Un labirinto di
“ephemeras”
La “nave carica di matti”
sbarcata in Usa ha portato con sé tanto del Vecchio Continente conservandone la
storia, ma cercando di crearne una nuova. Il passato è sempre un punto di
partenza, eco di memoria, impressione di identità indelebile.
La storia degli emigranti che inseguono il sogno americano insegna che
l'oggetto è un portatore di cultura, reliquia e testimonianza. Nelle valigie, i
viaggiatori hanno portato le chincaglierie del Vecchio Mondo, ephemeras
della loro storia: sono oggetti banali, decorativi, di gusto discutibile, ma
hanno, per i loro possessori, una valenza densa di significato. Le minutiae
sono trattate come rarità preziose. Profumano di lontananza e nostalgia, note
colorate che ne autenticano il valore. Il ricordo è il loro prezzo.
Il romanticismo dell'oggetto è stato abbandonato dai discendenti degli
emigranti che, ormai americani, hanno lasciato alla mercé dei rigattieri la
memoria del passato. Le vie secondarie delle metropoli sono costellate di
botteghe di rivenditori che, con quella moltitudine di cianfrusaglie, hanno
allestito un bazar per “cacciatori di immagini”
alla ricerca dell'estetica del rottame.
Tutto quello che la grande città ha voluto dimenticare ha formato una
discarica di piacere per collezionisti che hanno fatto della pratica del
riciclo un'opera d'arte: “là c’è tutto quello che gli emigranti hanno portato
nelle loro valigie e nei fagotti fin su queste sponde, e che i loro discendenti
hanno buttato via con la spazzatura” [4]
.
La “poesia dell’oggetto trovato” [5] sta proprio in questo atteggiamento:
prendere un oggetto che ha perso ogni sua funzione, abbandonato per mancanza di
utilità, e inserirlo in un’opera d’arte come materiale di reimpiego o
rivalutarlo come opera. Questo concetto di riuso riporta tanto al ready-made
duchampiano quanto all’idea stessa di museo: gli oggetti, sepolti sotto le
macerie di una civiltà perduta, vengono prelevati dal punto in cui sono stati
trovati e dal loro contesto d'origine per diventare opere esposte all’interno
di una teca.
L'idea dell'arte in vetrina ricorda inevitabilmente Joseph Cornell:
l’analogia con le Shadow Boxes è immediata proprio per l’aspetto di
riqualificazione dell’oggetto ormai inutile ad opera d’arte. L'artista va “alla
ricerca del perduto e del bello” [6]
assemblando i relitti
trovati in una composizione che echeggia della poesia di Rimbaud: “Poesia: tre
scarpe spaiate all’ingresso di un vicolo oscuro” [7] .
L'opera si presenta come piccolo monumento funerario alla memoria. Ė
proprio dalla memoria, dal ricordo, dal passato, dall'esperienza e quindi dalla
vita stessa che nasce il rapporto dell’artista con l’esistenza: “la necessità
profonda che spinse Cornell a passare dalla seconda alla terza dimensione era
una necessità poetica: la necessità di condurre le immagini, tramite la
fantasia, in un campo più vicino alla realtà della vita” [8] .
Quelle minutiae assumono il
ruolo di ponte tra due mondi: “cose rinvenute, creazioni casuali, confezioni
(articoli prodotti in serie che vengono promossi a oggetti d’arte) aboliscono
la separazione tra arte e vita. La banalità è un miracolo se vista nel modo
giusto, se riconosciuta” [9] .
L’atteggiamento dell’artista è analogo a quello del collezionista:
“affascinato dai rottami e dai relitti delle nostre vite – legni trovati sulla
battigia, ramoscelli secchi, francobolli, lustrini e pipe di terracotta- egli
conservava questi preziosi articoli con la stessa cura con cui un collezionista
protegge la sua raccolta” [10] .
Questa idea porta direttamente alla camera delle meraviglie: “nel suo
laboratorio seminterrato egli (Cornell) era come l’Elettore di Sassonia nella
sua Wunderkammer o come un
collezionista nel suo cabinet de
curiosités” [11] .
La vecchia vocazione collezionistica che aveva riempito le raccolte
europee di oggetti esotici e bizzarrie diventa, nell'arte contemporanea, una
pratica di riciclo: è il fascino del frammento che rispecchia la realtà urbana,
il vero serbatoio di immagini per l'artista. “La città è un’immensa macchina di
immagini” [12] .
Il contesto urbano, per la sua frammentazione, accumulo e raccolta di
oggetti disparati è il luogo d’incontro tra realtà diverse: “la città è il
luogo dove gli opposti più improbabili si incontrano, il luogo dove le nostre
separate intuizioni per un attimo convergono.. La città è un labirinto di
analogie, una foresta simbolista di corrispondenze” [13] .
