Il concetto di gusto è la
corrispondenza che si ottiene tra l’analisi richiesta da un dipinto e la
capacità di analisi del fruitore. Lo
spettatore/fruitore, trovandosi di fronte all’opera d’arte, reagisce allo
stimolo mettendo in atto tutte le conoscenze e l’esperienza acquisita dal suo
vissuto fino a quel momento.
Quando Vasari scrive le sue Vite ha chiaro il concetto secondo cui l’opera d’arte assume con i secoli
maggiore rilevanza. L’importanza assunta con il tempo, è data dalla modalità di
percezione del soggetto che si pone davanti l’opera. Parallelamente al momento
in cui l’artista inizia a prendere coscienza di sé e del suo operare, divenendo
intellettuale,
inizia a svilupparsi uno “stile conoscitivo individuale” in cui le capacità
interpretative possedute da ognuno, diventano delle vere e proprie categorie a
cui attingere per sviluppare la conoscenza che evolvendosi instaurerà abitudini
di deduzioni ed analogie.
Il contesto di appartenenza del singolo artista e della sua
opera diventano imprescindibili per un’esatta conoscenza critica dell’opera
stessa e del suo creatore.
Il gusto soggettivo, si allontana
dal concetto di bello aderente kantiano che segue forme a priori
universalmente intese, è legato a concetti con cui noi riflettiamo sulle opere.
Ciò che accade nella prima parte dello scritto vasariano, in cui i pittori di
fine Quattrocento sono lodabili non per il livello qualitativo delle loro
opere, ma per il fatto di aver aperto la strada alla rinascita.
Caratteristica ricorrente
dell’aretino è l’utilizzo dell’aneddoto. Riguardo ai pittori del 1400,
disponeva di una tradizione composita a cui attingere, ma spesso fuorviante e
non rispondente alla realtà.
Le case dei ricchi mercanti del primo Quattrocento erano ricche di
piccole immagini devozionali, simili ad icone da venerare, ma attraenti dal
punto di vista estetico. Data l’arcaicità di queste immagini, credo si possa
spiegare la ragione per cui Vasari commetta spesso l’errore di inserire pittori
poco noti in un secolo precedente a quello effettivo di appartenenza.
Nella sezione dedicata ai pittori di fine Trecento, si assiste al
ricorrere di frasi tipo che caratterizzano il personaggio conferendogli giudizi
di pregio o meno.
Fondamentale è il ruolo svolto dalla natura, colei che infonde
nell’animo degli artisti le capacità, insite nell’uomo fin dalla sua nascita. È
una tendenza a cui il singolo sente di appartenere, e che deve soddisfare con
il suo operare.
“… giudicato dal padre e
da quei pittori in modo atto alla pittura…
Là dove, di continuo esercitandosi, l’aiutò in poco tempo talmente la
natura, che passò di gran lunga, sì nel disegno che nel colorire, la maniera
dei maestri che gli insegnavano…”
In conclusione alla biografia dedicata a Cimabue, la
natura torna ad assumere rilievo, quasi a voler giustificare benevolmente il
perchè Giotto
venga a prevalere sul maestro. La natura di cui parla il Vasari, non è la
stessa per la quale Cicerone nel De
oratore crea la mirabile metafora dell’incendio, in questo caso non si
infonde negli animi per contagio, ma discende dall’alto, è un qualcosa innato
nel soggetto che deve essere in grado di comprendere
ed elevare al massimo grado.
“… sebbene fu Cimabue quasi
prima cagione della rinnovazione dell’arte della pittura, Giotto nondimeno, suo
creato, mosso da lodevole ambizione et aiutato dal cielo e dalla natura, fu
quegli che andando più in alto col pensiero, aperse la porta della verità a
coloro che l’hanno poi ridotta a quella perfezione e grandezza, in che la
veggiamo al secolo nostro; …”
Abbiamo visto il pittore
medievale assimilato ad un semplice artigiano il cui compenso
era determinato dal valore del materiale utilizzato e quindi dalla preziosità
dell’oggetto prodotto. Ciò si mantiene nella società corporativa di fine
Trecento ed inizio Quattrocento, solo con l’avvento del Rinascimento, ci si
allontana sempre di più da questa immagine e inizia ad instaurarsi una
corrispondenza diretta tra il valore attribuito all’elemento teorico e a quello
pratico; l’abilità dell’artista assume rilevanza. Pur allontanandosi lentamente
dalla condizione di artifex e
assimilando la propria persona all’individualità dell’artista creatore, i
pittori legati alle corporazioni, continuavano a vivere socialmente come degli
artigiani.
