Il giardino rinascimentale viene
ideato e realizzato in seguito ad una felice e fruttuosa riscoperta del
giardino romano antico che, dopo il “sonno del Medioevo”, viene accuratamente
riportato alla luce dagli umanisti attraverso un meticoloso studio dei testi
classici che lo descrivono e infine amorosamente ricostruito in alcuni
prototipi che sono rimasti storici.
Se è vero che il giardino
rinascimentale all’italiana ha una lunga storia evolutiva praticamente
ininterrotta dal Rinascimento ai giorni nostri, bisogna però osservare come gli
esempi più magniloquenti vengono prodotti nel Settecento.
Prima di arrivare ai maturi e
splendidi esempi del parco della Reggia di Caserta, che venne costruito a
partire dal 1753; o, tornando indietro negli anni, all’ideazione della Villa
d’Este di Tivoli a cura di Pirro Ligorio, databile dal 1560 in poi, mentre
l’inaugurazione avvenne nel 1572; oppure ancora ai celebri Orti di Boboli, che
furono acquistati nel 1418, quarant’anni prima della costruzione del palazzo
Pitti, fino all’abbellimento dei giardini iniziato soltanto col passaggio della
proprietà ai Medici nel 1549 per opera di Niccolò Tribolo.
Per arrivare alla maestà di
questi esempi celeberrimi, la storia del giardino all’italiana ebbe un periodo
di generosa e misteriosa incubazione intorno al testo primo dell’Hypnerotomachia Poliphili del 1499,
racconto onirico dove l’architettura antica viene rievocata al tempo stesso con
spirito scientifico e immaginazione fantastica, sia grazie alla perfetta
conoscenza dei classici, da Plinio a Vitruvio, sia anche per la presenza
discreta eppure fondamentale di personaggi-chiave del Rinascimento italiano
come il grande architetto e teorico Leon Battista Alberti.
Per comprendere quanto sia stato
importante l’Alberti per la genesi dell’
Hypnerotomachia basta dire che le “sue” parole vengono usate molto spesso
nel nostro testo, vengono cioè citate spesso nell’ Hypnerotomachia parole desunte da opere rare di Leon Battista
Alberti, talvolta anche inedite .
Questa circostanza sembra così dimostrare che la conoscenza della sua
produzione letteraria avvenne in maniera personale in base ad una frequentazione
diretta con l’autore. E infatti l’Alberti lavorò con Stefano Colonna, padre
dell’autore del Polifilo, nella città di Palestrina per la costruzione di una
parte del palazzo baronale.
Un esempio unico nel
Rinascimento, l’Hypnerotomachia:
laboratorio di ricostruzione filologica dell’antico esemplata sul modello
perfetto dell’uomo ideale, macrocosmo e microcosmo insieme del rinnovato
interesse per l’Uomo e la Natura che è al centro delle speculazioni filosofiche
di quegli anni, al suo interno il giardino acquisterà il valore di ente
perfetto, luogo ideale di manifestazione delle attività dello spirito, ma anche
di tutte le bellezze possibili e immaginabili di una Natura perfetta e
incorruttibile.
Il giardino romano antico
Per meglio comprendere le istanze
culturali e sociali che stanno alla base della riscoperta del giardino romano
antico nel Rinascimento è utile rileggere il paragrafo introduttivo della monografia dell’architetto
Domenico Filippone, Le zone verdi nella moderna urbanistica italiana,
edita da Sperling & Kupfer nel 1937 dove viene affrontata con grande
anticipo la questione del verde nell’urbanistica e a tal fine si ripercorrono in
modo chiaro e sintetico le fasi salienti della storia del giardino nell’età
antica:
«La rigida concezione della vita romana fino
agli ultimi secoli della Repubblica non favoriva lo sviluppo del giardino di
abbellimento; il gusto per i parchi e per le villeggiature incominciò a
manifestarsi all’epoca di Silla, dopo le guerre mitridatiche, quando ricchi personaggi
portarono dall’Asia le fastose abitudini orientali.
Lo sviluppo dei grandi parchi privati a
detrimento della coltivazione agricola raggiunse, durante l’Impero, tali
eccessi da provocare la reazione di spiriti eletti come Orazio e Virgilio. Ed è
interessante notare come Seneca riprovasse persino la coltivazione dei fiori
sulle terrazze, ritenendola «decadenza del costume».
