In una moderna analisi
iconologica il tema del mito trova una
sua collocazione privilegiata ,
soprattutto nella messa a fuoco di alcuni problemi cruciali circa la storia
critica, riguardante i percorsi di formazione delle immagini. È più che mai
d'obbligo, in una moderna analisi scientifica del mito, ricorrere a strumenti
d'indagine diversi dalla classica “Critica formale dello stile” e dal metodo
“iconografico semplice” e usare invece tutte le metodiche inerenti la “Storia
delle religioni” tout court e in
particolare lo studio delle religioni del mondo classico e il metodo
“iconologico complesso”.
Il mito, infatti, è una
narrazione finalizzata a dare fondamento sacrale ad ogni aspetto della realtà;
non fornisce una spiegazione razionale dei comportamenti umani e non è mai un
gratuito prodotto della fantasia. In
particolare, nelle religioni politeistiche, esso ha anche la funzione di narrare
e rappresentare come, da chi e attraverso quali vicende gli dèi siano nati, e
abbiano acquisito nel tempo delle origini la definizione dei loro poteri e gli
ambiti delle loro competenze .
Studiare un mito nella sua complessità, o differenti tradizioni relative ad una
vicenda mitica con le rispettive tradizioni iconografiche, significa
interrogarsi sulla rappresentazione che gli uomini hanno di se stessi e del
rapporto col mondo nel quale vivono. Non è possibile analizzare un mito senza
interrogarsi sulla funzione che esso svolge nella società che lo produce e
senza tener conto della forma in cui esso viene espresso da questa
società.
Nel 1994 Bodo Gutmuller , (che
sulla scia del Seznec
individua nel testo delle Metamorfosi
il principale mediatore della cultura mitologica nel Rinascimento), rilevava,
nelle immagini che seguono [figg. 1-2], un
cambiamento particolare nel modo di rappresentare i personaggi mitologici,
tutto proteso al recupero delle forme classiche, annoverando la nudità delle
Furie come attributo classico a loro confacente. Fra breve constateremo quanto
è inappropriata questa affermazione. Premesso che ancora oggi non esiste una
letteratura sulle Furie, questo “insolito” modello iconografico è presente nel
vasto repertorio d'immagini delle prime edizioni a stampa che dal ‘500
caratterizzano i filoni letterari in cui esse compaiono .
Nella prima immagine si illustra,
del mito di Ino e Atamante relativo al IV capitolo delle Metamorfosi di Ovidio, l'episodio di Giunone che, a causa dell'offesa
arrecatale dalla superbia dei due suddetti protagonisti, scende negli inferi e
persuade le Furie a intervenire contro di loro, punendo così il torto ricevuto.
La teoria, frutto della storiografia ottocentesca, secondo la quale la tendenza
alla riappropriazione delle tradizioni antiche è tipica del Rinascimento, qui
si espliciterebbe sia nel nuovo interesse artistico che suscitano i reperti archeologici
presi a modello per la resa dei nudi più veritieri e naturali, sia nell'approccio
generalmente rispettoso delle forme classiche. La veste di Giunone , le
teste anguicrinite delle Furie, il corpo nudo di Tizio, come pure quello degli
altri eroi condannati ai rispettivi supplizi infernali e quello di Venere e
Nettuno, rappresentati nella seconda immagine ,
sono tutti attributi classici e pertinenti, ma la nudità delle tre Furie,
diversamente da quanto sostiene Guthmuller, non fa parte del tradizionale
modulo figurativo a loro confacente né tanto meno di quello classico testuale giacché
esula dalla loro cultura d'appartenenza .
Inoltre, nella seconda immagine che illustra la Follia di Ino e Atamante,
provocata dall'intervento della Furia Tisifone, quest'ultima è accompagnata da
tre personaggi, le malvage sorelle, Terrore, Infamia, Paura, del tutto insoliti
dal punto di vista figurativo. Infatti, le personificazioni che stanno al
seguito di Tisifone, nel testo ovidiano delle Metamorfosi ,
sono quattro e sono solo delle figure simboliche, seguaci della Furia; ora
invece, nella versione del Buonsignori , diventano
impropriamente le sorelle di Tisifone e, come tali, vengono rappresentate. In
questo ultimo caso, l'anonimo illustratore sembra aver interpretato alla
lettera la nuova versione del testo e, in assenza di un modello figurativo a
cui ispirarsi, ha creato, con un risultato piuttosto ingenuo, queste nuove
personificazioni diaboliche. Nelle miniature dei più antichi codici dell'Ovide Moralisè e del più tardo Ovidius Moralizatus illustranti il IV
libro di Ovidio, infatti, non esistono precedenti figurativi relativi alle
Furie. In essi le Furie non sono rappresentate giacchè predomina la figura di
Giunone : in particolare, la
vicenda concernente la discesa di Giunone agli Inferi e il ritorno della stessa
in cielo viene separata dall'episodio di Ino ed Atamante, estrapolato come
un'argomento a sé stante, così da rendere il posto “d'onore” che spettava alla
dea del cielo e alle relative significazioni morali in senso cristiano .
Il tema della follia di Ino e
Atamante torna ad essere illustrato e, in qualche maniera, tenta di
riappropriarsi della tradizione testuale classica nella seconda metà del XIV
sec. Nella Discesa di Giunone agli Inferi (ms. Cassaf. 3. 4, fol., 53 (s. 138), Bergamo, Biblioteca Civica), ad esempio , la figura grottesca di Tisifone presenta il suo attributo classico per eccellenza, il serpente. La volontà di accentuare il suo carattere “mostruoso” si individua soprattutto nella figura gigantesca di
Tisifone e dalle fattezze decisamente sproporzionate e deformate del suo volto
che emergono dal cappuccio del saio nero sul quale si scorge un serpente .
In alcuni codici
quattrocenteschi, nel rispetto delle prerogative culturali delle Erinni greche,
ignoti illustratori sembrano recuperare il sostrato più arcaico della cultura
classica a loro confacente; le Furie non sono però ancora nude. Queste ultime
che, nella tradizione dei manoscritti illustranti la descrizione degli antichi
dei risultano essere nel regno di Plutone, sono vecchie, nere come la tunica
che indossano e, in luogo dei piedi e delle mani, che in genere tengono i
serpenti, hanno anche artigli. Questi attributi insieme alle ali,
appartengono ad un repertorio non solo classico, ma soprattutto alla tipologia
delle cosidette creature extraumane . Più
che alla verità dei fatti, la nudità delle Furie del Gutmuller, somiglia ad un
assioma o un postulato dedotto non certo dalla coscienza del patrimonio culturale
e figurativo a loro confacente ma, come intendo dimostrare, dall'iconografia
rinascimentale in cui la nudità delle Furie assurge a carattere distintivo di
queste creature .
Nelle tradizioni a stampa delle Metamorfosi e della Divina Commedia la presenza delle Furie attestata dai numerosi
documenti figurativi (silografie, incisioni, affreschi, ecc.), è invece connotata
dalla nudità e il tema al quale esse sono generalmente associate è quello delle
scene infernali. Infatti, nude e più espressamente mostruose le tre Furie, che
ritroviamo questa volta nell'immagine infernale della Commedia dantesca
realizzata da Sandro Botticelli, si dimenano sul bastione della torre della
Città di Dite (Dante e Virgilio all'ingresso della Città di Dite. Sanguigna a penna eseguita da Sandro Botticelli, Reg. Lat. 1896, c. 97
v. ; riprodotta anche nel catalogo).
A dispetto della precedente tradizione
figurativa relativa alla prima edizione stampata dell'Ovidio Methamorfoseo Vulgare, le tre Furie, nell'immagine
illustrante il IX canto dell' Inferno dantesco, sebbene nude e anguicrinite, non
sono miti e inoffensive ma si dimenano minacciose con un serpente attorcigliato
alla vita, sporgendosi dalla merlatura della torre. Quella di rappresentare il
corpo nudo delle Furie sembra essere diventata una caratteristica figurativa e
distintiva di esse; tuttavia, qui il loro corpo viene ulteriormente mortificato
da una vecchiaia con valenze che rimandano alla bestialità, tratti latenti già
nella tradizione classica. Se le Furie, infatti, sono anguicrinite, vecchie e
hanno il corpo cinto da un serpente avviluppato in vita, l'aspetto cadente
della pelle, che è tipico piuttosto delle personificazioni diaboliche, le
mortifica ulteriormente.
