osserva con attenzione. Lungi dal simboleggiare la lussuria e la ferinità attribuite loro dalla mitologia antica, anche i satiri o satiretti che corredano la scena possono essere interpretati quali emblemi della voluptas neoplatonicamente intesa di cui si è già fatta breve menzione: una voluptas concepita come “svelamento” e, dunque, come rivelazione divina quale esito estremo, sublime, della potenza d'amore. Questa tematica neoplatonica non rappresenta certo una novità nel contesto della produzione botticelliana: il medesimo “impulso”, o “risveglio”, amoroso informa di sé, ad esempio, la tavola con Marte e Venere (Londra, National Gallery, 1483 ca.), ove il dio, recubans, si desta per salvifico beneficio di Afrodite.

Sulla scorta dello studio iconografico condotto nel 2006 da Giulia Bordignon e da Monica Centanni al fine di ricostruire i collegamenti tra le componenti [6] di una delle “tavole” ideate da Warburg, è possibile introdurre la controversa quanto affascinante questione della tangenza tra la tematica botticelliana e quella realizzata dall'artefice delle xilografie contenute nell'edizione aldina del 1499 dell'Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna.

La postura della “ninfa svelata” caratterizza infatti la figura femminile di una (c. e1r.) tra le numerose xilografie che corredano il testo. La protagonista, variamente interpretabile come Arianna o come “ninfa”, è presentata in primo piano in una posa corporea che ricorda, e forse cita filologicamente, quella della statua dell'Arianna Vaticana, adagiata presso la riva di un fiume con la gamba sinistra leggermente flessa ed il piede sinistro appoggiato sul destro. Un satiro proveniente dalla parte destra della composizione è “sorpreso” nell'atto di “svelarla”, laddove una cortina di stoffa dai drappeggi appena accennati funge da vera e propria quinta teatrale, contribuendo notevolmente alla resa enfatica e retorica dello svelamento così “umanisticamente” inteso. Accanto alla donna fanno la loro comparsa due piccoli satiri. Le affinità simboliche e iconografiche con il riquadro del fondale della Calunnia che ospita le figure di Arianna e Bacco (sul secondo architrave della “classificazione Meltzoff”) appaiono piuttosto significative. In quest'ultimo, la figura femminile è sdraiata al cospetto della divinità maschile e poggia il gomito sinistro su una sorta di cuscino, coperta da una veste che le nasconde le gambe e la parte inferiore del busto. Un piccolo satiro è intento a disvelare la fanciulla tirandole un lembo della veste, mentre un altro sembra trascinare in avanti il personaggio maschile, suggerendo l'impressione del suo incedere. Il carattere quasi effeminato di quest'ultimo soggetto consente di propendere, in sede interpretativa, per la sua identificazione con Bacco, scartando l'ipotesi di Horne che individuava in questo rilievo la coppia Venere-Marte in base alle affinità iconografiche con la tavola botticelliana della National Gallery menzionata in precedenza. L'illustrazione dell'Hypneromachia Poliphili, nella quale si è voluto individuare un'immagine dell'Alma Venus, intesa come suprema Virtus e come più perfetta incarnazione del significato allegorico-sapienziale del tema, pone dunque nuovi interrogativi concernenti il rapporto, mediato o diretto, con la produzione e con il programma figurativo di Botticelli, evidenziando, quanto meno, l'esistenza di affinità profonde, “elettive”, non certo casuali.

