La personalità del pittore Giovanni da Gaeta,
attivo tra il 1449 ed il 1472 circa nel meridione italiano è stata
sufficientemente delineata da Federico Zeri in due articoli pubblicati su
Paragone rispettivamente nel 1950 e nel 1960,
saggi su cui si è basata l’intera storiografia successiva come quella di
Ferdinando Bologna o Fausta
Navarro.
All’artista originario di Gaeta si attribuiscono
varie opere tra cui il trittico
dell’Incoronazione della Vergine della chiesa di Santa Lucia di Gaeta,
datato 1456, quello della Natività
della chiesa di Santa Maria Assunta di Fondi, quello di San Bernardino del museo di Pesaro, un altro ancora raffigurante l’Incoronazione della Vergine tra santi
già diviso tra la collezione Saibene di Milano e un’altra; un San Giovanni Evangelista in collezione
privata sempre a Milano e la Madonna
della Misericordia (fig. 1) proveniente dalla chiesa palatina di Santa
Maria del Regno di Ardara in Sardegna, poi confluita nel 1936 al Wawel di
Cracovia.
L’identificazione di Zeri con un inedito
Giovanni Sagitano fu dovuta – nelle more di stampa dell’articolo del 1950 –
alla scoperta casuale di una tavola raffigurante un Sant’Antonio Abate in trono con una cortina sorretta da due angeli
diademati con Dio Padre al vertice, custodita nella collezione Spirindon di
Roma attribuibile allo stesso artista del trittico di Gaeta e di quello di
Fondi. La tavola romana tuttavia recava la firma e la data dell’artefice, che
in tal modo poté essere identificato: “HOC OPUS FIERI FECIT FRATER
CRISTO/PHORUS CORELLA SUB INCARNA/TIONE MCCCCLXVII PRIMO MENSIS SEP/TEMB[ER]
PRIMA INDICIONIS IOHES SAGITANUS PIN[SIT]”. Il nome altrimenti ignoto alla
storiografia artistica di Giovanni Sagitano era frutto – come ribadì lo stesso
Zeri nell’articolo successivo – “al maldestro tentativo di un restauratore di
completare le lacune dell’epigrafe, e l’esatta lezione, che è «Giovanni
Cajetano», cioè Giovanni da Gaeta, [lezione che] ha immediatamente circolato,
trovando concorde accettazione”.
Una conferma definitiva in tal senso giunse dalla scoperta nel duomo di Sezze
di una tavola raffigurante il Redentore
in trono benedicente riconosciuta da Nolfo di Carpegna come appartenente al
pittore illustrato da Zeri che sul retro reca incisa – in caratteri
quattrocenteschi – la scritta “AD MCCCCLXXII MAG[ISTER] IOANNES DE CAIETA ME
PINXIT”.
Chiarita quindi definitivamente la personalità
di Giovanni da Gaeta – che si autodefiniva magister,
quindi “regolarmente iscritto alla Corporazione dei Pittori”
– rimanevano da stabilire le connessioni fin troppo evidenti con la pittura
umbro-marchigiana già indicate nell’articolo del 1950 da Zeri e ulteriormente
testimoniate dalla presenza del trittico centinato raffigurante al centro San Bernardino oggi alla pinacoteca di
Pesaro, ma proveniente da Gubbio “massimo centro del tardogotico umbro”, che documenterebbe
un viaggio dell’artista di Gaeta tra Umbria e Marche negli anni centrali del
Quattrocento.
Ad un periodo precedente tale soggiorno umbro-marchigiano
risale la splendida Madonna della
Misericordia di Ardara (fig. 1), oggi a Cracovia, ancora intrisa di quello
spirito tardo gotico meridionale alla Colantonio – basta un confronto con la
nota tavola del maestro napoletano raffigurante il San Francesco che dà la regola commissionata nel 1444 da re Alfonso
– testimoniato dalla rigidezza dei tessuti dei devoti posti sotto l’ampio manto
della Vergine sistemata su un suppedaneo recante un’epigrafe che riporta la
seconda lode che in onore della Regina dei Cieli si recita il giorno del Corpus
Domini.
In effetti, la scritta posta sul margine basso a destra del dipinto, testimonia
come questo sia il più antico noto del pittore di Gaeta: “ANNO DOMINI
MCCCCXXXXVIII DIE PRIMO MENSIS NOVEMBRIS DUA DECIMA INDICCIONE”.
Sia tale datazione che quella del Sant’Antonio Abate della collezione
Spirindon di Roma, riportano, stranamente, l’indicazione dell’indizione, mentre
nel dipinto romano l’anno è indicato come SUB INCARNATIONE, come già detto.