A questo punto, sarà opportuno
chiederci chi erano le Furie, nate dal pensiero mitico dell'antichità, per un
artista rinascimentale e, soprattutto, perché si tradusse in nudità la loro
forma figurativa ?
A partire dalla formulazione dei
loro caratteri nella religione greca, fino al pensiero rinascimentale, tali
personaggi hanno una presenza nella mitologia complessa e diversificata che, di
volta in volta, si esprime in diverse varianti in cui le Erinni, poi Eumenidi,
ma in queste realizzazioni figurative anche le Furie, trovano espressione in
nuove forme iconografiche sintomatiche di una costruzione culturale complessa
che rifugge dalle generalizzazioni.
Le Erinni, nella concezione
greca, sono inserite geneologicamente in
contesti di entità divine che, tenendo conto delle varianti, ne delineano il
collegamento con la dimensione dei primordi e,
allo stesso tempo, la funzione di persecutrici di quanti si macchiano di
delitti di sangue secondo l'antichissima legge del genos , che
tutelava i legami tra consanguinei e precedeva il diritto cittadino . La
cultura greca fonda le proprie origini e garanzie di ordine sociale in un tempo
mitico, nel quale la società osservava patti e giuramenti fra individui e
fratrie. In assenza di una giustizia che fosse garantita da leggi e tribunali,
la vendetta di sangue costituiva l'unica forma di solidarietà fra membri dello
stesso gruppo, per cui il consanguineo era chiamato a vendicare il
consanguineo. La vendetta tribale, tuttavia, non poteva essere esercitata
all'interno della famiglia perché avrebbe generato un circolo senza fine di
sangue e contaminazione; da qui, la necessità di affidare la punizione a entità
vendicatrici, alle quali il colpevole veniva consegnato con maledizioni. Nella dimensione
terrena, propria del tempo del mito, dunque, era possibile l'intervento diretto
di esseri extraumani; le Erinni, ad esempio, “custodivano i patti leali”.
Restando incerta l'etimologia del
nome, le dee sono accompagnate, tuttavia, da epiteti che le caratterizzano
negativamente come creature esplicitamente “odiose
”, “mostruose ”, “nere ”, “ripugnanti ”,
ecc. Nella Teogonia esiodea, ad
esempio, pur discendenti da Gaia (terra), le Erinni dimorano
sotto terra , nel regno dei morti. La
sede dei defunti o trapassati nella tradizione greca era sotterranea e,
qualificata concordemente dalla tradizione come luogo privo di luce ,
spesso denominato Ade, ma noto anche come Erebo e cioè “oscurità, tenebra”, si
configura come un luogo contrario alle condizioni ambientali necessarie alla
vita umana. Le odiose Erinni vagano nel buio dell'Erebo secondo Omero, per
Esiodo è il Tartaro ed è
questo il luogo infero dove sono relegate anche altre entità che hanno operato
nella dimensione dei primordi . Le
dee hanno nessi espliciti e sono caratterizzate da tratti negativi: creature
ctonie, senza discendenza, alle quali non si accompagna mai nessuno degli dei,
né uomo, né fiera , si
contrappongono alla terra e alle forme della vita umana
(solo sulla terra si raccolgono i frutti e vive l'uomo) e non solo per la loro
“improduttività”.
Oltre alla collocazione in uno
spazio extra-cosmico (Tartaro-Erebo-inferi) su cui le tradizioni menzionate più
sopra concordano, tratti palesemente sinistri si inseriscono, in maniera
coerente, sia sul piano delle azioni mitiche che su quello delle “qualità”
fisiche .
Caratterizzate da una folgorante
rapidità di movimento , le
dèe perseguitavano il colpevole tanto nell'oltretomba quanto sulla terra ,
costringendolo alla follia e spesso all'esilio ,
separandolo dal gruppo, contaminato dal suo delitto. Per questo compito, spesso
descritto come una caccia efferata, le Erinni, dagli occhi bramosi di vendetta ,
vengono paragonate a cagne assetate di sangue , ma
anche alle Gorgoni . D'altra
parte, non solo il modo anomalo in cui Gaia concepisce le Erinni, a seguito
dell'evirazione di Urano “ché quanti
schizzi di sangue si erano sparsi, tutti li accolse la terra ”, le
colloca a margine della stirpe che è nata dalla loro unione , ma
il rilievo dato da Esiodo a questo evento, di cui precisa che non invano caddero dalla sua mano (la
sinistra mano di Crono) il sangue/seme delle creature ctonie, lo indica come
significativo. L'aggettivo Skaios,
riferito alla mano significa, infatti, “sinistro” nel senso di luogo, ma anche
nel senso figurato di “infausto”, “infecondo”. Con il che il poeta pone
l'accento sul carattere negativo/impuro della loro nascita determinata da
un'azione già significamente deplorevole .
L'efferatezza con cui Crono taglia a Urano “la sua parte migliore”, pur
nell'intento di vendicare la madre e i fratelli per i misfatti del padre porta,
infatti, il segno dell'empietà . Macchiato
di sangue paterno, il regno di Crono, a cui corrisponde la seconda generazione
divina, subirà la stessa sorte, ma questa volta a spodestarlo sarà il padre
dell'ultima stirpe divina, capostipite di tutti gli dèi e gli eroi, Zeus. L'avvento
del suo regno, infatti, riscatterà non solo il debito dovuto alle Erinni del padre suo e dei figli che aveva divorato
il grande Crono ma,
con il subentrare delle leggi civili, segnerà l'inizio di un'etica nuova e la
fine della fosca catena di violenze che porterà la chiusura del tempo del mito
e l'avvio della realtà storica. Le Erinni, come anche i fratelli Giganti, non
erano solo le vetuste creature della generazione anteriore a quella Zeus, ma
anche quelle che, successivamente, in opposizione al regno divino ufficiale,
dovranno soccombere (i Giganti) o essere reintegrate (le
Erinni); infatti, nel tempo storico, con la fondazione della giustizia della polis ,
verranno collocate, in connessione a tali delitti ,
sempre nell'oltretomba ,
aprendo lo spazio alle “Benevole” Eumenidi .
Questa trasformazione s'impone
con forza e spessore sulla scena tragica ,
dove in Eschilo e, sul suo esempio, in
Sofocle viene rappresentato il
passaggio dall'originaria implacabilità delle Erinni a una valutazione della
colpa, per cui le Erinni (divinità vendicatrici pre-cosmiche) si trasformano in
Eumenidi che regolano la giustizia cosmica ordinata attraverso le sacre leggi
della collettività umana. Divengono benevole
(Eumenidi, come recita il titolo della tragedia eschilea) e stabiliscono con
l'Attica un rapporto tutto particolare di protezione , che
allude altresì all'eticità intrinseca della terra di Atene .
Le dee sono entrate nell'arte e
la loro personalità si è sviluppata secondo il concetto dell'Erinni-Furia del
mondo greco-romano, in cui vengono rappresentate come tremende e punitrici scarse
sono invece le testimonianze in cui esse sono benefiche e propizie, secondo la
concezione delle Eumenidi come “le Venerabili” .
Non siamo in grado di dire fino a
che punto la tendenza greca di
attribuire forme e facoltà umane all'essere divino mitigò la tradizionale
fisionomia dai tratti mostruosi delle Erinni; d'altra parte, anche l'analisi
dei dati non collima con l'esiguo repertorio d'immagini che nell'antichità
caratterizzano le diverse tradizioni . Le
Erinni della tradizione poetica sono terrificanti: se per Eschilo i loro occhi
emanano sgradevoli umori e un sangue ributtante , il
grosso della tradizione insiste sul loro sguardo terribile che
ricorda quello delle Gorgoni e
aliena loro ogni vicinanza, tanto da essere caratterizzate col paradosso o
l'espressione di “vecchie fanciulle” . Come
le Gorgoni, le Erinni hanno in comune un aspetto orribile, i serpenti, le ali e
la canizie, un fenomeno affatto nuovo nella mitologia greca ,
quest'ultimo tratto, richiama più una vecchiaia primordiale che non una
caratteristica fisica esplicitamente mostruosa delle Erinni .
D'altra parte, il fatto di presentare caratteri più o meno pronunciatamente
ofiomorfi (la presenza di serpenti) e ornitomorfi (la presenza delle ali),
collegano le Erinni non solo alle Gorgoni, ma anche ad Eros, a Iris e alle
Arpie , un
legame cioè che sottintende la loro appartenenza ad un tipo di entità
potenzialmente ostili all'ordine di Zeus.
