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Alcuni appunti su Giovanni da Gaeta  
Luigi Agus
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 26 Novembre 2010, n. 584
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La personalità del pittore Giovanni da Gaeta, attivo tra il 1449 ed il 1472 circa nel meridione italiano è stata sufficientemente delineata da Federico Zeri in due articoli pubblicati su Paragone rispettivamente nel 1950 e nel 1960 [1] , saggi su cui si è basata l’intera storiografia successiva come quella di Ferdinando Bologna [2] o Fausta Navarro [3] .

 All’artista originario di Gaeta si attribuiscono varie opere tra cui il trittico dell’Incoronazione della Vergine della chiesa di Santa Lucia di Gaeta, datato 1456, quello della Natività della chiesa di Santa Maria Assunta di Fondi, quello di San Bernardino del museo di Pesaro, un altro ancora raffigurante l’Incoronazione della Vergine tra santi già diviso tra la collezione Saibene di Milano e un’altra; un San Giovanni Evangelista in collezione privata sempre a Milano e la Madonna della Misericordia (fig. 1) proveniente dalla chiesa palatina di Santa Maria del Regno di Ardara in Sardegna, poi confluita nel 1936 al Wawel di Cracovia [4] .

L’identificazione di Zeri con un inedito Giovanni Sagitano fu dovuta – nelle more di stampa dell’articolo del 1950 – alla scoperta casuale di una tavola raffigurante un Sant’Antonio Abate in trono con una cortina sorretta da due angeli diademati con Dio Padre al vertice, custodita nella collezione Spirindon di Roma attribuibile allo stesso artista del trittico di Gaeta e di quello di Fondi. La tavola romana tuttavia recava la firma e la data dell’artefice, che in tal modo poté essere identificato: “HOC OPUS FIERI FECIT FRATER CRISTO/PHORUS CORELLA SUB INCARNA/TIONE MCCCCLXVII PRIMO MENSIS SEP/TEMB[ER] PRIMA INDICIONIS IOHES SAGITANUS PIN[SIT]”. Il nome altrimenti ignoto alla storiografia artistica di Giovanni Sagitano era frutto – come ribadì lo stesso Zeri nell’articolo successivo – “al maldestro tentativo di un restauratore di completare le lacune dell’epigrafe, e l’esatta lezione, che è «Giovanni Cajetano», cioè Giovanni da Gaeta, [lezione che] ha immediatamente circolato, trovando concorde accettazione” [5] . Una conferma definitiva in tal senso giunse dalla scoperta nel duomo di Sezze di una tavola raffigurante il Redentore in trono benedicente riconosciuta da Nolfo di Carpegna come appartenente al pittore illustrato da Zeri che sul retro reca incisa – in caratteri quattrocenteschi – la scritta “AD MCCCCLXXII MAG[ISTER] IOANNES DE CAIETA ME PINXIT”.

 Chiarita quindi definitivamente la personalità di Giovanni da Gaeta – che si autodefiniva magister, quindi “regolarmente iscritto alla Corporazione dei Pittori” [6] – rimanevano da stabilire le connessioni fin troppo evidenti con la pittura umbro-marchigiana già indicate nell’articolo del 1950 da Zeri e ulteriormente testimoniate dalla presenza del trittico centinato raffigurante al centro San Bernardino oggi alla pinacoteca di Pesaro, ma proveniente da Gubbio “massimo centro del tardogotico umbro”, che documenterebbe un viaggio dell’artista di Gaeta tra Umbria e Marche negli anni centrali del Quattrocento [7] .

 Ad un periodo precedente tale soggiorno umbro-marchigiano risale la splendida Madonna della Misericordia di Ardara (fig. 1), oggi a Cracovia, ancora intrisa di quello spirito tardo gotico meridionale alla Colantonio – basta un confronto con la nota tavola del maestro napoletano raffigurante il San Francesco che dà la regola commissionata nel 1444 da re Alfonso – testimoniato dalla rigidezza dei tessuti dei devoti posti sotto l’ampio manto della Vergine sistemata su un suppedaneo recante un’epigrafe che riporta la seconda lode che in onore della Regina dei Cieli si recita il giorno del Corpus Domini [8] . In effetti, la scritta posta sul margine basso a destra del dipinto, testimonia come questo sia il più antico noto del pittore di Gaeta: “ANNO DOMINI MCCCCXXXXVIII DIE PRIMO MENSIS NOVEMBRIS DUA DECIMA INDICCIONE”.