È Sergio Rossi che nel suo testo Botteghe
e Accademie, dà la definizione di artefice: la commistione di un artigiano
e un artista. L’artefice medievale, spiega Sergio Rossi, oltre ad essere
proprietario dei mezzi di produzione era anche l’ideatore, ma il momento
creativo in questa fase di passaggio, non aveva ancora acquistato valore come
processo a sé stante, ma trovava proprio nella concretezza del prodotto finito
la sua attuazione.
In questo caso, Vasari, pur
chiamando Giotto artefice, ne riconosce l’eccellenza nel disegnare e
dipingere:
“E veramente fu miracolo
grandissimo, che quella età e grossa et inetta avesse forza di operare in
Giotto sì dottamente, che il disegno, del quale poca o niuna cognizione avevano
gl’uomini di quei tempi,
mediante lui ritornasse del tutto in vita.”
Si svilupperà la figura dell’artista, più
volte citato, che si differenzia dall’artigiano del suo tempo per la coscienza
che ha della qualità intellettuale del suo lavoro e soprattutto la piena
consapevolezza della netta distinzione che intercorre tra i due momenti,
ideativo ed esecutivo.
Scopo di questo breve saggio è
dimostrare come degli stilemi verbali siano ricorrenti nella scrittura del
Vasari per quanto riguarda i pittori di fine Trecento e primo Quattrocento. A
questi pittori, viene richiesta un’elevata capacità nel disegnare, nel rendere
espressioni e gesti appropriati
tanto da essere facilmente interpretabili, saper costruire dei panneggi e
naturalmente essere dotti e saggi nei comportamenti. Come possiamo notare,
Vasari li assimila agli artigiani escludendo l’atto creativo e spiega questo,
qualora fosse evidente, come inclinazione naturale imprescindibile al saper
fare.
Spesso l’aretino, non
comprendendo come mai molti pittori di primo Quattrocento fossero legati a
stilemi tradizionali e classici, cerca di spostare le datazioni finanche un
secolo prima della reale cronologia in modo da motivare questa tradizionalità
arretrata nel dipingere.
Ho inteso iniziare con l’analisi
della biografia di Giotto non solo perché è il vero punto di svolta della
moderna concezione dell’artista, ma anche perché tutti gli stilemi che
incontreremo nel corso del nostro cammino prendono corpo all’interno della sua Vita.
Giotto diviene il termine di
paragone nelle pagine vasariane e nella critica a lui contemporanea, un metro
di giudizio a cui rispondere per essere giudicati benevolmente.
Forse, proprio per questa
ragione, il nostro inserisce i pittori a lui paragonati in un secolo di
appartenenza precedente a quello effettivo di attività; non era concepibile
potersi avvicinare tanto ad un artista medievale e non far parte di quella
corrente storica!
Allo stesso tempo era
inconcepibile non essersi evoluti nella pittura, quindi nel disegno, pur
trattandosi della metà del 1300. Naturalmente
il Vasari avrà creato questo piccolo intoppo cronologico incosciamente, anche
se sappiamo che era solito giocare con manciate di anni per dimostrare la
grandezza di uno o l’incapacità di un altro.
Per avvalorare quanto appena
detto, vediamo come nella narrazione della Vita di Lorenzo Monaco, il
nostro, ci appare quasi stupito delle capacità del monaco camaldolese:
“…resto meravigliato che
fussero condotti con tanto disegno e con tanta diligenza
in quei tempi che tutte
le arti del disegno erano poco meno che perdute, perciò che furono l’opere di
questi monaci intorno agl’anni di nostra salute 1350, e poco prima, e poi
…”
“…egli fu poi meritatamente in
quello esercizio fra i migliori dell’età sua annoverato.”
