“We have no
intention of changing men's habits,
but we have hopes of proving to them
how
fragile their thoughts are,
and on what cellars they have erected
their
unsteady houses”.
Surrealists
Declaration, 27th January 1925
The Surreal House [2]
La sovversione operata dal Surrealismo sulla scia del Dada ha minato la
percezione umana della realtà scardinando le certezze tradizionali per dare
libero sfogo all'automatismo psichico.
Lo spazio viene reinventato sul modello dechirichiano: dilatazione e
vuoto diventano nuovi scenari per la creazione. I sipari [3] si alzano
presentando uno spettacolo inquietante all'osservatore: i piani si strappano e
permettono alla visione di sconfinare nel mondo del sogno [4] e dell'immaginazione in un inganno (sur) reale. Gli elementi vengono
tagliati e riassemblati secondo una fantasia inconscia e casuale. Il tempo, da
sempre costante universale, diventa un sorridente saltimbanchi che irretisce le
tessere della composizione in una dimensione parallela: gli orologi vengono
sciolti dalla follia.
L'automatismo permette l'incontro e la parificazione degli elementi più
disparati che diventano pedine di un unico gioco. É il potere dello shock
surrealista che si diverte con le immagini: le incolla, le dipinge, le
fotografa, le filma, le autentica [5].
La familiarità con il proprio, il privato, il banale viene sottoposta
alla stessa operazione artistico- letteraria. La casa, regno principe di questa
dimensione intima, subisce un continuo slittamento di piani visivi, percettivi
e semantici. Il quotidiano diventa il bersaglio perfetto per lo straniamento
surrealista.
L'arte è un gioco. Le mura familiari si trasformano in una casa degli
specchi nel Luna Park surrealista. Le forme si riplasmano, si dilatano e si
rimpiccioliscono come nel Paese delle Meraviglie: “L’illusionismo è una tecnica
che usa le immagini per ingannare. Pone il problema se la percezione possa
darci una conoscenza veritiera e diretta del mondo. Gli psicologi hanno ideato
una ‘stanza distorta’ in cui un adulto sembra avere le dimensioni di un
bambino. Altri esempi sono il labirinto degli specchi al Luna Park e i giochi
di destrezza dei prestigiatori” [6]. La percezione dell'osservatore rimbalza tra il
sogno e l'incubo. Non c'è nessuna regola per questa partita: lo spettatore è
incastrato tra presenza e assenza in un limbo creato dall'artista.
Le figure sono apparizioni, spettri che animano il sonno della ragione.
Gli echi romantici sono evidentissimi: l'immaginazione di Edgar Allan Poe e i fairy
tales vittoriani (che rievocano il sogno shakespeariano e richiamano tanto
le figure blakiane quanto le sagome fuseliane) vengono ricontestualizzati
nell'uragano psichico che riduce la casa ad accumulo di “mobili nella valle”
circondati dal vuoto.
La cultura inglese si mischia alla tradizione francese del movimento
surrealista: non a caso l'Antologia dello Humor Nero del 1939 è
una dichiarazione onorifica verso la meraviglia carrolliana.
La tradizione popolare anglosassone ha saputo realizzare, meglio di
ogni altra, l'idea della casa abitata dagli spiriti [7]. L'ossessione vittoriana per la morte ha
alimentato fantasticherie che vanno dal romanzo dell'orrore al fascino del
ghigno, una risata inquietante nell'oscurità della ragione. Il contributo del
calotipo fotografico è notevole, uno scatto -apparizione dalle linee poco
definite che disegnano una sagoma aperta a svariate interpretazioni per
l'interlocutore. La fotografia degli spettri è un genere che ha affascinato gli
spettatori più disparati condensando l'inganno visivo e il potere della scatola
magica [8] .
La mostra londinese The Surreal House [9] alla Barbican
Art Gallery ha saputo coniugare alla perfezione l'immaginazione surrealista e
la tradizione anglosassone delle presenze spettrali allestendo un teatro magico
per lo spettatore. “Solid, functional houses
then, were largely antithetical to the surrealist project. Rather, the point,
as this exhibition eloquently demonstrates, was to draw attention to the hidden,
the subconscious and the astonishing. Imaginative curating, while occasionally
veering into the extraordinarily tangential, brings new resonances out of the
individual pieces by placing them in this context. We are invited to consider
them outside of any chronological movement or strict theme and so we form more
personal relationships with them. This results in an illuminating and intense
experience, but also ultimately, after we leave, the lack of an overarching
shape to hold the pieces together in the memory causes them to collapse and
fall apart, and the exhibition fades like a dream” [10] .