 Sia tale datazione che quella del Sant’Antonio Abate della collezione Spirindon di Roma, riportano, stranamente, l’indicazione dell’indizione, mentre nel dipinto romano l’anno è indicato come SUB INCARNATIONE, come già detto. Ora, verificando le due epigrafi e calcolando l’indizione corrispondente i conti non tornano affatto. Il 1448, anno di datazione della tavola proveniente dalla Sardegna, corrisponde non già alla XII indizione, ma all’XI, così come il 1467 non corrisponde alla prima indizione ma alla quindicesima. Com’è noto l’indizione è un computo di anni che va di quindici in quindici – ricominciando sempre da uno – che si calcola sommando all’anno di riferimento il tre e dividendo per quindici, il resto che dà indica l’indizione corrispondente a ciascun anno, dato che partono dal 312 d.C. Stando così le cose, le date dei due dipinti vanno necessariamente computate non già nello stile della Circoncisione – ossia quello attuale – ma come indica la stessa epigrafe romana, secondo quello dell’Incarnazione forse pisano, che inizia il computo dal 25 marzo dell’1 a.C. Tuttavia tale inspiegabile uso dello stile pisano sembrerebbe contraddetto dalla parte terminale dell’epigrafe posta ai piedi dell’Incoronazione della Vergine di Gaeta, recante ancora una volta la datazione con l’indicazione dell’indizione: “HOC OPUS FIERI FECIT REVERENDUS IULIANUS BORCA PRIOR/ SANCTE MARIE INPENSULIS PRO ALIAS SUA/ ANNO DOMINI MCCCCLVI … DIE XXV/ MENSIS MARCII QUARTA IND[ICIONE]”. In questo caso – come si vede – l’indizione è perfettamente corrispondente all’anno, anche se nello stile pisano sarebbe il primo giorno del 1456, mentre nello stile attuale sarebbe il 1457, dunque non la IV, ma la V indizione. Il tutto si spiegherebbe molto più agevolmente con l’utilizzo da parte del pittore dello stile bizantino che anticipa l’inizio dell’anno al primo settembre e il cui computo parte – come nello stile pisano – dall’1 a.C., rimasto nell’uso corrente nel meridione italiano e in Sardegna, dove ancora il mese di settembre è chiamato cabidanni. L’uso quindi della datazione tipica del meridione italiano indica – oltre ogni ragionevole dubbio – che tutte e tre le opere (quella sarda, quella romana e quella di Gaeta) siano state eseguite nel meridione italiano. Le tre datazioni andrebbero quindi corrette rispettivamente in primo novembre 1449 – quella sarda –, primo settembre 1468 – quella romana – e 25 marzo 1456 quella di Gaeta, per riportare il tutto secondo l’attuale stile della Circoncisione.

 Tali argomentazioni sarebbero del tutto oziose se non fosse che da ultimo l’appassionato di storia dell’arte Gian Gabriele Cau ha proposto di identificare quale committente della pala proveniente dalla Sardegna Piero de’ Medici il gottoso, il quale l’avrebbe ordinata al pittore di Gaeta in occasione del ventennale dell’apparizione di Monte Berico a Vincenza Pasini, avvenuta il 2 agosto 1428. L’invio della tavola in Sardegna sarebbe giustificato – sempre secondo Cau – da un voto fatto da Piero il gottoso, che sarebbe il personaggio ritratto in ginocchio sotto la Madonna, per il giubileo del 1450, mentre tra i prelati a sinistra sarebbe ritratto il cardinale Calandrini con accanto il vescovi di Bisarcio – diocesi nella quale ricadeva Ardara – Antonio Canu e il suo predecessore Sisinnio [9] . Come si vede dunque se il dipinto va datato al primo novembre 1449 non è possibile accettare la congettura che sia stato realizzato per il ventennale dell’apparizione; come se ciò non bastasse anche le altre congetture sembrano essere fallaci: il giubileo infatti fu indetto solo il 4 gennaio 1449, mentre il Calandrini fu creato cardinale il 20 dicembre 1448. Se la data fosse quindi quella da me avanzata non vi sarebbero problemi, ma il Cau nel suo saggio resta convinto che la data sia primo novembre 1448, il che non giustificherebbe in alcun modo la presenza del Calandrini vestito da cardinale, né il donativo giubilare, salvo dimostrare che il committente fosse oltre ché un pio devoto anche chiaroveggente.

