Passeggiando lungo le strade di
Roma, approssimandoci ai più importanti monumenti e siti archeologici ci
imbattiamo in numerosi chioschetti turistici che vendono tipici souvenirs per tutti coloro che vogliono
portare a casa un ricordo della visita. Alle tipiche magliette e cartoline si
affiancano piccole statuette in gesso riproducenti le opere d’arte maggiormente
significative della città: il Colosseo, la Basilica di San Pietro, la Fontana
di Trevi, la Fontana dei Fiumi,
la Colonna Traiana …….. Molti sono i
turisti che acquistano per sé o per amici e parenti manufatti del genere; c’è a
chi piace farne mostra su mensole in cucina, chi preferisce decorare il proprio
camino, chi ancora crea l’angolo dei viaggi per mostrarlo orgogliosamente ai
propri cari. A chiunque, davanti ad una statuina raffigurante il David di Michelangelo o il Pantheon romano, sarà capitato di pensare: “ma come avranno
fatto anticamente le persone a serbare ricordi durevoli dei propri viaggi?,
avranno dovuto affidarsi completamente alla propria memoria o alle personali
capacità disegnative o saranno esistiti prodotti artigianali equiparabili?”.
Diversamente da quanto si crede
questo tipo di industria non si sviluppa in tempi recenti, con l’avvento del
turismo di massa, ma ha origini ben più
lontane, legate al famoso Grand Tour, il
viaggio formativo che, a partire dalla fine del ‘600, i rampolli delle case
aristocratiche, prima, e borghesi, poi, intraprendono come tappa fondamentale
del processo educativo del tempo.
Il “Bel Paese” è la meta
preferita, la ricchezza di opere d’arte e di reperti archeologici classici costituiscono
per la cultura europea un’attrattiva indiscussa. Si entra dai varchi alpini sul
confine franco-svizzero, una breve sosta a Torino, Genova e Milano e poi una
lunga permanenza a Venezia, il viaggio quindi prosegue, passando per Bologna,
alla volta di Firenze, successivamente Siena e finalmente Roma, la città
eterna. Da qui il tour avanza verso
il Sud Italia: Pompei e Napoli da dove ci si imbarca per la Sicilia. Al ritorno
in patria i touristes godono di un
considerevole prestigio sociale, invitati nei salotti privati o nei caffè
cittadini raccontano delle meraviglie visitate e delle stupefacenti esperienze
vissute. Molto è affidato al racconto verbale e ai diari personali, ma non solo, incisioni e dipinti con
vedute monumentali o paesaggistiche sono acquistati ed esibiti con orgoglio.
A metà Settecento, grazie anche
ad un diverso tipo di flusso “migratorio”, più specificatamente intellettuale, a
questo tipo di souvenir si affianca
un nuovo genere, prettamente scultoreo, legato alla ceramica: ci riferiamo al
cosiddetto biscuit che, con il suo
colore bianco, ben si presta ad imitare il candore dei marmi classici propugnato
dalla teorizzazione di Johann Joachim Winckelmann.
Artisti e abili artigiani danno
vita ad una stagione in cui la foggia all’antica invade le residenze nobiliari,
e successivamente anche quelle borghesi, con una variatissima gamma di oggetti.
Si assiste alla diffusione di una vera e propria moda classicizzante che ripropone
in piccolo capolavori celebri, non solo di monumenti accessibili, ma anche di
statue conservate in collezioni private (Borghese, Medici, Farnese).
Attorno a queste correnti di visitatori
si sviluppa un vivace mercato di ritrovamenti archeologici: i reperti sono
indefessamente ricercati, restaurati ed inevitabilmente copiati.
Alla smaniosa domanda degli
agguerriti touristes l’Urbe risponde
con un esercito di produttori di ricordi: scultori e artigiani, creativi e di
talento, dotati di scaltrezza e spirito imprenditoriale, appagano i compratori
con un’offerta diversificata di prodotti, dei veri e propri must. È nata l’industria dell’antico e
del bello, un curioso fenomeno di domanda e offerta di ricordi della città
eterna, al cui servizio si mette l’arte nelle sue molteplici declinazioni.
