Di questi tempi non è facile incontrare
personaggi come Mauro Rea. Uno che prende talmente sul serio l’Arte da
confonderla e fonderla con la sua stessa vita e quella degli altri, che dice e
sente quello che pensa, che pensa con il cervello e sente con il cuore, che
crede nell’amicizia e ci crede davvero. Uno che crea opere di grande modernità in
intimo e circolare rapporto con la preistoria. Uomo degli opposti, in continuo
superamento di se stesso e del conflitto, felicemente risolto nell’armonia sofferta
dell’Arte e nella marea dinamica dell’Amore, Mauro ha vicino a sé una compagna Manuela
Mazzini, che sembra opera delle sue stesse mani di artista. Un capolavoro in
cui natura e cultura, come in lui, hanno raggiunto un equilibrio che sfiora la
perfezione.
Natura e cultura, materia ed
energia, silenzio e gioco delle parolibere marinettiane e patafisiche. Amico da
anni di Tania Lorandi, artista e promotrice di libertà espressive visceralmente
e intellettualmente legate alla vita, trascinatrice di artisti, cocreativa e
trasgressiva, Mauro ha attraversato fino in fondo ogni esperienza umana sociale
culturale e politica ma non lasciandosi mai coinvolgere una volta per tutte e
senza mai cedere a tentazioni di potere.
Il suo rifiuto di cedere a quel
tipo di tentazione e a vendersi al consumismo dilagante anche nel mondo di certa
cosiddetta “arte” che segue la moda ed è così (poco) chic ne ha fatto e ne fa
un uomo vero e libero, che accoglie senza riserve il proprio legame originario
con la terra e la natura.
Quel legame con la terra mater
dolorosa riemerge prepotente in alcune opere sia per i materiali che l’artista usa,
sia per i contenuti che si liberano dalla profondità del suo essere: il dolore
della terra, a cui non sfugge nessuno dei suoi figli.
C’è un’opera, intitolata Oltre lo
sguardo, che sembra abbracciare tutto il dolore e tutto l’amore di cui l’artista
è talvolta affranto, talvolta gioioso interprete, esprimendo in variazioni
monocromatiche e silenziose pennellate valori sentimenti e umori che più gli
stanno a cuore. Il pianeta, immerso in un sonno millenario, incapace di sognare
e indifferente al dolore di cui si alimenta la propria vita e quella delle
creature che vi abitano, nel sogno visionario di Mauro Rea ritrova una sofferta
misteriosa identità con l’intera creazione. I mitico-preistorici personaggi che
compiono gesti ieratici e l’uomo dal capo reclinato convivono in uno stato di
coscienza illusoria, come addormentati nel grembo della madre. E perfino i
colori bruniti sono raccolti e morbidamente fusi in quel grembo. E’ la coscienza
illusoria che accompagna l’uomo del nostro tempo e, sottraendosi al suo
sguardo, si estende alla stessa creazione: qui il senso della malinconia del paradiso
perduto, di una gioia
presente nella memoria
storica ma inattingibile senza uno slancio verso il futuro così potente da
raggiungere anche il passato. Forse è per questa capacità di “sognare”
l’universo nella totalità dei suoi tempi e delle sue forme che Mauro Rea
ritrova la gioia nelle icone di un’epoca immersa nel mito ma non per questo
meno attuale. Così il respiro ani-male della preistoria prende forma
nell’immaginazione dell’artista e la sua infanzia sognante si diletta a creare esseri
e presenze dimensioni al cui fascino lo spettatore non riesce a sottrarsi,
viene coinvolto e finisce per credere alle favole anche perché l’unico reale
protagonista (al servizio dell’Arte) è sempre Ma-Rea, mago-sciamano di un
villaggio globale rigorosamente laico.
Nella ricca e multiforme opera di
Rea, che comprende anche la fotografia, la terra e la presenza “ani-male”(come
lui dice) e u-mana spesso indifferenziata ed espressa con variazioni pittoriche
e materiche sospese nel senza-tempo, si alternano a momenti di sincronia
cromatica, di presenza totalizzante, qui ed oggi, del colore
a piene mani.
Così nel volto che appare sul frontespizio
del catalogo Le matrici creative e le forme dell’incompiuto , che raffigura
lacrime di sangue sul volto della Madonna (ci si può credere o meno, comunque
l’evento rivela una situazione di estremo disagio sociale), oppure una bimba di
Sarajevo ferita durante un bombardamento, o l’icona della bellezza femminile
troppo spesso profanata, l’opera sembra non voglia esplodere dal cuore
dell’artista: è come un grido a lungo trattenuto. L’Urlo di Munch vuole
manifestarsi e si dichiara anche nel titolo, invece qui un dolore intenso segreto
impregna di sé a tal punto ogni linea forma o macchia di colore (e ogni linea o
macchia cromatica impregna a sua volta di sé quel dolore !) da non poter essere detto con altri mezzi
espressivi. E resta un “non detto” che incide in profondità lo sguardo e gli
affetti di chi guarda.
