Squisitamente e delicatamente elitaria è la
Patafisica, anche se uno dei suoi assiomi, assurto ad articolo 3.1 degli
Statuti, indica che il genere umano è composto solo di patafisici. Dov’è allora
l’elitarismo se tutti siamo patafisici? Semplice: il nobile transito sta nel
rendersi conto di esserlo, nella consapevolezza che si è nati patafisici e che
si vive da patafisici, lo si voglia o no. Anzi: proprio quando sorge la
coscienza di esserlo e si mira a toccare le alte sfere, ecco: proprio in quel
momento ti accorgi di quanto sia elitaria la Scienza.
Già, perché a quel punto, se solo osi fare un
passo, se solo affermi che vorresti entrare nel tempio e dimessamente
genufletterti, orbene: sarebbe proprio quello il massimo errore. Non bisogna
mai chiedere di “entrare”; patafisici lo si è nel fondo dell’anima e non
bisogna assolutamente compiere alcun passo, soltanto nutrire fiducia: prima o
poi qualcuno della gerarchia si accorgerà della tua essenza e ti coopterà. Ci
vuole pazienza e umiltà. Umiltà soprattutto, qualità assai apprezzata nel mondo
patafisico (naturalmente non nella forma untuosa: in quel mondo vige certamente
un rispetto assoluto della gerarchia, ma non sono amati gli adulatori, gli
incensatori e i ruffiani – vade retro). Umiltà, tuttavia, che non reprime
l’applicazione del cosiddetto “capitalismo patafisico”, cioè il fatto che le
maiuscole (lettere capitali) vi abbondano: i gradi gerarchici, le commissioni,
le cattedre ecc. sono tutti maiuscoli, e guai se non lo fossero.
Poi c’è la questione della finanza, pardon phynanza. Chiunque appartenga alla
gerarchia avverte l’immenso onore di pagare per esserlo. Pagare, nella
Patafisica, non è un dovere: è un diritto. E devo confessare che ciò non
corrisponde a un’esagerazione comica, null’affatto. Il grado infimo che
rivesto, Uditore Apparente, l’ultimo in basso della gerarchia, è tuttavia
sufficiente a farmi avvertire quella sensazione, il delizioso piacere di
sborsare danaro per concorrere alla vita della Scienza, il diritto che mi sono
conquistato di poter pagare. Non è poco.
La storia della Patafisica è nota: il singolare Alfred Jarry (1873-1907) la inventò «poiché ce n’era un gran
bisogno» e partorì l’immortale Ubu Re, come
anche la figura del dottor Faustroll, enunciatore della Scienza. Per capire di
che si tratta bisogna rifarsi ad Aristotele, che i libri sugli dèi li aveva
collocati sul suo scaffale oltre (meta)
quelli di fisica e li chiamò pertanto libri di metafisica. Stessa cosa fece
Jarry: poiché la sua scienza si collocava sopra la metafisica (epi meta
ta phisika) la chiamò ’Patafisica.
Attenzione: l’apostrofo ci vuole. Distingue
la Patafisica “inventata” in modo cosciente da quella istintuale che
proviene dalla notte dei tempi, e che non ha bisogno di apostrofo. Non sono
quisquilie.
Faustroll (bella accoppiata di
Faust e Troll, con tutto ciò che ne consegue) definisce la Patafisica «scienza
delle soluzioni immaginarie e delle leggi che regolano le eccezioni», vale a
dire scienza dei fenomeni stravaganti e ubiqui. E in quanto tale, orgogliosa:
s’interessa di tutto, e s’interessa di continuo, perché nel mondo tutto è
eccezione e tutto è immaginazione. Non basta: sebbene inventata in un momento della storia, la Patafisica ha
gorgogliato da sempre nella testa dei cosiddetti Patacessori. Si dice
che il primo sia stato Zenone di Elea, a causa del famoso argomento della
tartaruga che arriva al traguardo prima della freccia di Achille. Ma io sono
convinto che la prima manifestazione patafisica sia stata il Disco di Festo,
non foss’altro che per la sua ambiguità, per il fatto che nessuno sa che cosa
voglia dire.