 Se dunque – come accertato – la tavola di Ardara non fu realizzata per il giubileo e nemmeno vi può essere ritratto il cardinale Calandrini, tanto meno può essere accettata la committenza proposta dal Cau, che identifica il personaggio inginocchiato in Piero il gottoso. Tale identificazione infatti si basa sulla lettura dei due stemmi posti in alto a destra e sinistra e con un improbabile confronto tra il ritratto del dipinto sardo e quelli di Bronzino e Cristofano dell’Altissimo, lontani nel tempo oltre un secolo rispetto al primo. I due stemmi poi sono palesemente falsi e dipinti dall’antiquario Castagnino dopo che asportò la tavola da Ardara al fine di venderla sul mercato come originale fiorentino, che tale passò fino all’identificazione di Zeri [10] . Che i due stemmi siano falsi si evince, oltre che dalla testimonianza dell’illustre studioso bolognese, anche da un esame attento sia delle cromie che della sistemazione degli scudi. Lo scudo di sinistra infatti riporta cinque sfere rosse e una azzurra su campo verde (quindi araldicamente uno smalto), mentre lo stemma dei Medici prevedeva un fondo oro (un metallo), così come la sesta sfera azzurra non concorda con la datazione del dipinto, dato che fu concessa dal Luigi XI di Francia solo nel 1465, quindi quasi vent’anni dopo. Per quanto riguarda lo stemma di destra – erroneamente letto da Zeri che ci vedeva un giglio – si tratterebbe ugualmente di un falso, dato che l’aquila con broncone era l’insegna e non lo scudo del gottoso. Errori come si vede talmente grossolani – come quello del posizionamento non preciso e quindi non coevo al dipinto di quello di destra – che portano ad avallare appieno la testimonianza di Zeri il quale testualmente disse che “nel corso dell’Ottocento [la tavola] fu venduta dal Castagnino, subendo, nel passaggio sul commercio, l’aggiunta dei due stemmi fiorentini” [11] .

 Ciò detto anche il quadro storico sembra contraddire l’affermazione di Cau. Non si capisce infatti come Piero de’ Medici avesse potuto ordinare ad un pittore di Gaeta un dipinto per un contado sardo che nemmeno, probabilmente, conobbe mai, per un giubileo che ancora non era stato indetto, facendo ritrarre un cardinale che ancora non era stato creato tale. Una serie di circostanze, come si vede, che di per sé portano a ritenere l’idea dell’appassionato studioso quantomeno fantasiosa e priva di fondamento. Rimarrebbe – quale estrema ratio – da pensare che il pittore di Gaeta si sia recato a Firenze e per una serie fortuita di coincidenze avesse avuto da Piero questa commissione (anche se non si capisce perché un de’ Medici avesse dovuto mandare un dipinto in Sardegna). Circostanza quest’ultima contraddetta dallo stile di datazione dell’opera che – come ho dimostrato – è quello bizantino, quindi dell’Italia meridionale e non fiorentino che – com’è noto – era ben diverso, così come non sarebbe ammissibile immaginare che il pittore avesse, di sua iniziativa, modificato così pesantemente nello sfondo lo scudo del suo committente, tanto che se si leggesse correttamente quello di destra risulterebbe più lo stemma dei Doria – vecchi signori di Ardara, fra l’altro – che l’insegna dei Medici.