Sembra impossibile che colori
gioiosi come il rosso, il giallo e il blu possano esprimere con tanta forza il
dolore, ma è così: nell’anima dell’artista la gioia creativa, qualunque sia la
sua “matrice”, riesce a trascinare a sé ogni altro sentimento o stato emotivo.
Tra Mauro Rea Futurismo e
Patafisica c’è un legame semantico che prende corpo anche nell’amore per la
parola. Sembra che il Futurismo si sia ispirato al fondatore della Patafisica e
Rea molti anni fa è entrato nel gruppo dei patafisici grazie all’amicizia con
Tania Lorandi, l’artista che ne guida e
coordina felicemente le molteplici attività. Da questo singolare contesto e mix
di elementi culturali emergono dati di notevole interesse.
La parola è la forma di
comunicazione umana per eccellenza, ma in Rea, paradossalmente, si connota prima
sul versante dell’ essere che su quello del comunicare e proprio da questo trae potenza espressiva.
In Rea la parola e il segno
pittorico-polimaterico, appartengono alla dimensione ontologica che è vita,
dinamismo, cambiamento: non tendono a racchiudere e raggelare i significati, ma
lasciano sempre uno spiraglio aperto verso l’ignoto. Quel tanto di incompiuto
che caratterizza le opere di Rea che
tendono spesso ad uscire dai limiti delle tele o dei pannelli (facendo sentire
il delirio di sofferenza vissuto dall’artista nel doversi fermare) testimonia la
volontà di andare caparbiamente e sempre “oltre”: mai soddisfatto delle proprie
conquiste Mauro Rea, pur essendo cosciente di non poterlo raggiungere, tende
all’impossibile. Analogamente ai Prigioni di Michelangelo, anche se il paragone
è un po’ardito, l’incompiuto di Rea ha uno straordinario potere di evocazione. Credo
che neppure lui comprenda fino in fondo il mistero del suo "non detto", ma
proprio in questa dimensione inattingibile, che il segno dell’artista evoca consciamente/inconsciamente,
il messaggio è più sofferto e ci raggiunge con folgorante immediatezza. Come il
vento, il sole, la terra e il fuoco Mauro
Rea “è”: e forse non sa o non vuole sapere quale sia e quanto sia profonda la
forza del proprio linguaggio. Come faccio a saperlo io ? Forse perché, essendo
un’instancabile operaia della parola (e
non un “critico”), conosco per esperienza diretta la potenza di ciò che la mia
e l’altrui parola non riesce a dire, ma misteriosamente evoca. E-vocare una
cosa significa chiamarla dal nulla (alla nostra vita) ed è molto più che non
descriverla con parole, forme o colori: l’artista che riesce ad evocare con
parole, forme o colori e si mette in sintonia con l’oggetto, emozione o evento
da rappresentare, ne afferra l’essenza e la fa vivere in una modalità diversa a
cui è legata l’essenza del proprio stesso essere.
Le opere di Mauro Rea non hanno
nulla di sovrapposto a ciò che sono: niente orpelli o retorica sia nella
sostanza (pietra, albero, uomo, animale, terra, fuoco, acqua, sole, luna) sia nella forma che è scarna, mai
compiaciuta. Anzi, per non innamorarsi di ciò che fa, Mauro si prende continuamente
in giro. Si disegna sul volto una faccia da pagliaccio in una foto con gli
amici, si fa fotografare con un mini cocco-drillo (brillo:-) sulla testa, si
mimetizza dietro un totem e così via: piccole grandi follie che esprimono la
sua natura di patafisico, ma soprattutto quel suo gioco del nascondersi e farsi
ritrovare, a volte con segnali non facilmente decifrabili, che accresce il
fascino del personaggio e dell’artista.
Mauro ama creare, per lui creare
è come respirare ma, una volta compiuta (o incompiuta) l’opera se ne distacca,
non si sofferma a contemplarla, va avanti, vuole varcare il limite, “guardare
oltre”. Perché dentro di lui c’è sempre un universo incandescente che sta
nascendo ed è nascita che richiede un travaglio, una gestazione senza fine alla
quale partecipa tutto ciò che si muove intorno. Forse nell’universo
incandescente di Mauro Rea rimane un’impronta della nascita dell’Universo nel
momento misterioso della Creazione, o del Big bang, se preferiamo il linguaggio
delle scienze che poi, a dire il vero, non è così scientifico. E prima ? Io sono
convinta che, nell’anima e nell’opera di un vero artista ci sia il
seme o l’essenza di tutto:
forse è proprio
quel “prima”, o il “dopo” che attirano l’artista sempre oltre
se stesso, “Oltre la linea dell’orizzonte nel respiro sospeso del tempo”. La
parola e il tempo sono misura e limite che Mauro Rea cerca di dare alla propria
ansia d’infinito, ma non possono fermare, nel suo essere, il ritmo incalzante
nascita-morte-nascita, vita in continua trasformazione che anima l’itinerario
esaltante di ogni grande creazione umana, avvicinandola a quella descritta nel
primo libro della Genesi. Perché, anche se per la maggior parte degli uomini è
difficile crederlo, Dio ha creato l’uomo “a sua immagine e somiglianza”. E sfido
chiunque a dimostrare il contrario.
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