Ora, verificando le due epigrafi e calcolando l’indizione corrispondente i
conti non tornano affatto. Il 1448, anno di datazione della tavola proveniente
dalla Sardegna, corrisponde non già alla XII indizione, ma all’XI, così come il
1467 non corrisponde alla prima indizione ma alla quindicesima. Com’è noto
l’indizione è un computo di anni che va di quindici in quindici – ricominciando
sempre da uno – che si calcola sommando all’anno di riferimento il tre e
dividendo per quindici, il resto che dà indica l’indizione corrispondente a
ciascun anno, dato che partono dal 312 d.C. Stando così le cose, le date dei
due dipinti vanno necessariamente computate non già nello stile della Circoncisione – ossia quello attuale – ma come indica
la stessa epigrafe romana, secondo quello dell’Incarnazione forse pisano, che
inizia il computo dal 25 marzo dell’1 a.C. Tuttavia tale inspiegabile uso dello
stile pisano sembrerebbe contraddetto dalla parte terminale dell’epigrafe posta
ai piedi dell’Incoronazione della Vergine di Gaeta, recante ancora una volta la datazione con
l’indicazione dell’indizione: “HOC OPUS FIERI FECIT REVERENDUS IULIANUS BORCA
PRIOR/ SANCTE MARIE INPENSULIS PRO ALIAS SUA/ ANNO DOMINI MCCCCLVI … DIE XXV/
MENSIS MARCII QUARTA IND[ICIONE]”. In questo caso – come si vede – l’indizione
è perfettamente corrispondente all’anno, anche se nello stile pisano sarebbe il primo giorno del 1456, mentre nello stile
attuale sarebbe il 1457, dunque non la IV, ma la V indizione. Il tutto si
spiegherebbe molto più agevolmente con l’utilizzo da parte del pittore dello stile bizantino che anticipa l’inizio
dell’anno al primo settembre e il cui computo parte – come nello stile pisano –
dall’1 a.C., rimasto nell’uso corrente nel meridione italiano e in Sardegna,
dove ancora il mese di settembre è chiamato cabidanni.
L’uso quindi della datazione tipica del meridione italiano indica – oltre ogni
ragionevole dubbio – che tutte e tre le opere (quella sarda, quella romana e
quella di Gaeta) siano state eseguite nel meridione italiano. Le tre datazioni
andrebbero quindi corrette rispettivamente in primo novembre 1449 – quella
sarda –, primo settembre 1468 – quella romana – e 25 marzo 1456 quella di
Gaeta, per riportare il tutto secondo l’attuale stile della Circoncisione.
Tali argomentazioni sarebbero del tutto oziose
se non fosse che da ultimo l’appassionato di storia dell’arte Gian Gabriele Cau
ha proposto di identificare quale committente della pala proveniente dalla
Sardegna Piero de’ Medici il gottoso, il quale l’avrebbe ordinata al pittore di
Gaeta in occasione del ventennale dell’apparizione di Monte Berico a Vincenza
Pasini, avvenuta il 2 agosto 1428. L’invio della tavola in Sardegna sarebbe
giustificato – sempre secondo Cau – da un voto fatto da Piero il gottoso, che
sarebbe il personaggio ritratto in ginocchio sotto la Madonna, per il giubileo
del 1450, mentre tra i prelati a sinistra sarebbe ritratto il cardinale
Calandrini con accanto il vescovi di Bisarcio – diocesi nella quale ricadeva
Ardara – Antonio Canu e il suo predecessore Sisinnio.
Come si vede dunque se il dipinto va datato al primo novembre 1449 non è
possibile accettare la congettura che sia stato realizzato per il ventennale
dell’apparizione; come se ciò non bastasse anche le altre congetture sembrano
essere fallaci: il giubileo infatti fu indetto solo il 4 gennaio 1449, mentre
il Calandrini fu creato cardinale il 20 dicembre 1448. Se la data fosse quindi
quella da me avanzata non vi sarebbero problemi, ma il Cau nel suo saggio resta
convinto che la data sia primo novembre 1448, il che non giustificherebbe in
alcun modo la presenza del Calandrini vestito da cardinale, né il donativo
giubilare, salvo dimostrare che il committente fosse oltre ché un pio devoto
anche chiaroveggente.
Se dunque – come accertato – la tavola di Ardara
non fu realizzata per il giubileo e nemmeno vi può essere ritratto il cardinale
Calandrini, tanto meno può essere accettata la committenza proposta dal Cau,
che identifica il personaggio inginocchiato in Piero il gottoso. Tale
identificazione infatti si basa sulla lettura dei due stemmi posti in alto a
destra e sinistra e con un improbabile confronto tra il ritratto del dipinto
sardo e quelli di Bronzino e Cristofano dell’Altissimo, lontani nel tempo oltre
un secolo rispetto al primo. I due stemmi poi sono palesemente falsi e dipinti
dall’antiquario Castagnino dopo che asportò la tavola da Ardara al fine di
venderla sul mercato come originale fiorentino, che tale passò fino
all’identificazione di Zeri.