 Esclusa definitivamente la committenza medicea per la pala sarda rimarrebbe da stabilire chi sia il personaggio raffigurato quale donatore ai piedi della Vergine. Una questione che ritengo complessa, dato che non abbiamo – allo stato attuale – confronti certi con ritratti di personaggi della Sardegna dell’epoca. Tuttavia un indizio può essere trovato proprio nella scritta in basso che riporta la data del dipinto già sopra menzionata. L’epigrafe infatti in maniera del tutto inusuale risulta tutta spostata a destra, lasciando vuota l’intera porzione sinistra. Un fatto questo che non trova alcun riscontro con il costume del pittore che in altre occasioni o centra perfettamente l’iscrizione o la porta a sinistra. Tale constatazione mi porta a credere che la falsificazione del Castagnino non si sia fermata al solo inserimento dei due stemmi, ma anche all’abrasione o alla cancellazione della parte iniziale dell’epigrafe che – molto probabilmente – riportava in nome del committente, posto, non a caso, proprio sopra tale porzione. La cosa in effetti concorderebbe perfettamente col tentativo di far passare la tavola meridionale come fiorentina, visto che leggendo il committente (e magari anche la città) l’imbroglio sarebbe stato prontamente svelato. Committente che potrebbe essere identificato con quel Francesco o Franceschino Saba che nel 1436 ebbe in premio dal re don Alfonso la concessione di alcune ville nella ragione del Fluminargia e che proprio nel 1448 partecipò all’assedio e all’espugnazione di Castel Aragonese [12] . Lo stesso Saba nel 1442 aveva infatti acquistato da Francesco Gilalberto de Centelles la villa di Ardara [13] , mentre nel 1452 si recò a Napoli, assieme ad altri sardi, quale ambasciatore dello stamento militare del parlamento sardo per offrire allo stesso Alfonso un donativo di trentaduemila ducati [14] . Ritengo che la pala di Ardara sia connessa da una parte con la presa di Castel Aragonese (attuale Castelsardo), dall’altra col viaggio di Franceschino Saba a Napoli nel 1452, così ché la data in basso non sarebbe quella di esecuzione, quanto piuttosto quella relativa allo scioglimento del voto alla Vergine da parte dello stesso Saba per la cessazione delle ostilità, mentre la sua esecuzione sarebbe avvenuta nell’ottobre del 1452, quando lo stesso Saba si recò a Castelnuovo per presentare i capitoli di Corte a re Alfonso [15] .  

 

 
 

 

NOTE

[1] F. Zeri, Il Maestro del 1456, in «Paragone», I, n. 3 (1950); F. Zeri, Perché Giovanni da Gaeta e non Giovanni Sagitano, in «Paragone», XI, n. 129 (1960); qua citati dal volume F. Zeri, Giorno per giorno nella pittura. Scritti sull’arte dell’Italia centrale e meridionale dal Trecento al primo Cinquecento, Torino 1992, pp. 191-196.

[2] F. Bologna, Opere d’arte nel salernitano, Napoli 1955, pp. 38-39, 79.

[3] F. Navarro, Giovanni da Gaeta, in F. Zeri (ed.), La pittura in Italia. Il Quattrocento, II, Torino 1987, p. 640.

[4] R. Coroneo in R. Serra, Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del ‘500, Storia dell’Arte in Sardegna, Nuoro 1990, p. 97.

[5] F. Zeri, Giorno per giorno, cit. p. 195.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem, p. 192.

[8] “CONCEDE NOS FAMULOS TUOS QUESUMUS DOMINE DEUS PERPETUA MENTIS ET/ CORPORIS SANITATE GAUDELE (sic!) ET GLORIOSA BEATÆ MARIÆ SEMPER/ VIRGINIS INTERCESSIONE A PRESENTI LIBERARI TRISTICIA ET ÆTERNA/ PERFRUI LETICIA. PER CRISTUM DOMINUM NOSTRUM”. Secondo G. G. Cau, «Non si può errare essere liberale inverso gli uomini grati». La Madonna della Misericordia di Giovanni da Gaeta: le ragioni della committenza, in «Theologica & Historica, XIX (2010), pp. 239-255, si tratterebbe dell’orazione conclusiva delle Litanie Lauretane alla Vergine, che in realtà vennero però introdotte solo nelle orazioni quotidiane dal catechismo di Pio X, quindi evidentemente nel XV secolo si trattava di una citazione precisa di invocazione alla Madonna che veniva recitata – secondo il Messale Romano – il giorno del Corpus Domini, festa mobile ricadente il giovedì successivo al cinquantesimo giorno dopo la Pasqua.

[9] G. G. Cau, cit.

[10] F. Zeri, Giorno per giorno, cit., p. 196.

[11] Ibidem.

[12] P. Tola, Saba Francesco. XV secolo, in I 2000 sardi più illustri, 14, Cagliari 2005, p. 119.

[13] F. C. Casula, Dizionario Storico Sardo, 1, Cagliari 2006, p. 204.

[14] A. Boscolo (ed.), Acta Curiarum Regni Sardiniae. I Parlamenti di Alfonso il Magnanimo (1421-1452), Cagliari 1993, pp. 82-83, 195; P. Tola, cit., p. 119.

[15] A. Boscolo (ed.), cit., pp. 191-211.








Fig. 1
Giovanni da Gaeta, Madonna della Misericordia, 1449
olio su tavola
Cracovia, Museo Wawel




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