Renato
Guttuso è stato il pittore più popolare che l’Italia del Novecento abbia avuto,
ad un secolo esatto dalla sua nascita, si può affermarlo con certezza. Lo aveva
già scritto Maurizio Calvesi, lontano dalle celebrazioni, nel catalogo di una
mostra che gli dedicò la Whitechapel Art Gallery di Londra, spiegando la doppia
accezione di questa popolarità con “la sua notorietà presso un vasto pubblico”
e “la tematica esistenziale e sociale ricca di riferimenti narrativi e
largamente accessibile” che lo hanno reso così il pittore del popolo. Tele come
La Crocifissione, I funerali di Togliatti e la Vuccirìa sono diventate l’emblema della
sua pittura, narrativamente, formalmente, realisticamente, politicamente vicina
alla gente comune. C’è un’altra opera, però, che ho scelto di ricordare per il
centenario dell’artista di Bagheria che non riusciva a “separare la ragione
poetica da quella che Vittorini chiamava la ragione civile”: La notte di Gibellina (olio su tela, un
metro e quaranta per uno), conservata presso il Museo Civico di Gibellina
insieme a uno dei bozzetti, dipinto in memoria della notte tra il 14 e il 15
gennaio del 1970, nel secondo anniversario del terribile terremoto che nel 1968
sconvolse il Belìce. Altri studi dello stesso 1970 sono presenti in collezioni
private e la versione più grande, tre metri e mezzo per tre, appartiene alla
collezione Marzotto. C’era il popolo quella notte, a Gibellina, insieme ai
sindaci della Valle del Belìce rimasti da due anni senza città e senza case.
C’erano gli artisti, gli scrittori, gli uomini di cultura che Leonardo Sciascia
e Ludovico Corrao avevano chiamato all’appello perché venisse fuori “un atto
d’accusa da cui lo stato italiano, il Governo, siano chiamati a discolparsi di
fronte al mondo civile e ad uscirne”. C’erano Guttuso, Zavattini, Caruso,
Treccani, Cagli, Damiani, Zavoli, Levi.
In
uno dei bozzetti (china acquarellata a colori, cinquanta centimetri per
cinquanta, su cui si legge la dedica a Marta Marzotto), Da Gibellina con amore, si distinguono gli abiti contadini, un
cane, le macerie delle case e le baracche sullo sfondo. Alcuni particolari si
perdono nella tela presente al museo (la prima opera in assoluto di e per
Gibellina) che viene considerata un altro studio (una prova di colore
dell’opera più grande in collezione Marzotto). Alcuni particolari, invece,
rimangono: delle coppole, molte ombre, il cielo stellato e blu delle notti di
campagna, un uomo che abbraccia una donna di spalle tra fiaccole e bandiere,
una figura femminile avvolta in uno scialle nero, in primo piano in basso a
destra, che il pittore lascia volutamente senza volto, allegoria della morte,
cancellazione dell’identità. Anche nell’opera, La notte di Gibellina. Secondo anniversario, collezione Marzotto,
molti particolari si ripetono, si distinguono meglio le figure umane, un
bambino addormentato, si leggono tra le fiamme le lettere che compongono il
nome Marta, compare un’automobile in basso a destra, le rovine in alto sono più
in vista (e riprendono le forme delle case distrutte del dipinto coevo, Rovine di Gibellina, olio su tela,
settantacinque centimetri per ottanta).
La notte di Gibellina è la traduzione
iconografica di quanto si chiedeva nelle parole dell’appello, “Di fronte a
questo stato di cose che da due anni si protrae e si aggrava, sentiamo, come
uomini e come siciliani, il dovere di rivolgere all’opinione pubblica mondiale
e, per essa, agli uomini che la rappresentano, l’invito di una riunione a
Gibellina nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1970, nel secondo anniversario
del terremoto, perché vedano, perché si rendano conto, perché uniscano la loro
proposta e denuncia a quella dei cittadini relegati nei lager della Valle del
Belìce, alla nostra”. Il dipinto, dunque, spiega la difesa di Guttuso del
realismo, nella sua sintesi espressionistica, ed è infine questo: l’invito
perché tutti vedano.
C’erano
mille fiaccole accese a vegliare quella notte, il rosso dei fuochi e delle
bandiere, il nero dei manti a lutto e delle persone come ombre, la catastrofe
della storia dopo la catastrofe naturale. Emotivamente ed esteticamente,
l’opera di Guttuso è il ritratto di quella notte, come ha scritto Ernesto di
Lorenzo, nel “senso della vita che si scioglie, della vita nonostante tutto: la
paura, il dolore, la rabbia, la speranza in una dimensione di grande coralità”.
A quell’appello e a quell’opera seguirono anni di battaglie e moltissime altre
opere, altri appelli a cui accorsero artisti capaci di una solidarietà ormai
d’altri tempi (Beyus, Consagra, Boetti, Melotti, Accardi, Colla, Burri,
Pomodoro, Paladino, Scialoja, Cucchi, Schifano...), che fecero di Gibellina,
piccolo centro agricolo in provincia di Trapani, un avamposto dell’arte
contemporanea in Italia (ma questa è un’altra storia).
NOTA
Un ringraziamento particolare a Franco Messina, Tommaso Palermo, Valentina Saluto, Maria Verde. Le foto d'archivio e le foto di Valentina Saluto sono concesse per cortesia del Museo Civico di Gibellina (Trapani).
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