La quadreria che Giovanbattista
Finocchiaro, presidente della Suprema Corte di Giustizia di Palermo, aveva
messo insieme durante la sua vita, invidia di ogni collezionista dell'epoca, fu
da lui lasciata in eredità alla sua città natale, Catania, perché non più solo
pochi ne godessero, ma un’intera comunità. Una vera e propria fortuna, opere
dei più noti pittori del Seicento e Settecento siciliano (Novelli, Lo Verde,
Serenario, Giuseppe Patania) insieme a alcune tavole, anche precedenti, allora
attribuite a scuole di grandi maestri del panorama artistico internazionale
quando non direttamente a loro (Wobreck, Polidoro da Caravaggio, Correggio,
Lanfranco, Giovanni Francesco Barbieri
detto il Guercino, Domenico
Zampieri detto il Domenichino, José
de Ribera detto lo Spagnoletto,
Caravaggio, Gerard van Honthorst detto Gerardo delle Notti, Stomer,
Rubens, Paladini, Preti, Borremans) [1] .
Questa fortuna, purtroppo ancora solo in parte studiata, identificata ed esposta, oggi si ritrova riunita per la prima volta in una mostra, a cura
di Luisa Paladino (in corso fino al 21 marzo al Museo di Castello Ursino),
che ha il merito principale di avere arrestato la dispersione di una
collezione così importante per la città di Catania. Era stata imbarcata su
un veliero nominato Fortuna e, nel 1826, arrivò dove Finocchiaro era nato
e dove la sua fortuna poco più tardi finì. Ci sono voluti ormai due secoli
per rimetterla insieme e per scoprirla ridotta (quasi dimezzata da incuria
e ruberie, infatti, meno di settanta dei centoventitré pezzi lasciati sono
stati ritrovati dalla Soprintendenza), non sapendo ancora che ne sarà
quando la mostra temporanea che la espone si concluderà.
Dopo un primo periodo, trascorso
nei palazzi del Municipio, fu destinata al Museo Benedettino del Monastero di
San Nicola l’Arena che, in seguito alle spoliazioni dell’asse chiesastico del
1866, era divenuto, contenitore e contenuto, Comunale.
L’istituzione dei musei comunali
e la legge Casati sull’istruzione nascono, strumenti di unione e progresso, per
le comunità della nuova nazione. «Tuttavia, ben pochi storici – per non dire
nessuno – hanno ricordato come questo diffuso disagio che condurrà alla
eliminazione di circa 4.000 edifici e alla frequente dispersione delle sostanze
patrimoniali connesse, si ponga ben visibile, dichiarato, e purtroppo molte
volte disarticolato, alle origini del Museo civico che la cultura governativa
volle fornire alla società italiana insieme con la Legge Casati
sull'istruzione. In quel luogo, le virtù della città, principio unico e solo
della storia italiana, avrebbero dovuto saldarsi alle comunità, narrarne la storia
e ispirarne il futuro».
Arte e istruzione dentro ai
Comuni dell'Italia neonata, insieme al seme di un futuro migliore; se non fosse
che i tempi per la semina e, ancora di più, quelli per la raccolta dei frutti
nati da quel connubio non erano maturi. Le normative sull'obbligo scolastico
furono disattese (soprattutto nelle regioni meridionali dove l'analfabetismo
coinvolgeva, in alcune zone, il 95% della popolazione) e,
così, anche la capacità di fare dei musei e delle biblioteche le roccaforti di
una conoscenza più diffusa. Malauguratamente, a Catania, i tempi furono così
lenti che nonostante le spoliazioni delle chiese, ancora oggi, sono solo
quelle, insieme al Museo Diocesano, a risultare le principali fonti di
educazione all'arte esposte ai visitatori in maniera permanente, in quanto
riesce impossibile visitare un museo civico, laico e pubblico, in grado di
tutelare e rendere fruibili le collezioni che pure, questa mostra ne è un
esempio, la città possiede.
Giuseppe Galasso fu tra i primi a
chiarire un concetto che, torna utile per comprendere l'importanza delle
collezioni civiche nella costruzione delle identità, dagli storici fu chiamato particolarismoe che interpreta, su diversa scala,
differenti fenomeni (le economie, le istituzioni, le classi sociali)
dimostrando come, variando la scala di lettura di questi, possono variare i
significati. Giovanni Previtali, nei primi quattro volumi della Storia
dell'Arte Italiana Einaudi (poi continuata da Federico Zeri), si sofferma
su questi aspetti che privilegiano i caratteri particolari della vicenda
italiana plurisecolare e differenziata, taciuta dalla storiografia
post-risorgimentale e liberale per osannare quella della conquistata unità, e
li contestualizza legandoli ai fenomeni artistici.