Il giardino romano perdette dunque, dopo il
II sec. A. C., il carattere esclusivamente utilitario, assumendo un carattere
estetico ben definito che faceva prevalere le forme architettoniche su quelle
naturali; le parti rustiche trovarono ben poco spazio nella villa romana, che
si doveva modellare sul «gusto» di una società civilizzata. Doveva essere un
«opus urbanissimum», come dice Plinio il Giovine. Numerose costruzioni (molte
delle quali imitavano i più celebri monumenti conosciuti) arricchivano questi
giardini: portici coperti e scoperti, esedre, vasche, ninfei, etc. Le piante
non si sviluppavano liberamente, erano anch’esse assoggettate alla composizione
architettonica mediante il taglio (opus topiarum) che dava al loro fogliame
determinate forme geometriche o animali. L’acqua aveva poi una funzione
importantissima nel giardino romano.
I grandi parchi patrizi che sorsero nelle
più amene località italiche, come per es. a Tusculum, Antium, Tibur, Caieta,
Baiae, Surrentum, ecc., formarono anche intorno a Roma una grande cintura verde
press’a poco ubicata tra le mura serviane e le aureliane. Gli imperatori però
tendevano ad incorporare nel demanio tali parchi, perché ritenevano pericolosa
la permanenza di essi in mani private. Le località preferite per i giardini
privati furono l’Esquilino (ove sorgevano i celebri giardini di Lucullo) e il Pincio, allietato
dagli orti sallustiani.
Ma i Romani non ebbero solo il giardino
privato. Alcuni boschi, sul Celio, su l’Aventino, ai «Prata Flaminia», al Campo
Marzio, servivano di pubblica passeggiata fin dai tempi della Repubblica. Ma
poi questi boschi scomparvero quasi tutti per dar posto all’espansione edilizia
o a parchi privati. Gli imperatori furono però munifici nel ridonare al popolo,
sacrificando dei gruppi di case, numerosi giardini che inquadravano spesso
edifici o complessi monumentali: Cesare legò per testamento una sua villa al
popolo in Trastevere, Augusto rese pubblico il Campus Agrippae, Alessandro
Severo costruì giardini intorno alle sue terme.
Anche i templi erano circondati spesso da giardini consacrati alle divinità; così
pure furono curati presso i Romani i giardini funerari» .
L’Hypnerotomachia Poliphili
Ma veniamo all’Hypnerotomachia Poliphili.
L’incunabolo più importante del
mondo è divenuto famoso per le sue 170 pregiate illustrazioni, xilografie incise
su legno, ma anche e soprattutto per l’originalità di ogni cosa concepita
all’interno del libro, a partire dalla rara complessità della lingua, fino ad
arrivare alla ricchezza infinita delle simbologie degli episodi rappresentati. Originalissimo
è lo stesso titolo che significa «battaglia d’amore in un sogno», parola composita
che non esiste nel dizionario greco, ma che risulta dalla combinazione
fantastica di tre parole greche, «ypnos», «eros» e «mache», appunto
rispettivamente: «sogno, amore e battaglia». Sono molti gli hapax, cioè le parole inventate per
l’occasione dall’autore con dotta competenza linguistica, fino a formare gli
strumenti linguistici di un laboratorio filologico unico nel panorama di tutto
l’Umanesimo.
Una delle cose più belle
descritte nel romanzo è un giardino lussureggiante, ricco sia di piante e fiori
di ogni specie, sia anche di architetture fantastiche, filologicamente ispirate
ad altrettante architetture antiche realmente esistenti od esistite.
Questo giardino dell’Hpynerotomachia ne ha ispirati tanti
altri, fino a potersi definire il prototipo del giardino rinascimentale tout court.
Il Somnium de Fortuna di Enea Silvio Piccolomini e il giardino della Fortuna
Per comprendere appieno i
reconditi significati e il valore ultimo del giardino dell’Hypnerotomachia dovremo ripercorrere insieme il percorso iniziatico
di Polifilo fin dall’inizio della sua storia.
Facciamo però prima ancora un ulteriore
passo indietro, dal 1499, anno di stampa dell’Hypnerotomachia, al 1444, anno in cui Enea Silvio Piccolomini, che
diventerà il famoso Papa umanista, cioè Enea Silvio Piccolomini, scrive, o
meglio finge di scrivere una lettera all’amico Procopio di Rabenstain per
consolarlo della mancata assegnazione di cariche nell’ambito della cancelleria
imperiale, di cui Enea Silvio a quell’epoca era segretario.
L’operetta in questione si
intitola Somnium de Fortuna e
descrive con ricca immaginazione la dimora della Fortuna, che è fornita di un
ricco giardino. La tematica del sogno, quella della Fortuna e quella del
giardino paradisiaco anticipano puntualmente l’Hypnerotomachia. Per questo motivo ci fermiamo ora a leggere
qualche pagina di quel testo piccolomineo come un’introduzione generale alla
nostra discussione sul tema del giardino rinascimentale.