Il poeta diventa uno straccivendolo alla ricerca dell’arte: “Tutto ciò
che la grande città ha gettato via, tutto ciò che ha perso, tutto ciò che ha
disprezzato, tutto ciò che ha schiacciato sotto i suoi piedi, egli lo cataloga
e lo raccoglie.. Egli classifica le cose e sceglie con accortezza; egli
accumula, come un avaro che custodisce un tesoro, i rifiuti che assumeranno la
forma degli oggetti utili o gratificanti tra le fauci della dea industria” [14] .
La metafora rimanda a una visione prettamente fotografica: Susan Sontag, commentando le considerazioni
di Benjamin sulla fotografia (in particolare della
fotografia di Atget), ricorda: “nella particolarità che questo fotografo ebbe
nel prediligere il ciarpame, i rifiuti, il kitsch, si dimostra come la fotografia realizzi l’imperativo
surrealista di adottare un atteggiamento egualitario di fronte a un qualsiasi
oggetto” [15] .
Il fotografo si comporta come un collezionista del refuse: “come
un collezionista del ciarpame, come un avaro che custodisca un tesoro di
rifiuti, il fotografo è uno straccivendolo surrealista, che trasforma la rovina
urbana in opera d’arte” [16] .
Questa prerogativa non è solo fotografica, ma anche cinematografica:
negli anni Trenta la città, deposito per eccellenza di immagini a cui attingono
gli artisti, diventa funzionale al cinema. Il potere di questa straordinaria
“scatola magica” permette, attraverso le inquadrature, di realizzare un cut-up dell'immagine della realtà e di
trasporlo in una spazio totalmente diverso, quello della pellicola.
La cinematografia degli anni Trenta evidenzia la riqualificazione
dell’immagine della città attraverso l’inquadratura: “il cinema permette di
ritagliare lo spazio urbano mutandone l’aspetto semantico” [17] . La città diventa la vera rete concettuale
su cui si fonda il cinema degli anni Trenta. Non è un caso, quindi, che gli
artisti comincino a cimentarsi nelle sperimentazioni cinematografiche proprio
in questo periodo. Queste testimonianze portano a pensare che tutto il clima
artistico favorisca la nascita del Found
Footage, una tecnica che consiste nell'assemblare, attaccare e cucire in un
collage filmico le “pellicole trovate”. Il risultato finale è un
accumulo di elementi preesistenti proprio come una Shadow Box. L'invenzione
della tecnica è attribuita proprio a Joseph Cornell che, con la realizzazione
di Rose Hobart nel 1936, ha dato inizio ad un genere che è alla base di
molte sperimentazioni contemporanee che giocano sulla stratificazione
semantica.
Il cinema sembra cimentarsi in una nuova spazialità: “il discorso
cinematografico si sovrappone allo spazio architettonico generando nuovi campi
semantici; si tratta, quindi, di un’azione di accumulo di significati” [18] .
La scatola magica, quel capolavoro illusionistico che è la cinepresa, è
sottoposta ad un’intensa rete di scambi concettuali con le nuove opere
provenienti dal mondo dell’arte.
Il video diventerà lo strumento ideale per la realizzazione
dell'accumulo di elementi disparati: le riprese prelevano le immagini che si
associano e si rispondono in un unico tavolo da gioco. L'idea trova piena
realizzazione tanto nel campo televisivo con Blob, quanto nella rete
attraverso i video caricati su YouTube, ma anche nell'arte attraverso
Compilation Film, Vj Performance e Mockumentary.
Credo che la migliore espressione cinematografica di questa pratica di
riciclo, tanto nella tecnica quanto nei contenuti, sia American Beauty, un
film che scopre nell'incanto del rifiuto la vera bellezza.
Look closer
American Beauty è un
film del 1999 di Sam Mendes, scritto da Alan Ball e vincitore di cinque premi
Oscar.
E' uno scorcio di vita americana sui Burnham, una
famiglia media con le sue problematiche. Lester è un uomo di mezza età con un
lavoro d'ufficio che rende la sua vita una routine senza crescita; Carolyn è
una donna in carriera che tenta invano di competere con un colosso immobiliare;
Jane è una teenager come tante, studentessa e cheerleader. La quotidianità viene
sconvolta da due personaggi: Angela, un'amica di Jane (una moderna Lolita) e
Ricky, il vicino di casa appena arrivato in città che indaga la vita attraverso
la sua videocamera.
Ricky è il motore della scoperta: è il fulcro della
ricerca che porta i personaggi a incontrare e a (ri) conoscere la vera
bellezza.
