Un grande magazzino durante la
stagione delle svendite, un luna park mal congeniato. Un’atmosfera caotica da
ultimo girone infernale.
La carneficina dell’arte italiana
si compie a Venezia, messa in croce assieme al simulacro dello stivale
sanguinante, opera di Gaetano Pesce, che svetta icastico al centro del
padiglione assunto - forse non è un caso - a simbolo della mostra.
Ma facciamo un passo indietro,
ricostruendo quella che è stata la giornata inaugurale della mostra,
impegnandoci a schivare posizioni preconcette.
L’arrivo in Biennale nel giorno
della sua inaugurazione, svoltasi il 3 giugno, fa da subito temere il peggio
per quanto riguarda l’affluenza.
Le ansie claustrofobiche vengono
confermate però, non tanto dal prevedibile assembramento che accalca l’ingresso
del padiglione quanto, piuttosto, dal fatto che nel padiglione in questione
quella stessa presenza umana, si ha come l’impressione che non sia stata
prevista.
Gli spazi (o spiragli) che
occasionalmente si vengono a creare, rendono difficile per il pubblico la
capacità di spostamento, condizionando pesantemente ogni occasione di
contemplazione.
Una situazione di assoluto
disagio per lo spettatore costretto a schivare ostacoli, alla ricerca di
prospettive da cui (e verso cui) guardare.
Sarà forse capitato a chi legge
di vedere a volte qualche tela del Panini, raffiguranti le quadrerie settecentesche
nelle quali le singole opere, che tappezzano interamente le superfici
scompaiono, perdendo la loro individualità, a favore di una visione globale
della scena. Splendide immagini d’altri tempi!
Quando però a proporre
anacronisticamente il più empirico dei criteri museografici è il responsabile
del Padiglione Italia dell’ultima Biennale, una simile scelta rischia di essere
classificata come mancanza di sensibilità nei confronti del pubblico,
condizionando la fruibilità delle opere. Inoltre, questi criteri espositivi
dimostrano, a nostro avviso, uno scarso rispetto nei confronti degli stessi
artisti, le cui opere in mostra, alle prese con una sgomitante lotta, addossate
le une sulle altre, si contendono, l’attenzione dei visitatori. Tutto ciò
presenta di fatto un problema di impostazione del progetto espositivo basato su
un’offerta eccessiva e non commisurata con le finalità della mostra e le reali
possibilità espositive.
Il curatore, in preda ad ansie da
horror vacui, infila - o infilza - le
opere, ancorandole a griglie metalliche più appropriate per lo stockaggio di
merce da magazzino che per l’esposizione di lavori ritenuti opere d’arte.
Con ansia egli stipa, affastella,
tappa ogni spiraglio minacci di trasformarsi in imprevisto e fortuito punto di
fuga e di respiro per lo sguardo affannato.
Fin qui dunque si è detto del
fallimentare tentativo espositivo, negazione di ogni moderno criterio di
allestimento museale.
La riflessione a questo punto si
sposta sulla figura di Sgarbi in veste di curatore. Beninteso, il giudizio è da
riferirsi esclusivamente al ruolo da lui ricoperto che, a nostro avviso, da un
certo punto della vicenda organizzativa in poi ha subito numerosi affondi che
ne hanno minato, se non del tutto compromesso, il senso e la ragion d’essere.
Per carità, qui ciascuno è libero
di pensarla come meglio crede.
Chi scrive in questo caso si
limita a fare una considerazione: se è vero – e data l’autorevolezza della
fonte non abbiamo motivo di credere il contrario - che la figura del curatore è
quella che, come dichiarato dal Presidente della Biennale Paolo Baratta sul
mensile “Insideart”, richiede determinate capacità professionali [«..il
curatore deve avere occhio esperto, spirito indipendente, generosità verso gli
artisti, severa capacità di selezione, grande fedeltà a quella misteriosa dea
che è la qualità» ] allora evidentemente qualcosa non torna.
Ci riferiamo in particolare alla
pratica messa in atto da Sgarbi di delegare a terzi la responsabilità di
selezionare un così alto numero di
artisti. Cosi facendo egli ha, di fatto, dimostrato di abdicare al suo ruolo,
alla funzione primaria del curatore: il momento della scelta. Tutto ciò in
funzione di un complesso obiettivo: l’arbitraggio di una conciliazione tra
sistema dell’arte e il mondo di una cultura, diciamo cosi, onnicomprensiva.
Com’è noto, rari sono i casi di
convergenza tra le opposte categorie della quantità e della qualità; in virtù
di questo e sulla base delle considerazioni svolte fin qui, in base a cosa
dovremmo dunque ritenere che sia stato fatto un lavoro organico nella selezione
degli artisti da esporre?
Tale scelta infatti è stata affidata
alla discrezione delle più disparate personalità, illustri e senza dubbio
competenti nel proprio settore, sprovviste però di quella pratica e di una
visione unitaria necessarie al conseguimento dell’obiettivo curatoriale. Nomi
di artisti avanzati dunque sulla base, quando va bene, del proprio personale
gusto o, altrimenti, per via di amicizie o parentele.
Riteniamo perciò che una tale
strategia, anche se mossa dal più nobile proposito di un allargamento delle
frontiere al di là dei confini di settore, non si sia rivelata vincente, specie
se riferita a quel palcoscenico di rilevanza internazionale che è la Biennale veneziana, poco
adatta a sperimentazioni spurie, svolte cioè in assenza di controllo e
pianificazione accurata e soprattutto centralizzata.
Al contrario sarebbe come
chiedere, per assurdo, a critici e storici dell’arte di entrare nel merito
della selezione degli artisti da far cantare a Sanremo. Si otterrebbe
certamente un analogo risultato, sconnesso e disorganico.
Il rischio più serio che tutto
ciò minaccia di generare è un diffuso senso di confusione nel pubblico il
quale, privo di adeguati mezzi critici, trova accostati artisti di riconosciuto
valore ed illustri sconosciuti.
Siamo d’accordo invece con il
curatore Sgarbi nell’idea che il giudizio estetico non vada in nessun modo
orientato per mano di una ristretta oligarchia culturale, favorendo la via
dello sviluppo di una coscienza critica autonoma.
Invitiamo in questo senso il
pubblico interessato all’arte a prendere visione di questa 54° edizione della Biennale
esprimendo il proprio parere e, con questo, stabilendo il successo o il biasimo
dell’evento.
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