Somnium de Fortuna di Enea Silvio Piccolomini, 1444 :
Il Poeta Enea Silvio, saluta vivamente il
signor Procopio di Rabenstain notevole letterato.
La notte scorsa, prima di abbandonarmi al
sonno, tra me e me ho parlato molto di te. Mi meravigliavo che per le tua alte
qualità non ti si dava il posto conveniente, perché anche se sei gradito a
Cesare, non ti vedo esaltato alla stregua del tuo valore.
Infatti, sebbene risplendano in te nobiltà e
probità, non vedo perché tu non debba essere posto tra i primati. Accusai
dunque la Fortuna, che si crede ora dispensatrice di onore, ora di ricchezza e
dissi tra me e me fino alla sazietà come mai colpisse i buoni ed innalzasse i
cattivi, e non ebbi pace finchè non mi colse un sonno profondo.
Ma nella quiete del sonno contemplai cose
mirabili, che ora ho deciso di riferirti.
Tu apri le orecchie e apprendi cose tanto
mirabili quanto stupende.
Già passata una parte della notte, ebbi
questa visione.
Giunsi in luoghi lieti ed in ameni luoghi verdeggianti: vi era un campo
di grano in mezzo ad un lussureggiante bosco, cinto da un ruscello e da un
muro, e là due porte, l’una di corno, l’altra splendente di lucente (bianco)
avorio. Muri altissimi di diamante. Un ruscello di profondità immensa. Nessun
accesso alle porte tranne che due ponti, che tuttavia, sollevati da catene,
aprivano il passo ai pochi che venivano. Sulle rive che c’erano nella parte
delle porte una grande quantità di uomini e donne che tendevano le mani e supplicavano
di essere trasportati. Spaventato da questo fatto strano, mentre corro qua e là
mi vengono incontro molti di cui conoscevo i volti; non conoscevo tuttavia per
quale ragione accadesse che nessuno mi rivolgesse a lungo la parola.
Giunsi alla porta cornea, al sommo alla quale vidi scritte queste
parole in lettere antiche: «Ammetto pochi, ne faccio rimanere meno». Ansioso di
conoscere che cosa ci sia più all’interno, supplico il custode della porta con
grandi preghiere che mi apra le porte. Allora viene un giovane accompagnato da
un gran numero di gente. Conosco la natura del luogo: era dalle parti del Reno.
Chiunque esso sia, dico, si avvicina a me un uomo importante togato, credo
Italico, riconosce in me un Italico; (viene) dalla parte di Ludovico, dice
costui, duce della Bavaria, principe elettore che ci condurrà al di là di quel
muro, ed insieme con lui: ma quell’uomo illustre mi ottiene il passaggio poiché
qualche diritto crea tra noi la patria comune. Lo farò, disse egli, ed avevamo
appena cominciato a parlare quando, fatti calare i ponti, entrò Ludovico ed
insieme con lui molti altri che il custode della porta chiamò ad uno ad uno.
Io, come per esplorare, sotto il mantello del principe che stringeva
Ludovico, che mi parve uno dei capi di Brandeburgo, entrai di nascosto.
Colà fiori, prati, ruscelli, qua ruscelli
correnti di latte e di vino, fresche fonti, laghi pieni di pesci,
gradevolissimi bagni, ricchi vigneti sempre pesanti di grappoli, alberi di
perpetuo autunno, come si crede abbiano avuto i giardini delle Esperidi o i
Feaci. Attraverso le selve, di cui il solo profumo serve di nutrimento, animali
selvatici facili a catturarsi: uccelli nati per il canto, è l’unico luogo
chiamato presso gli Etiopi tavola del sole, sempre ripieno di ricche mense su
cui tutti si nutrono a sazietà, presso cui vi è un lago saluberrimo di lievi
sorsi di latte. Qui vi sono molti luoghi di tal genere, mense allestite sotto
gli alberi, con una grande quantità di coppe ricche di gemme e di coppe d’oro.
Nessun vino può essere paragonato a quello che scaturisce da quelle parti dalla
viva roccia. Qua e là fluiscono sorgenti
di miele e canne piene di zucchero. Ogni genere di profumi cade dagli alberi.
Inestinguibili miniere d’oro e d’argento. Pietre preziose pendono nei boschi
come bacche, belle fanciulle e giovani eleganti tessono perpetue danze.
Qualsiasi tipo di musica esista, risuona colà. Non tanto voluttuoso paradiso
Maometto promise ai suoi fedeli, quanto avresti potuto vedere qui.