Il ricorrente richiamo all’inclinazione
naturale è ripreso per due pittori in particolare: Taddeo Gaddi e
Spinello Aretino, discepoli, anche
indirettamente di Giotto e
per questo uniti nella sorte benevola della natura che è donatrice di talento e
virtuosismo. Anche per questi pittori il richiamo è innato, proprio perché
costoro adottavano nel dipingere la maniera giottesca vengono innalzati e
lodati.
Il colorire ha un diverso effetto su questi pittori a cavallo del
secolo, Taddeo e Agnolo Gaddi, Andrea di Cione, Spinello Aretino e Lorenzo di
Bicci, i quali, nel saper conferire il
colore riescono a superare il maestro. Vediamo come Vasari giustifichi
quest’abilità degli allievi nel colore per il troppo impegno che Giotto
impiegava per far progredire l’arte del disegno, ritenuta di più degno
interesse, e quindi l’impossibilità, si noti bene, non l’incapacità, di
studiare la tecnica del colore.
Per tornare alla
tesi di partenza, vediamo come l’aretino si discosti completamente dai pittori
di fine Trecento che non fanno parte dell’ondata di innovatori del discepolato
di Giotto, e quindi vengono considerati come artigiani/pittori, non troppo
capaci nell’uso del disegno perché ancora molto tradizionali nella costruzione
delle forme e, in qualche modo, arretrati; vengono così definiti capricciosi e
svogliati.
In ultimo, come
ho accennato sin dall’inizio, prenderei in esame le discordanze che ci vengono
riportate dal Vasari in merito ad alcuni pittori sopra citati.
Mariotto di Nardo è ricordato
come nipote di Andrea Orcagna in appendice alla biografia di quest’ultimo.
Mariotto è inserito ne le Vite
in occasione della descrizione degli affreschi eseguiti per la chiesa di San
Michele Visdomini di cui il Boskovits suggerisce una datazione al 1405-1410.
Gaetano Milanesi esclude i legami
di parentela con la famiglia Orcagna. Il nome completo “Mariotto di Nardo di
Cione” si trova nell’iscrizione all’Arte dei Medici e degli Speziali, figlio di
Nardo di Cione da Firenze, attivo come scalpellino del Duomo di Siena nel 1380
e impegnato l’anno successivo nella realizzazione di alcuni capitelli per la
Chiesa di San Giusto a Volterra.
I documenti che fanno risalire
rapporti con la famiglia Orcagna risalgono tutti a dopo il 1398. Fino alla
morte di Jacopo di Cione, Mariotto risiede come quest’ultimo nel quartiere di
San Giovanni del Gonfalone del Leon D’Oro; mentre al ritorno da Pesaro si
trasferisce nel Popolo di san Michele Visdomini (San Giovanni, Drago Verde)
dove l’Orcagna e Nardo possedevano degli immobili .
Quindi, seguendo questi documenti, sarebbe da escludere un rapporto parenterale
tra le due famiglie.
Il Vasari curiosamente anticipa anche l’attività anche di Giovanni dal Ponte, in molti documenti conosciuto come Giovanni di Marco, facendolo nascere nel 1307, quindi ben un secolo prima ! Questo a conferma del fatto che nel momento in cui
l’aretino scriveva le biografie dedicati ai pittori di fine Trecento non si
aveva una giusta prospettiva storiografica in cui collocare questi artisti. In
realtà Giovanni dal Ponte nasce nel 1385 e risulta iscritto all’Arte dei Medici
e degli Speziali nel 1410 e alla Compagnia di san Luca tre anni dopo.
Probabilmente si forma nella bottega di Niccolò di Pietro Gerini o in quella di
Spinello Aretino a cui si avvicina nello stile delle prime opere.