Il trailer americano di presentazione del film è
celebre per il motto look
closer, un tag-line che delinea da subito il
potere della ripresa come indagine. “You see a
street like any street, look closer. You see a man who's hardly there. Look
closer. Look closer. Look closer. Work, Family, Neighbors. Change. This Fall..
Beauty. Beauty. American Beauty”.
L'invito porta lo spettatore a “guardare da vicino”,
a superare la superficialità della visione.
Le riprese filmiche costituiscono l'apparenza mentre
i video girati da Ricky sono il disvelamento del reale, un'illuminazione sulla
banalità che rivela la vera bellezza secondo una visione che echeggia della
poetica della meraviglia.
Nel film vengono inseriti, come in un Found Footage, i video girati dal
ragazzo che si alternano alle riprese del regista. Il doppio piano crea un
contrasto tra le due visioni: la differenza tra la qualità del video rispetto
alla macchina da presa è evidente. La cesura viene sottolineata anche
dall'audio che lascia sentire l'avviso dello spegnimento della videocamera.
I video di Ricky sono amatoriali, home made. Il carattere imperfetto
delle riprese segue i contenuti filmati, ma anche la pratica stessa del Found Footage, nato probabilmente dalla
necessità di riparare le vecchie pellicole. Cornell aveva una grande collezione
di vecchi film: quando crea il primo Found Footage, Rose
Hobart,
lascia intravedere gli attacchi che svelano il salto da una pellicola
all'altra. Il carattere home
made
attraversa tutta l'esperienza artistica di Joseph Cornell e rende la sua arte
non solo una scelta estetica, ma eco di un filtro personale di chi la crea.
I video di Ricky sono catalogati: la stanza del
ragazzo è un archivio perfettamente etichettato. Sono documentari d'indagine
sulla bellezza trattati come preziosità di un collezionista. La precisione
rende il materiale una classificazione che rimanda tanto alla cantina di Utopia
Parkway, covo di Joseph Cornell, quanto alla parete di Jonathan in Ogni Cosa è illuminata [19] .
Ricky, come Jonathan, guarda il mondo dai suoi occhi azzurri attraverso un vetro che gli permette di creare una “magnificazione”
[20]
del reale con una lente tanto ingannevole quanto rivelatoria: se Ricky vede
dalla sua videocamera, Jonathan scopre attraverso i suoi occhiali spessi,
protesi del miope-mistico alla Magrelli [21] . Jonathan analizza
una vecchia fotografia ingiallita lasciatagli dal nonno attraverso una lente di
ingrandimento rendendo la sua curiosità una pratica investigativa. Allo stesso
modo Ricky si “avvicina” alle immagini attraverso lo zoom: look closer.
L'invito a “guardare da vicino” appartiene alle Shadow Boxes di Joseph Cornell che
inducono lo spettatore ad avvicinarsi e ad osservare attraverso il vetro il
contenuto delle scatole come se fossero case di bambola.
La vena collezionistica rispecchia tanto l'arte di
Cornell quanto la ricerca dei due ragazzi: Ricky è un cercatore di frammenti
che rivelino la bellezza, Jonathan è un catalogatore di oggetti di famiglia. Il
trait d'union è la poetica della
meraviglia che filtra il banale rendendolo un piccolo miracolo del quotidiano
attraverso una scelta tutta personale dell'artista, proprio come nelle opere di
Joseph Cornell.
Lo sguardo di Ricky si mischia alla ripresa della videocamera
che indaga la realtà quasi violandola. Jane, costantemente filmata da Ricky, si
sente spogliata e visibile nel profondo scambiando il vicino per un pazzo
ossessivo. Ricky manifesta con la sua passione l'anima della sua ricerca: “Non
sono ossessionato. Sono solo curioso”. Il fraintendimento è ben noto
nell'esperienza di Cornell quando fissa a lungo una ragazza e viene scambiato
per una specie di maniaco.
L'obiettivo, come protesi dello sguardo, costituisce
uno strumento di indagine voyeuristica tanto per la macchina cinematografica
quanto per quella fotografica. Cornell si identifica con un fotografo in Monsieur Phot, un soggetto cinematografico del 1933: la sua
percezione è vicinissima a quella di un apparecchio fotografico per catturare
la realtà e interpretarla. La visione è quella di un ladro di immagini che
gioca al furto di segreti proprio come insegna Bressaï: “noi fotografi siamo una
genia di bricconi, di guardoni e di ladri. Ci troviamo ovunque non siamo
desiderati; tradiamo segreti che nessuno ci confida; spiamo senza vergogna ciò
che non ci riguarda e ci appropriamo di cose che non ci appartengono. E, a
lungo andare, ci ritroviamo possessori delle ricchezze di un mondo che abbiamo
depredato”.