Qua e là correvano tesorieri Bacco, Cerere e
Venere .
Le due porte di corno e d’avorio
che si mostrano davanti ad Enea Silvio Piccolomini sono le stesse descritte
nell’Eneide (VI, 893-896): alla porta di corno corrispondono i sogni veri e a
quella d’avorio i falsi.
Enea Silvio entra nel palazzo
della Fortuna e viene stupefatto da una visione d’incanto: un luogo primordiale
sconosciuto ai mortali che appare perfetto in ogni sua manifestazione.
L’enumerazione delle splendide
ricchezze che abbondano in ogni parte di quel luogo edenico non fa che
amplificare la meraviglia di Enea Silvio.
Ma la presentazione stupefatta di
tanta ricchezza serve solo a preparare un discorso in chiave morale che
consiste nel topos letterario dell’ubi
nunc, vale a dire: «dov’è ora ? ». Dov’è ora, si chiederà Enea Silvio nel
prosieguo del Sogno, dov’è ora la
ricchezza di Antonio o Cesare, dei grandi e potenti di un tempo ? È finita in malo
modo: di fronte allo scorrere del tempo si capisce che la ricchezza della
Fortuna è transitoria e le bellezze mortali non sono eterne e la gioia che
deriva dai beni di Fortuna viene presto sostituita dalla sofferenza per la loro
perdita. La riflessione sulla caducità delle cose di questo mondo non fa dunque
che mettere in risalto i valori dell’eterna Sapienza che alla caduca Fortuna si
oppongono in senso rinascimentale. Nondimeno la descrizione del giardino della
Fortuna è veramente degna di un giardino edenico.
Il tema del giardino della Fortuna
nell’Hypnerotomachia Poliphili
Su questa stessa articolazione di
massima, vale a dire sulla riflessione critica sul concetto di Fortuna condita
dalle belle digressioni su monumenti antichi e giardini edenici, si svolge il
discorso sulla Fortuna nell’Hypnerotomachia
qualche anno più tardi, nel 1499, anno della stampa veneziana del volume per i
tipi di Aldo Manuzio il vecchio.
Polifilo si trova in un bosco,
smarrito come Dante nella Commedia.
Ma riesce ad uscirne indenne nonostante i pericoli. E la prima visione
antiquariale importante che gli si staglia perentoria e robusta è, come ha
scoperto Maurizio Calvesi, quella dell’immenso Palazzo della Fortuna, la cui complessa
descrizione si ispira al Tempio della Fortuna Primigenia di Preneste, il più
grande tempio dedicato alla Fortuna nell’antichità.
Il tema della Fortuna ritorna più
volte durante la prima parte del viaggio iniziatico di Polifilo. Lungo il suo
travagliato percorso infatti Polifilo incontra un frenetico cavallo che
disarciona dei puttini scaraventandoli a terra. La brutta fine dei puttini sta
ad indicare la cattiva sorte, ovvero la mancata Fortuna.
Nel prosieguo del libro, grazie
ad una tutta rinascimentale dialettica degli opposti, a contraltare della
Fortuna ad un certo punto compare davanti a Polifilo la visione dell’elefante “obeliscoforo”,
vale a dire di un elefante che sorregge sul groppone un obelisco egizio. Il
simbolo va così interpretato: l’elefante, grazie alla sua possente memoria, è
simbolo di una mente robusta che sostiene la Sapienza egizia. Elefante perciò
come simbolo di Sapienza tout court.
Se dunque la Fortuna dà e toglie
senza garanzie di stabilità alcuna, la Sapienza al contrario regala a premio
della Saggezza beni di eterna durata. È un invito allo studio, alla riflessione,
a coltivare gli studia humanitatis e
le buone inclinazioni dell’essere umano, rifuggendo le facili tentazioni del
potere, del denaro e delle ricchezze di questo mondo che danno facili e spesso
intense, ma effimere soddisfazioni.
Molto spesso l’Hpnerotomachia viene letta come un
romanzo pagano e basta, ma in realtà i riferimenti alle pur presenti tematiche
sensuali e “laiche” sono “posti per essere tolti” in una filosoficamente
complessa “dialettica degli opposti” di matrice cristiana.
L’Isola di Citera nell’Hypnerotomachia Poliphili
Traboccante di sensualità è la
descrizione dell’amore di Polifilo per Polia, che è come una pentola in
ebollizione, quando il liquido fuoriesce dai bordi a causa del fuoco troppo
alto, causato dagli sguardi penetranti della donna amata.
