In
questi giorni l’Emilia è scossa da sciami sismici che sconvolgono vite, città,
monumenti, abitanti dei luoghi e spettatori inermi davanti alle televisioni. Il
terremoto del Belìce del 1968 fu il primo televisivo, quello che travolse
interamente paesi e persone, che per molti anni cambiò il nome all’intera Valle
perché un cronista del Tg 1 lo chiamò Bèlice, spostandone l’accento, e di cui
gli abitanti si riappropriano lentamente solo adesso. La signora Rosa residente
a Poggioreale nuova mi accompagna tra i ruderi di Poggioreale vecchia e mi
racconta quant’era bella la chiesa e quant’era grande il teatro, “cose così,
con queste cupole e soffitti dipinti e belle statue antiche, non se ne fanno
più adesso, ora è tutto nuovo, dovrebbero passare cento anni e sempre non
sembrerebbero così belle”. Mi dice anche che i governanti non hanno imparato
niente dal “suo” terremoto perché se no, i monumenti, le case, i capannoni del
terremoto in Emilia non sarebbero cascati così come carte da gioco sopra alle
persone. Dice che ogni volta che vede la televisione rivive la tragedia. Dice
anche, “voi che siete giovani, dovete imparare dalla storia”. Insieme a noi,
passeggiano i ragazzi della protezione civile che sono tornati a Poggioreale
vecchia, dove non si potrebbe accedere perché le case ancora in piedi sono
molto pericolanti, ma che il sindaco autorizza a visitare ancora per un giorno,
3 giugno 2012, in
occasione della mostra I fantasmi di
Poggioreale. Ritorno alla vita del fotografo Ezio Ferreri, curata da Emilia
Valenza, organizzata dal Museo Belìce
Epicentro della memoria viva di Gibellina che da anni si impegna a
preservare “viva” la memoria storica di questi luoghi, prima e dopo il sisma.
All’interno
dei ruderi e sulle facciate delle case, Ezio Ferreri propone alcune
gigantografie di oggetti d’uso quotidiano che lui stesso ha raccolto tra le
macerie: barattoli da cucina, giochi di bambini, frammenti di vita. L’oggetto
del passato, sublimato e protetto alla maniera del museo, reso romantico dal
suo non esistere più per ciò per cui era stato pensato, divenuto dentro a una
fotografia d’artista natura morta
(come la chiamiamo in Italia) o still
life (“ancora in vita” come la chiamano gli americani). L’educazione
all’immagine, alla storia, all’arte, forse, il modo migliore di spiegare quanto
accaduto alle nuove generazioni che non hanno vissuto quegli anni ma su cui
l’ombra della paura ritorna dai tg, dagli speciali in diretta, dalle immagini e
dalle notizie di giornali e tv.
Una
mostra struggente, un evento eccezionale, una riflessione ancora una volta
sulla ricostruzione dei luoghi, sulla ricerca d’identità degli abitanti, sulla
necessità di ripensare alla vita dopo traumi e terremoti, offerto da questo
incredibile angolo di mondo che è il Belìce.
A
Poggioreale vecchia, visitabile per un giorno, il fascino delle rovine (“esperienza
del tempo puro” come l'ha definita Marc Augé in Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino, Bollati Boringhieri, 2004) e, otto chilometri più in là, Gibellina vecchia sepolta dalla grande colata di cemento, pensata da Alberto
Burri, come sudario funebre sulle macerie a coprire le memorie e, insieme, a
eternarle sotto la più grande opera d’arte d’Europa che è il Grande Cretto. Due
modelli opposti ma convergenti di rinascita. In mezzo e intorno Poggioreale e
Gibellina ci sono i campi arati, i vigneti, le colline brulle, le grotte, le
opere d’arte a cielo aperto di Salemi, Selinunte, Sambuca, Menfi, Roccamena,
Santa Margherita, Camporeale, Salaparuta, Contessa Entellina, Partanna,
Sciacca, Castelvetrano, Santa Ninfa. Primi in Sicilia, a costituire una rete di
musei belicini, con il Museo delle Trame della Fondazione Orestiadi capofila,
grazie all’impegno di tutti i siti e musei della Valle del Belìce.
Questa
occasione, con il sostegno di Legambiente Sicilia che quest’anno dedica la
settimana di Salvalarte alla memoria di Ludovico Corrao, sollecita una nuova
visione, solidale, integrata, partecipata di “memoria viva”. E, soprattutto,
invita ancora una volta a ripensare alle strategie di tutela dei siti, delle
città, dei beni culturali. Insegna che l’arte aiuta l’elaborazione dei traumi
spiegando, anche attraverso i codici dei suoi linguaggi e dell’allestimento
museale, i cicli di morte-vita, distruzione-ricostruzione, crisi-rinascita il
passaggio dell’uomo su questa terra.
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