Per finire, vediamo come nella
biografia di Lorenzo di Bicci abbia fatto un po’ di confusione per le
similitudini stilistiche che intercorrono in questa, come in altre botteghe.
Nello scrivere la biografia di
Bicci di Lorenzo, il Vasari ha commesso un errore scambiando la sua figura con
quella del padre. Lo stesso è presente anche nelle due fonti precedenti:
Antonio Billi e l’Anonimo Gaddiano. Sicuramente anche Lorenzo, il capostipite
della famiglia Bicci, è stato un pittore.
Il Vasari, per di più, pensava
che Bicci fosse stato allievo di Spinello Aretino e non del padre, proprietario
di una delle botteghe che nel corso del Quattrocento avrà estrema importanza
nel panorama fiorentino.
È possibile che sia incorso
nell’equivoco, dato che le due collaborazioni, di Lorenzo di Bicci e di Bicci
di Lorenzo, per un certo periodo diventano intercambiabili ed anche per la
possibilità che Bicci abbia denunciato tardi la sua presenza nella bottega
paterna all’Arte, in quanto esente da immatricolazione perché figlio di un
iscritto. Questa era avvenuta prima del 1404; ed il padre, Lorenzo di Bicci,
non lo si ritrova nei pagamenti in data posteriore al 1404.
Documenti su Lorenzo di Bicci si fermano al 1399 anno in cui gli viene
commissionata la Crocifissione per la Chiesa di Sant’Agostino ad Empoli.
Nella bottega dei Bicci, molti
committenti tornavano a distanza di anni alla ricerca di uno standard di produzione e di un gusto
immutato nel tempo.
Prima di concludere, credo sia
arrivato il momento di spiegare come mai alcune formule iconografiche vengano
ripetute in moduli apparentemente standardizzati. Alcuni committenti richiedono
esplicitamente il ricorso a formule giottesche ed in più, cosa altrettanto
plausibile, esiste la possibilità che molti pittori di questo periodo
utilizzassero le stesse formule compositive come, ad esempio, troviamo in
Mariotto di Nardo, Spinello Aretino (Madonna con il Bambino, Firenze,
Museo Bardini), Giovanni Toscani (Madonna con il Bambino, Montemignaio,
Arezzo, Oratorio della Madonna delle Calle). Lo stesso discorso si può
affrontare per il tema iconografico dell’Assunzione della Vergine, in
cui l’intenzionale arcaismo evoca la tradizione giottesca per noi arcaica, ma
per i contemporanei moderna nel suo essere. Questo potrebbe spiegare l’utilizzo
di modelli standard per determinate iconografie.
Forse è per questa ragione che il
Vasari tende a confondere gli anni in cui alcune opere vengono prodotte e cosa
ancora più rilevante, addirittura anticipare notevolmente le date di nascita degli
artisti di fine 1300.
Stefan Wappelmannel
suo saggio sulla pittura nel Quattrocento, spiega tali discordanze come la
possibilità di troppe presenze in una stessa bottega e quindi la probabilità
che ci fosse uno standard, un canone,
da rispettare per l’esecuzione di un dipinto. Sfortunatamente abbiamo poche
informazioni letterarie e documentarie per poter dare un giudizio corretto su
questi esigui anni di storia.
Tali ripetizioni iconografiche,
vengono spiegate anche come fonte di successo e quindi ripetute. Questa fortuna
critica è evidente soprattutto per la figura del Bambino, possiamo trovare la
stessa immagine dipinta su vari supporti, ed è probabile che lo stesso cartone
sia stato utilizzato più volte ed invertito. Il modello viene utilizzato come referenziale,
ma nello sviluppo stilistico del pittore subisce un’evoluzione. Può apparire
perfino banale, ma va sottolineato il fatto che ogni modello compositivo viene
arricchito, anche se da solo un particolare, nel passare da un artista ad un
altro in modo da creare infinite possibilità ed infinite combinazioni per
ognuno.