L'iconografia delle Erinni,
normalmente associata a quella di altri personaggi mitici o anche da sola, si
attesta tra la metà del V sec.
a.C. e il II sec. d.C.. I temi ai quali esse sono generalmente associate si
ripartiscono in due categorie: le scene infernali e quelle ove figurano insieme
agli eroi e alle divinità. In entrambi i casi, esse intervengono sia in gruppo
sia isolatamente e, in generale, nel ruolo di personificazioni vendicatrici e
persecutrici dei colpevoli dei delitti di sangue. Oscuro ed enigmaticamente
parziale, il quadro della loro rappresentazione artistica, si chiarisce
parzialmente con Eschilo che rimane il portavoce non solo della personalità
poetica delle Erinni, ma anche l'ispiratore della loro rappresentazione artistica.
Quando le porta in scena, simili alle Gorgoni
dell'arte preclassica, intreccia la loro capigliatura di serpenti e nelle loro
mani pone delle lunghe torce. Il colore della loro carnagione è nero ,
come pure sono nere le ampie tuniche che le ricoprono ; la
caratteristica principale del loro essere fisico è la rapidità alla corsa .
Sebbene non attribuisca loro le ali, Eschilo le rappresenta lanciate
all'inseguimento del colpevole in una corsa sfrenata e furiosa, come
cacciatrici che inseguono le tracce di sangue della loro preda. Le più antiche
rappresentazioni che suggellano questa rapidità folgorante le ritraggono in una
corsa dalla falcata molto accentuata: così viene interpretato l'epiteto di
“celere-veloce”, attribuito loro da Sofocle. Malgrado non distingua nomi propri
e funzioni specifiche, Euripide stabilisce il numero delle Erinni in tre e le
descrive, per la prima volta, alate. Il poeta delinea, attraverso i
caratteristici calzari alati (endromides),
la loro personalità di cacciatrici infaticabili.
Se, inizialmente, la loro veste è
il talare (veste lunga fino ai piedi) sostenuta da una cintura in vita, questa
poi viene sostituita dalla tunica corta che consente maggiore libertà di
movimento, alla quale viene aggiunta una clamide di colore nero.
Sui vasi attici le dee figurano a
piedi nudi, ma spesso portano gli endromidi da cacciatrici. I soli attributi
costanti sono i serpenti che esse tengono nelle loro mani o che si mescolano ai
loro capelli; essi possono trovarsi simultaneamente sia nella capigliatura che
nelle mani [fig. 3]. Inoltre, la posizione delle Erinni nelle scene figurate è
ugualmente variabile, così come il loro numero che non corrisponde affatto alla
tradizione poetica .
Esse, infatti, possono essere due, tre, cinque o anche una sola. Attraverso le
loro vicende si esprime, dunque, la concezione fondamentale dell'antico spirito
ellenico di un mondo caotico, non ancora ordinato dalle leggi, che è alla base
della realtà organizzata, che viene ad instaurarsi anche con l'intervento di
entità extra-umane, caratterizzate da elementi che le connettono a questa
dimensione dei primordi .
Tutto il “mostruoso” o
“terrifico” che, associato alle Erinni, troviamo rappresentato in Eschilo con
tratti in larga parte positivi, si palesa nella forma delle Eumenidi o Venerabili, di cui sopra si è già detto. Le Eumenidi in Eschilo sono
presentate in modo più rassicurante rispetto alle Erinni; tuttavia, il loro
repertorio iconografico è, rispetto alla tipologia delle Erinni, conosciuto
solo dai bassorilievi [fig. 4] trovati ad Argo, nel bosco a loro consacrato .
Provenienti dall'Argolide, i
bassorilievi fanno parte di ex-voto
che, a tutt'oggi, testimoniano l'unica iconografia relativa al culto delle
Eumenidi : l'iscrizione Eumenidi,
scolpita su tre di essi, conferma tale identificazione. In mancanza di
testimonianze storiche o letterarie, Argo fornisce tre bassorilievi in cui il
modulo figurativo delle Eumenidi si fissa su una iconografia ben definita. In
ciascuno di essi le tre dee, qui connotate da un'aspetto più decisamente umano,
indossano il talare e tengono un serpente arrotolato in una mano, e nell'altra,
un fiore. Generalmente uno o due oranti (marito e moglie) in atteggiamento di
preghiera figurano davanti a loro in posizione stante; tuttavia, l'iconografia
è molto più articolata e va indagata con un continuo riferimento ai concetti
che rappresenta. L'iscrizione “supplichiamo gli dei”, che appare su uno di
questi bassorilievi, assume un chiaro valore propiziatorio, invocante la buona
sorte. Non c'è dubbio che qui le Eumenidi, come coloro che presiedono alla
fortuna della famiglia, siano invocate allo scopo di favorire fecondità ad
un'unione fino ad allora sterile. Le Eumenidi, in virtù dei loro attributi
dalle valenze ora positive (serpenti inoffensivi e una spiga di grano o un
tulipano che, non a caso, recano nelle rispettive mani destre), mantengono
intatta la funzione di garanti della “nuova” giustizia. Tuttavia, alle
“maledizioni” che, nel tempo del mito ,
costituivano la precedente forma di giustizia e garantivano l'ordine sociale,
richiamando l'azione vendicativa delle Erinni , ora
si sostituiscono preghiere invocanti l'esclusiva azione benefica. Nonostante la
radicalità di questa trasformazione, l'iconografia ne risulta influenzata solo
in questo caso. Nelle tradizioni successive le Eumenidi riacquistano le
funzioni ctonie e riassumono la loro identità con tutte le caratteristiche
mostruose .
Le Furie nella cultura romana
Le specifiche personalità delle
Erinni, delineate nell'accezione malefica, vengono infatti ricodificate dai
Romani, al punto che le antiche dèe della vendetta greche si identificano con
la “misteriosa” Furrina
dell'arcaica religione Romana . Di
questa enigmatica entità mitica e del culto tributatole rimane, purtroppo, solo
una traccia nel più antico testo sacro della religione romana : il
Calendario festivo arcaico in
cui figurano solo i nomi abbreviati di tutte le feste celebrate nella città ed
anche quelle “fuori porta” ; tra
queste, Furrina era la divinità titolare di una festa che si celebrava il
venticinque di luglio della quale, però, già agli eruditi romani del tempo
sfuggiva l'antico significato .
Inoltre, e aggiungerei sfortunatamente, la maggior parte della documentazione
letteraria pervenuteci sulla religione romana, appartiene già al mondo
culturale tardo ellenistico, ad un'epoca in cui, cioè, la civiltà romana ne
assimilò aspetti culturali.
“Nella cultura romana la
componente mitica, lungi dall'essere annullata, svolge la funzione di fondare
specifici valori della romanità, ogni volta che la storia, imponendo precise
esigenze esistenziali ad una società costantemente tesa a plasmarsi, la chiama
a rispondere ad esse ”.
Pertanto, il “singolare” politeismo romano, che non coinvolge gli dei in
racconti mitici, è un sistema vincolato dalla presenza di personaggi “storici” , che
si serve del culto, o meglio, della componente sacrale come elemento
immunizzante dalla dimensione mitica, estranea e potenzialmente pericolosa
rispetto alla gestione del presente . La
religione e la legge che su di essa si fonda, diventano fondamentali per
tutelare e garantire l'unità e l'identificazione dei valori dell'intera
comunità romana. A questo proposito non è fuor di luogo notare che nell'arcaico
sistema lunisolare romano , la
celebrazione dei Furrinalia al 25 di luglio, connota la festa di specifiche
valenze sacrali negative. Considerato un “ultimo mese” dell'anno, a partire dal
periodo immediatamente successivo alle idus ,
luglio era scandito da una sequenza di commemorazioni sacrali esiziali: Dies
Alliensis (18 luglio), Lunaria (19 luglio), Neptunalia (21 luglio), Furrinalia
(25 luglio) .
Collegata ad eventi e situazioni
funeste che non hanno nulla in comune con la dimensione perfetta e ordinata che
è Roma, la festa dei Furrinalia, l'ultima della serie, risulta strettamente legata all'oscuro mondo dei
trapassati, quella dimensione terrifica che il calendario circoscrive ,
innesca e disinnesca in un momento che, in origine, coincideva con la
conclusione dell'anno solare .