La galleria diventa una casa abitata da figure surreali: le opere, come
piccole case di bambola vittoriane, sono microcosmi in un macrocosmo- casa-
museo.
Gli invitati a questo “sogno di mezza estate”, tra giugno e settembre,
sono Marcel Duchamp, René Magritte, Salvador Dalì, Edward Hopper, Francesca
Woodman.... e naturalmente Joseph Cornell.
House is the Muse [11]
Il “cacciatore di immagini” [12] non poteva mancare ad una riunione di “ritornanti”
pre- Halloween. Le sue Shadow Boxes sono l'esemplificazione principe di
come l'arte surrealista abbia intaccato la dimensione intima della casa. “Here
Cornell’s magic boxes become ‘homes’, places where his unconscious can play out
controlled dramas of desire” [13].
Cornell reinterpreta l'eredità di quella “nave carica di matti” [14] in chiave
personale affidandosi alle sue consonanze interiori. “Forse in Cornell era
proprio la tendenza a misurare il tempo sulle proprie percezioni che gli
permetteva di creare una moltitudine di atmosfere in uno spazio ristretto, il
che è una delle caratteristiche più accattivanti della sua opera” [15].
La casa, spazio del sé creativo dell'artista, è una forma del pensiero:
Utopia Parkway è il monumento al modus operandi cornelliano, un accumulo
schedato di oggetti d'assemblage che aspettano di incontrarsi nel regno
della scatola.
Il filtro personale è dominante in tutte le sue creazioni: l'aspetto
più caratteristico è dato dall'home made [16]. Non si tratta semplicemente di creazioni dal
carattere abbozzato e volutamente impreciso [17] che
nascono nell'atmosfera della casa, ma la rispecchiano perché traducono
l'intimità delle mura attraverso la familiarità dell'artista con l'oggetto. L'objet
trouvé non è un'immagine casuale, ma è cercata, voluta, scelta in una
caccia flâneuristica volta alla scoperta di un quid che susciti
nell'artista il moto dell'affezione, del ricordo, della memoria [18] , dell'associazione emotiva.
La casa, nell'arte di Cornell, è una gabbia per uccelli [19]: lo protegge e lo rassicura, ma gli permette di
uscire e rientrare nel suo instancabile Wanderer [20] per le strade di New York. É la sua certezza e il
suo rifugio dal flight [21], il volo-evasione, ma ha la consistenza di una bolla [22] di sapone. La
sua percezione è simile a quella di un bambino che si trova a creare un mondo
di fantasia a partire dagli ephemeras [23] della realtà con la fragilità di un castello di
carta.
Le scatole, come habitats del sogno, sono animate da presenze
inquietanti, volti infantili [24] che osservano lo spettatore, bambole paffute
intrappolate tra spine di rovi e ramoscelli [25], vetrine di manichini dal corpo geometrico
incastonati nell'immobilità, frammenti arroccati nel regno delle ombre, la Shadow
Box.
La memoria di De Chirico e Atget [26] disegna corrispondenze inconsce in opere-gioco [27] dal sapore
duchampiano con fantasmi magrittiani in collages visivi alla Ernst [28].
Il dominio delle immagini non riesce a nascondere quella condizione
immateriale e metafisica di vuoto [29] spettrale
dato dal vetro della scatola, uno specchio che riflette lo spettatore
trascinandolo nel vortice cornelliano per renderlo parte dell'opera stessa.
“Non sorprende che dalle scatole volti infantili ci fissino fino a confonderci,
e che abbiano l’aria sognante dei bambini intenti al gioco” [30] .
Il fascino voyeuristico [31] della scatola irretisce l'osservatore stimolando la sua curiosità: lo shock diventa un invito
ad accedere a quella piccola casa degli specchi da Luna Park, a superare lo smarrimento, a giocare con quel teatro onirico.