Per esempio possiamo notare, che
esistono dirette dipendenze e collaborazioni tra Lorenzo di Niccolò, Spinello
Aretino e Niccolò Gerini. Nel 1395 circa, Niccolò Gerini lavorò con Spinello
per affrescare la Sagrestia di Santa Croce. Nel 1399 Ambrogio di Baldese,
Spinello e altri, erano impiegati per dipingere le volte di Orsanmichele a
Firenze. Nel 1400 Spinello Aretino, Lorenzo di Niccolò e Niccolò Gerini
finiscono l’altare di Santa Felicita e nello stesso periodo, Spinello e Lorenzo
di Niccolò dipingono la cappella dei Cortigiani in San Michele Visdomini.
Nel 1400 a Roma e Firenze, si
assiste ad un incremento di richieste di tavole di piccolo formato a scopo
devozionale e privato. È per questo che spesso in un lavoro di bottega si cerca
di mantenere un certo standard
compositivo più o meno simile per ognuno. Senza contare che spesso erano i
committenti a chiedere qualcosa in particolare e quindi l’artista aveva ben
poca possibilità di replica.
Wappelman parla di tre parametri
che devono essere conosciuti per una corretta interpretazione di un’opera
d’arte di fine Trecento, che cito:
- Spesso il disegno era già impostato. Raramente
infatti, si procedeva ad un’opera senza che l’artista avesse provveduto a
presentare una bozza al committente per l’approvazione.
- I committenti, ordinando un dipinto in una
specifica bottega, avevano delle opere di riferimento non necessariamente
del pittore di cui volevano il lavoro. L’artista in questione era obbligato
da un preciso contratto a rispettare questi canoni richiesti dal
committente.
- A volte al contratto viene apposta la clausola “a
sua mano” nel quale si garantisce la qualità alta del dipinto di cui
si occuperà unicamente l’artista a cui era stato richiesto, solitamente il
capo bottega. In questo caso si produce un vero e proprio prodotto unico
nel suo genere.
In un contratto vengono
specificate tre cose in particolare: il soggetto che il pittore deve dipingere,
abbiamo appena visto come il più delle volte il soggetto venga concordato ed
approvato preventivamente dal committente; vengono stabiliti modi e tempi di
consegna e quindi le cifre di pagamento ed in ultimo, cosa importantissima,
vengono specificati i materiali da utilizzare e le quantità (oro, azzurro
ultramarino, etc…).
Wappelman arriva ad una
conclusione che accolgo parzialmente: sicuramente non esiste un’unica formula
codificata da rispettare, ma il contesto di appartenenza di un pittore implica
anche il fatto che esso possa vedere e conoscere stilemi differenti e che se ne
possa appropriare e a sua volta trasmetterli ad altri pittori.
Wappelman, e qui mi distacco,
definisce questo momento di passaggio tra Trecento e Quattrocento, come
rispetto di un revival
classicheggiante in cui viene a mancare la vera coscienza estetica che farà
capolino solamente nel Rinascimento e non prima.
Non trovo giusto privare questi
pittori di un estetismo, che sicuramente non comprende i nostri canoni, ma che
hanno faticato ad imporre anche per il grave compito di dover superare il
maestro Giotto e con l’ulteriore difficoltà di vivere in un momento storico, il
primo Quattrocento, in cui si stava affermando quella corrente che farà fare
passi indietro a molti di questi artisti dal punto di vista formale, cioè il Gotico
Internazionale. Non sempre si è inteso questo movimento, utilizzando un termine
moderno, come un’evoluzione coloristica, lineare, europea, questo perché gli
scambi non sono più interregionali, ma internazionali. Vedremo, infatti, molti
artisti unire stilemi gotici al sapiente uso delle proporzioni con una tecnica
eccezionale e dicendo questo sto pensando a Mariotto di Nardo, Lorenzo Monaco,
Spinello Aretino, la bottega dei Bicci, Giovanni Toscani, ma su tutti Gentile
da Fabriano, da pochi compreso per la sua essenza veramente rinascimentale, e
conosciuto unicamente per i giochi di goticismi grandiosi nel saper rendere le
stoffe ed i materiali di ogni tipo.
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