Roma esercita questo sistema di controllo a tutela dei propri valori non solo
idealmente, ma anche concretamente: il sistema calendariale si basava infatti
sulla scelta cosciente di norme e gerarchie stabilite a priori che, sistematicamente
impostate dai pontefici ,
venivano fatte filtrare nel calendario festivo al fine di orientare la società
verso quelli che erano i valori (politici, giuridici, etici) sui quali Roma si
fondava. I “depositari della sapienza religiosa romana”, i pontefici, erano
cioè coloro che avevano la funzione di redigere i precetti sacrali e giuridici
del calendario festivo; registrando gli avvenimenti e le magistrature,
sancivano i rapporti tra le diverse divinità, le caratterizzavano e dedicavano
a ciascuna di esse feste legate a particolari stagioni, momenti agrari, solari,
lunari, stabilivano rapporti tra di loro anche attraverso la contiguità delle
feste le diverse pratiche rituali, alle più importanti delle quali provvedeva
un Flamen . Infine, la scelta affatto
casuale della collocazione ambientale
dei loro luoghi di culto differenziava le singole divinità.
Alla luce di questi dati, è ora
più chiara l'importanza che, nell'ambito della struttura politeistica della
religione romana, la
misteriosa Furrina ha rivestito. Come si evince
dall'assegnazione di un Flamen operante al suo servizio, il
che presuppone l'esistenza di un edificio nell'area sacra interessata, quanto
dalla celebrazione di sacrifici annuali che
prevedevano una festa pubblica, l'importanza di Furrina e dei Furrinalia,
ufficializzati da Varrone ancora nel I sec. d.C., è indubbia. Non è invece
ancora possibile definire, in termini più specifici, le molteplici valenze
politico-sacrali legate al luogo di culto della dea che, per tradizione , costituisce
la versione latina delle Erinni.
In passato le indagini condotte
al fine di chiarire l'associazione, in chiave politeistica, della Furrina con
una o più entità extraumane infere, non portarono che a risultati assai modesti
.
Tuttavia, grazie ad un recente studio congiunto sull'argomento, le numerose
interpretazioni, che un tempo non consentirono di comporre un quadro unitario
per la diversità dei risultati raggiunti e la mancata convergenza degli
studiosi, solo oggi hanno trovato una formulazione più organica. Dell'impianto
cultuale arcaico pertinente a questa misteriosa entità divina, purtroppo,
ancora oggi si ignorano struttura e dinamica sacrale ma, benchè l'imbarazzante
riserbo della documentazione letteraria e archeologica
sembrasse destinarla ad una oscurità perenne, oggi gli ultimi studi che hanno
indagato l'argomento, hanno raggiunto, rispetto al buio del passato, un grado
di chiarezza maggiore che merita un breve cenno.
Sotto i bene auguranti auspici di
G. Piccaluga , la cui minuziosa e
paradigmatica esposizione a riguardo risale già al 1981, l'argomento infatti è
tornato recentemente ad avere un momento di intenso interesse e non solo dal
punto di vista storico-religioso ma,
soprattutto, indagando la particolare realtà politico-sacrale dell'area in cui
venne ambientato il complesso cultuale di Furrina.
La ricerca, che ha coinvolto
studiosi di molteplici discipline, è sfociata in un convegno che per la prima
volta ha interessato l'area del Gianicolo . La
costruzione riportata in superficie ai primi del secolo in luogo dell'antico Lucus Furrinae, aveva sì rivelato delle
prospettive salvifiche ma solo in relazione alla fase relativa al santuario
siriaco. Qui, infatti, sulle pendici settentrionali del colle, gli scarsi
ritrovamenti archeologici nella zona del Lucus
Furrinae avevano permesso di
localizzarne il culto nell'area sottostante alla Villa Sciarra, tuttavia,
nell'area interessata dal Santuario siriaco che appartiene alla fase
monumentale successiva a quella arcaica di Furrina, gli ultimi e pur brevi
scavi eseguiti non hanno permesso conclusioni in proposito. Così, attraverso il
confronto incrociato fra mito, storia e topografia, lo studio, condotto sulla
base delle implicazioni storico religiose proprie di Furrina, ha consentito di
vagliare le molteplici valenze politico-sacrali strettamente legate
all'ambiente in cui il complesso cultuale della dea risultava inserito sin
dalle origini. L'antico culto dei Furrinalia sarebbe stato legato, come
testimonia l'inserzione di esso nell'arcaico sistema calendariale di cui si è
già parlato, al ciclo dell'anno agricolo, fra i culti collegati con le acque
correnti in un momento di massima siccità del territorio, che chiudeva per
ultimo il mese di luglio. Circa le presunte teorie salvifiche attribuite al
culto legato all'esistenza di una fonte, avanzate dalla Piccaluga e dal
Glaucker in merito all'ambientazione del complesso cultuale facente capo alla
dea, non sono state ancora avvalorate dagli scavi.
Dello spazio occupato
dall'impianto cultuale a lei pertinente, si sa che già in epoca arcaica
governava sacralmente l'area dell'antico lucus
,
occupando i confini dell'ager Romanus antiquus nella parte
interessante la riva destra del Tevere, sul Gianicolo. Lo stanziarsi del lucus
Furrinae in un'area storicamente e geograficamente definita ai confini
dell'urbe non è casuale, ma prescinde dalle specifiche valenze dell'impianto
cultuale della dea. Connotato come luogo esterno e distaccato dalla città, per
mezzo del Tevere, il Gianicolo infatti risultava estraneo allo spazio urbano
realmente vissuto, almeno sino al VII sec. a.C. Fondamentale nodo strategico
che, in più occasioni, aveva condizionato pesantemente la sicurezza di Roma,
nel VI sec. il Gianicolo, interessato da un complesso sistema di interventi,
risulta inserito nell'ambito del sistema difensivo della città romana.
Al di là della connotazione
puramente estetica del (lucus)
imputato come selvaggio, in quanto ambiente non condizionato storicamente
dall'uomo, l'ubicazione del culto di Furrina in un'area come quella non è
affatto casuale. Inoltre collocato lontano dall'urbe, sul Gianicolo connotato,
sin dalle origini, dalla tradizione mitica come luogo altro, ricettacolo
dell'alterità destinato ad accogliere i morti, in virtù di questo carattere che
contrasta con la dimensione ordinata e realmente vissuta da Roma, incute il
timore dei trapassati. L'ambientazione in un'area incontaminata, che non è
stata adattata e plasmata dall'uomo e che rappresenta uno stato di natura
selvaggia, insidiosa, imprevedibile, pertanto, connota questa entità extraumana
attiva nel presente e, per questo, oggetto di culto, nella sfera sacrale della
dimensione dell'alterità.
Se la fase più arcaica di Roma
appare caratterizzata da una scarsa ideologia oltremondana , in
epoca tardo repubblicana e poi imperiale risulta invece evidente l'apporto della Grecia. Uno dei
risultati di questo connubio fu la diffusa tendenza a identificare entità
extra-umane greche con quelle latine, che portò a numerosi casi di assimilazione.
Pertanto, se già era stata influenzata dalla cultura etrusca, indiscutibilmente
ricettiva nei confronti di temi mitologici greci, dalla quale eredita la
straordinaria importanza attribuita alla morte e ai morti, la cultura Romana
mutua esseri mostruosi che avevano il compito di “governare” gli spiriti dei
defunti. Orcus, ad esempio, l'essere orribile che
governa il regno dei trapassati, a seconda dei casi, oltre che con Hades e
con Pluton si identifica anche con
Thanatos , e le Erinni, vedendosi
assegnare gli stessi nomi di Aletto, Tisifone, Megera, a seconda dei casi,
diventano Furrina ,
Furiae o anche Mater Mania, aquili dii et alii tristes divorum .
Queste caratteristiche si esemplificano, in tutte le loro sfaccettature, negli
scritti dei poeti latini. Al tempo di Cicerone, infatti, gli scrittori latini
riconducono il nome al verbo furere (infuriare) e traducono Furrina con Furia che, al plurale,
diventa il nome latino delle Erinni: Furiae.
Ora, l'interpretazione del nome etimologicamente errata, ma funzionale alla
nuova identificazione delle Erinni, ha permesso di supporre che Furinae
sarebbero: Manìa, la madre dei Manes (spiriti dei defunti); le Larvae
(spettri); Lemures (anime dei morti-fantasmi), gli spiriti della regione dei
morti e dei fantasmi, dei quali Plutarco
dice che, simili alle Erinni, essi sorvegliano la vita degli uomini e le loro
case .