Alcune delucidazioni in merito all'identità di Francesco Colonna e alla peculiarità dell'iconografia della xilografia in esame sono offerte dal volume di Maurizio Calvesi La “pugna d'amore in sogno” di Francesco Colonna Romano (1996). La minuziosa analisi dell'illustrazione della Fontana della fecondità pone in rilievo le probabili fonti testuali e visive con le quali l'ideatore della scena sembra confrontarsi con vivida coscienza critica. Grazie ad una sorta di “approccio dialettico” l'iconografia che scaturisce dai suoi molteplici spunti conserva, pur in questo processo di “sintesi”, quel carattere di immediatezza d'impatto che la rende quasi “iconica”. Dopo aver riscritto l'intera storia della genesi dell'Hypnerotomachia [7] , individuando in Francesco Colonna signore di Palestrina il vero autore, Calvesi si sofferma sul clima culturale romano dominato dall'Accademia di Pomponio Leto e dal nascente interesse per la scienza antiquaria e per i misteri egizi, fascino del quale il papa Alessandro VI Borgia rappresenta una “vittima” di primo piano. La figura che si pone al vertice di questo nuovo orizzonte sincretistico è quella di Venere-Iside-Fortuna, che offre una chiave di lettura ulteriore, e più profonda, alla xilografia della “ninfa svelata”. Proposte e discusse quali probabili fonti per l'ideazione della scena l'Arianna Vaticana (all'epoca ritenuta Cleopatra) per la figura distesa e i Fasti di Ovidio per le fattezze del satiro/Priapo, Calvesi conferisce alla protagonista femminile il ruolo di personificazione della Natura, ovvero di Venere Genitrice o di Fortuna Primigenia, esito estremo di una contaminazione inedita di suggestioni greche, latine e “misteriche”. Forte, però, anche la componente romana poiché “è probabile che per la composizione generale, il Colonna abbia avuto sott'occhio uno degli antichi sarcofagi, come quello conservato a Roma nella Villa Casale, sul cui prospetto è rappresentato un satiro nell'atto di scoprire una bellissima fanciulla addormentata. Per la figura della bellissima nympha va richiamata l'attenzione sulla celebre ninfa forse falso-antica dei giardini romani di Angelo Colocci, giacché si trattava di una fonte, la ninfa colocciana è pressocché uguale nell'atteggiamento alla nuda del Polifilo. Per noi la derivazione assume un'importanza particolare: infatti il Colocci guidò l'Accademia romana dopo la morte di Pomponio Leto ed è nella sua raccolta di epigrammi che troviamo il già ricordato elogio di Francesco Colonna romano” (Calvesi, 1996, 149).

Le considerazioni formulate sinora consentono di evidenziare, nel contesto di un affine motivo iconografico, i caratteri peculiari dell'ambiente neoplatonico fiorentino e di quelli misterico-sincretico-antiquariali della cultura romana, ma, al tempo stesso di suggerire delle possibili tangenze tra i due, più spiegabili alla luce di un contesto culturale magmatico “incandescente” che non su rapporti di dipendenza in senso stretto [8] .

IV. L'ipotesi di Stanley Meltzoff. Una proposta di lettura globale

Sulla scorta dello studio di Meltzoff (1987, 269-73) è possibile ripercorrere l'evoluzione storica, e soprattutto culturale, che porterà ad intendere la Calunnia di Apelle come un'opera volta ad esaltare e difendere la dignità intellettuale ed il valore morale di pittura e poesia. La relazione tra le due arti può essere esemplificata da due documenti significativi: un passo del libro III del trattato albertiano Della Pittura (1436) ed una lettera di Marsilio Ficino a Piero de' Medici (datata 2 gennaio 1493).

Alberti consiglia agli artisti che si apprestano ad ideare un'opera, di fare riferimento alle istorie antiche, ispirate dalla lettura di poeti e scrittori poiché “questi hanno molti ornamenti comuni con il pittore”; esortazione che rimanda al precetto oraziano dell'ut pictura poesis e alla teoria della mimesis, centrale nell'estetica umanistico-rinascimentale. Oratori e poeti sono dunque di grande utilità per gli artisti: “molto gioveranno a bello componere l'istoria, di cui ogni laude consiste in la invenzione”, al fine di creare una composizione “amena et ornata”. Per la complessità della composizione, il numero delle personificazioni, la varietà dei loro temperamenti e delle loro attitudini, la pittura di Apelle, descritta da Alberti quasi a dimostrazione delle proprie teorie, si presta come efficace esempio per avviare tra le arti la sinergia auspicata.