Per dare ordine e continuità alla scienza, nel
1948 nacque a Parigi, nel retrobottega della “Maison
des Amis du Livre”, la famosa libreria di Adrienne Monnier al numero 7 di rue
de l’Odeon, il
Collegio di Patafisica. Presto si formò una gerarchia di alte personalità, tra
cui i titoli si sprecavano (Reggente, Satrapo, Magnificenza, Imperatore ecc.).
Vi hanno avuto spicco nomi come Queneau, Vian, Ionesco e Sua Magnificenza
Lutembi, un coccodrillo ugandese. «Una società di ricerche sagge e inutili», si
autodefinì il Collegio, decretando nel proprio Statuto che suo compito era di
«promuove la Patafisica in questo mondo e in tutti gli altri». E vorrei vedere non
fosse così, per una scienza universale. Oggi il Collegio è eccellentemente,
pregevolmente ed eminentemente retto da Thieri Foulc.
A seguito dell’istituto parigino, varie
emanazioni si ebbero in Europa: in Inghilterra, Svizzera, Olanda, Belgio (dove
ha operato André Blavier, autore della famosa bibbia I folli letterari), Svezia e perfino in Finlandia, dove la
Patafisica – fondata dal meccanico di biciclette Timo Pekkanen – accende se non
altro un po’ di calore. Non basta: dal pollone patafisico sono emanate
eccentriche società a sfondo letterario, come l’OuLiPo (OUvroir de LIttérature POtentielle) e la controparte
italiana OpLePo (OPificio di
LEtteratura POtenziale). Alla loro radice una feconda miscela di libertà e
costrizione: scrivere imponendosi qualche norma restrittiva non frena
l’invenzione ma le dà ossigeno. Come la volta che Perec scrisse un intero
romanzo senza la “e” e lo chiamò La
sparizione. Quel che era sparita era la vocale, ma i primi recensori mica
se ne accorsero.
In Italia tutta una serie di istituti è stata
ispirata da Enrico Baj, fecondo artista e patafisico di rango che ci ha
lasciato nel 2003 (ricordo solo l’Istituto
Patafisico Mediolanense sorto nel 1963). Oggi è particolarmente attivo il Collage de Pataphysique, che sebbene
abbia un sonoro nome francese è creatura assai italiana, ideata e saldamente
guidata da Tania Lorandi, artista immaginifica e animatrice di macchine celibi
che vive sul lago d’Iseo. L’istituto si chiama Collage e non College
perché incolla tra loro decine di artisti, scrittori e qualche bighellone.
Tutta gente comunque molto seria, in alcuni casi addirittura compunta.
I citati istituti sembrano irreali, tanto sono
discreti. La ragione è che l’homo
pataphysicus è per sua natura introverso e taciturno (e perciò molto
attivo); è quasi sempre un erudito miope, studia molto, lavora troppo. In un
afflato rinascimentale, egli adora il proprio studiolo, foderato di libri e di
quegli oggetti curiosi che costituiscono la trama di una personale wunderkammer. Nella mia, ad esempio, non
manca un angolo di incantevoli ceramiche: una stupenda giduglia (la spirale,
simbolo patafisico per eccellenza) firmata a pennarello da Baj, due civette
(mio simbolo personale), la riproduzione di una colonna dorica e del suddetto
Disco di Festo; il tutto di fianco a una foto di Groucho Marx (il solo vero
marxista che ci sia stato) e uno scaffaletto di libri sacri: da Jarry a
Blavier, dal Correspondancier (la
rivista del Collegio) agli Essays di
Montaigne, maestro di scetticismo.
Che altro aggiungere? Solo
questo: la Patafisica, in quanto realtà che elide le altre, ha un suo
calendario, che prende le mosse dall’8 settembre 1873, giorno nativo di Jarry,
e che corrisponde al primo del mese di Assoluto dell’Era Patafisica. Oggi siamo
dunque nel 138. L’era volgare è un’altra cosa. E non a caso si scrive con le
lettere minuscole.
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