Polifilo giunge sull’isola di
Citera con una navicella a sei remi. Il luogo è incantevole: è un giardino
pieno di delizie. L’aria limpida profuma di incredibili effluvi floreali.
Frutti di tutti i colori in mezzo al verde dei fogliami, con percorsi ben
definiti tra le piante e coperti da pergolati di rose di tutte le specie.
Questo luogo aveva una
circonferenza di 3 miglia ed era circondato da ogni parte da acque marine. Sul
litorale crescevano cipressi di altezza uniforme. Ogni cipresso era separato
dal successivo da una distanza di tre passi. Un altro cerchio era disegnato con
un bel mirteto fiorito consacrato e dedicato alla divina Genitrice «de li
amorosi fochi». All’interno della siepe di mirto vi erano venti partizioni
eguali recintate da cancellate marmoree contenenti ciascuna un boschetto.
Seguivano boschetti di querce; di
profumati cipressi silvestri e di pini ed ancora di bossi piantati in urne
marmoree rotonde o quadrate. Tagliate nel bosso le Fatiche di Ercole finte in
stile antico. Vi era poi il duro corniolo, il tasso, olmi, tigli, vetrici,
carpini, frassini, la lancia di Romolo in fiore, nespoli e sorbi. Abeti,
larici, noce, persico, basilico, il mollusco e il tarantino, i noccioli, mandorli.
Un boschetto di castagni, lo sparto, i melograni, un boschetto di loto, la fava
siriaca e il celti, o meliloto o ciceraso. Paliuri dai frutti rossi. I luoghi
erano salubri e privi di venti freddi.
Ad un certo punto si poteva
ammirare un pergolato con cupole di forma emisferica ricoperte di rose gialle,
i pergolati lungo le strade rivestiti di ogni specie di rose bianche e poi
ancora di rose vermiglie, con altri fiori profumati. C’era una barriera di
aranceti interrotta da una finestra ad arco. Ogni prato presentava quattro
porte. Nei prati più esterni vi erano fontane zampillanti, poste sotto
padiglioni realizzati in bosso verdeggiante.
Dappertutto germogliavano erbe
profumate: basilico, cedronella, e cerfoglio, poi il timo e il gliciacono,
chiamato nettario o abrotano, la valeriana celtica. Poi ancora i meli,
l’appiano, il claudiano, il paradisiaco e le mele dece.
Non mancavano gli alberi da
frutto. Vi si producevano quattro tipi
diverse di pere: la muscatella, la crustumina, le siriache e le curmundule.
Qui viene da pensare ad
un’anticipazione del pittore mediceo Bartolomeo Bimbi (1648-1723), che
rappresentò nei suoi quadri 115 varietà di pere e 59 di mele .
In alcune casse distinte
germogliavano la saliunca, cioè la valeriana saliunca, il polio montano, cioè
il camedrio polio, il ladano e il cisto e l’ambrosia, cioè l’artemisia o
assenzio selvatico.
Particolarmente belli e curati erano i roseti, con le
damascene, le prenestine, le pentafille, le campane, le milesie, le pestine, le
trachivie, le allabandicie.
Un riferimento al tema della rosa è testimoniato dai versi
immortali coevi di Lorenzo il Magnifico, nella sua egloga in terza rima Corinto: «Cogli la rosa, o ninfa or ch'è
'l bel tempo» .
Fra le decorazioni abbondavano narcisi in fiore, bulbi
emetici d’acqua o cepee marine, come anche il giacinto e il giglio della valle,
lo xifio campestre e l’illirico, la calta, l’ippotesi, ovvero coda equina, la
coda di leone, viole tusculane, marine, calaziane e autunnali, la balsamite,
cioè la menta d’acqua, ovvero cimiadon o trachiotis.
Non mancavano melaranci, cedri e limoni.
Tutta questa bellezza non era lasciata a se stessa, ma
costantemente curata da fanciulli e fanciulle che coltivavano la natura con lo
scopo di preservare una tale creazione.
Giardini di forme e colori particolarissimi venivano
creati grazie alla armoniosa composizione di diverse specie floreali e
botaniche. C’erano aiuole quadrangolari formate da sansuco, abrotano, camepito,
serpillo montano, camedrio, rosa di viole color ametista. E ancora viole in
fiore candide come cigni, melanzio ovvero git, cioè gettaione comune, viole
gialle, ciclamini, ruta, primule fiorite. E ancora disegni a foglie di acanto,
polio montano e adianto. Malve rosa, porporine e lilla, palle di issopo. Gli ottagoni che incorniciavano i quadrati si
presentavano con una delicata composizione di laureanziana, tarcon, achillea,
senniculo, idiosmo, terrambula, baccara, amaraco e politrico.