Marsilio Ficino, che pone retorica, poesia e pittura al centro della varietà delle arti riaffiorate dall'antichità, rimarca in modo decisivo l'intreccio pittura-poesia, facendo riferimento all'ingresso delle arti visive nelle cronache e nella produzione poetica dei suoi contemporanei. L'emulazione degli antichi e la celebrazione della fama dei moderni non è più prerogativa di poeti e uomini dotti: sia pittori che pitture sono ora resi immortali dalla parola scritta, così come illustri uomini di lettere sono consegnati all'eternità dalla pietra scolpita o dall'affresco. Nella lettera indirizzata a Piero, Marsilio si mostra turbato dalla violenta predicazione intrapresa dal Savonarola contro le arti e contro la speculazione filosofica, sentita come una seria minaccia per il Neoplatonismo, e chiede pertanto al successore di Lorenzo il Magnifico di assistere Poliziano e Pico nell'avversione a queste oscure forze. Per stimolare ulteriormente la propensione di Piero alla difesa della cultura neoplatonica, Ficino gli dedica, nello stesso 1493, il volume De sole et lumine, incentrato sul significato teologico e filosofico della luce divina.

Non è da escludersi, allora, che anche altri esponenti di questa corrente, scossi dalla morte di Lorenzo e privati della sua eccezionale benevolenza, abbiano voluto rendere omaggio al nuovo signore per assicurarsi una linea di continuità nelle scelte ideologiche. La Calunnia di Apelle può essere interpretata come il dono tramite il quale Poliziano e Botticelli espongono a Piero la complessità e la ricchezza della loro poetica, forti di un clima culturale in cui è ormai maturata l'idea di dipinto come muta orazione in difesa della poesia.

Prendendo le mosse dall'appassionato scritto intitolato Proposal for a ragionamento di Meltzoff (1987, 273-81), imperniato sulla possibile ricostruzione delle indicazioni fornite da Poliziano a Botticelli, è possibile individuare la duplice finalità dell'opera: riabilitare la poesia “calunniata” dal Savonarola ed indirizzare Piero de' Medici verso la via della saggezza neoplatonicamente intesa. Gli attacchi che il Frate rivolge alle inclinazioni “pagane” della corte medicea, alimentate a suo avviso da racconti allegorici e da raffigurazioni sensuali, si fanno sempre più espliciti; basti leggere un piccolo estratto di uno dei sermoni contenuti nelle Prediche di Frate Hieronimo da Ferrara (Firenze, 1496): “Voi dipintori, fate male; che se voi sapessi lo scandalo che ne segue e quello che so io, voi nolle dipingeresti. Voi mettete tutte le vanità nelle chiese (…) Voi farete un gran bene a scancellarle queste figure che son dipinte così disonestamente. Voi fate parere la Vergine Maria vestita come meretrice. Or sicché il culto divino è guasto e non s'attende più se non al proprio onore.”

Agli occhi di Poliziano l'invettiva contro le arti e le scienze, contro le stesse lingue – il Latino ed il Greco - che ne avevano reso possibile la conoscenza, non era meno spaventosa del supplizio di un innocente causato da una menzogna. L'opera botticelliana si pronuncia quasi in difesa del calunniato stesso, in difesa dell'arte, della poesia, della filosofia, ed è forse questo il presupposto irrinunciabile per comprendere alcune tra le figurazioni in bassorilievo che fanno da sfondo, ma anche da approfondimento, all'episodio in primo piano.

L'articolato impianto decorativo, che pure aveva suscitato l'interesse di Horne nel 1908, non conosce grande fortuna critica nel corso del ventesimo secolo, forse perché ritenuto un semplice sfoggio erudito, privo di organicità interna. Solo nel 1987, Meltzoff si ripropone di riabilitare il fondale della Calunnia mediante lo studio minuziosissimo di ogni singolo elemento, ricostruendo à rebours le fonti visive e letterarie. Per numerare i soggetti è stata ideata, anzitutto, una griglia di riferimento, in cui la lettura, da sinistra verso destra, si snoda, dall'alto verso il basso, su vari piani: soffitti, architravi, nicchie, plinti e basi. Premesso che siano da escludersi tanto una chiave di lettura univoca quanto un criterio interpretativo assoluto, è possibile raggruppare le immagini per tematiche distinte aventi come denominatore comune una spiegazione di matrice poetica.

