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Patafisica maiuscola  
Antonio Castronuovo
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 11 Dicembre 2010, n. 586
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Area Artisti

Squisitamente e delicatamente elitaria è la Patafisica, anche se uno dei suoi assiomi, assurto ad articolo 3.1 degli Statuti, indica che il genere umano è composto solo di patafisici. Dov’è allora l’elitarismo se tutti siamo patafisici? Semplice: il nobile transito sta nel rendersi conto di esserlo, nella consapevolezza che si è nati patafisici e che si vive da patafisici, lo si voglia o no. Anzi: proprio quando sorge la coscienza di esserlo e si mira a toccare le alte sfere, ecco: proprio in quel momento ti accorgi di quanto sia elitaria la Scienza.

Già, perché a quel punto, se solo osi fare un passo, se solo affermi che vorresti entrare nel tempio e dimessamente genufletterti, orbene: sarebbe proprio quello il massimo errore. Non bisogna mai chiedere di “entrare”; patafisici lo si è nel fondo dell’anima e non bisogna assolutamente compiere alcun passo, soltanto nutrire fiducia: prima o poi qualcuno della gerarchia si accorgerà della tua essenza e ti coopterà. Ci vuole pazienza e umiltà. Umiltà soprattutto, qualità assai apprezzata nel mondo patafisico (naturalmente non nella forma untuosa: in quel mondo vige certamente un rispetto assoluto della gerarchia, ma non sono amati gli adulatori, gli incensatori e i ruffiani – vade retro). Umiltà, tuttavia, che non reprime l’applicazione del cosiddetto “capitalismo patafisico”, cioè il fatto che le maiuscole (lettere capitali) vi abbondano: i gradi gerarchici, le commissioni, le cattedre ecc. sono tutti maiuscoli, e guai se non lo fossero.

Poi c’è la questione della finanza, pardon phynanza. Chiunque appartenga alla gerarchia avverte l’immenso onore di pagare per esserlo. Pagare, nella Patafisica, non è un dovere: è un diritto. E devo confessare che ciò non corrisponde a un’esagerazione comica, null’affatto. Il grado infimo che rivesto, Uditore Apparente, l’ultimo in basso della gerarchia, è tuttavia sufficiente a farmi avvertire quella sensazione, il delizioso piacere di sborsare danaro per concorrere alla vita della Scienza, il diritto che mi sono conquistato di poter pagare. Non è poco.

La storia della Patafisica è nota: il singolare Alfred Jarry (1873-1907) la inventò «poiché ce n’era un gran bisogno» e partorì l’immortale Ubu Re, come anche la figura del dottor Faustroll, enunciatore della Scienza. Per capire di che si tratta bisogna rifarsi ad Aristotele, che i libri sugli dèi li aveva collocati sul suo scaffale oltre (meta) quelli di fisica e li chiamò pertanto libri di metafisica. Stessa cosa fece Jarry: poiché la sua scienza si collocava sopra la metafisica (epi meta ta phisika) la chiamò ’Patafisica. Attenzione: l’apostrofo ci vuole. Distingue la Patafisica “inventata” in modo cosciente da quella istintuale che proviene dalla notte dei tempi, e che non ha bisogno di apostrofo. Non sono quisquilie.

Faustroll (bella accoppiata di Faust e Troll, con tutto ciò che ne consegue) definisce la Patafisica «scienza delle soluzioni immaginarie e delle leggi che regolano le eccezioni», vale a dire scienza dei fenomeni stravaganti e ubiqui. E in quanto tale, orgogliosa: s’interessa di tutto, e s’interessa di continuo, perché nel mondo tutto è eccezione e tutto è immaginazione. Non basta: sebbene inventata in un momento della storia, la Patafisica ha gorgogliato da sempre nella testa dei cosiddetti Patacessori. Si dice che il primo sia stato Zenone di Elea, a causa del famoso argomento della tartaruga che arriva al traguardo prima della freccia di Achille. Ma io sono convinto che la prima manifestazione patafisica sia stata il Disco di Festo, non foss’altro che per la sua ambiguità, per il fatto che nessuno sa che cosa voglia dire.