Non è un caso che nella lingua inglese “giocare” e “recitare” si esprimano con il verbo to play.
Lo scenario fantasma è un giocattolo di cartone: “Un palazzo fantasma
in una foresta di alberi spogli, brina e notte. Un palazzo favoloso,
sproporzionatamente vasto rispetto alla dimensione delle figure che stanno
davanti alla facciata. Sono minuscole e indistinte, ci vorrebbero diversi
ingrandimenti prima di riuscire a vedere l'espressione dei volti. Molte hanno
l'aspetto di militari e sembrano agitate. Si indicano l'una all'altra. Deve
essere arrivata qualche notizia. Una di loro è probabilmente il messaggero.
Tornano alla mente le vedute cittadine nelle incisioni settecentesche, le torri
di Londra o i palazzi di Venezia che si levano serenamente sulle figure
microscopiche a passeggio- così si immagina- il giorno in cui l'artista disegnò
la scena” [32].
Lo spettatore si ritrova nel regno delle ombre, un mondo di morte,
monumento alla memoria. Cornell è un artista funereo: il fascino collezionistico
dell'oggetto, scelto secondo le sue consonanze interiori, rende ogni immagine
un souvenir che è allo stesso tempo un ritaglio di vita e una reliquia
mnemonica del passato, una specie di madeleine evocativa.
Il metafisico della fotografia
Joseph Cornell è il punto in cui convergono le più disparate
linee dell'arte. Le sue creazioni nascono
dall'ispirazione, dalla personalizzazione dell'immagine attinta alla
realtà, alle biblioteche e alle composizioni artistiche. Il contatto con il
gallerista Julien Levy [33], i Surrealisti, Duchamp [34] e l'esposizione delle scatole e dei collages
nelle mostre newyorkesi degli anni Trenta [35]
costituiscono un nodo d'intrecci, serbatoio di riferimenti, citazioni,
influenze che si ritrovano nelle opere dell'artista. Gli omaggi precisi ed
espliciti ai protagonisti dell'epoca rendono le sue creazioni dei doni: “a
gift, of a gift, of a gift”[36]. La
densità associativa illogica surrealista, le atmosfere metafisiche
dechirichiane, la visione ludica sulla scia duchampiana sono gli ingredienti
per la ricetta di uno stregone [37].
L'incanto del frammento non opera alcuna distinzione: nell'opera di Cornell gli
oggetti, a due o a tre dimensioni, sono trattati come immagini dotate dello
stesso valore. Così si mischiano alchemicamente
ephemeras, cartes de visite, pagine di giornale, specchi,
pipe, bambole e fotografie.
Cornell, negli anni Trenta, attraversa un periodo di
sperimentazione proprio per il confronto con gli artisti dell'epoca favorito da
una serie di “incontri casuali” nella New York dell'arte. Il mondo della
fotografia costituisce il filo rosso per ricostruire il percorso di quelle
“vite intrecciate” attraverso una serie di ritratti che autenticano gli
incontri dell'epoca. Cornell è molto attratto dalla magia fotografica: negli
anni Trenta l'inserimento di scatti apparsi sulle riviste americane dimostra
come l'artista si avvicini alla macchina per le immagini. Cornell è come Monsieur
Phot, il protagonista del suo soggetto cinematografico del 1933, un
fotografo con la percezione di una macchina fotografica che cattura le immagini
come ritagli visivi della realtà secondo un meccanismo di scelta che è analogo
all'inquadratura [38] .
Il “cacciatore di immagini” non abbandonerà mai l'incanto
del ritaglio: le Shadow Boxes costituiscono le creazioni più conosciute
dell'artista realizzate tra gli anni Trenta e Cinquanta [39] ,
ma i collages lo accompagneranno per tutta la sua vita. Verso la fine
degli anni Cinquanta Cornell lamenta la poca disponibilità di materia prima per
le scatole: sono anni dedicati alle “incursioni nel mondo delle riviste su
carta patinata” [40] . Allo
stesso tempo cresce l'interesse del mondo della fotografia per l'artista: i
fotografi si cimentano in una serie di scatti interpretativi dell'archivista
visionario.