Sui soffitti vengono inserite scene tratte dalla poesia “moderna” di Boccaccio: il primo ospita la storia di Nastagio degli Onesti (novella centrale del Decamerone), il secondo la sequenza di Muzio Scevola (desunto dal De casibus virorum illustrium) ed il terzo episodi del Ninfale Fiesolano.

I rilievi degli architravi ritraggono le molteplici espressioni dell'amore, come quello di Ippolito nel primo o quello di Bacco e Arianna nel secondo; vi sono poi scenette allegoriche: un leone attorniato da putti, ovvero la legge governata dalle forze dell'amore, nel quarto, Venere che guida un centauro nel sesto; ed infine le coppie emblematiche di Cimone ed Ifigenia e di Giuditta e Oloferne.

Le nicchie ospitano uomini di chiara fama che si sono dedicati alla poesia, quali Caino nella prima, profeti dell'Antico Testamento nella seconda e nella terza; Davide nella quarta (da notare l'iconografia che rimanda al San Giorgio di Donatello ad Orsanmichele) e Cesare nell'ottava, seguito da Giosuè, Mosè, San Paolo, Boccaccio e Giuditta.

L'ornamentazione dei plinti è incentrata sulle origini, sulle risorse, sui piaceri e sulla natura della poesia sacra e profana: compaiono, ad esempio, Il sacrificio di Abele e Apollo e Daphne sui primi due, Davide e Golia sul quarto, ed Il ritorno di Giuditta a Betulia nell'ultimo.

Per concludere, i fregi delle basi possono essere letti come note a pie'di pagina, destinate ad approfondire ed ampliare il significato di soggetti trattati altrove. Vi sono rinvii alla produzione poetica dei “moderni”, quali il brano della Giustizia di Traiano ricavato dalla Divina Commedia dantesca, e scenette di sapore pagano, come la Famiglia del Centauro, Teseo abbandona Arianna e l'effige di Minerva nei riquadri all'estrema destra.

Tornando ora a considerare l'opera nel suo insieme, emergerà forse più limpidamente la finalità di questo immenso apparato decorativo in rapporto alla difesa programmatica della poesia intrapresa da Poliziano e Botticelli al cospetto di Piero de' Medici. Questi avrebbe dovuto cogliere tutti i significati allusivi dei personaggi e dei rilievi, unificati, e al tempo stesso riscattati, dalle infondate accuse del Savonarola. Il calunniato con le mani giunte sembra far appello agli dei, così come la Poesia, da intendersi nell'accezione più variegata e multiforme del termine, si rivolge all'Arte per essere difesa da chi la dichiara deviante e pericolosa.

