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Vasari e i pittori “de que' tempi”  
Guendalina Patrizi
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 5 Agosto 2011, n. 618
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Area Didattica

Il concetto di gusto è la corrispondenza che si ottiene tra l’analisi richiesta da un dipinto e la capacità di analisi del fruitore. [1] Lo spettatore/fruitore, trovandosi di fronte all’opera d’arte, reagisce allo stimolo mettendo in atto tutte le conoscenze e l’esperienza acquisita dal suo vissuto fino a quel momento.

Quando Vasari scrive le sue Vite ha chiaro il concetto secondo cui l’opera d’arte assume con i secoli maggiore rilevanza. L’importanza assunta con il tempo, è data dalla modalità di percezione del soggetto che si pone davanti l’opera. Parallelamente al momento in cui l’artista inizia a prendere coscienza di sé e del suo operare, divenendo intellettuale [2] , inizia a svilupparsi uno “stile conoscitivo individuale” in cui le capacità interpretative possedute da ognuno, diventano delle vere e proprie categorie a cui attingere per sviluppare la conoscenza che evolvendosi instaurerà abitudini di deduzioni ed analogie.

Il contesto di appartenenza del singolo artista e della sua opera diventano imprescindibili per un’esatta conoscenza critica dell’opera stessa e del suo creatore. [3]

Il gusto soggettivo, si allontana dal concetto di bello aderente kantiano che segue forme a priori universalmente intese, è legato a concetti con cui noi riflettiamo sulle opere. Ciò che accade nella prima parte dello scritto vasariano, in cui i pittori di fine Quattrocento sono lodabili non per il livello qualitativo delle loro opere, ma per il fatto di aver aperto la strada alla rinascita. [4]

Caratteristica ricorrente dell’aretino è l’utilizzo dell’aneddoto. Riguardo ai pittori del 1400, disponeva di una tradizione composita a cui attingere, ma spesso fuorviante e non rispondente alla realtà.

Le case dei ricchi mercanti del primo Quattrocento erano ricche di piccole immagini devozionali, simili ad icone da venerare, ma attraenti dal punto di vista estetico. Data l’arcaicità di queste immagini, credo si possa spiegare la ragione per cui Vasari commetta spesso l’errore di inserire pittori poco noti in un secolo precedente a quello effettivo di appartenenza.

Nella sezione dedicata ai pittori di fine Trecento, si assiste al ricorrere di frasi tipo che caratterizzano il personaggio conferendogli giudizi di pregio o meno. [5]

Fondamentale è il ruolo svolto dalla natura, colei che infonde nell’animo degli artisti le capacità, insite nell’uomo fin dalla sua nascita. È una tendenza a cui il singolo sente di appartenere, e che deve soddisfare con il suo operare.

 … giudicato dal padre e da quei pittori in modo atto alla pittura…
Là dove, di continuo esercitandosi, l’aiutò in poco tempo talmente la natura, che passò di gran lunga, sì nel disegno che nel colorire, la maniera dei maestri che gli insegnavano… [6]  

In conclusione alla biografia dedicata a Cimabue, la natura torna ad assumere rilievo, quasi a voler giustificare benevolmente il perchè Giotto [7] venga a prevalere sul maestro. La natura di cui parla il Vasari, non è la stessa per la quale Cicerone nel De oratore crea la mirabile metafora dell’incendio, in questo caso non si infonde negli animi per contagio, ma discende dall’alto, è un qualcosa innato nel soggetto che deve essere in grado di comprendere [8] ed elevare al massimo grado.

“… sebbene fu Cimabue quasi prima cagione della rinnovazione dell’arte della pittura, Giotto nondimeno, suo creato, mosso da lodevole ambizione et aiutato dal cielo e dalla natura, fu quegli che andando più in alto col pensiero, aperse la porta della verità a coloro che l’hanno poi ridotta a quella perfezione e grandezza, in che la veggiamo al secolo nostro; …” [9]  

Abbiamo visto il pittore medievale assimilato ad un semplice artigiano il cui compenso era determinato dal valore del materiale utilizzato e quindi dalla preziosità dell’oggetto prodotto. Ciò si mantiene nella società corporativa di fine Trecento ed inizio Quattrocento, solo con l’avvento del Rinascimento, ci si allontana sempre di più da questa immagine e inizia ad instaurarsi una corrispondenza diretta tra il valore attribuito all’elemento teorico e a quello pratico; l’abilità dell’artista assume rilevanza. Pur allontanandosi lentamente dalla condizione di artifex e assimilando la propria persona all’individualità dell’artista creatore, i pittori legati alle corporazioni, continuavano a vivere socialmente come degli artigiani.