Per dare ordine e continuità alla scienza, nel 1948 nacque a Parigi, nel retrobottega della “Maison des Amis du Livre”, la famosa libreria di Adrienne Monnier al numero 7 di rue de l’Odeon, il Collegio di Patafisica. Presto si formò una gerarchia di alte personalità, tra cui i titoli si sprecavano (Reggente, Satrapo, Magnificenza, Imperatore ecc.). Vi hanno avuto spicco nomi come Queneau, Vian, Ionesco e Sua Magnificenza Lutembi, un coccodrillo ugandese. «Una società di ricerche sagge e inutili», si autodefinì il Collegio, decretando nel proprio Statuto che suo compito era di «promuove la Patafisica in questo mondo e in tutti gli altri». E vorrei vedere non fosse così, per una scienza universale. Oggi il Collegio è eccellentemente, pregevolmente ed eminentemente retto da Thieri Foulc.

A seguito dell’istituto parigino, varie emanazioni si ebbero in Europa: in Inghilterra, Svizzera, Olanda, Belgio (dove ha operato André Blavier, autore della famosa bibbia I folli letterari), Svezia e perfino in Finlandia, dove la Patafisica – fondata dal meccanico di biciclette Timo Pekkanen – accende se non altro un po’ di calore. Non basta: dal pollone patafisico sono emanate eccentriche società a sfondo letterario, come l’OuLiPo (OUvroir de LIttérature POtentielle) e la controparte italiana OpLePo (OPificio di LEtteratura POtenziale). Alla loro radice una feconda miscela di libertà e costrizione: scrivere imponendosi qualche norma restrittiva non frena l’invenzione ma le dà ossigeno. Come la volta che Perec scrisse un intero romanzo senza la “e” e lo chiamò La sparizione. Quel che era sparita era la vocale, ma i primi recensori mica se ne accorsero.

In Italia tutta una serie di istituti è stata ispirata da Enrico Baj, fecondo artista e patafisico di rango che ci ha lasciato nel 2003 (ricordo solo l’Istituto Patafisico Mediolanense sorto nel 1963). Oggi è particolarmente attivo il Collage de Pataphysique, che sebbene abbia un sonoro nome francese è creatura assai italiana, ideata e saldamente guidata da Tania Lorandi, artista immaginifica e animatrice di macchine celibi che vive sul lago d’Iseo. L’istituto si chiama Collage e non College perché incolla tra loro decine di artisti, scrittori e qualche bighellone. Tutta gente comunque molto seria, in alcuni casi addirittura compunta.

I citati istituti sembrano irreali, tanto sono discreti. La ragione è che l’homo pataphysicus è per sua natura introverso e taciturno (e perciò molto attivo); è quasi sempre un erudito miope, studia molto, lavora troppo. In un afflato rinascimentale, egli adora il proprio studiolo, foderato di libri e di quegli oggetti curiosi che costituiscono la trama di una personale wunderkammer. Nella mia, ad esempio, non manca un angolo di incantevoli ceramiche: una stupenda giduglia (la spirale, simbolo patafisico per eccellenza) firmata a pennarello da Baj, due civette (mio simbolo personale), la riproduzione di una colonna dorica e del suddetto Disco di Festo; il tutto di fianco a una foto di Groucho Marx (il solo vero marxista che ci sia stato) e uno scaffaletto di libri sacri: da Jarry a Blavier, dal Correspondancier (la rivista del Collegio) agli Essays di Montaigne, maestro di scetticismo.

Che altro aggiungere? Solo questo: la Patafisica, in quanto realtà che elide le altre, ha un suo calendario, che prende le mosse dall’8 settembre 1873, giorno nativo di Jarry, e che corrisponde al primo del mese di Assoluto dell’Era Patafisica. Oggi siamo dunque nel 138. L’era volgare è un’altra cosa. E non a caso si scrive con le lettere minuscole.








 

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