Le storie ed i personaggi ripresi dalla Bibbia inducono ad una serie di considerazioni: oltre a sottolineare il valore poetico delle Sacre Scritture, non mancano di ricordare, infatti, che molti profeti e re d'Israele, basti l'esempio di Davide, erano poeti e cantori della gloria di Dio. La teologia, insomma, è poesia divina, ispirata dall'amore e dalla riconoscenza verso il Padre per la sua benevolenza e per le bellezze del creato. Il fregio con il leone ammansito dagli amorini che sormonta la statua di Cesare suggerisce che anche Piero deve lasciarsi guidare dall'amore nel governo di Firenze. E questo non può portare in alcun modo alla discriminazione della sola arte che, accanto alla pittura naturalmente, ha reso immortali i sentimenti più nobili e gli uomini di maggior valore, al fine di consegnare alla posterità un modello ineccepibile di integrità e di rettitudine morale. Lo stesso San Paolo ha sottolineato che la radice autentica del Cristianesimo è l'amore, lo stesso che ha infiammato salmi ed ispirato profezie, lo stesso che i poeti pagani hanno utilizzato per esprimere in termini allegorici la tensione dell'anima che anela Dio. Le passioni possono rivelarsi pericolose, come cavalli in grado di uccidere chi non riesce a domarli, è questa la sorte che spetta all'Ippolito dell'Amorosa Visione sull'architrave più a sinistra, ma persino un'anima abbandonata dall'amore terreno, di cui Arianna a Nasso è emblema, può sperare nel potere edificante dell'amore divino, come testimonia l'Incontro di Arianna e Bacco. Si tratta di una forza miracolosa, capace di trasformazioni prodigiose come quella di Cimone al cospetto della bellissima Ifigenia, raffigurata in una posa seducente sul penultimo architrave a destra. La potenza ingentilente del sentire amoroso, lungi dall'essere un caotico furor che stravolge il mondo, regola armoniosamente l'universo: non è detto quindi che Venere, rappresentata nell'atto di guidare un centauro che allude alla ferinità dell'uomo, debba contrapporsi all'azione illuminante della Minerva che compare sull'ultima base a destra. Il potere di eros informa di sé esperienze apparentemente inconciliabili: se nel caso di Giuditta l'amore è lo strumento per sconfiggere Oloferne e difendere il popolo che Dio ha scelto, in quello di Muzio Scevola il sentimento profondo, che porta al gesto estremo dell'automutilazione, è rivolto al supremo ideale di virtus.

Gli dei pagani non sono oggetto di mera idolatria, ma strumenti primordiali per accostarsi ad un Dio ancora sconosciuto; così come i racconti mitologici perderebbero il loro contenuto edificante se ci si limitasse a scorgerne la licenziosità. E' un percorso continuo, benché tortuoso, quello nel quale si avvicendano narrazioni bibliche, allegorie profane ed illustrazioni di fonti antiche, come Luciano, e recenti, come Dante e Boccaccio; un percorso nel quale il gioco di rimandi non conosce una legge interpretativa certa, ma si affida alla preparazione culturale del suo primo destinatario e soprattutto alla sua predisposizione all'esercizio della giustizia e alla strenua difesa della Verità.

V. Riflessioni conclusive

Alla luce del materiale preso brevemente in esame finora e degli spunti che che certo meriterebbero un maggiore approfondimento critico, emergono, tra le altre, almeno due tematiche che necessitano di essere menzionate nuovamente per la complessità delle problematiche ad esse correlate: in primo luogo, il legame esistente tra l'autore (e l'ideatore) delle xilografie e Sandro Botticelli; in secondo luogo, una valutazione dei limiti e dell'eredità offerti alla critica da Meltzoff.

Benché non universalmente condivisa [9] , la proposta di Calvesi di avvicinare i temi, l'iconografia e lo stile delle xilografie a soluzioni e formule del Pinturicchio si impernia attorno a questioni che pongono in rilievo le affinità culturali tra quest'ultimo e Botticelli.

La “frequentazione romana del disegnatore [delle xilografie]” (Calvesi, 1996, 161), tangibile soprattutto nella consonanza tra il Polifilo condotto da Thelemia al cospetto di sette ninfe e gli affreschi botticelliani di Villa Lemmi oggi al Louvre, è tale da far presupporre che egli conoscesse direttamente l'affresco o che Francesco Colonna glielo abbia descritto minuziosamente. Anche sul versante letterario “l'attenzione del Nostro alla tradizione toscana a partire dal primo umanesimo è testimoniata, oltre che dall'interesse […] per il Petrarca, anche dai numerosi rinvii (più di cento) a quasi tutte le opere del Boccaccio, da cui attinge nomi, vocaboli paludati, immagini sensuali, cadenze e prolissità, episodi come la celebre novella di Nastagio degli Onesti […], oggetto anche di un noto dipinto di Botticelli […]. Non sarà trascurabile il fatto che Francesco Colonna signore di Palestrina, aveva una qualche parentela (e forse frequentazione) con Lorenzo de' Medici." (CALVESI, 1996, 162). Il legame tra l'autore delle xilografie, inserito con sicurezza nella cerchia di Pinturicchio, ed il Maestro toscano si sarebbe rafforzato, inoltre, durante i lavori della Sistina a Roma.