È Sergio Rossi che nel suo testo [10] Botteghe e Accademie, dà la definizione di artefice: la commistione di un artigiano e un artista. L’artefice medievale, spiega Sergio Rossi, oltre ad essere proprietario dei mezzi di produzione era anche l’ideatore, ma il momento creativo in questa fase di passaggio, non aveva ancora acquistato valore come processo a sé stante, ma trovava proprio nella concretezza del prodotto finito la sua attuazione.

In questo caso, Vasari, pur chiamando Giotto artefice, ne riconosce l’eccellenza nel disegnare e dipingere:

E veramente fu miracolo grandissimo, che quella età e grossa et inetta avesse forza di operare in Giotto sì dottamente, che il disegno, del quale poca o niuna cognizione avevano gl’uomini di quei tempi, mediante lui ritornasse del tutto in vita. [11]

 Si svilupperà la figura dell’artista, più volte citato, che si differenzia dall’artigiano del suo tempo per la coscienza che ha della qualità intellettuale del suo lavoro e soprattutto la piena consapevolezza della netta distinzione che intercorre tra i due momenti, ideativo ed esecutivo.

 

Scopo di questo breve saggio è dimostrare come degli stilemi verbali siano ricorrenti nella scrittura del Vasari per quanto riguarda i pittori di fine Trecento e primo Quattrocento. A questi pittori, viene richiesta un’elevata capacità nel disegnare, nel rendere espressioni [12] e gesti appropriati [13] tanto da essere facilmente interpretabili, saper costruire dei panneggi e naturalmente essere dotti e saggi nei comportamenti. Come possiamo notare, Vasari li assimila agli artigiani escludendo l’atto creativo e spiega questo, qualora fosse evidente, come inclinazione naturale imprescindibile al saper fare.

Spesso l’aretino, non comprendendo come mai molti pittori di primo Quattrocento fossero legati a stilemi tradizionali e classici, cerca di spostare le datazioni finanche un secolo prima della reale cronologia in modo da motivare questa tradizionalità arretrata nel dipingere.

Ho inteso iniziare con l’analisi della biografia di Giotto non solo perché è il vero punto di svolta della moderna concezione dell’artista, ma anche perché tutti gli stilemi che incontreremo nel corso del nostro cammino prendono corpo all’interno della sua Vita.

Giotto diviene il termine di paragone nelle pagine vasariane e nella critica a lui contemporanea, un metro di giudizio a cui rispondere per essere giudicati benevolmente.

Forse, proprio per questa ragione, il nostro inserisce i pittori a lui paragonati in un secolo di appartenenza precedente a quello effettivo di attività; non era concepibile potersi avvicinare tanto ad un artista medievale e non far parte di quella corrente storica!

Allo stesso tempo era inconcepibile non essersi evoluti nella pittura, quindi nel disegno, pur trattandosi della metà del 1300. [14] Naturalmente il Vasari avrà creato questo piccolo intoppo cronologico incosciamente, anche se sappiamo che era solito giocare con manciate di anni per dimostrare la grandezza di uno o l’incapacità di un altro. [15]

Per avvalorare quanto appena detto, vediamo come nella narrazione della Vita di Lorenzo Monaco, il nostro, ci appare quasi stupito delle capacità del monaco camaldolese:

“…resto meravigliato che fussero condotti con tanto disegno e con tanta diligenza
in quei tempi che tutte le arti del disegno erano poco meno che perdute, perciò che furono l’opere di questi monaci intorno agl’anni di nostra salute 1350, e poco prima, e poi …” [16]   “…egli fu poi meritatamente in quello esercizio fra i migliori dell’età sua annoverato.” [17]  

Il ricorrente richiamo all’inclinazione naturale è ripreso per due pittori in particolare: Taddeo Gaddi [18] e Spinello Aretino [19] , discepoli, anche indirettamente di Giotto [20] e per questo uniti nella sorte benevola della natura che è donatrice di talento e virtuosismo. Anche per questi pittori il richiamo è innato, proprio perché costoro adottavano nel dipingere la maniera giottesca vengono innalzati e lodati.