Nella religione romana tarda,
inoltre, le Furie cagionano o accompagnano non soltanto la guerra, ma anche la
malattia; esse, infatti, sono alleate con la Discordia, la quale, come le
Furie, ha il capo anguicrinito e ancora, Poena o Pene, personificazione del
castigo e della vendetta, è madre delle Furie. Questo fa delle Furie delle
entità astratte non perfettamente definibili e comunque sinonimi di
qualcos'altro: associate alla Guerra, alla Discordia, alla Malattia.
Più esplicitamente mostruose e
anticosmiche delle greche Erinni, alle quali vengono accostate, le Furie,
violente non solo nel punire i delitti familiari ma ora potenziali creature
pronte a scatenare calamità di ogni sorta, sembrano avere una più decisa
caratterizzazione negativa che si riflette nei loro molteplici aspetti. Esse,
infatti, come le Erinni, continuano ad occupare, nel corteo delle divinità del
regno sotterraneo, il posto più importante :
sono ormai, come si è detto, generalmente tre, Tisifone, Megera e Aletto,
ciascuna caratterizzata da una specifica personalità, e, contro la vittima,
avanzano con le mani armate di torce e il corpo cinto di serpenti .
Tuttavia, se nell'antico mondo greco è il sangue versato a richiamare
immediatamente le Erinni alla vendetta , in
quello romano, le Furie si limitano ad eseguire i loro compiti per conto degli
dèi oltraggiati che, scendendo nell'Averno, intercedono personalmente, ordinando
a queste divinità di punire i colpevoli .
Il loro compito è ancora quello
di sancire alcuni comportamenti come aberranti per l'ordine umano e punirne,
quindi, i peccatori, sia quelli defunti, nell'Averno, sia quelli ancora viventi
. Tuttavia,
per i Romani, che non distinguevano sottilmente tra concetti astratti e
divinità che li rappresentavano, le Furie scatenano odio, rancori, discordia,
furore, follia e guerre.
Nel mondo romano, la
documentazione iconografica delle Furie, generalmente legata al repertorio
tematico del mito di Oreste, è prevalentemente costituita dalla scultura che
occupa, dal punto di vista delle tecniche di rappresentazione, il posto d'onore
. Se
si esclude infatti la pittura murale che ritrae l'immagine alata della Furia
nella Villa dei Misteri in cui, peraltro è verosimile ipotizzare l'influenza
della tradizione poetica virgiliana, la quasi totalità del repertorio delle
Furie si fissa sui sarcofagi scolpiti a rilievo [fig. 5].
Nella cultura figurativa Romana, le Furie conservano un'iconografia pressoché
identica a quella delle Erinni e, come queste ultime, perseguitano i colpevoli
facendoli impazzire: sono paragonate a cagne ,
indossano generalmente un corto chitone, hanno ali per inseguire e
torce per colpire .
I serpenti si intrecciano alla
loro capigliatura , si
arrotolano intorno alle loro braccia e/o servono da cintura, mentre le torce,
usate come un'arma, vengono ora lanciate contro le vittime, ora agitate per far
scaturire fiamme più consistenti. Abitano l'ingresso della dimora di Dite,
presso le fauci spalancate di Orcus, insieme ad una schiera di entità per lo
più astratte che connotano l'esecrabilità del luogo: Furie, Morbi, Fames,
Discordia, ecc.
Pur tuttavia, nella descrizione
che scaturisce dalla tradizione dei poemi epici alessandrini e romani, le Furie
che in tante figure si mutano ,
rispetto alle Erinni e in virtù di questa nuova connotazione che le vede mutare
in relazione a vicende strettamente luttuose, acquistano ulteriori valenze negative.
Infatti, componenti più sinistre delle Furie, non contemplate dalla tradizione
classica greca, entrano a far parte della visione dell'aldilà propria della
cultura romana. Così se la cultura greco-ellenistica alle Erinni/Eumenidi
consacrava le tortore perché, come spiega Eliano ,
considerati animali virtuosi nei confronti dei propri legami familiari, come le antiche dee tutelavano i legami
familiari, da Virgilio in poi, alle figlie della Notte viene associato il gufo
che, da uccello notoriamente sinistro, ne sottolinea l'aspetto tetro e notturno
.
Inoltre, a differenza di queste, le Furie si servono dei serpenti per
avvelenare , di sferze per
colpire, e di un manto orrido e sanguigno per
salire nel mondo umano, tenuto stretto in vita da un serpente . La
bocca di Tisifone poi, che esala un vapore di fuoco da cui emana malattie e
pestilenze, è nera e la sua pelle insanguinata è intrisa di veleno . Ma
la descrizione più celebre per la funzione di modello indiscusso ed esemplare
che rivestì nell'ambito della rappresentazione infernale, è rappresentata dalla
descrizione dell'Ade virgiliana (Tisifone davanti le mura della città di Dite, Vat. Lat. 3225, c. 49 r.; riprodotta anche nel catalogo: Sandro
Botticelli Pittore della Divina Commedia,
a cura di Giovanni Morello e Anna Maria Petrioli Tofani, Skira, Ginevra-Milano,
2000, vol. 2, pagg. 56 e segg.). La porta della città di Dite è di acciaio
e sulla torre di ferro Tisifone, avvolta da un manto insanguinato , fa
la guardia a questo luogo di tormento. La Città virgiliana che è circondata dal
Flegetonte, comprende sia il dominio delle pene che il regno della pace: a
sinistra vi sono i bastioni che sbarrano l'accesso al Tartaro, ma a destra
sorgono quelle che presiedono la reggia di Plutone e l'accesso ai Campi Elisi. Qui
Tisifone appare, per la prima volta sola senza le altre due sorelle, tradendo
la versione testuale mentre è a guardia della porta che conduce nella città
avernale e non in cima alla torre infuocata. Qui, infatti, collocata al di
fuori delle mura della città di Dite Tisifone, che è la terribile sentinella,
suggerisce un concetto legato alle funzioni che Virgilio gli attribuisce:
quello della motilità, che consente loro di muoversi liberamente tra il regno
sotterraneo e la terra.
Nel Tartaro, secondo l'immagine
tradizionale già incontrata nelle Erinni, le Furie che ad esse vengono
associate, sono le cagne infernali che non solo emettono latrati ma, come le
altre entità collettive poc'anzi citate, dispensando le peggiori pestilenze
dell'esistenza; infatti, messe in relazione con il Furor, si muovono anche tra
i vivi per seminare orrore, discordia e follia.
Le Furie nella cultura medioevale
La tradizione figurativa delle
Furie, nel medioevo, non conserva le medesime caratteristiche generali che
abbiamo descritto fino ad ora. E' necessario, pertanto, rintracciare
quell'eredità nella tradizione artistico-letteraria del cristianesimo delle
origini per capire in che modo essa è stata raccolta, riconosciuta e fatta propria in quest'epoca.
Per la vicenda
che qui si vuole ricostruire, il ruolo di Fulgenzio è davvero di fondamentale
importanza: da un lato offre un'interpretazione allegorica delle Furie la cui
struttura contribuisce alla diffusione della loro conoscenza, dall'altro, e
soprattutto, diventa quasi normativa per i secoli a venire, tanto da costituire un termine di riferimento obbligato
per chi, fra Quattro e Cinquecento, affronta l'argomento. I Mythologiarum libri di Fulgenzio
Planciade, erudito africano vissuto tra il V e VI secolo e conterraneo di
sant'Agostino, saranno infatti nel Quattrocento parte indispensabile del sapere
di chi si formava nelle scuole. Sintesi enciclopedica del vasto patrimonio
dottrinale e mitologico antico, Fulgenzio procede con metodo già scopertamente medioevale,
alla sistematica applicazione dell'interpretazione allegorica ai singoli miti
per scoprire in ciascuno la “luce della verità”. Le
tre Furie, serve di Plutone, secondo Fulgenzio, simbolizzano l'Iracondia e, in
virtù della loro triade, egli ne stabilisce una gerarchia : la prima, Aletto
significa senza letto, senza quiete; la seconda, Tisifone è la voce dell'ira
perchè è propria della voce moltiplicarsi e, in ogni luogo, eccita alla
discordia; la terza, Megera, è colei che grandemente litiga e per questo
rappresenta la lite e le grandi contese. In sostanza per Fulgenzio l'iracondia
è caratteristica propria delle Furie, che senza sosta eccitano alla discordia e per questo
vengono chiamate anche dee della Discordia. Dopo Fulgenzio, la concezione delle
Furie subirà ulteriori modifiche in direzione di una sempre più “sinistra”
connotazione . Da qui, se l'universo
cristiano medioevale conferma l'appartenenza delle Furie alla minacciosa
dimensione dell'aldilà, subendo quel processo obbligato di moralizzazione, le
antiche divinità della vendetta ora vengono degradate al rango di spiriti maligni e, in questa nuova veste, incutono al
popolo un vivo terrore .