Tra i ritratti di Cornell, che abbondano nei cataloghi della
sua arte, si trovano spesso scatti realizzati da Duane Michals ,
il “metafisico della fotografia”, un artista che dedica la sua vita alla
cattura dell'invisibile.
Le fotografie, come indicano le didascalie [42] ,
vengono eseguite su richiesta dell’artista. Ricostruire il legame tra Cornell e
Michals è semplice: il fotografo è amico dei Surrealisti (in particolare di
Magritte) e di Dore Ashton [43] .
Cornell doveva essere molto interessato alle opere di
Michals: due collages [44] e un montage
[45] eseguiti dall’artista intorno al 1970 mostrano
l’inserzione di alcuni scatti del fotografo. In entrambi i collages compare una fotografia tratta da The Young Girl’s Dream , photo- sequence realizzato da Michals nel 1969 [47]. La sequenza, impostata come storia per
immagini, mostra una ragazza visitata da una presenza maschile durante il
riposo. Quando la mano dello spettro tocca il corpo della ragazza svegliandola,
il sogno finisce e la figura scompare.
Il linguaggio di Michals echeggia di sogno: il photo-sequence è inserito nei Real dreams, opera pubblicata nel 1976,
che rappresenta il capolavoro più rappresentativo dell’arte del fotografo, il
suo libro chiave [48]. Cornell usa l'immagine della
ragazza, ma incolla altri inserti proprio nel punto in cui compare la presenza
spettrale. Nel primo collage
inserisce l’immagine di un paesaggio notturno con la luna piena che spunta dai
rami di un albero. Il ritaglio confonde la visione: l’immagine trovata sembra
un quadro, ma è collocata a mezza altezza, come se fosse in realtà il paesaggio
che si vede da una finestra, un chiaro riferimento a Magritte. Nel secondo collage viene inserita, sempre in
corrispondenza dell’apparizione, la doppia immagine di un’eclissi. É lo stesso
tema appartenente al documentario scientifico montato in Rose Hobart, il primo found
footage cornelliano del 1936.
Il montage,
invece, è composto da tre fotografie: due scatti di uno specchio e uno di una
ragazza che si copre il viso: sono foto attinte alla serie di Michals Persona.
Il fotografo ha l'abitudine di riutilizzare gli stessi oggetti per diverse
sequenze: è una convergenza di immagini che si rispondono a distanza. Lo
specchio viene riproposto in The Voyage
of the Spirit after Death [49] , una foto-storia realizzata da
Michals nel 1971 in cui un ragazzo,
morto per una caduta dalle scale, diventa uno spettro vagante nel mondo,
desideroso di tornare alle fonti della vita, di rinascere. L’immagine dello
specchio è accompagnata da una domanda: “How
can I be dead ?”. Il riflesso è l’unico modo per il soggetto di verificare
la sua morte: prova a toccare il vetro e prende consapevolezza della sua nuova
forma. La sequenza si sviluppa dal buio alla luce. Il disco che rappresenta la
luce si espande fino a coprire tutta l’immagine: della realtà resta solo un
punto nero al centro del riquadro. Si trovano molte somiglianze tra questa
sequenza e le fasi dell’eclissi visibili in Rose
Hobart e nel collage - omaggio di Cornell a Michals.
Lo specchio, inoltre, compare in un ritratto di Cornell
realizzato dal fotografo negli anni Settanta: l’artista sembra uno spettro
rischiarato solo dalla luce proveniente dalla finestra sul fondo della
fotografia. Cornell sembra dissolversi davanti al riflesso mentre fissa piccoli
oggetti accumulati sulla cassettiera della sua stanza. Le tende che adornano la
finestra sono più tangibili del suo corpo. L’immagine riporta alla mente i
rayogrammi: Cornell si rivela come apparizione.
The
House I once called Home [50] .
Michals è affascinato dal regno dell'invisibile, delle ombre
e degli spettri che abitano la realtà delle cose. La macchina fotografica è lo
strumento per rivelare quelle presenze nell'ambiguità visiva: Things are
queer [51] .
L'arte di Michals è una ricerca tanto universale quanto
personale. Il tema del doppio è già presente nel suo nome: “Duane” rappresenta
la duality della sua esistenza. Michals porta il nome di un ragazzo
defunto, figlio della famiglia per cui lavorava la madre. L'ossessione per
questo spettro mai conosciuto riempie la sua mente, la sua arte e la sua vita.