Il colorire ha un diverso effetto su questi pittori a cavallo del secolo, Taddeo e Agnolo Gaddi, Andrea di Cione, Spinello Aretino e Lorenzo di Bicci, i  quali, nel saper conferire il colore riescono a superare il maestro. Vediamo come Vasari giustifichi quest’abilità degli allievi nel colore per il troppo impegno che Giotto impiegava per far progredire l’arte del disegno, ritenuta di più degno interesse, e quindi l’impossibilità, si noti bene, non l’incapacità, di studiare la tecnica del colore.

Per tornare alla tesi di partenza, vediamo come l’aretino si discosti completamente dai pittori di fine Trecento che non fanno parte dell’ondata di innovatori del discepolato di Giotto, e quindi vengono considerati come artigiani/pittori, non troppo capaci nell’uso del disegno perché ancora molto tradizionali nella costruzione delle forme e, in qualche modo, arretrati; vengono così definiti capricciosi e svogliati.

 

In ultimo, come ho accennato sin dall’inizio, prenderei in esame le discordanze che ci vengono riportate dal Vasari in merito ad alcuni pittori sopra citati.

Mariotto di Nardo è ricordato come nipote di Andrea Orcagna in appendice alla biografia di quest’ultimo. Mariotto [21] è inserito ne le Vite in occasione della descrizione degli affreschi eseguiti per la chiesa di San Michele Visdomini di cui il Boskovits suggerisce una datazione al 1405-1410.

Gaetano Milanesi esclude i legami di parentela con la famiglia Orcagna. Il nome completo “Mariotto di Nardo di Cione” si trova nell’iscrizione all’Arte dei Medici e degli Speziali, figlio di Nardo di Cione da Firenze, attivo come scalpellino del Duomo di Siena nel 1380 e impegnato l’anno successivo nella realizzazione di alcuni capitelli per la Chiesa di San Giusto a Volterra.

I documenti che fanno risalire rapporti con la famiglia Orcagna risalgono tutti a dopo il 1398. Fino alla morte di Jacopo di Cione, Mariotto risiede come quest’ultimo nel quartiere di San Giovanni del Gonfalone del Leon D’Oro; mentre al ritorno da Pesaro si trasferisce nel Popolo di san Michele Visdomini (San Giovanni, Drago Verde) dove l’Orcagna e Nardo possedevano degli immobili [22] . Quindi, seguendo questi documenti, sarebbe da escludere un rapporto parenterale tra le due famiglie.

Il Vasari curiosamente anticipa anche l’attività anche di Giovanni dal Ponte, in molti documenti conosciuto come Giovanni di Marco, facendolo nascere nel 1307, quindi ben un secolo prima ! Questo a conferma del fatto che nel momento in cui l’aretino scriveva le biografie dedicati ai pittori di fine Trecento non si aveva una giusta prospettiva storiografica in cui collocare questi artisti. In realtà Giovanni dal Ponte nasce nel 1385 e risulta iscritto all’Arte dei Medici e degli Speziali nel 1410 e alla Compagnia di san Luca tre anni dopo. [23] Probabilmente si forma nella bottega di Niccolò di Pietro Gerini o in quella di Spinello Aretino a cui si avvicina nello stile delle prime opere.

Per finire, vediamo come nella biografia di Lorenzo di Bicci abbia fatto un po’ di confusione per le similitudini stilistiche che intercorrono in questa, come in altre botteghe.

Nello scrivere la biografia di Bicci di Lorenzo, il Vasari ha commesso un errore scambiando la sua figura con quella del padre. Lo stesso è presente anche nelle due fonti precedenti: Antonio Billi e l’Anonimo Gaddiano. Sicuramente anche Lorenzo, il capostipite della famiglia Bicci, è stato un pittore.

Il Vasari, per di più, pensava che Bicci fosse stato allievo di Spinello Aretino e non del padre, proprietario di una delle botteghe che nel corso del Quattrocento avrà estrema importanza nel panorama fiorentino.