In questa temperie culturale,
caratterizzata da un clima di fervida ossessione verso le antichità, si
inserisce l’esperienza prodigiosa di Giovanni Trevisan detto Volpato
(1735/1803), che, nel 1771, al seguito
del mecenate Girolamo Zulian, ambasciatore veneziano presso la Santa Sede (1779
/1783), giunge a Roma dopo l’apprendistato presso la più grande stamperia italiana:
la Remondini di Bassano del Grappa sua città natale (1760/62).
La fondamentale collaborazione con la Remondini, in particolare la
partecipazione alla realizzazione di prestigiose pubblicazioni (tra le sue
prime incisioni a firma Jean Renard troviamo opere da Giovan Battista Piazzetta,
Jacopo Amigoni, Antonio Zucchi) gli fa acquisire la notorietà che gli consente
di farsi notare da mecenati importanti.
Nel 1785
avvia, in via Pudenziana presso la basilica di Santa Maria Maggiore una fabbrica di piccole statuine modellate in
candido biscuit a imitazione delle
celebri sculture classiche delle collezioni romane.
L’idea di per sé non è nuova, esistono in città laboratori di bronzisti (Righetti e Valadier),
che offrono al pubblico il medesimo prodotto, l’innovazione è costituita dal
materiale, la ceramica costa assai meno del bronzo e soprattutto si conforma
meglio alle teorie del Winckelmann, che ritiene l’arte classica sinonimo di
abbacinante candore. Argutamente, poi, realizza un compendio incisorio, un vero
e proprio catalogo inciso, che affianca e sostiene la vendita delle statuette
esposte nel negozio, appositamente aperto in Via dei Greci, per esibire e
vendere la produzione. L’inedito listino inciso si configura come uno strumento
eccezionale di marketing, destinato a
consolidare la fama, o come diremo oggi il brand,
presso viaggiatori e collezionisti di tutta Europa. L’esercizio commerciale
ottiene un immediato e positivo riscontro presso compratori e amatori: il
materiale offerto, infatti, incontra subito il gusto dei collezionisti poiché
soddisfa le esigenze della riproduzione delle statue antiche. Il
Volpato, inoltre, si avvale di artisti e modellatori noti (i veneti Giovanni Folo,
Pietro Fontana e Pietro Bonato, solo per citarne alcuni), il che rende il
prodotto agli occhi della committenza qualitativamente migliore e, dunque, più
appetibile. In pochi anni di attività il bassanese, abile uomo d’affari, grazie
anche al favore del pontefice Pio VI che
gli concede una privativa di 15 anni, riesce a creare attorno alla manifattura un
circuito di riproduzioni di statue e monumenti dall’antico il cui business si estende addirittura all’Inghilterra. Nell’intercettare,
dunque, il florido mercato dell’arte per gli stranieri che giungono a Roma per
il Gran Tour, desiderosi di portare a
casa un pezzo della storia antica della città, il Trevisan crea una realtà economica
affermata, affatto funzionante, in grado di soddisfare importantissime
commissioni .
La
manifattura diviene rapidamente un punto di riferimento per l’elegante e
cosmopolita società del tempo che frequenta l’Urbe, ad un certo punto,
adeguandosi alle esigenze del mercato, la produzione viene diversificata con
maioliche e terraglie crema o all’inglese (1801), l’attività continua ad
operare anche dopo la morte del Volpato (1803), inizialmente sotto la direzione
del figlio Giuseppe, poi del secondo marito della moglie-vedova, nel 1826 la
fabbrica è trasferita a Civita Castellana, dalle cui cave provengono la maggior
parte delle terre lavorate nello stabilimento, e alla fine degli anni Trenta,
purtroppo, chiude i battenti.
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