Ma la meraviglia più grande consisteva in un edificio in
stile antico di forma circolare situato al centro dell’isola che poteva
ricordare il Colosseo o l’Arena di Verona e che al suo interno era decorato da
bellissimi giardini pensili in stile orientale. Lo spettatore però, a
differenza dei citati monumenti antichi, stava al centro del monumento e i
giardini erano disposti sugli spalti tutt’intorno, dove si spargevano con
profusione tanti fiori e profumi d’incanto.
La Masson giustamente ricorda come la «tomba di Augusto in
Roma era stata realmente sistemata a giardino, di cui restano le incisioni
cinquecentesche del Bufalini» e
quindi l’Hypnerotomachia viene a
configurarsi come un incubatore di idee per questo nuovo ed interessante
rapporto tra il monumento antico e il giardino sperimentato poi nella pratica
urbanistica della città di Roma.
Maurizio Fagiolo in un saggio molto interessante ricostruisce
con cura la lunga filiazione del tema del giardino circolare, qual è appunto
l’isola di Citera dell’Hypnerotomachia,
lungo il corso dei secoli e in tutto il mondo, a partire da un Ideogramma cosmologico del XVI sec.; citando
il frontespizio della Partheneia sacra
di H. Hawkins del 1633; il Giardino
circolare di J. W. Gent, da Systema
Horticulturae, 1683; di R. Smythson
un importante disegno del 1609, vale a dire il Rilievo del giardino di Lucy Harington duchessa di Bedford a Twickenham;
un’incisione della seconda metà del XVII sec. che raffigura il Giardino del castello di Enghien in Belgio;
il Progetto di G. London per il Giardino
del castello di Chatsworth, incisione da Kip, 1727 e altri interessanti
opere correlate .
Tra le meraviglie descritte nell’Hypnerotomachia Poliphili vi è anche un
misterioso e rarissimo labirinto
d’acqua, che fa parte della storia del giardino italiano a pieno
diritto, labirinto illustrato soltanto nell’edizione parigina del 1600 curata
da Francois Beroalde de Verville. Un’edizione che si differenzia dalle
precedenti per la presenza di questa nuova illustrazione e anche di un nuovo
frontespizio inciso di carattere alchimistico.
«L’immagine descritta come un labirinto
in realtà è una spirale con sette spire e sette torri, dove la via è formata da
una sorta di canale che scorre fra le mura, a simboleggiare la vita umana; chi
vi sia avventurato una volta con la sua navicella non può più tornare indietro
e dopo un periodo iniziale di gioia in centro viene inghiottito da un drago» .
Una delle aiuole dell’Hypnerotomachia Poliphili comprendeva
quindici specie di fiori ed erbe: Maggiorana, Ruta, Altea rosata, Issopo, Aquilegia,
Querciuola, Artemisia, Primula, Lavanda, di Spagna, Viola gialla, Nigella
damascena, Timo, Ciclamino, Mammola purpurea, Mammola bianca .
Tra le presenza più curiose nei
giardini dell’Hypnerotomachia possiamo
ricordare un’orchidea singolarissima notata dalla Masson, la quale a proposito dottamente
afferma che «[…] I nomi che il Colonna adopera testimoniano con anche maggiore
evidenza della sua cultura curiosamente eclettica e rendono l’identificazione
di molte piante estremamente ardua. Alcuni sono nomi greci, altri latini ed
altri d’uso corrente, sembra, nelle campagne italiane. Un tipo di orchidea, ad esempio, è da lui
chiamata dibulbo unomico, con riferimento evidente al doppio tubero
dell’orchidea maschio che, così come l’orchidea femmina, secondo una
superstizione assai diffusa nelle campagne, non era soltanto un afrodisiaco, ma
aveva proprietà magiche e, come la mandragora, poteva addirittura generare
uomini. Nei trattati di giardinaggio del diciassettesimo e diciottesimo secolo
entrambe le varietà sono sempre menzionate come coltivate in Italia».
Ma anche le semplici bordure
diventavano sontuose grazie alla molteplicità delle essenze vegetali utilizzate
nella fervida fantasia dell’autore: «[…] Tra le erbe enumerate dal Colonna come
le più adatte per creare bordure
vi erano la maggiorana, la ruta, l’artemisia, la querciuola, la lavanda, il
timo e la calamandrea marittina; quando agli spazi interni delle aiuole, erano
piantati a viole del pensiero bianche e gialle, primule, fior di finocchio e
viole bianche e purpuree. Per dare risalto a questi fiori più piccoli, si
alternavano con macchie di altee rosate e piante di issopo potate a palloncino,
mentre al centro delle aiuole vi erano alternativamente, come nel giardino del
Laurana ad Urbino, piccole are romane o grandi orci con un cipresso e fiori o
cespugli di bosso potati in forme complicate, come quella di un pavone in atto
di bere da una ciotola» .