Nel primo volume, appare il
saggio (1979) di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg titolato
significativamente Centro e periferia, testo a quattro mani di uno
storico dell'arte e di uno storico, che Cesare De Seta riprende nel suo
volumetto sul Perché insegnare la storia dell'arte. In uno dei
paragrafi, unisce le suggestioni ricevute dalla precedenti citazioni, Il
«particolarismo» della storia dell'arte in Italia: centro e periferia, e
scrive «A ogni storia particolare corrisponde uno spazio […]. Spazio storico è la città: indagare il
meccanismo di formazione, di crescita o di distruzione della città è
un'esigenza imprescindibile per la conoscenza della nostra civiltà che per
definizione è una civiltà urbana. Emerge con forza il paesaggio come struttura
fondante dell'identità storica e formale del paese, […] studiarne l'iconografia
è parte di questa conoscenza, e ci svela aspetti e problemi che solo quel tale
dipinto o quella tale incisione possono offrirci in tutta la loro pregnanza.
[…] La relazione che si istituisce tra spazio storico e manufatto, sia essa
tavola dipinta, arredo o ambiente urbano è, alla luce di queste considerazioni,
strettissima: essa si misura in primo luogo a livello di scala e non più
secondo il metro tendenzioso del valore, dell'unicità o dell'irripetibilità».
Questo, non prescindendo da un
momento unificante che offra un quadro complessivo della storia dell'arte
italiana non più gerarchizzata e, di conseguenza, lontana dalla complessa rete
dei beni culturali esistenti sul territorio. Per rimanere alla Collezione
Finocchiaro, la possibilità di comprendere uno spaccato del collezionismo
dell'isola che faceva eco a un fenomeno internazionale molto più complesso,
studiare i pittori siciliani d'età moderna, riconoscere i passaggi in Sicilia
di artisti legati a scuole che facevano riferimento a nomi più conosciuti. Un
esempio fra tutti è dato dalla possibilità di seguire il percorso caravaggesco
in Sicilia,
partendo dalla copia che Paolo Geraci fece della sua Natività con i Santi
Lorenzo e Francesco, ora unica testimonianza del soggiorno palermitano di
Caravaggio, essendo l'originale stato trafugato dalla mafia nel 1969, e
continuando con altre opere di artisti presenti in questa mostra che traggono
ispirazione dai suoi capolavori, come Stomer, Paladini, Preti.
Se «le vicende del territorio,
delle campagne e delle città, gli spazi storici si pongono oggettivamente come
il quadro entro cui si rinvengono tutte le attività umane, dalle più umili alle
più raffinate: dal cucchiaio di legno della civiltà contadina alla saliera di
Cellini […] l'ideologia della mercificazione che governa il mondo dell'arte ne
riceverebbe un fiero colpo, l'indifferenza nella quale si è dilapidato il
nostro patrimonio storico e artistico si trasformerebbe in consapevole coscienza
della necessità della sua tutela. E la tutela è indispensabile condizione per
una riappropriazione collettiva di tale patrimonio».
Questo modello di educazione al patrimonio verrebbe a coincidere con quello
che, alla fine del secolo XVIII ha originato il modello italiano di tutela e
che Antonio Pinelli, commentando l'ultima lettera di Antoine Quatremère de
Quincy, ha definito «sillogismo imperniato sul concetto di contestualità della
cultura di contesto italiano» che è il principio per cui il riconoscimento
della relazione che ogni opera istituisce con il suo ambiente è il motivo più
sostanziale della sua difesa. A
Catania questa visione illuminata delle cose era, in verità, arrivata proprio
in quel secolo, e con ampio anticipo su tante altre città d'Europa, iniziata da
Ignazio Paternò Castello Principe di Biscari che, a soli ventiquattro anni, nel
1743, dichiarò al Senato di volere continuare le ricerche del padre (che aveva
recuperato dalle rovine del terremoto diversi reperti, soprattutto marmi medioevali
e rinascimentali) con campagne di scavo che permettessero di recuperare il
passato greco e romano della città, offrendosi di erigere un museo, poi
costituito nel 1758, «a beneficio del pubblico, per gloria della patria, a uso
degli studiosi».
Quest'uomo, di cui purtroppo
nessuno dopo fu capace di emulare l'insegnamento nella sua città, riuscì a
rappresentare Catania attraverso il suo museo, agli occhi del pubblico locale
(benché in quel periodo fosse ancora costituito prevalentemente da ecclesiastici,
aristocratici, studiosi) e di quello internazionale, inserendo la città nell'iter
italicum seguito dai viaggiatori
stranieri dei secoli XVIII e XIX. «Chi non conosce lo straordinario lavoro
operato dalle cento città della cultura italiana fra il secolo barocco e il
nuovo secolo della conoscenza dinamica e fisica, e cioè del XVIII secolo del grand
tour europeo, non riuscirà mai a comprendere quasi nulla non solo della
vitalità tuttora superstite di questo singolare paese dove davvero la città è
il principio unico di ogni storia, ma resterà indifferente in ogni caso al
sentimento locale che avvia e nutre con continuità il modello italiano
della tutela». Questo modello e quella
vitalità Catania ha dissolto, dimenticato, trascurato. La dispersione della Collezione
Finocchiaro è solo uno degli esempi purtroppo numerosi a cui sono state
sottoposte le collezioni civiche che riunivano quelle notevoli, qui menzionate,
dei Benedettini e di Biscari (specchio della città ricostruita dopo il
terremoto e della sua storia antica estratta da sotto le macerie), a cui sempre
più raramente, data l'incuria con cui furono (e in gran parte sono)
abbandonate, seguirono altre (acquisizioni o donazioni di collezionisti e
artisti).