Non mancano, infatti, esempi
letterari “eccellenti” che, come i volgarizzamenti, costituiscono quel genere
in cui le speculazioni didattico-allegoriche sulle Furie arrivano a toccare
risultati davvero insospettabili. Nelle opere cosiddette “minori” del XII sec.,
infatti, va ricordato Bono Giamboni, il maggior prosatore fiorentino della
seconda metà del XIII sec. accanto al più illustre rappresentante d'eccellenza
che è Brunetto Latini. L'opera di Giamboni , il
libro de' Vizi e delle Virtudi, ai
fini della nostra indagine, diventa uno scritto di impianto originale che
costituisce, per l'esposizione dogmatico-pedagogica, un significativo
precedente letterario della Divina
Commedia.
Il protagonista della vicenda
(che è l'autore stesso), giunto al culmine delle proprie sventure terrene,
viene consolato dalla Filosofia, che lo conduce poi al cospetto della Fede
Cristiana. Dopo aver superato le “prove” sui principi della religione
cattolica, viene condotto su un monte dal quale assiste allo schierarsi degli
eserciti dei Vizi e delle Virtù, diventando spettatore delle Vittoriose
battaglie della Fede contro l' Idolatria, il Giudaismo e le Eresie. A questo
punto Satana convoca un concilio per contrastare il diffondersi della fede nel
mondo . In questa adunanza
diabolica, che è una rielaborazione del dialogo tra le due Furie Aletto e
Megera, contenuto nella Psycomachia
di Prudenzio e nell'In Rufinum di
Claudiano, il conflitto tra Bene e Male si traduce in una predica di
rettitudine volta ad educare ogni uomo .
Nella prima parte della citazione la presenza delle Furie demoniache, al pari
della loro schiatta che interviene all'adunata, propone due soluzioni: una
guerra violenta e senza tregua contro Dio, oppure uno sconvolgimento cosmico
(delle regole della natura). La posta in palio è costituita dalle sante sediora
di paradiso, rimaste vuote dopo la rivolta di Lucifero e la cacciata degli
angeli ribelli. Contro questo futuro di beatificazione, che è il fine autentico
a cui è destinata l'umanità, le potenze demoniache si scagliano. Inoltre è
interessante notare come la figura del diavolo Mammone, una divinità siriana
presente nei vangeli si fa patrocinatore di Maometto che, nel ruolo di
rappresentante dell'avidità di ricchezze, viene indicato come suo figlio .
Infine, nella rassegna dello schieramento dei due eserciti nella battaglia tra
Vizi e Virtù, che si accende nei capitoli LVIII-LXI tra i Vizi, la Superbia
assume un ruolo di primo piano non solo per il fatto di essere uno dei pochi
citati, ma anche, e soprattutto, perché La Superbia è a capo dei Vizî e radice
di tutti i peccati . La
dottrina morale proposta da Giamboni è sintomatica di una tendenza politica del
XIII sec., rivolta a favorire invece che ad ostacolare la nuova e, al tempo
stesso, “pericolosa” attività civile-imprenditoriale, una libertà non conforme
ai precetti teologici della vera libertà spirituale, nella misura in cui
l'avidità/lussuria ,
raffigurata sotto forma di nudità ,
prende il posto del vizio teologico della Superbia come fonte di tutti i mali.
Raffigurata nei numerosi programmi figurativi romanici ,
diventa sinonimo della nuova borghesia ,
ormai sganciata dagli antichi vincoli feudali, libera di trafficare denaro e
merci. Il futuro di
beatificazione alla fine del trattato, che avviene dopo la rivolta di Lucifero
e la cacciata degli angeli ribelli, si presta a mitigare il tema della fine del
mondo, solitamente usato in trattati di questo tipo per incutere paura e
spingere al pentimento. Qui, infatti, se i debiti verso la tradizione
allegorica sono evidenti , le
Furie hanno un ruolo principale nella vicenda quando vengono convocate da Satana,
e sono proprio loro a consigliargli il modo per corrompere la rettitudine delle
genti del mondo.
I cambiamenti
nell'aspetto, o nelle funzioni delle Furie, che talvolta si arricchiscono di
nuovi elementi, talaltra ne modificano l'aspetto in modo considerevole, sono
anche proporzionali alle modifiche che la struttura stessa dell' Inferno
cristiano subisce nel corso dei secoli. D'altra parte, man mano che nel mondo
romano si diffonde il Cristianesimo ,
che stabilisce la credenza e, soprattutto, l'orizzonte di redenzione
nell'aldilà , questo luogo che prima
era poco articolato ,
prende forma e pulsa di vita secondo certi schemi già conosciuti dalla cultura
greco-ellenistica , ma
con delle modalità diverse .
L'accezione negativa di luogo
destinato ai dannati comincia a delinearsi sulla base della concezione
apocalittica del Giudizio finale e della separazione dei buoni dai malvagi che,
in virtù dei testi dei Profeti ,
comincia a diffondersi nel II sec. a.C. Tale concezione è riportata dagli
evangelisti e soprattutto nel libro
dell'Apocalisse di San Giovanni che, nel Nuovo Testamento, descrive la più
compiuta visione profetica della manifestazione finale di Cristo. Di grande
potenza figurativa, la visione evoca l'immagine di un luogo abissale descritto
come uno stagno di fuoco e zolfo . La
realizzazione in immagine di questa visione dominata da Satana, come luogo di
dannazione eterna comincia a fissarsi, in seguito ai continui ordinamenti
teologici succedutisi nel corso dall'alto medioevo, nelle rappresentazioni del
Giudizio Universale .
Daltronde, il concetto di “presenza diabolica” nella cultura medioevale, che
intendeva l'intera realtà come regolata dalla provvidenza divina, aveva un
posto di rilievo: la tentazione diabolica era vista come mezzo offerto all'uomo
per esercitare il proprio libero arbitrio.
Gli artisti chiamati ad
illustrare questo tipo di temi
diedero vita ad un luogo di tormento significativamente raffigurato da ogni
genere di tortura operata da mostruosi esseri che, in qualità di demoni , al
servizio di Satana, tormentano le anime dei dannati condannati al “fuoco
eterno”. Nel repertorio scultoreo romanico i temi prediletti, come le storie
del “Vecchio” e “Nuovo” testamento oppure i Giudizi
universali, pur legati a figurazioni escatologiche, non prevedono la
raffigurazione delle Furie. Tuttavia non è fuor di luogo ricordare il
significativo messaggio simbolico che sui portali, capitelli ecc. ha rivestito,
nei programmi figurativi scultorei, il tema della Nudità che alle Furie, come
vedremo in seguito, si lega .
L'immagine del fuoco, che
caratterizza la rappresentazione dei luoghi infernali, trae la sua origine dai
rari accenni che si hanno dell' aldilà nel Nuovo Testamento da parte degli
Evangelisti . Tuttavia il concetto del
fuoco, concepito come punizione e tormento perpetuo, già presente nell'Antico
Testamento con la vicenda di Sodoma e Gomorra ,
trova la sua definitiva collocazione nelle prime descrizioni dell' Inferno
diffuse prima nei testi apocrifi e
poi nella letteratura ricca di descrizioni didascaliche, come l'Elucidario di Onorio d'Autun. Si giunse
così alla descrizione dell'Inferno definitivamente suddiviso in nove cerchi
digradanti nel profondo cratere fino al centro della terra. Questa tradizione è
all'origine di capolavori figurativi mirabilmente esemplificati da opere
letterarie, tra le quali la Divina Commedia
diventerà il prototipo obbligato della geografia dell'Inferno che, con Dante,
può dirsi ufficialmente compiuta . Secondo
la geografia dantesca l'Inferno è un'immensa cavità che sta sotto l'emisfero
settentrionale della terra di cui il fiume Acheronte segna il confine. La
miniatura in esame rappresenta l'immensa voragine infernale e, come da
frontespizio, illustra la prima pagina dell'Inferno
di questo manoscritto fiorentino (L’Inferno,
miniatura da codice manoscritto della divina commedia 1455 c. Bartolomeo da
Fruosino (tempera su pergamena Parigi, Bibliothèque Nationale, Ms. it, 74, f. 1 v; riprodotta anche
nel catalogolo: Sandro Botticelli Pittore
della Divina Commedia, a cura di G. Morello e A. M. Petrioli Tofani, Skira,
Ginevra-Milano, 2000, vol. 1, pagg. 48-53, fig. 3).