APPENDICE
Fiori del XV secolo citati nell'Hypnerotomachia
NOME LATINO
|
NOME VOLGARE
|
ANTICO NOME ITALIANO
|
Aceras antropophora
|
Ballerino
|
Dibulbo uomico aequicoli; M. Testiculus; C. antropofore
degli equicoli
|
Achillea rupestris (?) tanacetifolia (?)
|
Achillea o Millefoglie
|
Achilea
|
Althea rosea
|
Malvarosa o Malvone
|
Malva
|
Aquilegia alpina
|
Aquilegia
|
Aquilegia
|
Artemisia abrotanum
|
Artemisia
|
Aurotano; M. Abrotanum
|
Caltha palustris
|
Farferugine
|
|
Celosia plumosa
|
Celosia
|
Amarantho
|
Convallaria majalis
|
Mughetto o Giglio delle convalli
|
Lilli convalli
|
Cyclamen europaeum
|
Ciclamino o Pan porcino
|
Cyclamino
|
Gladiolus
segetum
|
Fil di spada
|
Xiphion segetale,
M. Xiphion segetale
|
Helichrysum angustifolium (?)
|
Elicrisio semprevivo
|
Heliochrysso
|
Hippuris
vulgaris
|
Ippuride
|
Hippotesi
|
Hyacinthus orientalis
|
Giacinto orientale
|
Hiacynthi albenti, cerulei, purpurei che non fiorisce in
Gallia
|
Hyssopus officinalis
|
Issopo
|
Issope
|
Inula helenium
|
Enula
|
Lachryme di Helena
|
Lavandula officinalis
|
Lavanda
|
Lavandula
|
Lonicera periclymenum
|
Caprifoglio
|
Periclymeno; M. Periclymenum madreselva
|
Myosotis palustris
|
Non-ti-scordar-di-me
|
Auricole
fluvicole; M. Myosotis palustre
|
Narcissus tazzetta ( ?)
|
Narciso a mazzetti
|
Floribondi narcissi
|
Nigella damascena
|
Capelli di Venere o Damigelle o Fanciullaccia
|
Mellantio o Gyth; M. Gith o Niella
|
Origanum majorana (?)
|
Maggiorana
|
Origani
|
Primula auricula
|
Orecchia d’orso
|
Senniculo; M. Sanicula o Auricula ursi
|
Primula vulgaris
|
Primula
|
Primula verisflorida
|
Ranunculus acris flore pleno (?)
|
Ranuncolo
|
Dilherba anemone o Dilherba tora; M. Ranunculus tora
giallo
|
Ruta graveolens
|
Ruta
|
Ruta
|
Santolina chamaecyparissus (?)
rosmarinfolia (?)
|
Santolina o Crespolina
|
Chamaepitas; M.
Chamaecyparissus Chamaepytis ; Santolina cypressus
|
Teucrium
fruitcans (?)
|
Teucrio
|
Chamaedryos;
M. Teucrium chamaedry, Germandrée
|
Thalictrum minus adiantifolia
|
Talitro
|
Adiantho aquilegie
|
Thymus serpyllum
|
Pepolino o Serpillo
|
Serpillo montano
|
Viola sylvestris
|
Viola selvatica
|
Viole amythystine
|
Viola odorata
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Viola mammola
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Viole olorine
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Viola tricolor
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Viola del pensiero
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Viole Luteole; M. Viola arborescens o jacea o pensieri
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
BORSI 1995 Stefano BORSI, Polifilo
Architetto. Cultura architettonica e teoria artistica nell'Hypnerotomachia di
Francesco Colonna, Roma, Officina, 1995.
CALVESI 1983 Maurizio CALVESI, Il sogno di
Polifilo prenestino, Roma, Officina, 1983.
CALVESI 1996 ID., La pugna d'amore in sogno
di Francesco Colonna romano, Roma, Lithos, 1996.
CALVESI 2004 ID., Venere effimera e Venere perenne, II : Francesco Colonna
verso la cultura fiorentina (e una
troppo maldestra "traduzione"), in “Storia dell’Arte”, 2004, n.
109, N.S. 9, pagg. 5-92.
CAZZATO 1993 V. CAZZATO, M. FAGIOLO, M. A.
GIUSTI, Teatri di verzura: la scena del
giardino dal Barocco al Novecento, Firenze, Edifir, 1993.