È possibile che sia incorso nell’equivoco, dato che le due collaborazioni, di Lorenzo di Bicci e di Bicci di Lorenzo, per un certo periodo diventano intercambiabili ed anche per la possibilità che Bicci abbia denunciato tardi la sua presenza nella bottega paterna all’Arte, in quanto esente da immatricolazione perché figlio di un iscritto. Questa era avvenuta prima del 1404; ed il padre, Lorenzo di Bicci, non lo si ritrova nei pagamenti in data posteriore al 1404. [24] Documenti su Lorenzo di Bicci si fermano al 1399 anno in cui gli viene commissionata la Crocifissione per la Chiesa di Sant’Agostino ad Empoli.

Nella bottega dei Bicci, molti committenti tornavano a distanza di anni alla ricerca di uno standard di produzione e di un gusto immutato nel tempo.

 

Prima di concludere, credo sia arrivato il momento di spiegare come mai alcune formule iconografiche vengano ripetute in moduli apparentemente standardizzati. Alcuni committenti richiedono esplicitamente il ricorso a formule giottesche ed in più, cosa altrettanto plausibile, esiste la possibilità che molti pittori di questo periodo utilizzassero le stesse formule compositive come, ad esempio, troviamo in Mariotto di Nardo, Spinello Aretino (Madonna con il Bambino, Firenze, Museo Bardini), Giovanni Toscani (Madonna con il Bambino, Montemignaio, Arezzo, Oratorio della Madonna delle Calle). Lo stesso discorso si può affrontare per il tema iconografico dell’Assunzione della Vergine, in cui l’intenzionale arcaismo evoca la tradizione giottesca per noi arcaica, ma per i contemporanei moderna nel suo essere. Questo potrebbe spiegare l’utilizzo di modelli standard per determinate iconografie.

Forse è per questa ragione che il Vasari tende a confondere gli anni in cui alcune opere vengono prodotte e cosa ancora più rilevante, addirittura anticipare notevolmente le date di nascita degli artisti di fine 1300.

Stefan Wappelman [25] nel suo saggio sulla pittura nel Quattrocento, spiega tali discordanze come la possibilità di troppe presenze in una stessa bottega e quindi la probabilità che ci fosse uno standard, un canone, da rispettare per l’esecuzione di un dipinto. Sfortunatamente abbiamo poche informazioni letterarie e documentarie per poter dare un giudizio corretto su questi esigui anni di storia.

Tali ripetizioni iconografiche, vengono spiegate anche come fonte di successo e quindi ripetute. Questa fortuna critica è evidente soprattutto per la figura del Bambino, possiamo trovare la stessa immagine dipinta su vari supporti, ed è probabile che lo stesso cartone sia stato utilizzato più volte ed invertito. Il modello viene utilizzato come referenziale, ma nello sviluppo stilistico del pittore subisce un’evoluzione. Può apparire perfino banale, ma va sottolineato il fatto che ogni modello compositivo viene arricchito, anche se da solo un particolare, nel passare da un artista ad un altro in modo da creare infinite possibilità ed infinite combinazioni per ognuno.

Per esempio possiamo notare, che esistono dirette dipendenze e collaborazioni tra Lorenzo di Niccolò, Spinello Aretino e Niccolò Gerini. Nel 1395 circa, Niccolò Gerini lavorò con Spinello per affrescare la Sagrestia di Santa Croce. Nel 1399 Ambrogio di Baldese, Spinello e altri, erano impiegati per dipingere le volte di Orsanmichele a Firenze. Nel 1400 Spinello Aretino, Lorenzo di Niccolò e Niccolò Gerini finiscono l’altare di Santa Felicita e nello stesso periodo, Spinello e Lorenzo di Niccolò dipingono la cappella dei Cortigiani in San Michele Visdomini.

Nel 1400 a Roma e Firenze, si assiste ad un incremento di richieste di tavole di piccolo formato a scopo devozionale e privato. È per questo che spesso in un lavoro di bottega si cerca di mantenere un certo standard compositivo più o meno simile per ognuno. Senza contare che spesso erano i committenti a chiedere qualcosa in particolare e quindi l’artista aveva ben poca possibilità di replica.