Il gesto di allestire un oggetto non è mai neutrale e risente di
ideologie, tensioni sociali, credi politici, tradizioni e consuetudini
locali. Bisogna ripensare il concetto di museo come autorappresentazione
della comunità in cui sorge. Non si può parlare di museo se non si ammette
che siamo noi, la società dentro cui vive e opera il museo, gli artefici
di ciò che esso è, di ciò che rappresenta, di ciò che conserva e di come
lo racconta .
Per questo, la storia dei musei catanesi dell'ultimo secolo non ci fa onore
e, da subito, andrebbe letta con la volontà di porre rimedio a tante
noncuranze, andrebbe scritta cominciando un nuovo capitolo.
I catanesi aspettano da
generazioni di visitare il loro museo e di vedere le loro collezioni ma c'è una
pratica dell'arte e a cui bisogna riavvicinarli, dopo decenni di mancanze, e un
amore per i beni culturali a cui ispirarli. Questo potrà avvenire solo esponendo
in sedi adeguate il patrimonio storico artistico della città in maniera
permanente, curandolo e tutelandolo, selezionando con attenzione gli addetti
alla gestione, per competenza e specializzazione,
collaborando con scuole e università. Per tradurre in apprendimenti e
comportamenti significativi e consapevoli le opportunità che la funzione
educativa del museo offre non solo al cittadino in età scolare, ma a tutti i
pubblici, attraverso un'affezione al patrimonio, intesa quale «attività formativa formale e informale che, mentre
educa alla conoscenza e al rispetto dei beni con l’adozione di comportamenti
responsabili, fa del patrimonio oggetto concreto di ricerca e interpretazione,
adottando la prospettiva della formazione ricorrente e permanente alla cittadinanza
attiva e democratica di tutte le persone».
In questo senso la pratica
dell’arte, attraverso la sua conoscenza diretta (visite guidate differenziate
per fasce d’età, laboratori manuali che avvicinino alle tecniche artistiche,
laboratori concettuali che diano i principali strumenti di osservazione e
lettura delle opere), consentirebbe quella alfabetizzazione necessaria a una
città in cui questa è mancata per un tempo ormai troppo lungo.
La visione del museo come genius loci (da cui emerga, appunto, lo
spirito del posto) e del museo come tutela
attiva (che valorizzano quanto le comunità posseggono di specifico e di
unico, dal punto di vista storico, ambientale, culturale, spirituale e
materiale, che alimentano l’innovazione e la cooperazione intellettuale, che
potenziano le attrattive del territorio), si pone come la migliore a
valorizzare le potenzialità educative delle collezioni proprietà della città.
«Nell'epoca della cultura planetaria, globalizzata;
quando non è più necessario raccogliere nei pochi centri del sapere delle città
capitali grandi biblioteche e grandi musei enciclopedici, perché questo compito
è svolto dalle reti di informazione telematica, dalle infostrade che portano a
casa tutte le conoscenze del pianeta; diventa invece indispensabile riconoscere
(e approfondire) la diversità e la specificità culturale dei singoli paesi, e
delle anche minime storie culturali: presentare cioè nei luoghi, nei contesti,
nei paesaggi dove sono nati, i beni culturali che ad essi appartengono; in piccoli
musei che permettono di rivivere ogni speciale e particolare genius loci».
Una specificità che conservi e difenda la cultura attraverso la sua manifestazione
concreta rappresentata dalle opere.
«Le opere d'arte svolgono da tempo la funzione che in
secoli lontani ebbero le reliquie: conferire alla comunità che le possiede
un'aura di prestigio che supera la potenza militare o economica, per toccare le
sfere più alte della spiritualità umana. La sindone era uno strumento politico,
così come qualsiasi reliquia, per esempio la lancia custodita nel Duomo di
Norimberga appartenuta dapprima a Costantino e poi a Carlo Magno: oggetti come
questi muovevano folle di pellegrini e davano autorevolezza alla comunità che
le aveva sapute conquistare e custodire».
Questa autorevolezza e quell'aura può cercare di riconquistare e ricostruire la
città di Catania, attraverso una politica culturale più accorta, testimonianza
di civiltà, cominciando proprio dalle sue collezioni civiche.
NOTE
Cfr A. Spadaro, Il
Castello Ursino e i musei di Catania nel XX secolo in Ricerche, Periodico
trimestrale di Scienze e cultura anno 10 n.3/4 2006.
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