Tralasciando per il momento la preminenza dell'influenza di Boccaccio su Botticelli (predilezione ben esemplificata dal fondale della Calunnia che ospita scene desunte dall'Amorosa Visione, dal Decamerone, dal Ninfale Fiesolano, dal De claris mulieribus e dal De casibus virorum illustrium), risultano significative in questo contesto alcune riflessioni suggerite da Ernst Gombrich in merito alla ricezione da parte di Botticelli del testo di Apuleio.

Dopo aver ribadito che la preferenza accordata da Botticelli alla pittura di soggetto letterario e novellistico (“novel kind of painting”) si collega intimamente al programma pedagogico e moraleggiante fortemente voluto da Marsilio Ficino per ingentilire ed ammaestrare l'animo di chi esercita il potere, Gombrich collega il potere psicologico di tali immagini sia alla cultura neoplatonica nella quale si sviluppano sia alla sfera “sacrale”, quasi “misterica”, la cui via d'accesso era stata sino a quel momento prerogativa del culto religioso [10] . La ricezione dell'Asino d'oro apuleiano, dunque, offre un esempio di quella complessa stratificazione di significati e valenze che, come si è visto, informa di sé tanto il programma figurativo della Calunnia quanto quello dell'Hypnerotomachia Poliphili. Alla luce della concezione della Venus-Humanitas propugnata da Marsilio Ficino, anche nella divinità che porta l'asino Lucio alla completa redenzione viene individuata la medesima finalità salvifica e la stessa propensione a “svelarsi”, come Iside appunto, in una visione. Il Principio Divino, dunque, in questo intreccio di piani simbolici, si rivela tanto mediante Venere quanto tramite Iside: “The Godness through whom Lucius' salvation is wrought, and who finally restores him to humanitas, is Venus as much as Isis” (Gombrich, 2000, 54).

Un'ultima riflessione, ora, sul dibattuto “lascito” di Meltzoff costituito dal volume preso in esame. Vi sono, effettivamente, almeno due elementi di debolezza nella sua dissertazione critica: una datazione precoce della Calunnia, esigenza in parte spiegabile con il supposto destinatario Piero de' Medici, ma non del tutto convincente da un punto di vista stilistico [11] , ed il dichiarato rapporto di avversione, quasi di ostilità, stabilito dal pittore nei confronti di Girolamo Savonarola. In merito a quest'ultima problematica è, in ogni caso, significativa la presa di distanza dal testo vasariano, che forse per troppo tempo ha impedito un reale approfondimento dell'effettiva influenza del Frate sulla produzione botticelliana. Su questo tema, che certo richiederebbe ulteriori approfondimenti, risulta illuminante il testo, già segnalato da Horne nel 1908 e riproposto ed interpretato da Claudio Strinati (2004), della Cronaca di Simone Filipepi, fratello dell'artista, che riporta il dialogo tra Botticelli e Doffo Spini, fervente antisavonaroliano, risalente al 2 novembre 1499, ovvero a due anni di distanza dal rogo del frate ferrarese. La questione rimane tuttavia insoluta, controversa, per certi aspetti affascinante.

Lo studio di Meltzoff, d'altro canto, presenta dei “punti di forza” di tutto rispetto. Innanzi tutto ribadisce ed analizza approfonditamente il clima culturale sfaccettato ed incredibilmente denso nel quale Botticelli si trovava ad essere operante e al quale partecipava vivacemente. In secondo luogo, la sua ricostruzione meticolosa dei soggetti del fondale della Calunnia, scomposto quest'ultimo “tassello per tassello” e caparbiamente “ricostruito” nella complessità del suo insieme, offre alla critica successiva una solida base per ulteriori approfondimenti di natura simbolica o iconografica. Sebbene l'autore non manchi di segnalare il carattere ipotetico della propria ricostruzione, il suo monito a non arrestarsi di fronte alla ricchezza talvolta enigmatica ed ambivalente delle immagini -“ambiguity is a richness we value” (Meltzoff, 1987, 118) - può essere un valido riferimento metodologico per molti studi futuri.