Wappelman parla di tre parametri che devono essere conosciuti per una corretta interpretazione di un’opera d’arte di fine Trecento, che cito:

  1. Spesso il disegno era già impostato. Raramente infatti, si procedeva ad un’opera senza che l’artista avesse provveduto a presentare una bozza al committente per l’approvazione.
  2. I committenti, ordinando un dipinto in una specifica bottega, avevano delle opere di riferimento non necessariamente del pittore di cui volevano il lavoro. L’artista in questione era obbligato da un preciso contratto a rispettare questi canoni richiesti dal committente.
  3. A volte al contratto viene apposta la clausola “a sua mano” nel quale si garantisce la qualità alta del dipinto di cui si occuperà unicamente l’artista a cui era stato richiesto, solitamente il capo bottega. In questo caso si produce un vero e proprio prodotto unico nel suo genere.

In un contratto vengono specificate tre cose in particolare: il soggetto che il pittore deve dipingere, abbiamo appena visto come il più delle volte il soggetto venga concordato ed approvato preventivamente dal committente; vengono stabiliti modi e tempi di consegna e quindi le cifre di pagamento ed in ultimo, cosa importantissima, vengono specificati i materiali da utilizzare e le quantità (oro, azzurro ultramarino, etc…).

Wappelman arriva ad una conclusione che accolgo parzialmente: sicuramente non esiste un’unica formula codificata da rispettare, ma il contesto di appartenenza di un pittore implica anche il fatto che esso possa vedere e conoscere stilemi differenti e che se ne possa appropriare e a sua volta trasmetterli ad altri pittori.

Wappelman, e qui mi distacco, definisce questo momento di passaggio tra Trecento e Quattrocento, come rispetto di un revival classicheggiante in cui viene a mancare la vera coscienza estetica che farà capolino solamente nel Rinascimento e non prima.

Non trovo giusto privare questi pittori di un estetismo, che sicuramente non comprende i nostri canoni, ma che hanno faticato ad imporre anche per il grave compito di dover superare il maestro Giotto e con l’ulteriore difficoltà di vivere in un momento storico, il primo Quattrocento, in cui si stava affermando quella corrente che farà fare passi indietro a molti di questi artisti dal punto di vista formale, cioè il Gotico Internazionale. Non sempre si è inteso questo movimento, utilizzando un termine moderno, come un’evoluzione coloristica, lineare, europea, questo perché gli scambi non sono più interregionali, ma internazionali. Vedremo, infatti, molti artisti unire stilemi gotici al sapiente uso delle proporzioni con una tecnica eccezionale e dicendo questo sto pensando a Mariotto di Nardo, Lorenzo Monaco, Spinello Aretino, la bottega dei Bicci, Giovanni Toscani, ma su tutti Gentile da Fabriano, da pochi compreso per la sua essenza veramente rinascimentale, e conosciuto unicamente per i giochi di goticismi grandiosi nel saper rendere le stoffe ed i materiali di ogni tipo.







NOTE

[1] M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, Torino 1978, (ed. 2001)

[2] S. Rossi, Pensieri d’artista, Pasian di Prato 1994, (II ed. 2002)

[3] È Kant a dare significato alla parola “critica”, intesa come un atteggiamento filosofico che consiste nell’interrogarsi programmaticamente sul fondamento di determinate esperienze umane ai fini di chiarirne le possibilità, la validità, i limiti. Presupposto di questo intervento è un soggetto che attivamente si applichi a formulare un “giudizio” che per il filosofo è la facoltà intermedia tra il conoscere, che cade sotto la condizione dell’intelletto, ed il desiderare che appartiene alla condizione etica. Con la rivoluzione estetica Kantiana si sposta il baricentro del giudizio estetico dove la bellezza non è una proprietà oggettiva delle cose, ma il frutto di un incontro del nostro spirito con esse.

[4] Il Vasari si appropria dell’idea evolutiva appartenente, nella storia letteraria, alla crescita degli stati e la applica alle arti stabilendo il criterio relativistico secondo cui il valore di ogni singolo artista è stabilito dal tempo in cui vive.