COLONNA F 1499 Francesco COLONNA, Hynerotomachia
Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499.
COLONNA F 1980 ID., Hynerotomachia
Poliphili, a cura di GIOVANNI POZZI e LUCIA A. CIAPPONI, Padova, Antenore,
1980.
COLONNA F 1999 ID. Hynerotomachia
Poliphili, a cura di MARCO ARIANI e MINO GABRIELE, Milano, Adelphi, 1999.
Cfr. a proposito CALVESI 2004.
COLONNA F 2002 ID., Hynerotomachia
Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499, edizione elettronica del 28
giugno 2002 a cura di VITTORIO VOLPI e RUGGERO VOLPES,
http://www.liberliber.it/biblioteca/c/colonna/hypnerotomachia_poliphili_etc/pdf/hypner_p.pdf
COLONNA S 1989 Stefano COLONNA, Variazioni sul tema della Fortuna da
Enea Silvio Piccolomini a Francesco Colonna, in “Storia dell’Arte”, 1989,
n. 66, pagg. 127-142.
COLONNA S 1994 ID., Arte e letteratura. La civiltà dell'emblema in
Emilia nel Cinquecento, in La pittura in Emilia e in Romagna. Il
Cinquecento. Un'avventura artistica tra natura e idea, Milano, Nuova Alfa
Editoriale - Elemond Editori Associati - Credito Romagnolo, 1994, pagg.
102-128.
COLONNA S 1996 ID., Anteprime documentarie polifilesche, in CALVESI
1996, pagg. 313-317.
COLONNA S 2002 ID., Per Martino Filetico maestro di Francesco Colonna di
Palestrina. La polyfilia e il gruppo marmoreo
delle Tre Grazie, in “Storia dell'Arte”, 2002, N.S. n. 2, n. 102, pagg.
23-29.
COLONNA S 2004 ID., L’Hypnerotomachia e Francesco Colonna romano:
l'appellativo di frater in un documento inedito, in “Storia dell'Arte”,
2004, n. 109, N.S. 9, pagg. 93-98.
FILIPPONE 1937 Domenico FILIPPONE, Le zone verdi nella moderna urbanistica
italiana, Milano, Sperling & Kupfer, 1937.
FOGLIATI 2002 Silvia FOGLIATI, e Davide DUTTO, Il
giardino di Polifilo. Ricostruzione virtuale dalla Hypnerotomachia
Poliphili di Francesco Colonna stampata a Venezia nel 1499 da Aldo Manuzio, con una introduzione di GIOVANNI MARIOTTI,
Nota al Liber de simplicibus di
SUSY MARCON, Milano, Franco Maria Ricci, 2002.
KERN 1981 Hermann KERN, Labirinti. Forme e interpretazioni. 5000 anni di presenza di un
archetipo. Manuale e filo conduttore, Milano, Feltrinelli, 1981 (Catalogo
della Mostra In labirinto, Milano, Palazzo
della Permanente, giugno-agosto 1981).
MASSON 1961 Georgina MASSON, Giardini
d’Italia (Titolo originale: Italian
gardens, London, Thames and Hudson, 1961), Milano, Garzanti, 1961.
PICCOLOMINI 1551 Enea Silvio PICCOLOMINI, Aeneae Sylvii Piccolominei ... opera ...
omnia, etc., Basileae, 1551,
Epist.CVIII, foll. 611-616 (testo del 1444).
NOTE
Questo contributo è il resoconto di una conferenza che ho tenuto domenica 11 maggio 2008 nella Sala Consiliare del Palazzo Municipale di Portogruaro (VE). Ringrazio Antonio Diego Collovini Assessore alla Cultura e Loretta Balasso Responsabile della Biblioteca Civica del Comune di Portogruaro per avermi invitato a tenere la conferenza. Ringrazio inoltre Marco
Rinalducci per avermi concesso l’utilizzazione gratuita delle sue belle fotografie della Reggia di Caserta, Villa d’Este a Tivoli e dei Giardini di Boboli durante la conferenza e anche all'interno di questo articolo. Ringrazio infine Maria Rosa Patti per la consulenza di carattere archeologico.
Oggi si ritiene che gli Horti Luculliani siano
posizionati sul Pincio vicino ai Sallustiani grosso modo nel quartiere
Boncompagni. Sull'Esquilino, tra gli altri, sono ubicati gli Horti Lamiani. Ringrazio
Maria Rosa Patti per avermi suggerito questa nota.
MASSON 1961, pag. 282.
Abbreviazioni: M. Mattioli nell’edizione del Bauhin; C. Clarici.
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