La sua ricerca mira alla mise- en- scène
dell'invisibile creando uno specchio continuo tra la realtà e la metafisica
proprio come nell'arte dechirichiana. Ogni cosa ha due aspetti: “uno corrente,
quello che vediamo quasi sempre e che vedono gli uomini in generale, l'altro
spettrale o metafisico che non possono vedere che rari individui in momenti di
chiaroveggenza” [52] .
Michals è lo scenografo delle realtà invisibili che
mischiano le apparenze, le paure, l'inconscio collettivo alla dimensione
personale, ai propri turbamenti e alla riflessione sull'esistenza. L'aspetto
intimo è il filtro con cui crea le scene da fotografare: le allestisce
riproponendo i suoi personalissimi real dreams. La sua “arte narrativa”
riunisce lo scatto alla parola scritta volutamente a mano come prova tangibile,
impronta del suo essere. “Photograph is my proof” [53] .
La dimensione intima e familiare è protagonista di The
House I once called Home [54], una serie fotografica di
Michals del 2002 che mischia immagine e testo, raccolta in una specie di
catalogo della memoria nel 2003. É un anello di congiunzione tra il presente e
il passato: la casa d’infanzia diventa teatro del ricordo. Le figure dei suoi
cari appaiono come immagini in dissoluzione: è la memoria che ricostruisce le
sagome in una sostanza indefinibile. La tecnica della sovrapposizione permette
al fotografo di creare l’illusione dell’apparizione.
La casa è custode dei ricordi dell’artista perché contiene
gli oggetti che rievocano il passato: “This
abandoned wooden box is the cabinet where my family’s curiosities are stored”[55].
L’espressione
rimanda inevitabilmente ad uno scatto dello stesso Michals del 2004, Evidence of Evolution, dove l’evoluzione
è in realtà un accumulo di oggetti molto simile alle creazioni cornelliane.
Le stanze sono i palcoscenici della vita passata che, al
momento del ricordo, tornano a riempirsi:
“these rooms were our little theatre’s mise-en-scène, where we performed our daily dramas sans proscenium”[56]. La
finta visione, che esiste nella “libreria dell’immaginazione dell’artista”[57], è un allestimento tra presenza
e assenza in un tempo indefinito: “Eternity
is the absence of time” [58].
Questi
riferimenti rispecchiano esattamente la concezione temporale, affettiva e
mnemonica [59] del “cacciatore di immagini”.
La casa è un limbo dove gli spettri sono incastrati tra due
realtà come in un labirinto mentale:
“Annabelle, Cyril and Steve lost in the labyrinths of their minds linger in a
kind of limbo, where we cannot go”[60].
Le apparizioni
vagano come ombre e avvicinano il fotografo all’idea della morte: “The shadows of this empty rooms have
bequeathed me the reality of death”[61] .
La mente vola
inevitabilmente alla Shadow Box. Le
immagini si intrecciano creando un jackpot di significati, una stratificazione
semantica di combinazioni. The House
I once called home si conclude con
una poesia in versi liberi che deve molto alle slot machines
cornelliane: “I threw a penny into the Yougiogheny and made a wish,/That
might float with it,/down the Monogahela to the Allegheny./Than further still
below the Ohio,/Until I reached the Mississippi and the sea,/There the tides
would carry me away,/to where I cannot say,/ Someplace fair and new./And I
would do things I have never done before./And my penny wish came true [62] .
Come scrive Charles Simic ne Il Cacciatore di immagini.
L'arte di Joseph Cornell [63] “l'eternità e il tempo sono le monete
con cui l'automa funziona, la parte che tocca a ciascuno per un'occhiata rapida
a quel tutto che è il nulla” [64] .
Spirit Houses
Un ultimo accenno è doveroso all'opera di Carol Owen,
artista celebre per le sue fantasiose Spirit Houses: sono costruzioni
che rispecchiano l'arte della miniatura sul modello cornelliano.