 

 

Riferimenti bibliografici

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NOTE

[1] Su questo presupposto si fonda la ricostruzione della genesi dell'opera suggerita in Meltzoff (1987). Vedi infra § IV. L'ipotesi di Stanley Meltzoff. Una proposta di lettura globale.

[2] Sottolinea a proposito Massing (1990, 274): "Le rendu des figures et des draperies, tout comme l'insertion de la composition dans un décor classique, reflètent une conception nouvelle de l'Antiquité et un approche formelle plus proche de l'art de Raphaël que de Mantegna".

[3] Il dibattito critico presentato di seguito è in parte desunto da De Vecchi (2004).

[4] Alighieri, D., Commedia, Paradiso, canto I, vv. 1-6.

[5] Ricorda Dempsey (2004, 31): “Spetta in effetti al genio di Warburg l'aver scoperto che il fascino esercitato dalla figura della ninfa sugli artisti rinascimentali derivava non soltanto dalla mitologia greca e latina, ma anche, e soprattutto, dalle esperienze e dai miti della Firenze del Quattrocento. I suoi antenati possono essere greci e romani, ma lei è toscana e la lingua che parla è volgare. Come “spiritello”, termine vernacolare di radici latine ma con proprio senso specifico, la parola “ninfa” possiede simultaneamente un significato classico, quello di una divinità minore, simbolo della fecondità benefica della natura elementare, e uno vernacolare, quello della fanciulla “in fiore”, quasi in età da marito. È esattamente all'incrociarsi di questi due concetti che nasce il pathos della figura della ninfa, e tale convinzione ha indotto Warburg a studiare attentamente le tradizioni delle feste civiche fiorentine”.

[6] Di notevole interesse la ricostruzione della diffusione del tema della “ninfa svelata” nelle corti del Nord Italia, con particolare riferimento all'area veneta, mantovana e ferrarese. La menzione del disegno di Andrea Mantegna raffigurante la Coppia addormentata (Londra, British Museum, 1497 ca.) è accompagnata dalla considerazione che “Marte e Venere – entrambi dormienti, come il piccolo Eros accanto a loro – sono sì ‘scoperti', ma non ‘risvegliati': i satiri, figure degli istinti primari e bestiali (non più della potenza anagogica di voluptas) ora insidiano Afrodite – e per lei anche la casta ninfa delle fonti” (Bordignon-Centanni, 2006). Esiste, dunque, un'evoluzione concettuale e simbolica di questo motivo iconografico, sebbene i protagonisti, le pose e l'impostazione generale del tema risultino pressocché invariati.

[7] L'autore è stato considerato per decenni un religioso attivo nel convento dei SS. Giovanni e Paolo di Venezia e, dunque, inserito nel clima culturale eminentemente veneto.

[8] Per gli effettivi legami tra l'artista dell'Hypnerotomachia e Botticelli cfr infra § V. Riflessioni conclusive.

[9] Casagrande (1998) riporta, ad esempio, la tesi attributiva di Susy Marcon, fondata sull'affinità stilistica tra l'autore delle xilografie e le miniature di Benedetto Bordon, e quella di Silvia Urbini, che propone la paternità dell'“Illustatore Bramantesco” di origine padovana, fortemente intriso della cultura antiquariale di Bernardo Parentino.

[10] "The Neo-Platonic approach to ancient myth succeeded in opening up to secular art emotional spheres which had hitherto been the preserve of religious worship" (Gombrich, 2000, 35).

[11] Appare comunque eccessiva la stroncatura di taluni critici, tra cui quella di Nicoletta Pons che, riferendosi all'intera ricostruzione dello studioso, non esita a definirla “in vero un po' macchinosa” (2004, 244).




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