L'immagine, da un punto di vista
figurativo, costituisce un precedente iconografico di grande importanza per
essere una delle prime a realizzare l'inferno sotto forma di un imbuto; gli
otto cerchi concentrici che si susseguono, infatti, si stringono digradando
fino ad arrivare al centro della terra. Qui nel nono cerchio che occupa la
regione più profonda le acque del Cocito ghiacciato imprigionano i traditori
che Lucifero divora. Nel quinto cerchio infernale tre Furie nude sono
rappresentate in cima al bastione della torre della città di Dite.
A tale proposito,
esemplare risulta il confronto fra la descrizione delle Furie che dà Virgilio e
quella presente nell' Inferno dantesco (Dante e Virgilio all'ingresso della Città di Dite, XIV sec. Chantilly, Museo Condé, ms. 597, f. 83 r.). Malgrado, com'è noto, il secondo
si professi culturalmente debitore nei confronti del primo, le Furie non hanno
le medesime caratteristiche. In Virgilio, ad esempio, esse sono abbigliate con
un chitone corto ed una clamide, e sono dotate di attributi come la torcia e i
calzari che le connotano come guerriere pronte a scatenare la battaglia [fig. 6].
Tale rappresentazione di furor
bellico, proprio della cultura romana scompare, invece, in Dante che le colloca
nel quinto cerchio dell' Inferno dove le descrive come tre “femmine” feroci e
nude. Il rilievo dato dal poeta
all'evento, di cui precisa che «membra femminili havean e atto», non è affatto
casuale. Il fatto che Dante le chiami significativamente “femmine” e non donne
carica il già mortificante curriculum delle Furie, di un nuovo significato
morale edificante.
Sia in Virgilio
che in Dante esse sono anguicrinite e sembrano svolgere la funzione di
guardiane del mondo infero; tuttavia, sono ancora una volta le differenze a
richiamare la nostra attenzione. In Virgilio, la funzione di Tisifone non è
solo quella di custodire la città di Dite, ma soprattutto di punire tanto i
colpevoli nell'Ade (normale residenza delle Furie in Georg. III 37 vv. 551-552;
IV v. 483; Aen. VI v. 375; v. 555; vv. 571-572; VII v. 325; VIII v. 669),
quanto quella di punire/colpire le sue vittime anche sulla terra scatenando
odio, rancori, discordia, furore, follia e guerre. L'illustratore infatti che
tradisce la versione testuale ,
rappresentando Tisifone al di fuori delle mura della città di Dite, sembra
suggerire o sottolineare un concetto caro alle funzioni che Virgilio gli
attribuisce: quello cioè della motilità. Se ancora in Virgilio, Tisifone,
auspicio di sventura e immagine tremenda di colpa, custodisce l'ingresso
dell'Averno seduta su una roccia in una postura ancora dignitosa, in Dante, le
tre Furie, sono feroci come si legge nell'opera virgiliana, ma, spogliate e
cinte solo da un serpente avviluppato in vita, gridano e si dimenano scomposte
dall'alto della torre. Anche Virgilio le descrive sulla torre, ma è con Dante
che l'idea si traduce in immagine concreta.
La città di Dite è il luogo in
cui non solo esse dimorano, ma anche da cui, al contrario del mondo antico , le
Furie non possono mai uscire come le angosce, i rimorsi umani; come guardiane
del locus peccatorum, diventano la
personificazione stessa dell'ira molesta che, come tale, incendia dall'alto
della loro superbia le deboli menti umane, facendole precipitare nei vizi.
Nella città infernale dantesca esse, dunque, solo apparentemente ricoprono il
ruolo di guardiane e la torre dove vengono collocate, punto più alto di vedetta
e sinonimo di “sentinella” della città, qui, piuttosto, sembra rappresentare la
loro natura superba, come definita da S. Tommaso. Auspicio di sventura,
immagine tremenda di colpa, le Furie che, infatti, occupano fisicamente il
bastione della torre, rappresentano il vizio e si trovano in cima alla torre
rovente e infuocata, come acceso e infuocato è il furore che personificano e
che provocano nelle deboli menti umane fino alla dannazione. Così, se il poeta
pone l'accento sul loro carattere “impuro” legato alla loro natura femminile
nuda, significativamente deplorevole e segno inequivocabile di empietà nel
senso di creature profanatrici e irreligiose, il suo richiamo alla nudità è
anche segno distintivo del peccato originale scaturito dalla tentazione di Eva.
Insidiata dal serpente, ella mangia il frutto proibito dell'albero del bene e
del male, spinta dal desiderio di avvicinarsi a Dio. Le Furie diventano così,
per Dante, l'emblema del male dal quale ci si deve riscattare: poste in bella
vista nude sulla torre, rappresentano sì gli ostacoli a quello itinerarium mentis in Deum, che il
viaggio nell'aldilà dei due poeti simboleggia, ma ostacoli concepiti
soprattutto come strumenti di perfezionamento morale.
Il nuovo e paradigmatico
attributo della nudità delle Furie acquista così, con Dante, un significato
dalla potenza visiva mai raggiunta dai poeti dell'antichità. Modello di
straordinaria potenza figurativa, per la continuità dimostrata nel corso dei
secoli, la nuova immagine delle Furie, che è all'origine di altri capolavori
illustrativi, tende ad oscurare la loro antica e dignitosa rappresentazione.
Questo eccezionale favore si fonda, plausibilmente, su due ragioni: da un lato
la nuova iconografia appare subito normativa per il valore di entrambi gli
autori, e per la risonanza che da subito accompagna l'opera sia di Dante che di
Giotto; dall'altro, l'iconografia del nudo, che nel medioevo risponde alle
esigenze dell'epoca ,
nel corso dei secoli si carica di nuovi significati.
Le Furie nella cultura umanistico-rinascimentale
Sulla scia della cultura
enciclopedica medioevale, la continuità con cui la cultura letteraria e
figurativa si ispira in genere alla mitologia, va ben oltre la soglia del XIV
sec.; infatti, anche gli umanisti non rinunciano a cercare nei racconti mitici
insegnamenti edificanti nascosti.
Nel '400 gli intellettuali,
consapevoli della frattura fra la propria cultura e la tradizione classica,
percepiscono l'antico non solo come tradizione, ma come un valore tutto da
recuperare. Il passato, tuttavia, sembrava sottrarsi a tale desiderio, il senso
stesso della classicità si era smarrito sotto le incrostazioni deformanti delle
interpretazioni scolastiche; con il che le stesse basi materiali da cui partire
per la riconquista del passato sembravano compromesse. Convinti di scoprire
l'autentico messaggio perduto dell'antica sapienza classica, adoperandosi con
una ricerca d'avanguardia filologica, ritornano sulle orme della precedente
cultura fin dagli ultimi poeti latini. Si comprende così perché lo stesso
Boccaccio nella sua De Genealogiis Deorum
Gentilium , la
cui prima edizione a stampa è del 1472, includa nella sua vasta raccolta le
stesse rivelazioni di Fulgenzio e Claudiano, già note alla letteratura del
secolo precedente . Ma
c'è un altro aspetto dell'opera, il più importante, che non può essere omesso.
Lo scrittore, che considera il mito come un sapere in sé, applicando un
criterio più filologico nell'interpretarlo, finisce per avvicinarsi al vero
significato del mito delle Furie. Nella sua erudita raccolta, che ricorda le summae enciclopediche medioevali,
nell'idea di raccogliere l'insieme della mitologia classica in un sistema unico
che collegasse ogni divinità alla sua genealogia, Giovanni Boccaccio, in pieno
Trecento, rievoca la tradizione letteraria della Teogonia esiodea delle greche Erinni .
Con lui, infatti, le Furie non sono più soltanto le serve di Plutone, ma
tornano ad essere le figlie della Notte,
le cagne dello Stige .