Le opere, come piccole case di bambola vittoriane, vengono
abitate da presenze che diventano le vere inquiline dei regni
dell'immaginazione: non “risiedono” semplicemente nelle opere, ma le creano. “Every spirit builds itself a house, and beyond the house, a world,
and beyond its world, a heaven” [65] . La scatola
cornelliana viene trasformata, in modo esplicito, in un'abitazione: gli
elementi compositivi e le tonalità cromatiche scioccanti rappresentano gli
“umori” di quella specifica costruzione. La Spirit House è il riflesso
della presenza che la abita: il legame tra personalità e architettura
compositiva segue la scia surrealista.
La casa rappresenta il corpo come negli scritti freudiani.
L'immagine riporta al Tree Man di Bosch del 1505. Su questa stessa idea viene realizzata la mostra londinese The
Surreal House: “We start, as did so much of surrealism, with Freud and
his notions of the subconscious and the uncanny. For Freud, the house could be
equated with the body, a container of the self. While this was hardly a new
idea - on display is an engraving after Hieronymus Bosch's Tree Man
(c. 1505), in which a human body doubles as a deformed, cracked shell of a
house - it is one that the surrealists would return to obsessively” [66] .
La scatola cornelliana, allo stesso modo, è una costruzione
personale che tenta di avvicinarsi all'uomo, alla vita: “Cose rinvenute,
creazioni casuali, confezioni (articoli prodotti in serie che vengono promossi
a oggetti d'arte) aboliscono la separazione tra arte e vita” [67].
La Shadow Box è una creazione che nasce e cresce a partire dalle consonanze
interiori dell'artista: ha una sua vita, che segue le fasi di realizzazione, e
si nutre di oggetti inglobando parti della vita stessa. “La piccola scatola
mette i dentini (e cresce poco in lunghezza / e pure in larghezza e in
profondità / e tutto quello che ha / e ancora la piccola scatola cresce /
l'armadio in cui stava dentro / sta ora dentro di lei / lei cresce e diventa più
grande / adesso la stanza sta dentro di lei / non solo, ci stanno la casa il
borgo / la terra e il mondo in cui prima abitava” [68] .
L'opera diventa un monumento alla memoria, un chiaro
richiamo al ricordo. La sua fase finale, la realizzazione definitiva, è una
specie di metafora di morte: le presenze- ombre abitano l'opera come se fosse
un limbo. Allo stesso modo gli spettri nell'opera di Michals e nei racconti
delle case infestate restano intrappolati per sempre in quello spazio, ancorati
alla dimora da una componente affettiva. Sono statue impalpabili che
custodiscono le stanze.
La Owen, in modo analogo, vede le sue personali
creazioni come icone a protezione della memoria familiare: “My Spirit Houses are shrines to family memories. They make sacred
those shards of the past that have made us what we are” [69] .
L'aspetto intimo crea la Spirit
House come una reliquia-omaggio che custodisce il privato: “Enshrining memories of family and
home and incorporating personal mementos which celebrate the people, places,
and events important to us, Carol's unique, three-dimensional assemblages
honour people's most intimate histories and truest treasures” [70] .
Le
creazioni di Carol Owen sono un'evoluzione dei giocattoli, le case di bambola,
esattamente come le opere cornelliane: Cornell realizza la scatola come
meditazione sui giochi del fratello Robert. Sono intrattenimenti per la
solitudine infantile: “Tu rendi ignoto il volto del bambino che dorme, gli
occhi e la bocca socchiusi. Tutto nel suo mondo è un segreto, e i giochi sono
ancora il gioco dell'amore, il gioco del nascondino, il freddo gioco della
solitudine. In una stanza segreta di una casa segreta il suo segreto giocattolo
siede e ascolta la propria immobilità. Corvi volano sulla città. I fantasmi dei
suoi e dei nostri sogni si incontrano di notte come i vetrinisti e i loro
manichini in una strada di edifici bui, abbandonati, e di nuvole bianche” [71] .
Le
Spirit Houses e le Shadow Boxes esprimono il fascino per l'aspetto ludico dell'arte,
un inganno sapientemente orchestrato per intrappolare l'osservatore nel gioco
surrealista: “un veicolo di sogni a occhi aperti, un oggetto che possa
arricchire l'immaginazione di chi guarda e tenergli compagnia per sempre” [72] .
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