I video di Ricky rivelano l'American Beauty che non appartiene ad
un'immagine (ripresa-oggetto) qualitativamente alta, ma al più impensabile
degli ephemeras che può essere la carcassa di un piccione o un sacchetto
di plastica abbandonato sul ciglio della strada. La vita, la morte, il
ricordo, l'effimero si intrecciano nei video di Ricky, viaggiatore solitario
proprio come Cornell.
La videocamera è lo strumento di indagine e di
collezione mnemonica. La strada è il luogo principe della rivelazione: il
cacciatore ruba un ritaglio visivo della realtà e la trasforma in arte.
Il sacchetto di plastica è oggetto da discarica, ma
per Ricky è la cosa più bella che abbia mai filmato e che mostra a Jane per
rivelare se stesso. “Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica. E
c'è elettricità nell'aria. Puoi quasi sentirla... Mi segui ? E questa busta era
lì; danzava, con me. Come una bambina che mi supplicasse di giocare. Per
quindici minuti. È stato il giorno in cui ho capito che c'era tutta un'intera
vita dietro ogni cosa. E una..incredibile forza benevola che voleva sapessi che
non c'era motivo di avere paura. Mai. Vederla sul video è povera cosa, lo so;
ma mi aiuta a ricordare. Ho bisogno di ricordare. A volte c'è così tanta...
bellezza... nel mondo, che non riesco ad accettarla... Il mio cuore sta per
franare”.
Il quotidiano filmato da Ricky è praticamente
spazzatura: il rifiuto, nella lingua francese, si traduce come rebut. Come concetto di rifiuto, il
termine è esprimibile con refus
che
riporta alla mente refusé e inevitabilmente il Salon des refusés. Refusé indica “rifiutato” come “negato”. Una delle frasi
più conosciute del film pronunciata da Ricky è “mai sottovalutare il potere
della negazione”.
In inglese refuse funziona in modo analogo: to refuse indica “rifiutare”; refuse come sostantivo traduce il
rifiuto/i rifiuti nel senso di accumulo. La “raccolta di rifiuti” si traduce
come refuse collection: la terminologia echeggia
di “collezione”. Non a caso Jonathan,
in Ogni cosa è
illuminata, classifica la collezione di oggetti di famiglia imbustando i “reperti”
in piccoli sacchetti del freezer congelandone la memoria.
La videocamera di Ricky diventa un gioco di scoperta,
strumento irrinunciabile per guardare da vicino la realtà delle cose e vederne
la meraviglia traducendo l'effimero in magia. L'obiettivo-lente è lo specchio
attraverso cui scoprire e dare valore al banale. L'apparecchiatura di Ricky è
collegata ad un televisore che mostra le riprese creando un secondo piano della
visione per lo spettatore: è una finestra sul mondo con un filtro che è una
questione tutta personale del moviemaker.
La nuova concezione del quotidiano permette ai personaggi della storia
non solo di scoprire l'American Beauty, ma di realizzare una riflessione
sul significato stesso dell'esistenza.
Il monologo finale di Lester è una
sfida al tempo che e rende l'ultimo istante della sua vita un lungo sospiro di
eternità, una collezione di ricordi, immagini, flash illuminanti che
ripercorrono la vita stessa: “Ho sempre saputo che ti passa davanti agli occhi tutta la
vita nell'istante prima di morire. Prima di tutto, quell'istante non è affatto
un istante: si allunga, per sempre, come un oceano di tempo. Per me, fu lo
starmene sdraiato al campeggio dei boy scout a guardare le stelle cadenti; le
foglie gialle, degli aceri che fiancheggiavano la nostra strada; le mani di mia
nonna, e come la sua pelle sembrava di carta. E la prima volta che da mio
cugino Tony vidi la sua nuovissima Firebird. E Janie, e Janie... e Carolyn
(....) è difficile restare arrabbiati quando c'è tanta bellezza nel mondo. A
volte è come se la vedessi tutta insieme, ed è troppa. Il cuore mi si riempie
come un palloncino che sta per scoppiare. E poi mi ricordo di rilassarmi, e
smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come
pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine, per ogni singolo momento
della mia stupida, piccola, vita. Non avete la minima idea di cosa sto
parlando, ne sono sicuro, ma non preoccupatevi: un giorno l'avrete”.
Bibliografia
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faccia dello specchio), in R. Rizzo, “Lewis Carroll fotografo”,
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estensioni, costellazioni. Aspetti della memoria in Joseph Cornell, “La Rivista
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2009, < www.engramma.it>.
C. SIMIC, J CORNELL, Dime-Store
Alchemy: The Art of Joseph Cornell, (tr. it. a cura di A. Cattaneo, Il cacciatore di immagini. L’arte di Joseph
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D. WALDMAN, Joseph Cornell: Master of dreams,
New York 2002.
NOTE
[9] SIMIC 2005², pp. 44-45
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