L'interpretazione di Boccaccio, che rifiuta di leggere il significato morale
delle Furie, per la sua critica “moderna” nei confronti della tradizione
classica e tardo-classica, gli consente di riappropriarsi del significato
originario delle Furie, quello delle antiche dee della vendetta. Boccaccio,
tuttavia, non si preoccupa di risolvere le contraddizioni che trova nelle
proprie fonti, ma si limita a riportare tutto il materiale, degno di pari
rispetto, senza chiarirlo ma anzi, rinunciando a conciliare le versioni
discordanti di uno stesso mito, ammette l'esistenza di più divinità omonime.
Così, l'autore accorda lo stesso credito a Virgilio come pure alla discutibile fonte di "Teodonzio", dai
quali apprende che le Furie sono chiamate uccelli da Virgilio e per questo,
come dice Teodonzio, sono dette anche Arpie .
L'interpretazione delle Furie di Boccaccio diventa quasi normativa per il
secolo successivo; l'opera mitografica di Boccaccio, infatti, si impose fino a
quando, alla metà del XV sec., uscirono le tre mitologie più importanti del
Rinascimento (Giovanni Bonsignori, Raffaele Regio, Niccolò degli Agostini ).
Nell'Umanesimo, infatti, il corpo
delle “femmine” Furie subisce un'ulteriore “mortificazione”, nuovi significati
allegorico-morali che, tuttavia, non rappresentano una vuota speculazione
filosofica del tempo, essendo già presenti nella descrizione della prima donna
Pandora nell'opera poetica di Esiodo (Catalogo delle donne). E' Esiodo,
infatti, che inaugura in maniera paradigmatica la simbologia marcatamente ferina
della donna. In quanto creature infernali, le Furie acquistano definitivamente
tratti “diabolici” che, tanto cari alla spiritualità medioevale ,
diventano pressoché costitutivi nel periodo rinascimentale. Qui, infatti, il
concetto di “presenza diabolica” delle Furie, ereditato dalla cultura
medioevale, viene filtrato e indagato dagli umanisti attraverso il recupero
degli antichi testi classici, rafforzandosi significativamente. Il recupero
dell'antico, non più attraverso una sistematica tendenza concettuale
allegorica, ma con un'attenta indagine filologica, non intacca, tuttavia, la
tradizione figurativa medioevale. Del patrimonio classico delle Erinni greche,
infatti, gli umanisti recepiscono il sostrato culturale più arcaico e caotico
del mondo dell'aldilà, caratterizzato dall'ibridismo di chi lo governa e non la
dimensione olimpica e ordinata delle Eumenidi. Quella mescolanza di elementi
diversi come la canizie, i serpenti, le ali, ecc. che nel mondo greco
consentivano di varcare il confine e passare dal mondo umano a quello
ultraterreno, in quello cristiano diventa sempre più inadeguata. Così le Furie,
liberate da elementi che erano in contrasto con la tradizione cristiana,
perdono significativamente le loro ali che ora, sotto l'egida dell'ordinamento teologico,
non appartengono più alla schiatta degli esseri mostruosi precosmici, ma sono
attributo primario degli angeli. Le Furie diventano creature diaboliche,
tornando ad essere le cagne dello Stige al servizio, questa volta, di Satana.
Nome attribuito sin dall'antichità sia alle Erinni di Eschilo, sia da Esiodo
alla prima donna (Pandora )
plasmata con la terra per volontà di Zeus, da tutti gli dei, per procurare il
“Male” alla stirpe degli uomini che fino ad allora vivevano sulla terra senza
averlo mai conosciuto. Zeus, sdegnatosi il giorno in cui Prometeo (dai tortuosi
pensieri) rubò per gli uomini il fuoco, concepisce Pandora per riversare sugli
uomini lacrimevoli affanni e, perciò stesso, fisicamente modellandola con tutte
le attrattive possibili per farla apparire come una creatura meravigliosa; al
contempo infuse in lei la passione struggente, un animo volubile ma anche e
soprattutto un “cuore di cagna”, sinonimo di peccato, nell'accezione
umanistico-rinascimentale sopra indicata che tenderà sempre più a
radicalizzarsi.
L'iconografia delle Furie nell' Inferno
dantesco troverà un così profondo e vasto credito nell'immaginario sociale
collettivo da rimanere pressoché invariata, influenzando anche la tradizione
figurativa delle Metamorfosi di Ovidio.
Derivata dalla versione
giottesca, quella di rappresentare il corpo nudo delle Furie, diventa una
consuetudine figurativa e distintiva di esse; tuttavia, il loro corpo viene
ulteriormente mortificato da una vecchiaia con valenze che rimandano alla bestialità,
nelle rappresentazioni successive. Infatti, sebbene nella descrizione del poema
dantesco non ci sia un esplicito
riferimento alla loro nudità, nell'interpretazione allegorica che ne dà
Cristoforo Landino, egli sottolinea quell'aspetto “femminile”, a loro
confacente che, in quanto sinonimo di lascìvia e iracòndia, sembra chiarire
molti dubbi . Verosimilmente, la
soluzione figurativa del Botticelli, ad esempio ,
sembra scaturire dall'esigenza di far risaltare la nudità femminile (mammelle
di cagna) alla quale vengono associate e che già nel Medioevo aveva assunto
quel significato che qui si fa più esplicito. Se nell'Inferno “morale” di Dante
la funzione principale delle Furie era soprattutto quella di rappresentare un
ostacolo all'itinerario che conduceva alla salvezza, nell'Inferno di Cristoforo
Landino, le Furie che vi dimorano sono la personificazione dell'ira molesta
fatta persona nell'aspetto mostruoso e bestiale delle Furie che tornano ad
essere le cagne dello Stige. L'autore della nuova iconografia “infernale” è
sicuramente il Botticelli, ma a lui spetta solo il merito di aver
magistralmente interpretato, coadiuvato dalla cerchia filosofica fiorentina di
Lorenzo il Magnifico, il significato intrinseco del poema dantesco. Le Furie
infatti, per le loro terrificanti fattezze, costituiscono un precedente
iconografico destinato a trovare favore sotto il profilo artistico-letterario
in tutto il corso del '500.
Giulio Romano, ad esempio, nella sala dei Giganti, per tradurre lo spirito dell'antichità delle Furie,
oltre ad ispirarsi al modello figurativo del più aggiornato Niccolò degli
Agostini, [fig. 7], nella sala di Psiche [fig. 8], invece, si servirà del prototipo
figurativo botticelliano. Dietro l'apparente antitesi tra tradizioni letterarie
e figurative che si palesa soprattutto nell'età medioevale, si nasconde infatti
la tradizione classica, mai completamente dissolta, ma anzi oggetto di
venerazione da parte di tutte le generazioni successive di poeti e pittori a
conferma del suo carattere universale. Il Rinascimento, dunque, non restituisce
affatto alle Furie la forma e i caratteri primitivi delle antiche divinità, ma
è la società che attribuisce loro, di volta in volta, una definizione e un
significato, che costruisce i loro codici e i loro valori, che stabilisce i
loro utilizzi e l'ambito delle loro applicazioni.
NOTE
Le antiche dee della
vendetta potevano essere vecchie, alate, nere, anguicrinite, spesso i serpenti
cingevano loro le braccia e la vita; nelle mani recavano serpenti, torce,
spade, lance, ma in ogni caso il loro corpo era sempre coperto: gli antichi
evitarono di rivelare il loro aspetto fisico già peraltro gravato dai numerosi
attributi sinistri; Cfr. pag. 5.
Con la nascita della polis democratica si assiste
all'istituzione di una giustizia cittadina che si basa sulla legge; per quanto
concerne la punizione dei crimini, si passa da un giudizio fondato sulla
vendetta personale a un giudizio cittadino fondato sulle leggi. La cultura
greca rinnova la concezione della vita
civile sostituendo all'implacabile rigore dei castighi divini l'amministrazione
della nuova giustizia cittadina. Da allora in poi, quando il colpevole dovrà
rispondere dei suoi crimini davanti a tutta la città in un tribunale che, nel
caso di Atene, è rappresentato dall'Areopago
(sede del più antico tribunale ateniese, che aveva competenza sui delitti si
sangue), le dee della vendetta acquisteranno una nuova personalità e degli
attributi tali, da essere invocate come dee benefiche garanti della sacralità
della nuova giustizia del tribunale, cfr. J. Girare, Le sentiment religieux en Grèce, pag. 497 e segg.
G. Boccaccio, Genealogie Deorum Gentilium De Montibus,
1998, III 6°, 1-6; III 7°, 1-2; III 8°, 1-3; III 11°, 1-2; VIII 6°,2; VIII
6°,7; XIV 18°,9.
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