[5] Né voglio che alcuno creda che io sia sì grosso né di poco giudizio, che io non conosca le cose di Giotto e di Andrea Pisano e Nino e de li altri tutti, che per la similitudine delle maniere ho messo nella prima parte, se elle si compareranno a quelle di coloro che dopo loro hanno operato, non meriteranno lode straordinaria né anche mediocre (…) ma chi considererà la qualità di que’ tempi la carestia degli artefici, le difficoltà de’ buoni aiuti, le terrà non belle come ho detto io, ma miracolose; ed arà di piacere infinito vedere i principii e quelle scintille di buono che nelle pitture e nelle sculture cominciavano a resuscitare”.

[6] Vasari, Le vite, dei più eccellenti pittori , scultori e architetti (1568), scelte e annotate da G. Milanesi, Firenze, Barbèra, 1870; con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, Rist. anastatica ed. Sansoni 1906, Firenze, Le Lettere 1998, vol. 1-9; ed. Grandi Tascabili Economici Newton, Roma 2001, con introduzione di Maurizio Marini; p. 114;

[7] “…Spinto dall’inclinazione della natura all’arte del Disegno …”, che ricordiamo è padre di tutte le arti. Vasari, op. cit. p. 150

[8] “…quell’obbligo stesso che hanno gl’artefici pittori alla natura, …” Vasari, op. cit. p. 149

[9] Vasari, op. cit., p. 117.

[10] S. Rossi, Botteghe e Accademie. Realtà sociale e teorie artistiche a Firenze dal XIV al XVI secolo, Milano 1980

[11] Vasari, op. cit. p. 149.

[12] “… Mostrando nel volto et in tutti i movimenti delle membra il desiderio che ha ciascuno…” vita di Spinello Aretino, Vasari, p. 247

[13] “… e come che ben fatto sia in tutte le parti, è meraviglioso nell’attitudine che fa…”, vita di Giotto, Vasari, p. 153

[14] Rimprovero dedicato ad Agnolo Gaddi: “…costui lavorava a capricci, e quando con più studio e quando con meno…” Vasari, p. 226

[15] Nel parlare delle inesattezze cronologiche del Vasari, già Campori in Gli artisti italiani e stranieri negli Stati esteri, rilevava questa come una delle “inesattezze [che] si incontrano tanto frequentemente nell’opera del Vasari” insieme alla tendenza del biografo ad oscurare le opere minori in favore di un’evidenziazione delle più rilevanti; l’osservazione è ripresa dal Milanesi nel suo commento alle Vite vasariane.

[16] Vasari, op. cit. p. 256

[17] ibid. p. 255.

[18] “…Con facilità grande datagli dalla natura piuttosto che acquistata con arte…” Vasari, p. 206

[19] “… Spinello, tanto inclinato da natura all’esser pittore, che quasi senza maestro…” Vasari, p. 242

[20] “… meritò d’esser chiamato discepolo della natura e non d’altri…” Vasari, p. 152. Vasari quasi elimina la figura di Cimabue come maestro di Giotto, figura invece sottolineata nel De Origine Civitatis Florentiae di Filippo Villani.

[21] Nei medesimi tempi Mariotto, nipote d’Andrea, fece in Fiorenza, a fresco, il Paradiso di S. Michele Bisdomini, nella via de’Servi…” Vasari, p. 217.

[22] S. Chiodo, Mariotto di Nardo. Note per un “egregio pictore”, in “Arte Cristiana”, 1999, pp. 91-104.

[23] S. Rossi, I pittori fiorentini del Quattrocento e le loro botteghe. Da Lorenzo Monaco a Paolo Uccello, in corso di stampa.

[24] C. Frosinini, Il passaggio di gestione in una bottega pittorica fiorentina del primo Quattrocento: Lorenzo di Bicci e Bicci di Lorenzo, in “Antichità Viva”, XXV, n° 1, 1986, pp. 5-15.

[25] S. Wappelman, Fiorentine Painting Around 1400. A question of standard?, in Atti del Convegno Internazionale Da Giotto a Botticelli. Pittura fiorentina tra Gotico e Rinascimento, Firenze, Università degli Studi e Museo di San Marco 20-21 maggio 2005, a cura di F. Pasut e J. Tripps.




 

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