Che i due stemmi siano falsi si evince, oltre che dalla testimonianza
dell’illustre studioso bolognese, anche da un esame attento sia delle cromie
che della sistemazione degli scudi. Lo scudo di sinistra infatti riporta cinque
sfere rosse e una azzurra su campo verde (quindi araldicamente uno smalto),
mentre lo stemma dei Medici prevedeva un fondo oro (un metallo), così come la
sesta sfera azzurra non concorda con la datazione del dipinto, dato che fu
concessa dal Luigi XI di Francia solo nel 1465, quindi quasi vent’anni dopo.
Per quanto riguarda lo stemma di destra – erroneamente letto da Zeri che ci
vedeva un giglio – si tratterebbe ugualmente di un falso, dato che l’aquila con
broncone era l’insegna e non lo scudo del gottoso. Errori come si vede talmente
grossolani – come quello del posizionamento non preciso e quindi non coevo al
dipinto di quello di destra – che portano ad avallare appieno la testimonianza
di Zeri il quale testualmente disse che “nel corso dell’Ottocento [la tavola]
fu venduta dal Castagnino, subendo, nel passaggio sul commercio, l’aggiunta dei
due stemmi fiorentini”.
Ciò detto anche il quadro storico sembra
contraddire l’affermazione di Cau. Non si capisce infatti come Piero de’ Medici
avesse potuto ordinare ad un pittore di Gaeta un dipinto per un contado sardo
che nemmeno, probabilmente, conobbe mai, per un giubileo che ancora non era
stato indetto, facendo ritrarre un cardinale che ancora non era stato creato
tale. Una serie di circostanze, come si vede, che di per sé portano a ritenere
l’idea dell’appassionato studioso quantomeno fantasiosa e priva di fondamento.
Rimarrebbe – quale estrema ratio – da
pensare che il pittore di Gaeta si sia recato a Firenze e per una serie
fortuita di coincidenze avesse avuto da Piero questa commissione (anche se non
si capisce perché un de’ Medici avesse dovuto mandare un dipinto in Sardegna).
Circostanza quest’ultima contraddetta dallo stile di datazione dell’opera che –
come ho dimostrato – è quello bizantino, quindi dell’Italia meridionale e non
fiorentino che – com’è noto – era ben diverso, così come non sarebbe
ammissibile immaginare che il pittore avesse, di sua iniziativa, modificato
così pesantemente nello sfondo lo scudo del suo committente, tanto che se si
leggesse correttamente quello di destra risulterebbe più lo stemma dei Doria –
vecchi signori di Ardara, fra l’altro – che l’insegna dei Medici.
Esclusa definitivamente la committenza medicea
per la pala sarda rimarrebbe da stabilire chi sia il personaggio raffigurato
quale donatore ai piedi della Vergine. Una questione che ritengo complessa,
dato che non abbiamo – allo stato attuale – confronti certi con ritratti di
personaggi della Sardegna dell’epoca. Tuttavia un indizio può essere trovato
proprio nella scritta in basso che riporta la data del dipinto già sopra
menzionata. L’epigrafe infatti in maniera del tutto inusuale risulta tutta
spostata a destra, lasciando vuota l’intera porzione sinistra. Un fatto questo
che non trova alcun riscontro con il costume del pittore che in altre occasioni
o centra perfettamente l’iscrizione o la porta a sinistra. Tale constatazione
mi porta a credere che la falsificazione del Castagnino non si sia fermata al
solo inserimento dei due stemmi, ma anche all’abrasione o alla cancellazione
della parte iniziale dell’epigrafe che – molto probabilmente – riportava in nome
del committente, posto, non a caso, proprio sopra tale porzione. La cosa in
effetti concorderebbe perfettamente col tentativo di far passare la tavola
meridionale come fiorentina, visto che leggendo il committente (e magari anche
la città) l’imbroglio sarebbe stato prontamente svelato. Committente che
potrebbe essere identificato con quel Francesco o Franceschino Saba che nel
1436 ebbe in premio dal re don Alfonso la concessione di alcune ville nella
ragione del Fluminargia e che proprio
nel 1448 partecipò all’assedio e all’espugnazione di Castel Aragonese.
Lo stesso Saba nel 1442 aveva infatti acquistato da Francesco Gilalberto de
Centelles la villa di Ardara,
mentre nel 1452 si recò a Napoli, assieme ad altri sardi, quale ambasciatore
dello stamento militare del parlamento sardo per offrire allo stesso Alfonso un
donativo di trentaduemila ducati.
Ritengo che la pala di Ardara sia connessa da una parte con la presa di Castel
Aragonese (attuale Castelsardo), dall’altra col viaggio di Franceschino Saba a
Napoli nel 1452, così ché la data in basso non sarebbe quella di esecuzione,
quanto piuttosto quella relativa allo scioglimento del voto alla Vergine da
parte dello stesso Saba per la cessazione delle ostilità, mentre la sua
esecuzione sarebbe avvenuta nell’ottobre del 1452, quando lo stesso Saba si
recò a Castelnuovo per presentare i capitoli di Corte a re Alfonso.
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